STORIA e LETTERATURA SARDA
Lunedì 28 aprile 2025 Sa Die de Sa Sardigna
#SaDie
Il 28 aprile si celebra “Sa Die de sa Sardigna”.
(omissis)
La ricorrenza fu scelta nell’ottobre del 1993 dal Consiglio regionale della Sardegna.
Era la fase finale della X legislatura, Presidente della Regione l’on. Antonello Cabras, coalizione di “governissimo” (un centrosinistrone PDS-PSI-PSDI-PRI-DC), costituitasi a seguito di un compromesso dopo uno scontro campale sulla legislazione urbanistica e sulla pianificazione paesaggistica.
Il Presidente del Consiglio regionale era l’on. Mario Floris.
L’iniziativa legislativa fu unitaria, ma nacque su impulso del PSd’Az (all’opposizione), per istituire una giornata celebrativa della memoria identitaria del Popolo Sardo.
La decisione mise un punto fermo su un’annosa discussione, scartando altre ipotesi alternative, la principale delle quali era stata quella di celebrare una Festa dello Statuto Speciale (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3).
Sembrava che, retrocedendo la celebrazione identitaria a un momento storico abbastanza remoto del periodo contemporaneo e a un fatto simbolicamente insurrezionale contro una dominazione esterna, si potesse trovare un compromesso adeguato rispetto al ricordo di altri momenti considerati più divisivi.
Già ascoltando la discussione in Aula, intrisa di retorica patriottica, ma poco approfondita nel merito della vicenda, avvertivo un certo paradosso, che fu evidenziato forse dal solo on. Francesco Cocco, comunista del Gruppo consiliare PDS, l’unico che mi parve davvero consapevole.
La Sarda Rivoluzione infatti conteneva in nuce il principale dei nodi irrisolti della debole soggettività politica sarda. L’aspirazione a un’identità moderna e radicale, infatti, si infranse nel 1794 contro lo scoglio del conservatorismo politico e più ancora sociale e culminò nel tradimento e nella sconfitta epocale.
Non essersi resi conto delle implicazioni profonde di quella vicenda e non avervi mai fatto i conti consapevolmente ha fatto sì che Sa Die resti ancora una celebrazione dai contorni incerti, un po’ alla ricerca di un ubi consistam che non sia quello -rischioso, in periodi di xenofobia- dell’incitazione a cacciar via qualcuno, non meglio identificato, ma sempre evocato come esterno e invasore.
Questo solo ho oggi da aggiungere a completamento di una riflessione che ho scritto tre anni fa e che ripropongo qui di seguito.
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SA DIE DE SA SARDIGNA
Sobria sintesi e sintetiche considerazioni.
Il 28 aprile 1794 la popolazione cagliaritana si rivolta contro i Piemontesi.
Il Vicerè Balbiano, tutti i funzionari reali continentali e le loro famiglie vengono costretti a rimpatriare in terraferma.
La Sarda Rivoluzione si estenderà all’intera Isola e vedrà svilupparsi un complesso tentativo di ampliare i poteri di autogoverno delle istituzioni e delle classi dirigenti locali.
Nel contempo, tuttavia, si manifesterà un profondo conflitto interno, tra rinnovatori e conservatori.
Questi ultimi alla fine prevarranno, riconsegnando ai Piemontesi il pieno controllo della Sardegna.
L’esponente più prestigioso dei rinnovatori, Giovanni Maria Angioy, per sfuggire all’arresto e alla prigione, riparerà in Francia, dove resterà fino alla morte, avvenuta a Parigi nel 1808.
La vicenda ha un prologo: nell’anno precedente, le milizie sarde, reclutate dalle città e dai possidenti locali anche in considerazione della scarsa consistenza dell’Armata reale stanziata nell’Isola, sventarono il tentativo della Francia rivoluzionaria di invadere la Sardegna.
I Savoia non se ne mostrarono affatto riconoscenti, scatenando il giustificato malcontento popolare. Alla fine i sardi si erano opposti all’invasione francese per difendere degli altri invasori, per di più reazionari.
E’ opinione prevalente, tra gli storici, che dovunque, anche sanguinosamente, come accadde in particolare nel periodo napoleonico, in Europa, le armate francesi siano passate, esse, insieme a tanta violenza, spesso rapinatoria, abbiano diffuso i segni indelebili di un grande avanzamento nelle idee, nei costumi, nel diritto, che la Restaurazione non riuscì a cancellare.
La Sardegna, per rincontrare quelle idee e vederle incarnarsi in processi istituzionali democratici, ha dovuto attendere il 1948, anno di approvazione della Costituzione repubblicana e dello Statuto speciale.
Io sono favorevole a una evoluzione istituzionale che veda affermarsi pienamente la soggettività del popolo sardo, della sua inestinta specificità linguistica, culturale, storica.
Considero da tempo l’autonomismo una fase superata.
Non disdegnerei di essere indipendentista, ma preferisco ancora considerarmi un federalista.
Tuttavia non saprei vedere, oggi, in Sardegna, chi potrebbe scrivere con altrettanta maestria e generosità dei costituenti repubblicani i principi fondamentali della Costituzione nata dall’antifascismo.
E ancora vorrei una classe dirigente sarda che quei principi li sapesse interpretare con l’esempio.
Allora, forse, mi fiderei.
(A. D. 27 aprile 2014.)
@inprimopiano
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[Dal sito web della RAS]. Cagliari, 28 aprile 2025 – La presidente della Regione Sardegna, Alessandra Todde, oggi ha presenziato alle celebrazioni ufficiali de “Sa die de Sa Sardigna 2025” che si sono tenute nel Consiglio regionale della Sardegna. Dopo l’esecuzione di “Procurad’ ‘e moderare”, l’inno del popolo sardo, quello italiano, quello Europeo, l’Inno alla Gioia, il coro del Teatro Lirico ha eseguito anche la celebre “No potho reposare” e il Va pensiero di Giuseppe Verdi, il presidente del Consiglio ha aperto ufficialmente la giornata di festa con un discorso basato sull’importanza dell’unità del popolo sardo.
