Chiesa

Prima loro. La Speranza non delude

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Ai Mittenti e Interlocutori della Lettera agli ebrei e delle Notizie da Chiesa di tutti Chiesa dei poveri
Lunedì 20 gennaio 2025
PRIMI I CINESI PRIMA GLI OSTAGGI

Cari Amici,
chi l’avrebbe detto? Quando abbiamo cominciato a scrivervi dall’indirizzo mail “Prima loro”, chi avrebbe potuto pensare che primi sarebbero stati i Cinesi? Prima infatti che Trump, il pregiudicato, giurasse per la Casa Bianca, ecco che i Cinesi gli telefonano il 17 gennaio, e di certo non solo per Tik Tok. Sembrava che fossimo prossimi alla fine del mondo, con questa nave dei folli condotta da cattivi nocchieri, con genocidi, sfide, missili di profondità, droni, naufragi e muri, dall’Ucraina a Gaza, dal Mediterraneo al Messico, e invece ecco che tutto forse comincia di nuovo. Certo neanche Xi Jinping è un santarellino, come non lo era Biden, ma ora Cinesi e Americani si parlano, e dicono che risolveranno molti problemi insieme, e a partire da subito. “Il presidente ed io – ha detto Xi – faremo tutto il possibile per rendere il mondo più pacifico e sicuro”.
Il rovesciamento sarebbe radicale. Per capire da dove veniamo basta sapere che cosa c’era scritto nei vigenti documenti strategici americani, usciti il 12 ottobre 2022 dalla Casa Bianca di Biden e dal Pentagono di Lloyd Austin. C’era scritto che questo sarebbe stato un decennio decisivo di “competizione strategica” per “plasmare il futuro dell’ordine internazionale”, di cui gli Stati Uniti, nel proprio interesse, avrebbero dovuto essere i vincitori. In questa partita, scriveva Biden, “la Repubblica Popolare Cinese rappresenta la sfida geopolitica più importante per l’America. La Russia rappresenta una minaccia immediata e continua all’ordine di sicurezza regionale in Europa ed è una fonte di disturbo e instabilità a livello globale, ma non ha le capacità trasversali della Repubblica Popolare Cinese”. La Cina era considerata infatti il solo competitore che avesse “sia l’intento di rimodellare l’ordine internazionale, sia il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”.
“Pechino – continuava Biden – ha l’ambizione di creare una crescente sfera di influenza nell’Indo-Pacifico e di diventare la potenza guida del mondo, col suo modello autoritario e usando il suo potere economico in modo coercitivo verso le altre nazioni”. Né si trattava di divergenze discutibili, le accuse erano brucianti: “genocidio e crimini contro l’umanità in Xinjiang, violazioni di diritti umani in Tibet, smantellamento dell’autonomia e della libertà di Hong Kong”.
E qui Biden rimandava al documento sulla strategia militare del Pentagono, nel quale Lloyd Austin scriveva, il 27 ottobre 2022:
“La Repubblica Popolare Cinese (RPC) rimane il nostro competitore strategico più importante per i prossimi decenni. Ho raggiunto questa conclusione sulla base delle crescenti azioni di forza della Repubblica Popolare Cinese per rimodellare la regione dell’Indo Pacifico e il sistema internazionale per adattarlo alle sue preferenze autoritarie, e sulla base di una profonda consapevolezza delle intenzioni chiaramente dichiarate della RPC e della rapida modernizzazione ed espansione delle sue forze armate”.
Il Dipartimento della Difesa era impegnato pertanto a “ottenere e sostenere vantaggi militari, contrastare forme acute di coazione dei nostri avversari e complicare le più significative attività degli avversari che, se non affrontate, metterebbero in pericolo la nostra superiorità militare ora e in futuro”. Tutto ciò quando, come aveva scritto Biden, “quella militare americana è la più forte forza militare che il mondo abbia mai conosciuto”.
Già dal settembre 2002, un anno dopo l’attentato alle Due Torri, i documenti sulla sicurezza nazionale americana rivendicavano il principio di una guerra preventiva, sostenendo che “la migliore difesa è un buona offesa”; tuttavia in quei documenti il giovane Bush apprezzava gli sforzi della Cina per definire la natura del proprio ordinamento, e la metteva per così dire sotto osservazione, in attesa che facesse “fondamentali scelte” sul carattere del proprio Stato.
