STORIA e LETTERATURA SARDA
“Gli eroi son tutti giovani e belli”. Gianni Ibba su “L’ordito e la trama”.
Emilio Asproni, medico, 26 anni, nativo di Bono [1778].
Residente a Cagliari prima della latitanza (26 marzo 1804).
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Lorenzo Sulis, avvocato, 25 anni, nativo di Nuoro [1779].
Residente a Cagliari prima della latitanza (26 marzo 1804).
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Nelle foto, una ricostruzione fantasiosa dei volti dei due immaginari protagonisti, realizzata con l’applicazione dell’Intelligenza artificiale maneggiata da Franco Meloni con l’aiuto di Bobo Meloni (all’insaputa dell’autore del libro).
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Gigi Riva merita un monumento. Noi sardi glielo dobbiamo!
Appoggiamo con entusiasmo la proposta della dedica a Gigi Riva del monumento attualmente dedicato a Carlo Felice e la nuova intitolazione della strada: Largo Gigi Riva
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Messaggio del Vescovo e celebrazione esequiale di Gigi Riva
Sarà monsignor Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, a presiedere la Messa esequiale di Gigi Riva, domani 24 gennaio alle ore 16, presso la Basilica di Nostra Signora di Bonaria.
L’Arcivescovo ha rivolto un messaggio, unendosi al cordoglio per la morte del calciatore, figlio adottivo della terra sarda.
«La morte di Gigi Riva tocca nel profondo il cuore di Cagliari e di tutta la Sardegna. Nella sua carriera di calciatore e di dirigente scorgiamo le caratteristiche dell’etica sportiva che, più volte, papa Francesco ha ricordato, soprattutto nel dialogo con gli atleti: la lealtà, il coraggio, la disciplina del corpo e della mente, la fantasia e il sacrificio, l’amicizia, lo spirito di gruppo, l’agonismo non come prevaricazione ma come ascesi spirituale, il riscatto sociale.
Sardo di adozione, si è sentito parte di un popolo che lo ha apprezzato non solo per le sue doti sportive ma anche per la semplicità e genuinità che sempre l’hanno contraddistinto. La sua vita ci insegna che il vero campione non si lascia stordire dal divismo e che il contatto sincero e spontaneo con il popolo, e non solo con i tifosi, è un’occasione unica per trasmettere i valori autentici dello sport.
Nella preghiera, affidiamo Gigi Riva all’abbraccio eterno del Signore che ama la vita».
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Il Papa da Fazio
Non c’è solo la proverbiale ironia di papa Francesco dietro quel suo riconoscersi solo alla luce di scelte pastorali coraggiose, da ultima il via libera alle benedizioni delle coppie gay. “Traspare anche una certa paura, mista ad amarezza, per il rendersi conto che ampie fette della Chiesa, quelle più praticanti, non lo stanno seguendo”, è il teologo Vito Mancuso a mettere il dito nella piaga della crescente solitudine di Bergoglio sullo sfondo dell’apparizione di quest’ultimo al programma Che tempo che fa.
Francesco Casula: terzo volume della “Letteratura e civiltà della Sardegna. Il teatro in lingua sarda”.
Fresco fresco di stampa e fra qualche settimana nelle librerie la nuova creatura di Francesco Casula, dopo sei anni di studio e di ricerca: il terzo volume della “Letteratura e civiltà della Sardegna”, dedicato interamente al teatro in lingua sarda [Edizioni Grafica del Parteolla]. Con gli Autori di testi teatrali dalla fine del ’700 ai nostri giorni. Il volume inizia con la commedia di Padre Luca Cubeddu “Sa congiura Iscoberta de sas Bajanas Madamizantes” scritta, secondo lo studioso Angelo Carboni Capiali, tra il 1793 (anno delle stragi della Vandea) ed il 1804. Dallo stesso studioso è stata “scoperta” e ritrovata (e pubblicata). Prosegue con gli Autori di fine 1800 (Setzu, Matta), per arrivare ai “Grandi” di inizio ‘900 (Pili, Melis) e via via fino a Garau e ai “commediografi” dei nostri giorni. Quattrocento pagine per illustrare la figura, la vita e l’opera di 29 autori di testi teatrali (farse, commedie sociali, politiche, storiche) ma anche una tragedia (Marytria di Berto Cara). In tutte le varianti della lingua sarda e tre in lingua sassarese. Nove Autori sono ancora viventi: ricordiamo – fra gli altri – Salvatore Vargiu e Piero Marcialis, Pietro Picciau-Ottavio Congiu e Giulio Mameli, Antonio Contu e Gigi Tatti.