A seguire l’assessora della Cultura, Ilaria Portas, ha portato i saluti della Regione aprendo e chiudendo il suo discorso in lingua sarda. L’assessora si è rivolta principalmente alle scolaresche presenti – le studentesse e gli studenti dell’istituto superiore “Ciusa” di Nuoro e del “Muggianu” di Orosei – oltre al coro dell’Università della terza età “Utes” di Sestu: “invito voi e i vostri insegnanti a cogliere l’occasione di questa giornata per approfondire e studiare la nostra storia. Solo conoscendo da dove veniamo possiamo capire chi siamo. Conoscere e studiare la storia della Sardegna ci aiuta a riscoprire quello spirito e quell’orgoglio che ci rendono fieri della nostra identità”. L’assessora ha poi esortato i ragazzi a riprendersi in mano il loro futuro: “Fate tesoro della nostra storia, anche dei nostri errori. Non permettete a nessuno di rubarvi il futuro. Lottate, con tutte le vostre forze, come fecero i nostri antenati”.
Ed è proprio facendo leva sul significato politico de Sa Die e degli eventi che portarono al 28 aprile del 1794, che si è aperto il discorso della presidente Alessandra Todde.
“231 anni sono passati da quando il popolo sardo, in quel 28 aprile del 1794, si ribellò all’oppressione. Già allora la Sardegna, che millenni prima aveva generato una delle più avanzate civiltà dell’epoca, quella nuragica, veniva da una storia di dominazione e sfruttamento che è proseguita nei secoli successivi.
Torniamo per un attimo a QUEL 28 aprile, a Cagliari prima e poi, nei giorni seguenti, a Sassari e ad Alghero, alle tensioni che covavano. Portiamo le nostre menti a tutti i centri dell’interno che insieme alle città si sollevarono contro i funzionari piemontesi, in reazione allo sfruttamento diffuso e alla condizione di oppressione che la Sardegna stava vivendo.
Il 28 aprile fu una conseguenza della presa di coscienza delle proprie forze da parte del popolo sardo, dei vassalli delle campagne, dei ceti produttivi e dei professionisti delle città. Un processo iniziato un anno prima, quando i feudatari e i nobili delle campagne, chiamarono a raccolta i propri vassalli per organizzarli in milizie e contrastare così le truppe rivoluzionarie francesi che volevano tentare uno sbarco nell’isola. Fu in quel momento che i sardi, riuniti assieme contro un nemico comune, si resero conto che potevano contrastare chi li opprimeva in casa loro: i feudatari e il governo sabaudo.
Una eterogenesi dei fini che portò in poco tempo prima alla richiesta di incarichi di governo civile e militare, poi a una maggiore coscienza politica di autogoverno e di superamento dell’anacronistico sistema feudale.
Non è certo questa l’occasione per un’analisi storiografica, che peraltro i nostri storici hanno già abbondantemente prodotto nelle sedi deputate alla ricerca e al dibattito. Quello che mi preme sottolineare qui, nella massima assemblea organizzata del popolo sardo, è che quando noi ci uniamo, quando superiamo le divisioni, quando superiamo la rassegnazione e prendiamo coscienza di ciò che siamo, del nostro valore, riusciamo in missioni che, poco prima, noi stessi ritenevamo impossibili.
Il 28 aprile e i successivi moti antifeudali Angioyani, ci dicono però anche altro: che spesso chi ci boicotta sono le forze ostili al cambiamento, quelle che guadagnano da rendite di posizione e che per questo ostacolano lo sviluppo per il bene comune.
Anche allora, infatti, ci fu chi tradì la spinta al cambiamento e collaborò con l’oppressore per ristabilire lo status quo: i funzionari sabaudi tornarono infatti dopo poche settimane e la restaurazione di un potere ancora più prevaricante portò alla fine, nel 1847, alla perdita completa dell’autonomia.
“La storia insegna ma non ha scolari”, disse uno dei nostri più insigni concittadini, Antonio Gramsci. Ebbene, noi qui, oggi, possiamo dimostrare di essere invece dei suoi ottimi alunni e imparare dalla storia, imparare da quegli errori. Saper individuare quali sono le forze interne ed esterne ostili al cambiamento e allo sviluppo della Sardegna e contrastarle, è la nostra missione attuale. Ed è su questo che vorrei chiamare a raccolta le migliori forze civili e politiche di quest’isola, per combattere una battaglia moderna in difesa e per l’applicazione completa della nostra autonomia, per il futuro della Sardegna.
È necessario, ora più che mai, unire le forze e ricordare come la reazione all’oppressione, alla tirannia, il richiamo al senso di giustizia come il valore più alto e come sprone per il coraggio e l’azione, siano temi che tornano nella nostra letteratura, nella nostra storia, nel pensiero delle nostre persone più illustri e come, applicati alla realtà attuale, siano temi da cui attingere e trarre ispirazione per cambiare le cose, per trasformare la nostra condizione e ridare dignità a un popolo che dignità merita di avere.
L’oppressione perdurata per secoli è diventata sfruttamento, dipendenza economica. L’abbiamo giustificata con l’isolamento, l’abbiamo spesso subìta e troppe volte l’abbiamo elaborata in rassegnazione, la peggiore delle condizioni, perché è la legittimazione della subordinazione e della dipendenza.
Eppure, ci basta guardare alla storia per trovare una certezza: la condizione di oppressione, di sfruttamento, non è mai stato un limite alla forza delle idee. La condizione dei sardi non ha impedito che proprio qui, in Sardegna, siano nati alcuni tra i più sensibili, brillanti e sempre attuali pensatori e uomini d’azione.