Ciò per quanto riguarda la Cina. Per Israele invece Bush era stato molto esplicito nel contestargli la colonizzazione della Cisgiordania e nel pretendere la soluzione della questione palestinese: “Il conflitto israelo-palestinese è critico a causa del tributo di sofferenza umana, a causa dello stretto rapporto dell’America con lo Stato di Israele e con gli Stati arabi chiave, e a causa della importanza di quella regione per le altre priorità globali degli Stati Uniti. Non ci può essere pace per nessuna delle due parti senza libertà per entrambe le parti. L’America è impegnata per una indipendente e democratica Palestina, che viva accanto a Israele in pace e sicurezza. Come tutti gli altri popoli, i palestinesi meritano un governo che serva i loro interessi e presti ascolto alle loro voci. Se i palestinesi abbracciano la democrazia e il governo della legge, affrontano la corruzione e rifiutano fermamente il terrorismo, possono contare sul sostegno americano per la creazione di uno Stato palestinese. Lo stesso Israele ha un grande interesse al successo di una Palestina democratica. L’occupazione permanente minaccia l’identità e la democrazia di Israele. Quindi gli Stati Uniti continuano a sfidare i leader israeliani affinché adottino misure concrete per sostenere l’emergere di uno Stato palestinese vitale e credibile. Man mano che ci siano progressi verso la sicurezza, le forze israeliane devono ritirarsi completamente dalle posizioni che detenevano prima del 28 settembre 2000 (il giorno della salita di Ariel Sharon sulla spianata del Tempio e l’inizio della seconda Intifada). Le attività di insediamento israeliano nei territori occupati devono finire. Man mano che la violenza si placa, la libertà di movimento dovrebbe essere ripristinata, permettendo ai palestinesi innocenti di riprendere il lavoro e la vita normale. Gli Stati Uniti possono svolgere un ruolo cruciale ma, in definitiva, una pace duratura può arrivare solo quando Israeliani e Palestinesi risolvano i problemi e pongano fine al conflitto tra loro”.
Nulla di tutto questo da allora è avvenuto: la Cina è diventata cattiva e coattiva, l’ultimo Nemico da abbattere, NATO e Russia si sono affrontate in Ucraina, 750. 000 coloni hanno invaso la Cisgiordania, è stata liquidata l’idea di uno Stato palestinese, gli Stati Uniti si sono ben guardati dal promuovere una indipendente e democratica Palestina, Hamas non ha rinunciato al terrorismo e a Gaza è stato scatenato l’inferno. E ora arriva la destra al potere in America, e le destre accorrono a Washington per l’inaugurazione di Trump. Ma perché, non erano destre al potere quelle che ci hanno governato fin qui? Trump comincerà la deportazione degli immigrati. Ma perché, in Albania che cosa si vuol fare? “A tutti i costi”!
A questo punto la prognosi è difficile. Ma grande è stata la nostra commozione nel vedere il resto degli ostaggi ancora vivi tornare a casa, il placarsi dell’indignazione nei riguardi di Netanyahu della folla e dei parenti dei sequestrati, l’attesa per la liberazione dalle carceri israeliane di centinaia di palestinesi tenuti in ostaggio e prigionieri estragiudiziali. E grande è il sollievo per il venir meno dello scandalo del nome di Israele associato alle efferatezze di Gaza, vero rovesciamento del comandamento: “non pronunziare il nome di Dio invano”.
La pace, per Israele sarebbe la salvezza, mentre la sua società è divisa, ed è in corso un esodo, una “migrazione al contrario” di molti Ebrei da quella Terra, e il mondo è attonito per ciò che è stato fatto a Gaza. fino all’ultimo, fino allo “scialo di morte” dell’ultima mezz’ora prima della tregua, che ha fatto ancora diciannove vittime.
E se le cose dovessero cambiare davvero, Ucraina compresa, l’evento della tregua di Gaza dimostrerebbe che anche un solo gesto di pace produce frutti, può contagiare il mondo, che “la speranza non delude”, come il Papa ha ripetuto ieri sera nella trasmissione di Fazio.
Con i più cordiali saluti,