Sardegna. Tutta un’altra storia
La storia ufficiale?
Una storia ideologica. E agiografica.
di Francesco Casula*
La storia ufficiale – quella propinataci dai testi scolastici ma anche dai Media – segnatamente quella del cosiddetto “Risorgimento” e dell’Unità d’Italia, è una storia sostanzialmente “ideologica”. Anzi: teologica.
Mi ricorda quella raccontata da Tito Livio nella sua monumentale opera in 50 volumi, intitolata Ab urbe condita.
Lo storico latino, è persuaso che quella di Roma fosse una storia provvidenziale, una specie di storia sacra, quella di un popolo eletto dagli dei.
Deriva da questa convinzione la più attenta cura a far risaltare tutti gli atti e tutte le circostanze in cui la virtus romana ha rifulso nei suoi protagonisti che assurgono, naturalmente, ad “eroi”.
Tutto ciò è chiaramente adombrato anche nel Proemio, dove si insiste sul carattere tutto speciale del dominio romano, provvidenziale e benefico anche per i popoli soggetti. E dunque questi devono assoggettarsi con buona disposizione al suo dominio.
Roma infatti, che ha come progenitore Marte e come fondatore Romolo, ha come destino quello di: regere imperio populos e di parcere subiectis et debellare superbos. (Perdonare chi si sottomette ma distruggere, sterminare chi resiste).
Mutatis mutandis, la storia “risorgimentale” ci viene raccontata con gli stessi parametri, storici e storiografici liviani: anche l’Unità d’Italia, sia pure in una versione laica, è “sacra”, in quanto un diritto inalienabile della “nazione italiana”, in qualche modo in mente Dei, da sempre.
Ricordo a questo proposito Benigni quando il 17 febbraio del 2011, a San Remo, sul “palco dell’Ariston”, irrompe negli studi televisivi, su un cavallo bianco. Per impartirci, commentando l’Inno “Fratelli d’Italia”, una incredibile lezione di storia ideologica. Facendo risalire la “Nazione Italiana” addirittura a Dante. Una vera e propria falsificazione storica: il poeta fiorentino infatti combatteva le particolarità territoriali e “nazionali” e sosteneva con forza l’impero che lui chiamava “Monarchia universale”.
Ma nella sua esegesi dell’Inno il comico fiorentino si spinge oltre nella falsificazione storica: la “nazione” italiana deriverebbe non solo dagli Scipioni e da Dante ma persino dai combattenti della Lega lombarda, dai Vespri siciliani, da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci.
Sciocchezze sesquipedali. Machines e tontesas.
Ha scritto a questo proposito Alberto Mario Banti grande studioso del Risorgimento su Il Manifesto de 26 febbraio 2011: ”Francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po’ che si va a scoprire in una sola serata televisiva.
Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori, stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli”.
Ma tant’è: la “versione” di Benigni allora commosse il pubblico televisivo italiano e ancora oggi viene circuitata e spacciata come verità storica.
Con relativo contorno di eroi e di protagonisti risorgimentali che, per rimanere in casa nostra, campeggiano ancora nelle Vie e Piazze sarde. Ignominiosamente. Perché si tratta di quelli stessi personaggi che hanno sfruttato e represso in modo brutale i Sardi.
Ad iniziare dai tiranni sabaudi, da Carlo Felice, per esempio, che da vicerè come da re fu crudele, feroce e sanguinario, famelico, e ottuso. Più ottuso e reazionario d’ogni altro principe, oltre che dappocco, gaudente parassita, gretto come la sua amministrazione (Raimondo Carta-Raspi).
Per continuare con Carlo Alberto, che pomposamente in molti libri scolastici viene ancora definito “re liberale”.
Eccolo il suo liberalismo: nel 1833 ordina personalmente che venga condannato a morte il giovane sardo Efisio Tola. Il reato? Semplicemente per aver letto la Giovane Italia di Giuseppe Mazzini Fra gli altri lo ricorda e lo scrive Piero Calamandrei (su Il Ponte, 1950, pagina 1050).