Oggi voglio che ci soffermiamo insieme sulle varie forme con cui in questa terra la reazione ha preso forma, dal 1794 ad oggi, sulle nostre tante dies de sa Sardigna.
Voglio ricordare con voi la forza di un giovane ufficiale della Brigata Sassari, che ha saputo trasformare lo spirito di sacrificio di contadini-soldati in aspirazione al diritto di essere rappresentati. Per dar loro voce ha fondato un partito su solide basi antifasciste, le stesse basi che l’hanno prima costretto ad un esilio di lotta, con Carlo Rosselli, poi a dare un contributo decisivo alla Costituzione repubblicana e allo Statuto di Autonomia della Sardegna. Quel giovane ufficiale si chiama Emilio Lussu, è di Armungia, il suo antifascismo militante è universale.
Voglio ricordare con voi la reazione straordinaria di un ragazzino povero di Ghilarza, che è stato capace di produrre uno dei pensieri politici più originali del ‘900, un pensiero ancora oggi vivo nelle università di tutto il mondo per la capacità generativa che le sue idee sono ancora in grado di sprigionare. Quel bambino si chiama Antonio Gramsci, è nato ad Ales ed è cresciuto a Ghilarza, il suo pensiero è del mondo.
Voglio ricordare ancora con voi l’incrollabile senso della giustizia di un ventunenne che durante i “moti del pane”, nel gennaio del ’44, pagò col carcere l’impegno e l’attivismo profusi per sfamare la sua gente. Quel ragazzo sarebbe poi diventato segretario del più grande partito comunista europeo, capace di porre il dialogo democratico e la moderazione al centro dell’esperienza politica italiana, di rigenerare il pensiero progressista europeo in chiave di autonomia e indipendenza da Mosca e di porre al centro del dibattito la questione morale con parole che hanno ispirato generazioni di giovani ad impregnarsi per la cosa pubblica. Quel ragazzo sarebbe stato capace di dialogo con la sua controparte politica, penso ad Aldo Moro e a Giorgio Almirante si chiama Enrico Berlinguer, lui è di Sassari, la sua rettitudine e il suo pensiero sono patrimonio europeo.
Tre grandi esempi, tre vite che ancora oggi sono capaci di trasmettere energia e voglia di impegnarsi per cambiare le cose. Ognuno di loro, a suo modo, ha tenuto viva la fiaccola accesa il 28 aprile 1794. Ognuno di loro ha creduto nella possibilità di emancipazione del popolo sardo, sia essa sociale, politica o culturale. Ognuno di loro ci ha insegnato a non rassegnarci ma, invece, a guardare avanti con coraggio e speranza.
Ed eccoci al presente, al nostro compito attuale. Cosa significa oggi, nel 2025, mantenere viva quella fiaccola, quel coraggio, quella voglia di reagire? Quale idea di Sardegna vogliamo costruire, ispirati da questo grande passato ma con lo sguardo rivolto al futuro?
Una Sardegna dell’emancipazione sociale. Un’isola in cui nascere in una famiglia povera non significhi essere condannati ad avere meno opportunità. In cui ogni bambina e ogni bambino possa studiare, crescere, costruirsi un futuro qui, senza dover andare via se non per scelta. Una Sardegna dove il lavoro sia un diritto garantito e sicuro, non un privilegio per pochi, dove le disuguaglianze – tra città e paesi, tra coste e interno, tra uomini e donne – vengano sanate da politiche giuste e lungimiranti. Emancipazione sociale significa anche combattere ogni forma di discriminazione, liberare le energie positive delle nostre comunità. Per quante volte ancora dobbiamo sentire descrivere la Sardegna come stereotipo dell’arretratezza? Troppo spesso in passato i nostri giovani migliori hanno dovuto cercare fortuna altrove, e interi paesi dell’interno si sono spopolati. Ebbene, noi diciamo basta a questo destino rassegnato. Vogliamo creare le condizioni perché chiunque voglia restare, tornare o venire in Sardegna, lo possa fare con orgoglio, trovando un tessuto sociale vivo, fertile, solidale, in cui realizzarsi. Questo è il senso più alto dell’autonomia: dare ai sardi gli strumenti per decidere e agire sul proprio sviluppo, per non essere più gli ultimi in nulla.
Una Sardegna dell’innovazione tecnologica. Dobbiamo investire con coraggio nelle nuove tecnologie. Pensiamo alle opportunità del digitale: la rete internet annulla le distanze, permette alle imprese sarde di vendere nel mondo, ai professionisti di lavorare da qui per clienti globali, agli studenti di accedere al sapere universale. Sfruttare la straordinaria opportunità trasformativa dell’Einstein Telescope per sviluppare attrazione di investimenti e di talenti.
Una Sardegna della modernità culturale. La nostra è una terra di cultura antica e viva.
È la terra di Grazia Deledda, che da Nuoro seppe parlare al mondo intero meritando il premio Nobel; la terra dei nuraghi, delle domus de janas, dei Giganti. È la terra delle launeddas e dei tenores, che incantano e che l’UNESCO ha riconosciuto patrimonio immateriale dell’umanità. Ma Sardegna culturale oggi vuol dire anche arte contemporanea, cinema, letteratura, nuove forme di espressione. I nostri giovani artisti vincono premi in Europa, i nostri registi portano scorci di Sardegna nei festival internazionali, i nostri musei e le nostre biblioteche innovano nei linguaggi e testimoniano una cultura di valore, viva e tutta da valorizzare, conoscere e far conoscere. Modernità culturale significa sapere coniugare l’orgoglio identitario con la mente aperta. Nessuno ama la Sardegna più di noi sardi, ma amare la nostra terra vuole dire farla dialogare col mondo, NON chiuderla in sé stessa. Penso alla valorizzazione della lingua sarda nelle sue numerosissime sfaccettature e non lo penso come reliquia del passato, ma come ponte verso il futuro: studiare e usare la lingua sarda, rafforza la nostra identità e al tempo stesso ci rende unici nel panorama globale, ci permette di resistere a quella egemonia culturale che, tornando a Gramsci, è nemica della libertà.