Lo Scriba per “Prima loro”
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Appuntamenti da non perdere

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Efis martiri gloriosu in processioni in is arrugas de Stampaxi

Come è bella e commovente… importante la religiosità popolare.
img_0571img_0585E il Sindaco l’ha capito, giustamente! img_0574img_0567img_0593

Maria Luisa Secchi nuova direttrice dell’Ufficio Diocesano per le Comunicazioni Sociali. Il passaggio delle consegne di don Giulio Madeddu

img_0596Un passaggio di consegne in un abbraccio.
di Don Giulio Madeddu (su fb)
Oggi si conclude ufficialmente il mio servizio come direttore dell’Ufficio Diocesano per le Comunicazioni Sociali. È stato un cammino ricco di sfide, gioie e, inevitabilmente, qualche fatica, ma soprattutto di esperienze che hanno segnato profondamente la mia crescita personale.

Quale identità ebraica?

img_0472Ai mittenti e interlocutori della Lettera ai nostri contemporanei del popolo ebraico
Sabato 11 gennaio 2025
img_0473Cari Amici,
vi trasmettiamo un articolo uscito sull’organo di un Gruppo di studio ebraico di Torino, che reca una importante lettura di parte ebraica, diversa da quella corrente in Israele, della tragedia di Gaza. Ve la mandiamo non perché intendiamo farci giudici nel contrasto tra le due parti, o due “anime” dell’ebraismo, ma perché questo testo condivide l’idea che quanto accade “sconvolge” l’ebraismo e la percezione dell’identità ebraica, perché pone come cimento, per loro e per noi, “riparare il mondo”, e perché contiene informazioni sull’identità ebraica di grande interesse. Questo è il testo in questione:

DUE DIVERSI EBRAISMI?

MOSHE B

Dalla Prima Pagina di “Ha Keillah” (La comunità), organo del
Gruppo di Studi Ebraici di Torino, (Dic, 2024).