Ma nel 1848 promulgò lo “Statuto”. Sì: ma le norme costituzionali rimasero carta straccia. In realtà lo stato d’assedio divenne sistema di governo. In Sardegna ne furono proclamati due con Alberto la Marmora (1849) e con il generale Durando (1852). Nel Meridione ben otto, dopo l’Unità.
Umberto I continua ad essere osannato, non solo nei testi scolastici, addirittura come “re buono”. Ecco un fulgido esempio della sua “bontà”: premiò il generale Bava Beccaris, insignendolo della massima onorificenza, ovvero della croce dell’Ordine militare dei savoia e nominandolo senatore, per aver compiuto un’impresa portentosa: aver dato l’ordine alle truppe di sparare sulla folla inerme a Milano, nel 1898, uccidendo 80 dimostranti e ferendone più di 400 .
Ultimo re sabaudo fu Sciaboletta: che si macchiò di almeno cinque infamie: due “colpi di stato”: con la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo, le leggi razziali, la seconda guerra mondiale, la fuga ingloriosa a Brindisi dopo l’armistizio.
Per non parlare di due protagonisti assoluti nell’agiografia patriottarda del Risorgimento italico: Cavour e Garibaldi.
Unanimemente il Conte ci viene ancora “raccontato” come lo statista. Per antonomasia. E se la verità fosse invece quella espressa in una composizione poetica popolare sarda, scritta dopo il 1850, sul metro dei Gògius?
Eccola: “Furioso come un leone/senza alcun riguardo,/con la pelle dei Sardi/sta giocando il mascalzone/Con una faccia da cinghiale/è feroce come lui” (A riportare il testo è Giulio Mameli, in Bentu Estu, Grafica del Parteolla, 2013).
E Garibaldi? A parte il suo supposto ruolo di venditore di schiavi in America latina, possiamo dimenticare che andò in Sicilia, emanò i Decreti per la distribuzione delle terre ai contadini (il 17 Maggio e il 2 Giugno 1860) e il suo braccio destro Bixio fece trucidare chi quelle terre aveva occupato, prestando fede all’Eroe?
Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borbone ai Piemontesi. Altro che liberazione!
Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola:contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud; contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.
Con buona pace di chi ancora crede nelle magnifiche sorti e progressive dell’Unità d’Italia.
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* Anche su il manifesto sardo n. 267.
Per onorare il Grande Sardo Giovanni Maria Angioy, morto esule a Parigi il 22 febbraio 1808.
Quale classe dirigente per la Sardegna che vorremo
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di Aladin, 8/5/2016.
«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
In un recente convegno sulle tematiche dello sviluppo della Sardegna, un relatore, al termine del suo intervento, ha proiettato una slide con la frase sopra riportata, chiedendo al pubblico (oltre duecento persone, età media intorno ai 40/50 anni, appartenente al modo delle professioni e dell’economia urbana) chi ne fosse l’autore, svelandone solo la qualificazione: “Si tratta di un personaggio politico”. Silenzio dei presenti, rotto solo da una voce: “Mario Melis?”. No, risponde il relatore. Ulteriore silenzio. Poi un’altra voce, forse della sola persona tra i presenti in grado di rispondere con esattezza: “Giovanni Maria Angioy“. Ebbene sì, proprio lui, il patriota sardo vissuto tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, (morto esule e in miseria a Parigi, precisamente il 22 febbraio 1808), nella fase della sua vita in cui inutilmente chiese alla Francia di occupare militarmente la Sardegna, che, secondo i suoi auspici, avrebbe dovuto godere dell’indipendenza, sia pur sotto il protettorato francese (1). [segue]
Oggi lunedì 9 ottobre 2017
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Gli Editoriali di Aladinews. «Terra, casa, lavoro. Discorsi ai movimenti popolari» di papa Francesco.
SOCIETÀ E POLITICA » MAESTRI » JORGE MARIO BERGOGLIO
Terra, casa, lavoro. Perché sentiamo nostro il messaggio del papa
di LUCIANA CASTELLINA su il manifesto.
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Indipendenza in salsa catalana. Meglio la Costituzione.
9 Ottobre 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Il Cammino di Ospitone
Una passeggiata, da Seulo a Ollolai, nel segno di Ospitone.
di Francesco Casula.