E sempre pensando alla modernità, penso anche alla cultura dell’inclusione: la Sardegna è stata terra di emigrazione ma anche di accoglienza; popoli diversi si sono incontrati qui nei secoli, e noi vogliamo continuare a essere una società aperta, dove chi viene da fuori si sente a casa e chi è nato qui non ha paura del diverso, del nuovo. Una Sardegna culturalmente moderna è una Sardegna che investe in scuole, in teatri, in spazi di creazione, che porta la sua cultura in ogni paese e accoglie le culture di tutti i paesi, che incoraggia il dialogo tra generazioni.
Perché senza cultura non c’è futuro.
Una Sardegna protagonista nel Mediterraneo e in Europa. Basta guardare la cartina geografica: la nostra isola è un ponte naturale tra Europa e Africa. Per troppo tempo questa centralità geografica non si è tradotta in centralità politica o economica. Dobbiamo avere l’ambizione di cambiare questo stato di cose. Essere centrali nel Mediterraneo significa fare della Sardegna un centro di dialogo fra i popoli di questo mare, un luogo di incontro e cooperazione. In un Mediterraneo spesso teatro di conflitti, di crisi umanitarie, di divisioni, la Sardegna può offrire un modello di convivenza e pace. Possiamo essere un’isola di pace dove discutere di disarmo, di diritti, di sviluppo sostenibile per l’intera area mediterranea. E allo stesso tempo essere centrali in Europa: la Sardegna, pur con le sue peculiarità, è parte integrante dell’Unione Europea, ne condivide i valori di democrazia e libertà. Dobbiamo far sentire più forte la voce dei sardi in Europa: nelle politiche che ci riguardano, a partire dalla coesione territoriale che per noi non sarà mai negoziabile con il riarmo, e sui trasporti, sull’accoglienza, sulla transizione ecologica. In breve, una Sardegna che da periferia diventa centro: centro di idee, di incontri, di nuove opportunità.
Questo è ciò per cui stiamo lavorando. Un progetto ambizioso, sì, ma alla nostra portata se sapremo essere all’altezza della nostra storia. Sa Die de sa Sardigna ci ricorda che i sardi, quando fanno comunità, sanno compiere imprese straordinarie. Ce lo ricordano i contadini e gli artigiani del 1794, che senza eserciti e senza aiuti esterni si ribellarono a un governo ingiusto. Ce lo ricorda Emilio Lussu, che con pochi uomini coraggiosi tenne viva la fiamma della libertà durante la notte più buia della dittatura. Ce lo ricorda Antonio Gramsci, che dal buio di una cella costruì con le idee un avvenire possibile per gli oppressi. Ce lo ricorda Enrico Berlinguer, che con la forza gentile dell’esempio cambiò il modo di fare politica, mettendo al centro l’onestà e le persone comuni. Siamo eredi di giganti. Abbiamo sulle spalle il peso e l’onore di quanto hanno fatto per noi, e sta a noi il compito di esserne degni, portando avanti quella lotta con strumenti nuovi, ma con la stessa passione.
E allora, in questa giornata di festa e memoria, invito ciascuno di voi a sentirsi parte attiva di questo cammino. Le istituzioni, da sole, non bastano: abbiamo bisogno dell’energia del nostro popolo, di tutti voi. Abbiamo bisogno dei giovani, di voi giovani che mi ascoltate, perché siete voi il seme del domani: studiate, formatevi, partecipate, come ci esortava Gramsci: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza; agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo; organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. Abbiamo bisogno della forza e della saggezza degli anziani, memoria storica vivente delle nostre comunità. Abbiamo bisogno dell’impegno delle donne sarde, che da sempre sono colonne della nostra società e oggi più che mai contribuiscono con talento e competenza in ogni campo. Abbiamo bisogno degli imprenditori onesti, dei lavoratori instancabili, degli insegnanti appassionati, degli artisti, dei contadini, dei pastori, di tutti coloro che amano questa terra e ogni giorno, magari in silenzio, fanno il loro dovere e qualcosa di più per il bene comune. Un popolo, per risollevarsi, deve camminare unito. Ce l’ha insegnato la nostra storia e io so che il popolo sardo sa essere unito nelle sfide cruciali.
Insieme, con unità, orgoglio e speranza, possiamo davvero rendere la Sardegna ciò che può e deve essere: una terra prospera, giusta, innovativa e aperta. Una terra in cui il fatto di essere un’isola in mezzo al mare non sia più un limite ma una singolare ricchezza”.
E tando, comente s’annu passadu, kerzo narrere in nugoresu, bona die de sa Sardigna a totus!”
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“Gli eroi son tutti giovani e belli”. Gianni Ibba su “L’ordito e la trama”.
Emilio Asproni, medico, 26 anni, nativo di Bono [1778].
Residente a Cagliari prima della latitanza (26 marzo 1804).
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Lorenzo Sulis, avvocato, 25 anni, nativo di Nuoro [1779].
Residente a Cagliari prima della latitanza (26 marzo 1804).
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Nelle foto, una ricostruzione fantasiosa dei volti dei due immaginari protagonisti, realizzata con l’applicazione dell’Intelligenza artificiale maneggiata da Franco Meloni con l’aiuto di Bobo Meloni (all’insaputa dell’autore del libro).
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Gigi Riva merita un monumento. Noi sardi glielo dobbiamo!
Appoggiamo con entusiasmo la proposta della dedica a Gigi Riva del monumento attualmente dedicato a Carlo Felice e la nuova intitolazione della strada: Largo Gigi Riva
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Messaggio del Vescovo e celebrazione esequiale di Gigi Riva
Sarà monsignor Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, a presiedere la Messa esequiale di Gigi Riva, domani 24 gennaio alle ore 16, presso la Basilica di Nostra Signora di Bonaria.