Lo scorso novembre, il ministro israeliano dell’edilizia abitativa e delle costruzioni Yitzchak Goldknopf, in quota Agudat Israel – un partito haredi, tradizionalmente non sionista – ha visitato le zone al confine con la Striscia di Gaza. Goldknopf era accompagnato nel suo tour dalla pasionaria dei coloni, Daniella Weiss, leader di Nachala (un’organizzazione estremista che promuove la colonizzazione della Cisgiordania), la quale da mesi fomenta per un reinsediamento ebraico nella Striscia, sostenendo che i palestinesi che vi abitano debbano essere cacciati perché “quella non è la loro terra”. Poche ore dopo su X Goldknopf, ha affermato che “L’insediamento ebraico a Gaza è la risposta al terribile massacro del 7 ottobre e ai mandati di arresto della Corte penale internazionale dell’Aia contro Bibi Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant”.
A molti di coloro che osservano sui media la distruzione e la catastrofe umanitaria che ha luogo a Gaza viene naturale chiedersi come qualcuno, oltre ad essere insensibile o indifferente su quanto accade, possa pensare che questa tragedia – unita a quella del 7 ottobre – sia un’occasione propizia per riconquistare un luogo ripulendolo dei suoi abitanti, causando così ulteriore sofferenza e odio. Ma ancora di più, sconvolge che tutto questo venga avanzato in nome dell’ebraismo e di una supposta identità ebraica.
I proclami della Weiss sono purtroppo soltanto una goccia nel mare in merito al distacco, che soprattutto negli ultimi mesi, abbiamo percepito tra i valori ebraici con i quali siamo cresciute/i, ammantati di umanesimo, rispetto all’ebraismo di certi individui, dove l’etno-nazionalismo, il fanatismo, la xenofobia e il militarismo prendono il sopravvento su tutto il resto. Per quanto siano emerse anche in Israele personalità ortodosse che hanno espresso preoccupazione o condanna per gli eventi in corso, continuiamo ad assistere a scene di coloni abbigliati con kippah e frange rituali che estirpano olivi, vessano famiglie e bruciano abitazioni in Cisgiordania o a vedere come, dall’inizio delle operazioni militari a Gaza, sia rabbini che soldati religiosi non abbiano scorto un evidente conflitto tra la loro fede e l’innumerevole perdita di civili che questa guerra sta causando. Ma anzi, molto più spesso hanno usato il proprio ebraismo o il pretesto della difesa del popolo ebraico a giustificazione delle loro azioni.
Il monito di fare attenzione a “non scatenare l’odio delle altre nazioni”, sul quale in riferimento alle politiche israeliane insistevano anche rabbini haredi contemporanei come Elazar Shach, in origine appartenente allo stesso partito di Goldknopf, e che compare persino nelle parlate giudaico-italiane con il detto di “non far gherush o non far galut” (non provocare il disprezzo e l’odio dei non ebrei) sembra non preoccupare più, il governo israeliano in primis.
A volte viene il dubbio se non sia la nostra idea di ebraismo errata o artefatta rispetto a quella propugnata da personaggi come Weiss e Ben Gvir. Come sappiamo, sono presenti vari episodi nella Torah o nei libri dei profeti, legati soprattutto alla conquista di Canaan o alle successive battaglie dei regni giudaici, talvolta interpretati come legittimazione all’uso della violenza e alla punizione collettiva nei confronti di altri popoli. Ad esempio, in Bamidbar (Numeri) 31 quando viene raccontata la guerra contro i madianiti: per vendicarsi dei madianiti che avevano provato a corrompere gli israeliti per condurli a praticare culti idolatrici, Moshe, nella guerra che ne conseguì, ordinò di ucciderli tutti, senza risparmiare né donne e né bambini e di saccheggiare le loro città. Non a caso, gli eventi bellici contro i cananei o gli amaleciti sono stati presi sovente a pretesto dai gruppi fondamentalisti ebraici per giustificare le azioni violente di uccisione o espulsione nei confronti degli arabi. Questi sarebbero, secondo tale narrativa, i moderni eredi di suddetti popoli, considerati “nemici inconciliabili degli ebrei” per i quali non ci sarebbe altra alternativa che l’uso della forza per espellerli dalla terra promessa. Anche dopo il 7 ottobre l’associazione tra palestinesi e Amalek è diventata un leitmotiv frequente nei circoli religiosi in Israele.
Questi episodi nell’ermeneutica rabbinica e mistica posteriore sono stati però più spesso riletti in chiave allegorica e simbolica, per cui tali popoli biblici simboleggerebbero piuttosto tentazioni presenti all’interno dell’individuo per sedurlo e allontanarlo dalla fede monoteistica, una sorta di jihad interiore. Il rabbino smirniota Haim Palachi, vissuto nel XIX secolo, scriveva che gli ebrei non possono più distinguere gli amaleciti “attuali” dalle altre persone, così il comandamento di ucciderli non potrebbe mai essere praticamente applicato. Più in generale, come scrive Michael Walzer, riprendendo un concetto rabbinico, le guerre presenti nella Torah “sono comandate o guidate” direttamente da D.o. Mentre nella narrazione biblica la Shekinah, la presenza di D.o è costante, lo stesso non si potrebbe affermare in merito alle guerre condotte nella contemporaneità, nelle quali, anche secondo speculazioni cabalistiche, nel mondo D.o è in qualche modo eclissato.