Il Cammino di Ospitone
Bene ha fatto l’Associazione Malik (in collaborazione con le Amministrazioni comunali di Ollolai, Belvì e Seulo) a organizzare il Cammino di Ospitone, che prevede la traversata a piedi delle Barbagie di Seulo, Belvì e Ollolai. Si partirà da Seulo, martedì 6 settembre, per procedere verso nord fino a concludersi a Ollolai domenica 11 settembre: 100 Km. In sei giorni.
Si tratta – scrivono gli organizzatori – di una passeggiata suggestiva tra i sentieri antichi dei pastori che attraversano il meraviglioso territorio del cuore della Sardegna, ricco di storia, cultura, identità e ambiente. Un percorso anche religioso che, partendo da Seulo, il paese noto per i suoi monumenti naturali come Su Stampu ‘e su Tùrrunu e la gola del Flumendosa, porterà al santuario campestre di San Sebastiano a Tonara, ai menhir della valle del rio Aratu, le domus de janas di Gusana e l’antico insediamento di San Basilio in Ollolai.
La passeggiata è intitolata a Ospitone: denominato da Gregorio Magno, non a caso, dux Barbaricinorum.
- La figura di Ospitone
Il grande papa infatti nel maggio del 594, gli invia una lettera, in cui lo definisce appunto ”dux Barbaricinorum”. In essa il Pontefice, a lui unico seguace di Cristo in quel popolo di pagani, chiede di cooperare alla conversione delle popolazioni barbaricine che ancora “vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre”. Non si hanno notizie di un’eventuale risposta di Ospitone né sappiamo se lo stesso si sia impegnato nell’opera di conversione dei suoi sudditi. Una cosa è però certa: la lettera del grande papa serve a illuminare la precedente storia della Sardegna: la presenza nell’Isola alla fine del 500 di un “dux barbaricinorun” mette in discussione infatti numerose categorie storiografiche della storia ufficiale. Ad iniziare dalla visione di una Sardegna conquistata, vinta e dominata, dai Cartaginesi prima e dai Romani e Bizantini poi. In questo luogo comune inciampa persino il grande storico tedesco Theodor Mommsen che in Storia di Roma antica parla di una “Sardegna vinta e dominata per sempre” dopo la sconfitta di Amsicora nel 215 a. C. da parte del console romano Tito Manlio Torquato. Se così fosse, perché continuano incessanti le rivolte dei Sardi, soprattutto barbaricini, per secoli, con i massicci interventi militari romani?
Se fosse stata vinta e dominata per sempre che significato avrebbe nel 594 la presenza e coesistenza in Sardegna di un “dux barbaricinorum”, Ospitone appunto e di un dux bizantino, Zabarda, di stanza a Forum Traiani (Fordongianus), che proprio in quel momento tentava di concludere la pace con i Barbaricini? Evidentemente la parte interna della Sardegna, pur vinta, aveva comunque conservato, fin dal dominio romano, una sua indipendenza o comunque una sua autonomia, politica ma anche economica e sociale e persino culturale, nonostante l’imposizione della lingua latina che prenderà il posto della vecchia lingua nuragica.
E non si tratta di una parte interna circoscritta e limitata alle civitates barbariae intorno al Gennargentu: ma ben più vasta e con precise caratteristiche politiche, sociali ed economiche. Ecco in proposito l’autorevole opinione del più grande storico medievista sardo, Francesco Cesare Casula:”…Dalle parole del pontefice si evince che, al di là del limes fra Roméa e Barbària le popolazioni avevano un proprio sovrano o duca e che quindi erano statualmente conformate almeno in ducato autonomo se non addirittura in regno sovrano. Infine si ricava che malgrado fosse trascorso tanto tempo, le genti montane continuavano ad “adorare” le pietre, cioè i betili, permanendo nell’antica religione della civiltà nuragica. Purtroppo non sappiamo da quando esisteva questo stato indigeno e quanti anni ancora durò dopo Ospitone né dove fosse esattamente collocato.
Noi personalmente riteniamo che fosse esteso quanto la Barbària romana, segnalato al centro ovest dall’opposto presidio di Fordongianus e dal castello difensivo bizantino di Medusa, presso Samugheo; a sud dal confine religioso fra la cristianissima Suelli, piena di Chiese e di simboli paleocristiani e la pagana Goni, nel basso Flumendosa, con le schiere di suggestive pietre fitte campestri”. (Dizionario storico sardo, Carlo delfino Editore, Sassari, 2003, pagina 1132)
Un territorio immenso, probabilmente metà Sardegna era dunque sotto il governo di Ospitone.