L’Arcivescovo ha rivolto un messaggio, unendosi al cordoglio per la morte del calciatore, figlio adottivo della terra sarda.
«La morte di Gigi Riva tocca nel profondo il cuore di Cagliari e di tutta la Sardegna. Nella sua carriera di calciatore e di dirigente scorgiamo le caratteristiche dell’etica sportiva che, più volte, papa Francesco ha ricordato, soprattutto nel dialogo con gli atleti: la lealtà, il coraggio, la disciplina del corpo e della mente, la fantasia e il sacrificio, l’amicizia, lo spirito di gruppo, l’agonismo non come prevaricazione ma come ascesi spirituale, il riscatto sociale.
Sardo di adozione, si è sentito parte di un popolo che lo ha apprezzato non solo per le sue doti sportive ma anche per la semplicità e genuinità che sempre l’hanno contraddistinto. La sua vita ci insegna che il vero campione non si lascia stordire dal divismo e che il contatto sincero e spontaneo con il popolo, e non solo con i tifosi, è un’occasione unica per trasmettere i valori autentici dello sport.
Nella preghiera, affidiamo Gigi Riva all’abbraccio eterno del Signore che ama la vita».
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Il Papa da Fazio
Non c’è solo la proverbiale ironia di papa Francesco dietro quel suo riconoscersi solo alla luce di scelte pastorali coraggiose, da ultima il via libera alle benedizioni delle coppie gay. “Traspare anche una certa paura, mista ad amarezza, per il rendersi conto che ampie fette della Chiesa, quelle più praticanti, non lo stanno seguendo”, è il teologo Vito Mancuso a mettere il dito nella piaga della crescente solitudine di Bergoglio sullo sfondo dell’apparizione di quest’ultimo al programma Che tempo che fa.
Francesco Casula: terzo volume della “Letteratura e civiltà della Sardegna. Il teatro in lingua sarda”.
Fresco fresco di stampa e fra qualche settimana nelle librerie la nuova creatura di Francesco Casula, dopo sei anni di studio e di ricerca: il terzo volume della “Letteratura e civiltà della Sardegna”, dedicato interamente al teatro in lingua sarda [Edizioni Grafica del Parteolla]. Con gli Autori di testi teatrali dalla fine del ’700 ai nostri giorni. Il volume inizia con la commedia di Padre Luca Cubeddu “Sa congiura Iscoberta de sas Bajanas Madamizantes” scritta, secondo lo studioso Angelo Carboni Capiali, tra il 1793 (anno delle stragi della Vandea) ed il 1804. Dallo stesso studioso è stata “scoperta” e ritrovata (e pubblicata). Prosegue con gli Autori di fine 1800 (Setzu, Matta), per arrivare ai “Grandi” di inizio ‘900 (Pili, Melis) e via via fino a Garau e ai “commediografi” dei nostri giorni. Quattrocento pagine per illustrare la figura, la vita e l’opera di 29 autori di testi teatrali (farse, commedie sociali, politiche, storiche) ma anche una tragedia (Marytria di Berto Cara). In tutte le varianti della lingua sarda e tre in lingua sassarese. Nove Autori sono ancora viventi: ricordiamo – fra gli altri – Salvatore Vargiu e Piero Marcialis, Pietro Picciau-Ottavio Congiu e Giulio Mameli, Antonio Contu e Gigi Tatti.
Sardegna. Tutta un’altra storia
La storia ufficiale?
Una storia ideologica. E agiografica.
di Francesco Casula*
La storia ufficiale – quella propinataci dai testi scolastici ma anche dai Media – segnatamente quella del cosiddetto “Risorgimento” e dell’Unità d’Italia, è una storia sostanzialmente “ideologica”. Anzi: teologica.
Mi ricorda quella raccontata da Tito Livio nella sua monumentale opera in 50 volumi, intitolata Ab urbe condita.
Lo storico latino, è persuaso che quella di Roma fosse una storia provvidenziale, una specie di storia sacra, quella di un popolo eletto dagli dei.
Deriva da questa convinzione la più attenta cura a far risaltare tutti gli atti e tutte le circostanze in cui la virtus romana ha rifulso nei suoi protagonisti che assurgono, naturalmente, ad “eroi”.
Tutto ciò è chiaramente adombrato anche nel Proemio, dove si insiste sul carattere tutto speciale del dominio romano, provvidenziale e benefico anche per i popoli soggetti. E dunque questi devono assoggettarsi con buona disposizione al suo dominio.
Roma infatti, che ha come progenitore Marte e come fondatore Romolo, ha come destino quello di: regere imperio populos e di parcere subiectis et debellare superbos. (Perdonare chi si sottomette ma distruggere, sterminare chi resiste).
Mutatis mutandis, la storia “risorgimentale” ci viene raccontata con gli stessi parametri, storici e storiografici liviani: anche l’Unità d’Italia, sia pure in una versione laica, è “sacra”, in quanto un diritto inalienabile della “nazione italiana”, in qualche modo in mente Dei, da sempre.
Ricordo a questo proposito Benigni quando il 17 febbraio del 2011, a San Remo, sul “palco dell’Ariston”, irrompe negli studi televisivi, su un cavallo bianco. Per impartirci, commentando l’Inno “Fratelli d’Italia”, una incredibile lezione di storia ideologica. Facendo risalire la “Nazione Italiana” addirittura a Dante. Una vera e propria falsificazione storica: il poeta fiorentino infatti combatteva le particolarità territoriali e “nazionali” e sosteneva con forza l’impero che lui chiamava “Monarchia universale”.
Ma nella sua esegesi dell’Inno il comico fiorentino si spinge oltre nella falsificazione storica: la “nazione” italiana deriverebbe non solo dagli Scipioni e da Dante ma persino dai combattenti della Lega lombarda, dai Vespri siciliani, da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci.
Sciocchezze sesquipedali. Machines e tontesas.