Non di meno, è onnipresente all’interno del Tanakh (Bibbia ebraica) l’impegno a perseguire la giustizia, “tzedek, tzedek tirdof” (la giustizia, la giustizia seguirai) come è scritto in Devarim (Deuteronomio), a proteggere lo straniero, ad amare il prossimo – “non fare agli altri, ciò che è odioso per te: questa è tutta la Torah” come affermava Hillel il vecchio – al Tiqqun ‘Olam, ovvero a riparare il mondo, all’essere “luce delle nazioni” come in Isaia, un popolo quindi di “sacerdoti modello per gli altri popoli”. Altri episodi biblici, come l’episodio del vitello d’oro raccontato in Shemot
(Esodo), potrebbero essere letti altresì come un monito a tenersi al riparo dalle ideologie materiali e dagli sciovinismi che cercano di distogliere l’essere umano dalla verità e dal messaggio divino. È esplicativa la dura critica all’interno del Talmud nei confronti degli zeloti e dei sicarii, i quali sono persino accusati di aver contribuito alla distruzione di Gerusalemme e alla caduta del secondo Tempio. Essi, insieme alla legge mosaica, seguivano un militarismo e patriottismo cieco: difficile non intravedere in loro degli antesignani degli attuali nazionalisti-religiosi.
Nei Pirkei Avoth (Massime dei Padri) è scritto “La spada viene al mondo per il ritardo del giudizio e per la perversione del giudizio” e negli Avoth de- Rabbi Nathan “chi causa la morte di un solo uomo dev’essere considerato come se avesse causato la distruzione del mondo intero”. Il Rambam (Maimonide) affermava che “è meglio e più soddisfacente assolvere mille persone colpevoli che mettere a morte una sola innocente”, e il Maharal di Praga, continuava sostenendo che “la legge ebraica vieta l’uccisione di persone innocenti, anche nel corso di un legittimo impegno militare”. Il codice morale di Tsahal, in particolare il concetto di Tohar HaNeshek (“purezza delle armi”), si basa in parte anche sugli insegnamenti dell’etica ebraica, richiedendo esplicitamente ai soldati di “mantenere la propria umanità anche in combattimento e di non danneggiare i non combattenti”. Tuttavia, nella guerra in corso soprattutto, questo principio sembra essere stato ulteriormente abbandonato, come dimostrerebbero le numerose testimonianze di crimini di guerra e uccisioni deliberate di civili. Tra queste accuse, si sono aggiunte recentemente anche le parole dell’ex ministro Moshe Ya’alon, già esponente del Likud, secondo il quale l’esercito israeliano è impegnato in azioni di pulizia etnica nel nord della Striscia.
Tutte le culture religiose, anche quelle apparentemente più universaliste e lontane da un messaggio violento, non sono state in realtà immuni dal far nascere al loro interno fanatismo e disprezzo per l’altro. Molto spesso ciò è appunto legato a un problema di ermeneutica e di interpretazione più o meno letterale dei testi, ma a questo si accompagnano ovviamente anche la psicologia, la mentalità e la storia umana, i conflitti e i drammi vissuti da ciascun popolo.
Se una lettura più sciovinista dei testi sacri è diventata oggi preponderante rispetto a un’altra più umanistica, ciò è quindi anche a causa dello Zeitgeist, dello spirito di questi tempi, della direzione che ha preso o sta prendendo l’umanità. L’essere umano cerca di trovare nei testi religiosi sempre qualcosa che giustifichi la propria condotta morale o i propri scopi mondani e politici.
Friedrich Nietzsche scriveva in “Al di là del bene e del male” (1886) “chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare lui stesso un mostro. E se tu guarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te”. Una massima sempre degli Avoth gli fa eco “In un luogo dove non ci sono umani, sforzati di essere umano”, questo forse è ciò che davvero può distinguere l’ebrea/o in quest’epoca, attingendo alla propria eredità di popolo perseguitato e più volte escluso. Un’eredità che non si limita ai personaggi biblici, ma include tutte/i coloro che, nel corso della storia, sono riuscite/i a porsi al di là del tempo presente nel tentativo di rivoluzionare e riparare il mondo. In occasione della prossima festa di Hanukkah, credo che dovremmo proprio ricercare dentro di noi quella fiammella di ragione e lucidità capace di illuminarci, aiutandoci a non smarrirsi né a brancolare nell’oscurità che ci circonda.
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Fin qui gli Ebrei di Torino. Segnaliamo anche un articolo, che si può leggere cliccando qui, sul perché Trump si vuole prendere Panama.
Con i più cordiali saluti,