- La cristianizzazione delle Barbagia
Nasce dalla consapevolezza del ruolo di Ospitone la Lettera di Gregorio Magno con cui invita ed esorta pressantemente il dux barba ricinorum ad assecondare la missione del Vescovo Felice e dell’abate Ciriaco per la conversione delle popolazioni barbaricine al Cristianesimo. Ruolo, carisma e prestigio, peraltro, riconosciuti e testimoniati dal fatto che il papa conclude la lettera inviandogli la benedizione di San Pietro che era collegata “a una catena dei Beati Apostoli Pietro e Paolo” (D. Argiolas, Lettere ai sardi, vedi Ollolai cuore della Sardegna di Salvatore Bussu, pagina 53). Benedizione che era riservata, di regola, solo agli Ecclesiastici: a dimostrazione della stima che nutriva per Ospitone.
E’ poco credibile però – come scrive il papa – che solo Ospitone si fosse convertito al Cristianesimo, ad Christi servitium: certo è però che la gran parte delle comunità continuasse nella religione primitiva naturalistica, vivendo – per usare le parole di Gregorio Magno – ut insensata animalia, adorando pietre e tronchi d’albero.
A testimoniare ciò basterebbe solo pensare al fatto che delle otto sedi vescovili presenti in quel periodo in Sardegna (Cagliari, Turris, Sulci, Tarros, Usellus, Bosa, Forum Traiani e Fausania-Olbia) nessuna è alloccata nelle civitates barbariae e la nascita della sede vescovile di Suelli con l’episcopio Barbariae [primo vescovo San Giorgio], proprio in quel periodo, pare essere dovuta proprio per la conversione delle popolazioni barbaricine.
- La foto in testa all’articolo è tratta dalla pagina fb dell’organizzazione.
4 settembre 1904. ECCIDIO DI BUGGERRU
Oggi 4 settembre ricorre il 112° anniversario di quello che passerà alla storia come l’eccidio di Buggerru. L’esercito, chiamato dai dirigenti della Società che gestiva le miniere, fece fuoco sui minatori, uccidendone tre e ferendone molti altri. Commenterà Giuseppe Dessì nel suo capolavoro, “Paese d’Ombre”: ”Bava Beccaris era nell’aria e con esso il suo demente insegnamento”.
E continua: ”La notizia della strage rimbalzò in tutta l’Italia operaia. A Milano fu comunicata alla folla durante un comizio di protesta e provocò uno sciopera generale in tutta la penisola. Solo in Sardegna rimase senza eco, e il silenzio di Buggerru, dopo la strage, in quel triste pomeriggio di settembre, era il simbolo del silenzio in tutta l’Isola”.
A Cagliari due anni dopo nel 1906, in seguito a una sommossa popolare contro il caro vita ci furono 10 morti.
“Alla notizia dei morti di Cagliari – scrive Natale Sanna – insorsero subito i centri minerari dell’Iglesiente con richieste varie, scioperi, saccheggi, scontri con i soldati, morti (due a Gonnesa e duie a Nebida) e feriti (17 a Gonnesa e quindici a Nebida) fra i dimostranti” (Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume terzo, Editrice Sardegna, Cagliari, 1986, pagina 472).
Duramente repressi furono anche gli scioperi e le manifestazioni che si innescarono sempre dopo i fatti di Cagliari a Villasimius, San Vito, Muravera, Abbasanta, Escalaplano, Villasalto (con 6 morti e 12 feriti). Mentre a Iglesias nel 1920 i carabinieri sparano su una manifestazione di minatori causando 7 morti.
(Francesco Casula)
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Storie che a scuola non insegnano.
di Piero Marcialis
BUGGERRU 1904
“… un orrendo spettacolo mi si para davanti.
…da una parte una massa di minatori urlanti ed esasperati e dall’altra, a una cinquantina di metri di distanza, un gruppo di soldati addossati ad un capannone. Questi sparavano e qualche minatore era già caduto…
Ricorderò sempre con raccapriccio quel minatore che cauto camminava rasente al muro fiancheggiante la strada, a pochi passi da me, che, colpito da un proiettile, s’accasciò adagio adagio appoggiato al muro… senza un grido e senza un lamento, giacque a terra per non alzarsi più.”