Ha scritto a questo proposito Alberto Mario Banti grande studioso del Risorgimento su Il Manifesto de 26 febbraio 2011: ”Francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po’ che si va a scoprire in una sola serata televisiva.
Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori, stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli”.
Ma tant’è: la “versione” di Benigni allora commosse il pubblico televisivo italiano e ancora oggi viene circuitata e spacciata come verità storica.
Con relativo contorno di eroi e di protagonisti risorgimentali che, per rimanere in casa nostra, campeggiano ancora nelle Vie e Piazze sarde. Ignominiosamente. Perché si tratta di quelli stessi personaggi che hanno sfruttato e represso in modo brutale i Sardi.
Ad iniziare dai tiranni sabaudi, da Carlo Felice, per esempio, che da vicerè come da re fu crudele, feroce e sanguinario, famelico, e ottuso. Più ottuso e reazionario d’ogni altro principe, oltre che dappocco, gaudente parassita, gretto come la sua amministrazione (Raimondo Carta-Raspi).
Per continuare con Carlo Alberto, che pomposamente in molti libri scolastici viene ancora definito “re liberale”.
Eccolo il suo liberalismo: nel 1833 ordina personalmente che venga condannato a morte il giovane sardo Efisio Tola. Il reato? Semplicemente per aver letto la Giovane Italia di Giuseppe Mazzini Fra gli altri lo ricorda e lo scrive Piero Calamandrei (su Il Ponte, 1950, pagina 1050).
Ma nel 1848 promulgò lo “Statuto”. Sì: ma le norme costituzionali rimasero carta straccia. In realtà lo stato d’assedio divenne sistema di governo. In Sardegna ne furono proclamati due con Alberto la Marmora (1849) e con il generale Durando (1852). Nel Meridione ben otto, dopo l’Unità.
Umberto I continua ad essere osannato, non solo nei testi scolastici, addirittura come “re buono”. Ecco un fulgido esempio della sua “bontà”: premiò il generale Bava Beccaris, insignendolo della massima onorificenza, ovvero della croce dell’Ordine militare dei savoia e nominandolo senatore, per aver compiuto un’impresa portentosa: aver dato l’ordine alle truppe di sparare sulla folla inerme a Milano, nel 1898, uccidendo 80 dimostranti e ferendone più di 400 .
Ultimo re sabaudo fu Sciaboletta: che si macchiò di almeno cinque infamie: due “colpi di stato”: con la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo, le leggi razziali, la seconda guerra mondiale, la fuga ingloriosa a Brindisi dopo l’armistizio.
Per non parlare di due protagonisti assoluti nell’agiografia patriottarda del Risorgimento italico: Cavour e Garibaldi.
Unanimemente il Conte ci viene ancora “raccontato” come lo statista. Per antonomasia. E se la verità fosse invece quella espressa in una composizione poetica popolare sarda, scritta dopo il 1850, sul metro dei Gògius?
Eccola: “Furioso come un leone/senza alcun riguardo,/con la pelle dei Sardi/sta giocando il mascalzone/Con una faccia da cinghiale/è feroce come lui” (A riportare il testo è Giulio Mameli, in Bentu Estu, Grafica del Parteolla, 2013).
E Garibaldi? A parte il suo supposto ruolo di venditore di schiavi in America latina, possiamo dimenticare che andò in Sicilia, emanò i Decreti per la distribuzione delle terre ai contadini (il 17 Maggio e il 2 Giugno 1860) e il suo braccio destro Bixio fece trucidare chi quelle terre aveva occupato, prestando fede all’Eroe?
Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borbone ai Piemontesi. Altro che liberazione!
Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola:contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud; contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.
Con buona pace di chi ancora crede nelle magnifiche sorti e progressive dell’Unità d’Italia.
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* Anche su il manifesto sardo n. 267.
Per onorare il Grande Sardo Giovanni Maria Angioy, morto esule a Parigi il 22 febbraio 1808.
Quale classe dirigente per la Sardegna che vorremo
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di Aladin, 8/5/2016.
«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
In un recente convegno sulle tematiche dello sviluppo della Sardegna, un relatore, al termine del suo intervento, ha proiettato una slide con la frase sopra riportata, chiedendo al pubblico (oltre duecento persone, età media intorno ai 40/50 anni, appartenente al modo delle professioni e dell’economia urbana) chi ne fosse l’autore, svelandone solo la qualificazione: “Si tratta di un personaggio politico”. Silenzio dei presenti, rotto solo da una voce: “Mario Melis?”. No, risponde il relatore. Ulteriore silenzio. Poi un’altra voce, forse della sola persona tra i presenti in grado di rispondere con esattezza: “Giovanni Maria Angioy“. Ebbene sì, proprio lui, il patriota sardo vissuto tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, (morto esule e in miseria a Parigi, precisamente il 22 febbraio 1808), nella fase della sua vita in cui inutilmente chiese alla Francia di occupare militarmente la Sardegna, che, secondo i suoi auspici, avrebbe dovuto godere dell’indipendenza, sia pur sotto il protettorato francese (1). [segue]
Oggi lunedì 9 ottobre 2017
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Gli Editoriali di Aladinews. «Terra, casa, lavoro. Discorsi ai movimenti popolari» di papa Francesco.
SOCIETÀ E POLITICA » MAESTRI » JORGE MARIO BERGOGLIO
Terra, casa, lavoro. Perché sentiamo nostro il messaggio del papa
di LUCIANA CASTELLINA su il manifesto.
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Indipendenza in salsa catalana. Meglio la Costituzione.
9 Ottobre 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Il Cammino di Ospitone
Una passeggiata, da Seulo a Ollolai, nel segno di Ospitone.
di Francesco Casula.