Lo Scriba per “Prima loro”
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Prima Loro

img_0455img_0450Ai mittenti e interlocutori della Lettera ai nostri contemporanei del popolo ebraico
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Mercoledì 8 gennaio 2025
Cari Amici,
vi giunge questa lettera dall’indirizzo mail “Come loro”, e non più dall’indirizzo “notizie da Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” che abbiamo usato provvisoriamente fin qui data l’urgenza di inviare la newsletter contemporaneamente a molti destinatari. Abbiamo istituito questo nuovo indirizzo per le ragioni chiarite più avanti.
Come era prevedibile la “guerra” di Gaza, ora anche con le letali minacce di Trump, sta portando conseguenze devastanti sul dialogo ebraico-cristiano e più in generale sul rapporto del popolo di Israele con gli altri popoli del mondo. L’interlocuzione tra tanti di noi, anche assai autorevoli, e i membri delle comunità ebraiche italiane, che si era avviato dopo l’invio, il 27 novembre scorso, di una lettera ai “nostri contemporanei del popolo ebraico” (era aggiunto “della diaspora” ma era una delimitazione sbagliata), si è interrotto dopo le prime sollecite risposte delle Comunità di Napoli e Bologna, dopo di allora nessuna comunità ci ha dato più riscontro, come se fosse intervenuta una decisione centrale di non accettare lo scambio; inoltre un incontro promosso da Amnesty International all’Ateneo di Venezia sul pericolo di un genocidio, oggetto del monito della Corte penale internazionale, è stato considerato odioso, mentre la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, è giunta a dire che una nuova visita del Papa alla sinagoga di Roma non sarebbe gradita. Si è profilato così il rischio del venir meno di ogni possibilità di correlarsi giustamente degli uni con gli altri.
A questo punto, non trattandosi fra questi soggetti di un rapporto tra nemici, nasce un problema che non è più solo quello del rapporto del popolo ebraico con i suoi amici e nemici, ma è il problema del rapporto di ciascun popolo con ogni altro popolo, di ogni religione con ogni altra religione, di ogni Stato con ogni altro Stato; rapporti che infatti oggi, nella tragica situazione mondiale sono giunti al limite di un possibile suicidio della specie (nel caso particolare, img_0452“Il suicidio di Israele” è il titolo di un libro di Anna Foa). E l’Europa, proprio lei, è la prima a correre verso l’abisso compromettendo la sua stessa unità.
Dunque ci vuole un salto di qualità. Non una piccola riforma interna a una situazione che non muta, ci vuole un rovesciamento. Ma rovesciare che cosa? Occorre un rovesciamento del primato del sé che ciascuno rivendica rispetto a tutti gli altri. Giusto è il tributo reso alla propria identità, ma è distruttiva l’adorazione di se stessi, il ritenersi i primi o gli unici di cui soddisfare i bisogni o adempiere le pretese, il considerarsi superiori o alternativi agli altri, il pensarsi detentori di doni esclusivi, o investiti di compiti o missioni insostituibili, che generano santi, vittime o oppressori. In questa sindrome rientrano le ideologie del “prima noi”, che vuol dire gli altri fungibili: come scriveva Herbert Spencer, nella sua “Military and industrial society”, se gli uomini sono in grado di vivere, è giusto che vivano, se non sono in grado di vivere, che muoiano.
L’ideologia di “prima l’America”, “America first”, non è solo di Trump ma di tutti i governi americani i quali scrivono nei documenti sulla sicurezza degli Stati Uniti che essi non devono avere nessun altra Potenza superiore a sé, ma nemmeno eguale a sé; così è il proclama di Salvini, “prima l’Italia”, prima la Nazione, o la “patria”, e i migranti abbandonati al mare.
Nel caso di Israele, e non solo di Netanyahu, il problema c’è, e forse determinante, quale si manifesta nella versione sionista, e quindi è attuale e moderno; ma non è insolubile perché il sionismo non è l’ebraismo realizzato, nella sua forma politica oggi vigente. Perciò la confessione ebraica è suscettibile di un “aggiornamento”, come con parola riduttiva si disse della Chiesa all’inizio del Concilio Vaticano II. La Scrittura, cioè la Legge e i Profeti, che è la madre della fede ebraica, è sempre capace di essere compresa e attuata in modo più fedele e salvifico nella inesausta interpretazione e lettura che se ne può fare nel tempo, ciò di cui proprio gli Ebrei, con i loro midrashim sono maestri (per non parlare, in campo cristiano, di Gregorio Magno con il suo “Divina eloquia cum legente crescunt”). Così è stato per la Chiesa cattolica che ha rischiato di essere travolta dalla modernità (“Agonia della Chiesa?” nelle parole del cardinale Suhard!) e nella quale il regime costantiniano, la Cristianità, gli Stati pontifici non sono stati il cristianesimo realizzato ma le forme anche ingiuste e spesso persecutorie felicemente licenziate solo nel XX secolo, dopo una guerra mai vista prima, con il Concilio imprevedibilmente convocato da Papa Giovanni e ora con papa Francesco e i suoi Sinodi. Questa è stata la “conversione” della Chiesa che non ha voluto dire disperdersi nella modernità, né voler “convertire” o assorbire altre confessioni e identità religiose, ma resuscitare la sua figura e il suo ruolo nella comunità dei popoli.
Noi comprendiamo la vertigine del popolo ebraico che rivive sempre l’evento tramandato come fondativo, l’evento folgorante del Sinai, dopo l’uscita dall’Egitto, non come evento del passato, ma come se fosse di oggi. C’è nella nostra memoria una parola illuminante del rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, a un incontro ecumenico di Napoli, che disse come gli Ebrei vivano la liberazione dei loro padri dall’Egitto come se fosse la loro liberazione personale e attuale di oggi, e così ovviamente l’evento del mandato divino e la promessa consegnata sul Sinai; ed era un compito da tremare, un fatto unico quello di dare la legge a tutti.
Ora è chiaro che questa esperienza religiosa non può essere trasposta come tale sul piano politico, e usata come legittimazione dell’operato di un governo e di uno Stato, come accade sotto la spinta dei partiti religiosi ed è avanzata dallo stesso Netanyahu nel suo discorso all’Onu, citando Mosè alle porte della terra promessa, ossia della Palestina di oggi. Perché qui c’è il nodo del rapporto tra Israele e le Nazioni, della contrapposizione con i popoli alieni, fino a volerli sottrarre alla vista. Di qui la “solitudine” di Israele, il sentirsi separato ma perciò anche unico fra tutti, l’idea che
ciò che accade al popolo ebraico sia imparagonabile con qualsiasi altro evento, fino al terrorismo e all’olocausto, la condizione di vittima e la convinzione che l’antisemitismo non sia finito, ma la causa di ogni opposizione o critica a Israele. E in risposta la rottura con gli altri, le inimicizie irrevocabili, l’ostracismo nei confronti degli organismi internazionali e dell’ONU, la Carta dell’Onu stracciata di fronte alla comunità delle Nazioni.
Tuttavia l’ebraismo ha tutti i carismi e le potenzialità per la rivisitazione dei tesori della propria tradizione, e per quel rinnovamento che i tempi richiedono.
Ma, dal particolare all’universale, l’atroce sofferenza che gran parte dei nostri simili nel mondo intero sta soffrendo, sotto l’egida dell’individualismo e della competizione, pongono alla coscienza di tutti noi, alle nostre culture e alle nostre fedi l’esigenza di quel rovesciamento che ci può far uscire dalla crisi: passare dal culto di se stessi, dall’autolatria che rompe l’unità umana, alla scelta non solo di essere “come gli altri”, ma di mettere avanti l’altro – il migrante, il povero, lo scartato, il minore, il palestinese: non “prima noi”, ma “prima loro”. Non è facile, occorre resettare la vita e la società.
Con i piu cordiali saluti,

Lo Scriba per “Prima loro”

P.S. A “Prima loro” sarà anche intitolato un sito. Chi, per qualsiasi ragione, non volesse più ricevere queste newsletters, lo segnali a questo indirizzo del mittente. Chiunque egualmente può chiedere di riceverle.
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- Raniero La Valle
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Intelligenza Artificiale (IA): realtà, rischi e potenzialità.