(Giuseppe Cavallera)
Era il 4 settembre, tre morti e undici feriti. In conseguenza dei fatti di Buggerru si verificherà il primo sciopero generale della storia italiana.
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“Ma sa lotta no er galu finida
esisti galu sa zente maligna
esisti galu sa zente vamida
ancora es mesu morta sa Sardigna”
(Peppino Marotto)
Francesco Cilocco
RICORDIAMO E ONORIAMO FRANCESCO CILOCCO, EROE NAZIONALE SARDO.
di Francesco Casula
Ricorre oggi 30 agosto il 214° Anniversario della morte di Francesco Cilocco, eroe nazionale sardo, vittima della repressione sabauda (essendo re Vittorio Emanuele I e vicerè Carlo Feroce).
Ma ecco come descrive, nel suo Diario, la sua orrenda morte, un giurista algherese, filo monarchico e filosabaudo, Giovanni Lavagna:
“Agosto 1802,
ad. 9. Si è saputo che li 3 è stato fustigato barbaramente in Sassari Francesco Cilocco, essendo stato pagato il Boja da qualche Sassarese a batterlo assai; che la nobiltà Sassarese ha esultato per questa frustrazione; che la frusta era di doppia suola intessuta con piombo; che una ciurma di ragazzi prezzolati andavano fischiando e gridando Evviva il Generale Cagliaritano; e che dopo la fustigazione gli è sopraggiunta una febbre acutissima, essendo rimasto tutto lacerato, ed in stato di non poter rimanere né in piedi né coricato, ma carpone; in sostanza una fustigazione così barbara, che mai si vide in Sassari la simile”*.
[*da Le Carte Lavagna e l’esilio di Casa Savoia in Sardegna di Carlino Sole (Giuffrè editore, Milano 1970, pagina 192)]
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La Sarda Rivoluzione
di Nicolò Migheli, su fb
Quando andavo a scuola non sapevo nulla di Giovanni Maria Angioy, né di Michele Obino mio compaesano. Per me erano solo nomi di vie. Eppure vengo da un paese che ebbe ruolo protagonista nella Sarda Rivoluzione. Nei racconti familiari prevaleva il perdono del re, intervenuto anni dopo quei fatti. Niente sull’esilio e morte in Francia di Michele Obino, niente sulle vicende dei miei antenati materni e paterni esiliati o costretti alla latitanza. Però conoscevo tutto su Amatore Sciesa e il suo “Tirem innanz”, su Carlo Pisacane e la Spigolatrice di Sapri, mi commuovevo per i fratelli Bandiera. Oggi 30 agosto si ricorda il sacrificio di Francesco Cilloco, giustiziato in Sassari nel 1803 dai Savoia all’età di 33 anni, reo di aver sognato una Sardegna libera e repubblicana. Personaggio sconosciuto alla maggioranza dei sardi, molti dei quali continuano a ripetere la favoletta autoimposta dell’isola fuori dalla Storia. Ricordiamoli quei martiri, ricordiamo il loro sacrificio negato in primis dal nostro masochismo che derubrica la Sarda Rivoluzione al tradimento di Efisio Pintor Sirigu, noto Pintoreddu, lui sì il vero antesignano delle nostre classi dirigenti.
Storia sarda
IL DELITTO CAMARASSA
21 luglio 1668. Di ritorno in carrozza dalla festa del Carmine, diretto a Palazzo per la Carrer dels Cavaliers (oggi via Canelles) nel quartiere Castello, il marchese di Camarassa, vicerè di Sardegna, viene assassinato.
Il delitto avviene giusto un mese dopo l’assassinio del marchese di Laconi, Agostino di Castelvì, figura controversa, divenuto comunque esponente della nobiltà sarda in contrasto con l’autorità viceregia.
Per qualche mese si parla del delitto come esito di fatti erotici.
Il 26 dicembre giunge a Cagliari il nuovo vicerè, Francesco Tutavilla duca di S.Germano, che ristabilisce il potere della corona, intanto che accusa di congiura politica Iacopo di Castelvì, cugino di Agostino, Antonio Brondo fi Villacidro, Francesco Cao, Francesco Portoghese e Gavino Grixoni.
Vittorio Emanuele II: giù dal piedistallo!