Il Cammino di Ospitone
Bene ha fatto l’Associazione Malik (in collaborazione con le Amministrazioni comunali di Ollolai, Belvì e Seulo) a organizzare il Cammino di Ospitone, che prevede la traversata a piedi delle Barbagie di Seulo, Belvì e Ollolai. Si partirà da Seulo, martedì 6 settembre, per procedere verso nord fino a concludersi a Ollolai domenica 11 settembre: 100 Km. In sei giorni.
Si tratta – scrivono gli organizzatori – di una passeggiata suggestiva tra i sentieri antichi dei pastori che attraversano il meraviglioso territorio del cuore della Sardegna, ricco di storia, cultura, identità e ambiente. Un percorso anche religioso che, partendo da Seulo, il paese noto per i suoi monumenti naturali come Su Stampu ‘e su Tùrrunu e la gola del Flumendosa, porterà al santuario campestre di San Sebastiano a Tonara, ai menhir della valle del rio Aratu, le domus de janas di Gusana e l’antico insediamento di San Basilio in Ollolai.
La passeggiata è intitolata a Ospitone: denominato da Gregorio Magno, non a caso, dux Barbaricinorum.
- La figura di Ospitone
Il grande papa infatti nel maggio del 594, gli invia una lettera, in cui lo definisce appunto ”dux Barbaricinorum”. In essa il Pontefice, a lui unico seguace di Cristo in quel popolo di pagani, chiede di cooperare alla conversione delle popolazioni barbaricine che ancora “vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre”. Non si hanno notizie di un’eventuale risposta di Ospitone né sappiamo se lo stesso si sia impegnato nell’opera di conversione dei suoi sudditi. Una cosa è però certa: la lettera del grande papa serve a illuminare la precedente storia della Sardegna: la presenza nell’Isola alla fine del 500 di un “dux barbaricinorun” mette in discussione infatti numerose categorie storiografiche della storia ufficiale. Ad iniziare dalla visione di una Sardegna conquistata, vinta e dominata, dai Cartaginesi prima e dai Romani e Bizantini poi. In questo luogo comune inciampa persino il grande storico tedesco Theodor Mommsen che in Storia di Roma antica parla di una “Sardegna vinta e dominata per sempre” dopo la sconfitta di Amsicora nel 215 a. C. da parte del console romano Tito Manlio Torquato. Se così fosse, perché continuano incessanti le rivolte dei Sardi, soprattutto barbaricini, per secoli, con i massicci interventi militari romani?
Se fosse stata vinta e dominata per sempre che significato avrebbe nel 594 la presenza e coesistenza in Sardegna di un “dux barbaricinorum”, Ospitone appunto e di un dux bizantino, Zabarda, di stanza a Forum Traiani (Fordongianus), che proprio in quel momento tentava di concludere la pace con i Barbaricini? Evidentemente la parte interna della Sardegna, pur vinta, aveva comunque conservato, fin dal dominio romano, una sua indipendenza o comunque una sua autonomia, politica ma anche economica e sociale e persino culturale, nonostante l’imposizione della lingua latina che prenderà il posto della vecchia lingua nuragica.
E non si tratta di una parte interna circoscritta e limitata alle civitates barbariae intorno al Gennargentu: ma ben più vasta e con precise caratteristiche politiche, sociali ed economiche. Ecco in proposito l’autorevole opinione del più grande storico medievista sardo, Francesco Cesare Casula:”…Dalle parole del pontefice si evince che, al di là del limes fra Roméa e Barbària le popolazioni avevano un proprio sovrano o duca e che quindi erano statualmente conformate almeno in ducato autonomo se non addirittura in regno sovrano. Infine si ricava che malgrado fosse trascorso tanto tempo, le genti montane continuavano ad “adorare” le pietre, cioè i betili, permanendo nell’antica religione della civiltà nuragica. Purtroppo non sappiamo da quando esisteva questo stato indigeno e quanti anni ancora durò dopo Ospitone né dove fosse esattamente collocato.
Noi personalmente riteniamo che fosse esteso quanto la Barbària romana, segnalato al centro ovest dall’opposto presidio di Fordongianus e dal castello difensivo bizantino di Medusa, presso Samugheo; a sud dal confine religioso fra la cristianissima Suelli, piena di Chiese e di simboli paleocristiani e la pagana Goni, nel basso Flumendosa, con le schiere di suggestive pietre fitte campestri”. (Dizionario storico sardo, Carlo delfino Editore, Sassari, 2003, pagina 1132)
Un territorio immenso, probabilmente metà Sardegna era dunque sotto il governo di Ospitone.
- La cristianizzazione delle Barbagia
Nasce dalla consapevolezza del ruolo di Ospitone la Lettera di Gregorio Magno con cui invita ed esorta pressantemente il dux barba ricinorum ad assecondare la missione del Vescovo Felice e dell’abate Ciriaco per la conversione delle popolazioni barbaricine al Cristianesimo. Ruolo, carisma e prestigio, peraltro, riconosciuti e testimoniati dal fatto che il papa conclude la lettera inviandogli la benedizione di San Pietro che era collegata “a una catena dei Beati Apostoli Pietro e Paolo” (D. Argiolas, Lettere ai sardi, vedi Ollolai cuore della Sardegna di Salvatore Bussu, pagina 53). Benedizione che era riservata, di regola, solo agli Ecclesiastici: a dimostrazione della stima che nutriva per Ospitone.
E’ poco credibile però – come scrive il papa – che solo Ospitone si fosse convertito al Cristianesimo, ad Christi servitium: certo è però che la gran parte delle comunità continuasse nella religione primitiva naturalistica, vivendo – per usare le parole di Gregorio Magno – ut insensata animalia, adorando pietre e tronchi d’albero.
A testimoniare ciò basterebbe solo pensare al fatto che delle otto sedi vescovili presenti in quel periodo in Sardegna (Cagliari, Turris, Sulci, Tarros, Usellus, Bosa, Forum Traiani e Fausania-Olbia) nessuna è alloccata nelle civitates barbariae e la nascita della sede vescovile di Suelli con l’episcopio Barbariae [primo vescovo San Giorgio], proprio in quel periodo, pare essere dovuta proprio per la conversione delle popolazioni barbaricine.