img_0089 Con l’intervento che segue, di Franco Manca, proseguiamo nella ripubblicazione di saggi contenuti nel Dossier Caritas 2024, avviata di recente con quello di Franco Meloni, successivamente con quello di Gianni Loy.
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L’intelligenza artificiale alla luce della Carità
di Franco Manca
Che cos’è l’intelligenza artificiale?
L’intelligenza artificiale (Ia) è un campo dell’informatica che si occupa di creare sistemi in grado di svolgere compiti che tipicamente richiedono l’intelligenza umana. In essenza, l’Ia è la capacità di macchine o programmi informatici di imitare funzioni cognitive umane come l’apprendimento, la risoluzione di problemi e il ragionamento.
«Affinché il deep learning funzioni bene, sono richiesti i requisiti che seguono: enormi quantità di dati significativi, un ambito ristretto e una funzione obiettivo da ottimizzare»1

Pace nel Mondo. Il messaggio di Papa Francesco

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MESSAGGIO
DI SUA SANTITÀ
FRANCESCO
PER LA LVIII
GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1° GENNAIO 2025

Rimetti a noi i nostri debiti, concedici la tua pace

I. In ascolto del grido dell’umanità minacciata

1. All’alba di questo nuovo anno donatoci dal Padre celeste, tempo Giubilare dedicato alla speranza, rivolgo il mio più sincero augurio di pace ad ogni donna e uomo, in particolare a chi si sente prostrato dalla propria condizione esistenziale, condannato dai propri errori, schiacciato dal giudizio altrui e non riesce a scorgere più alcuna prospettiva per la propria vita. A tutti voi speranza e pace, perché questo è un Anno di Grazia, che proviene dal Cuore del Redentore!

2. Nel 2025 la Chiesa Cattolica celebra il Giubileo, evento che riempie i cuori di speranza. Il “giubileo” risale a un’antica tradizione giudaica, quando il suono di un corno di ariete (in ebraico yobel) ogni quarantanove anni ne annunciava uno di clemenza e liberazione per tutto il popolo (cfr Lv 25,10). Questo solenne appello doveva idealmente riecheggiare per tutto il mondo (cfr Lv 25,9), per ristabilire la giustizia di Dio in diversi ambiti della vita: nell’uso della terra, nel possesso dei beni, nella relazione con il prossimo, soprattutto nei confronti dei più poveri e di chi era caduto in disgrazia. Il suono del corno ricordava a tutto il popolo, a chi era ricco e a chi si era impoverito, che nessuna persona viene al mondo per essere oppressa: siamo fratelli e sorelle, figli dello stesso Padre, nati per essere liberi secondo la volontà del Signore (cfr Lv 25,17.25.43.46.55).

3. Anche oggi, il Giubileo è un evento che ci spinge a ricercare la giustizia liberante di Dio su tutta la terra. Al posto del corno, all’inizio di quest’Anno di Grazia, noi vorremmo metterci in ascolto del «grido disperato di aiuto» [1] che, come la voce del sangue di Abele il giusto, si leva da più parti della terra (cfr Gen 4,10) e che Dio non smette mai di ascoltare. A nostra volta ci sentiamo chiamati a farci voce di tante situazioni di sfruttamento della terra e di oppressione del prossimo [2]. Tali ingiustizie assumono a volte l’aspetto di quelle che S. Giovanni Paolo II definì «strutture di peccato» [3], poiché non sono dovute soltanto all’iniquità di alcuni, ma si sono per così dire consolidate e si reggono su una complicità estesa.

4. Ciascuno di noi deve sentirsi in qualche modo responsabile della devastazione a cui è sottoposta la nostra casa comune, a partire da quelle azioni che, anche solo indirettamente, alimentano i conflitti che stanno flagellando l’umanità. Si fomentano e si intrecciano, così, sfide sistemiche, distinte ma interconnesse, che affliggono il nostro pianeta [4]. Mi riferisco, in particolare, alle disparità di ogni sorta, al trattamento disumano riservato alle persone migranti, al degrado ambientale, alla confusione colpevolmente generata dalla disinformazione, al rigetto di ogni tipo di dialogo, ai cospicui finanziamenti dell’industria militare. Sono tutti fattori di una concreta minaccia per l’esistenza dell’intera umanità. All’inizio di quest’anno, pertanto, vogliamo metterci in ascolto di questo grido dell’umanità per sentirci chiamati, tutti, insieme e personalmente, a rompere le catene dell’ingiustizia per proclamare la giustizia di Dio. Non potrà bastare qualche episodico atto di filantropia. Occorrono, invece, cambiamenti culturali e strutturali, perché avvenga anche un cambiamento duraturo [5].