Vittorio Emanuele II: un altro Savoia da eliminare dalla toponomastica sarda. Ecco perché.
di Francesco Casula
Vittorio Emanuele II è stato l’ultimo re di Sardegna (dal 1849 al 1861) e il primo re d’Italia (dal 1861 al 1878).
Nonostante gli smisurati elogi da parte di tutta la pubblicistica patriottarda, – fu soprannominato il re galantuomo – tesa ad esaltare le magnifiche sorti e progressive del Risorgimento italiano, la sua opera nei confronti della nostra Isola sia come ultimo re di Sardegna sia come primo re d’Italia, fu nefasta.
1. Vittorio Emanuele ultimo re di Sardegna.
Con Vittorio Emanuele II, dopo la Fusione Perfetta con gli stati del continente, la Sardegna perderà ogni forma residuale di sovranità e di autonomia statuale per confluire nei confini di uno stato più grande e il cui centro degli interessi risultava radicato interamente sul continente. L’Unione Perfetta non apportò alcun vantaggio all’Isola, né dal punto di vista economico, né da quelli politico, sociale e culturale. Tale esito fallimentare, fu ben chiaro sin dai primi anni con l’aggravamento fiscale e una maggiore repressione che sfociò nello stato d’assedio, – che divenne sistema di governo – sia con Alberto la Marmora (1849) che con il generale Durando (1852).
Gianbattista Tuveri scrisse che dopo la fusione perfetta del 1847, la Sardegna era diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata da un governo senza cuore e senza cervello.
Ad esemplificare l’estraneità della Sardegna al Piemonte basta un episodio paradigmatico: Giovanni Siotto Pintor, uno di quegli intellettuali sardi che nel novembre del 1847 più si era adoperato perché si raggiungesse l’obiettivo della fusione con il Piemonte, all’ingresso di Palazzo Carignano viene fermato dal portiere. Il suo abbigliamento (si era presentato con il costume caratteristico dei sardi, con sa berritta, orbace e cerchietto d’oro all’orecchio) contrastava con l’eleganza e severità dei suoi colleghi piemontesi o liguri o savoiardi della Camera di nomina regia. Per questo si dice che entrò nell’aula del Senato solo dopo aver vinto con la forza le resistenze del portiere che evidentemente aveva una qualche difficoltà a riconoscere in lui un Senatore.
Il secondo episodio venne denunciato con una lettera al Presidente della Camera dal deputato di Sassari Pasquale Tola, che, quando nel maggio del 1848 in occasione di una riunione con i colleghi delle altre province, rimarcò l’assenza dell’emblema della Sardegna nell’aula dove,invece, erano dipinti e diversamente raffigurati quelli delle altre province del Regno.
2. Vittorio Emanuele primo re d’Italia
Le cose per la nostra Isola con cambiano con l’Unità d’Italia. Se è possibile, anzi, si aggravano, ad iniziare dal campo fiscale.
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Il rifugio di Nuxis di Salvatore Cadeddu, congiurato di Palabanda (1812)
(Da L’Unione sarda on line 20 06 2016) Resistenza sarda, individuato a Nuxis il rifugio dell’avvocato Cadeddu, congiurato di Palabanda
Sulle tracce di Salvatore Cadeddu che «…se ne fuggì da Cagliari, se ne andò ai salti del Sulcis ed ivi fu raccomandato a Luigi Impera, il quale nel salto di Tattinu lo collocò nella grotta denominata Conca de Cerbu, distante dal suo caprile non più di venti minuti».
A metà dell”800 un memoriale di Antioco Pabis svela il retroscena della fuga da Cagliari dell’avvocato Salvatore Cadeddu. Sono trascorsi una trentina d’anni dall’ottobre del 1812, allorché fallisce la Congiura di Palabanda contro le ingiustizie della casa reale dei Savoia. Uno dei capi della rivolta, è l’avvocato Salvatore Cadeddu, che riesce a sottrarsi all’arresto rifugiandosi nel Sulcis. La circostanza (riportata nel libro di Federico Francioni “Storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento”), era nota. Anche il barone Giuseppe Mannu, nella sua “Storia di Sardegna” del 1852, a proposito di Salvatore Cadeddu, scrive che «se ne stava nascosto nel partimento del Sulcis».
- Approfondimenti su Democraziaoggi del 29 gennaio 2016.