- La foto in testa all’articolo è tratta dalla pagina fb dell’organizzazione.
4 settembre 1904. ECCIDIO DI BUGGERRU
Oggi 4 settembre ricorre il 112° anniversario di quello che passerà alla storia come l’eccidio di Buggerru. L’esercito, chiamato dai dirigenti della Società che gestiva le miniere, fece fuoco sui minatori, uccidendone tre e ferendone molti altri. Commenterà Giuseppe Dessì nel suo capolavoro, “Paese d’Ombre”: ”Bava Beccaris era nell’aria e con esso il suo demente insegnamento”.
E continua: ”La notizia della strage rimbalzò in tutta l’Italia operaia. A Milano fu comunicata alla folla durante un comizio di protesta e provocò uno sciopera generale in tutta la penisola. Solo in Sardegna rimase senza eco, e il silenzio di Buggerru, dopo la strage, in quel triste pomeriggio di settembre, era il simbolo del silenzio in tutta l’Isola”.
A Cagliari due anni dopo nel 1906, in seguito a una sommossa popolare contro il caro vita ci furono 10 morti.
“Alla notizia dei morti di Cagliari – scrive Natale Sanna – insorsero subito i centri minerari dell’Iglesiente con richieste varie, scioperi, saccheggi, scontri con i soldati, morti (due a Gonnesa e duie a Nebida) e feriti (17 a Gonnesa e quindici a Nebida) fra i dimostranti” (Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume terzo, Editrice Sardegna, Cagliari, 1986, pagina 472).
Duramente repressi furono anche gli scioperi e le manifestazioni che si innescarono sempre dopo i fatti di Cagliari a Villasimius, San Vito, Muravera, Abbasanta, Escalaplano, Villasalto (con 6 morti e 12 feriti). Mentre a Iglesias nel 1920 i carabinieri sparano su una manifestazione di minatori causando 7 morti.
(Francesco Casula)
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Storie che a scuola non insegnano.
di Piero Marcialis
BUGGERRU 1904
“… un orrendo spettacolo mi si para davanti.
…da una parte una massa di minatori urlanti ed esasperati e dall’altra, a una cinquantina di metri di distanza, un gruppo di soldati addossati ad un capannone. Questi sparavano e qualche minatore era già caduto…
Ricorderò sempre con raccapriccio quel minatore che cauto camminava rasente al muro fiancheggiante la strada, a pochi passi da me, che, colpito da un proiettile, s’accasciò adagio adagio appoggiato al muro… senza un grido e senza un lamento, giacque a terra per non alzarsi più.”
(Giuseppe Cavallera)
Era il 4 settembre, tre morti e undici feriti. In conseguenza dei fatti di Buggerru si verificherà il primo sciopero generale della storia italiana.
……
“Ma sa lotta no er galu finida
esisti galu sa zente maligna
esisti galu sa zente vamida
ancora es mesu morta sa Sardigna”
(Peppino Marotto)
Francesco Cilocco
RICORDIAMO E ONORIAMO FRANCESCO CILOCCO, EROE NAZIONALE SARDO.
di Francesco Casula
Ricorre oggi 30 agosto il 214° Anniversario della morte di Francesco Cilocco, eroe nazionale sardo, vittima della repressione sabauda (essendo re Vittorio Emanuele I e vicerè Carlo Feroce).
Ma ecco come descrive, nel suo Diario, la sua orrenda morte, un giurista algherese, filo monarchico e filosabaudo, Giovanni Lavagna:
“Agosto 1802,
ad. 9. Si è saputo che li 3 è stato fustigato barbaramente in Sassari Francesco Cilocco, essendo stato pagato il Boja da qualche Sassarese a batterlo assai; che la nobiltà Sassarese ha esultato per questa frustrazione; che la frusta era di doppia suola intessuta con piombo; che una ciurma di ragazzi prezzolati andavano fischiando e gridando Evviva il Generale Cagliaritano; e che dopo la fustigazione gli è sopraggiunta una febbre acutissima, essendo rimasto tutto lacerato, ed in stato di non poter rimanere né in piedi né coricato, ma carpone; in sostanza una fustigazione così barbara, che mai si vide in Sassari la simile”*.
[*da Le Carte Lavagna e l’esilio di Casa Savoia in Sardegna di Carlino Sole (Giuffrè editore, Milano 1970, pagina 192)]
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La Sarda Rivoluzione
di Nicolò Migheli, su fb
Quando andavo a scuola non sapevo nulla di Giovanni Maria Angioy, né di Michele Obino mio compaesano. Per me erano solo nomi di vie. Eppure vengo da un paese che ebbe ruolo protagonista nella Sarda Rivoluzione. Nei racconti familiari prevaleva il perdono del re, intervenuto anni dopo quei fatti. Niente sull’esilio e morte in Francia di Michele Obino, niente sulle vicende dei miei antenati materni e paterni esiliati o costretti alla latitanza. Però conoscevo tutto su Amatore Sciesa e il suo “Tirem innanz”, su Carlo Pisacane e la Spigolatrice di Sapri, mi commuovevo per i fratelli Bandiera. Oggi 30 agosto si ricorda il sacrificio di Francesco Cilloco, giustiziato in Sassari nel 1803 dai Savoia all’età di 33 anni, reo di aver sognato una Sardegna libera e repubblicana. Personaggio sconosciuto alla maggioranza dei sardi, molti dei quali continuano a ripetere la favoletta autoimposta dell’isola fuori dalla Storia. Ricordiamoli quei martiri, ricordiamo il loro sacrificio negato in primis dal nostro masochismo che derubrica la Sarda Rivoluzione al tradimento di Efisio Pintor Sirigu, noto Pintoreddu, lui sì il vero antesignano delle nostre classi dirigenti.