II. Un cambiamento culturale: siamo tutti debitori

5. L’evento giubilare ci invita a intraprendere diversi cambiamenti, per affrontare l’attuale condizione di ingiustizia e diseguaglianza, ricordandoci che i beni della terra sono destinati non solo ad alcuni privilegiati, ma a tutti [6]. Può essere utile ricordare quanto scriveva S. Basilio di Cesarea: «Ma quali cose, dimmi, sono tue? Da dove le hai prese per inserirle nella tua vita? […] Non sei uscito totalmente nudo dal ventre di tua madre? Non ritornerai, di nuovo, nudo nella terra? Da dove ti proviene quello che hai adesso? Se tu dicessi che ti deriva dal caso, negheresti Dio, non riconoscendo il Creatore e non saresti riconoscente al Donatore» [7]. Quando la gratitudine viene meno, l’uomo non riconosce più i doni di Dio. Nella sua misericordia infinita, però, il Signore non abbandona gli uomini che peccano contro di Lui: conferma piuttosto il dono della vita con il perdono della salvezza, offerto a tutti mediante Gesù Cristo. Perciò, insegnandoci il “Padre nostro”, Gesù ci invita a chiedere: «Rimetti a noi i nostri debiti» ( Mt 6,12).

6. Quando una persona ignora il proprio legame con il Padre, incomincia a covare il pensiero che le relazioni con gli altri possano essere governate da una logica di sfruttamento, dove il più forte pretende di avere il diritto di prevaricare sul più debole [8]. Come le élites ai tempi di Gesù, che approfittavano delle sofferenze dei più poveri, così oggi nel villaggio globale interconnesso [9], il sistema internazionale, se non è alimentato da logiche di solidarietà e di interdipendenza, genera ingiustizie, esacerbate dalla corruzione, che intrappolano i Paesi poveri. La logica dello sfruttamento del debitore descrive sinteticamente anche l’attuale “crisi del debito”, che affligge diversi Paesi, soprattutto del Sud del mondo.

7. Non mi stanco di ripetere che il debito estero è diventato uno strumento di controllo, attraverso il quale alcuni governi e istituzioni finanziarie private dei Paesi più ricchi non si fanno scrupolo di sfruttare in modo indiscriminato le risorse umane e naturali dei Paesi più poveri, pur di soddisfare le esigenze dei propri mercati [10]. A ciò si aggiunga che diverse popolazioni, già gravate dal debito internazionale, si trovano costrette a portare anche il peso del debito ecologico dei Paesi più sviluppati [11]. Il debito ecologico e il debito estero sono due facce di una stessa medaglia, di questa logica di sfruttamento, che culmina nella crisi del debito [12]. Prendendo spunto da quest’anno giubilare, invito la comunità internazionale a intraprendere azioni di condono del debito estero, riconoscendo l’esistenza di un debito ecologico tra il Nord e il Sud del mondo. È un appello alla solidarietà, ma soprattutto alla giustizia [13].

8. Il cambiamento culturale e strutturale per superare questa crisi avverrà quando ci riconosceremo finalmente tutti figli del Padre e, davanti a Lui, ci confesseremo tutti debitori, ma anche tutti necessari l’uno all’altro, secondo una logica di responsabilità condivisa e diversificata. Potremo scoprire «una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri» [14].

III. Un cammino di speranza: tre azioni possibili

9. Se ci lasciamo toccare il cuore da questi cambiamenti necessari, l’Anno di Grazia del Giubileo potrà riaprire la via della speranza per ciascuno di noi. La speranza nasce dall’esperienza della misericordia di Dio, che è sempre illimitata [15].

Dio, che non deve nulla a nessuno, continua a elargire senza sosta grazia e misericordia a tutti gli uomini. Isacco di Ninive, un Padre della Chiesa orientale del VII secolo, scriveva: «Il tuo amore è più grande dei miei debiti. Poca cosa sono le onde del mare rispetto al numero dei miei peccati, ma se pesiamo i miei peccati, in confronto al tuo amore, svaniscono come un nulla» [16]. Dio non calcola il male commesso dall’uomo, ma è immensamente «ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato» ( Ef 2,4). Al tempo stesso, ascolta il grido dei poveri e della terra. Basterebbe fermarsi un attimo, all’inizio di quest’anno, e pensare alla grazia con cui ogni volta perdona i nostri peccati e condona ogni nostro debito, perché il nostro cuore sia inondato dalla speranza e dalla pace.

10. Gesù, per questo, nella preghiera del “Padre nostro”, pone l’affermazione molto esigente «come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» dopo che abbiamo chiesto al Padre la remissione dei nostri debiti (cfr Mt 6,12). Per rimettere un debito agli altri e dare loro speranza occorre, infatti, che la propria vita sia piena di quella stessa speranza che giunge dalla misericordia di Dio. La speranza è sovrabbondante nella generosità, priva di calcoli, non fa i conti in tasca ai debitori, non si preoccupa del proprio guadagno, ma ha di mira solo uno scopo: rialzare chi è caduto, fasciare i cuori spezzati, liberare da ogni forma di schiavitù.

11. Vorrei, pertanto, all’inizio di quest’Anno di Grazia, suggerire tre azioni che possano ridare dignità alla vita di intere popolazioni e rimetterle in cammino sulla via della speranza, affinché si superi la crisi del debito e tutti possano ritornare a riconoscersi debitori perdonati.

Anzitutto, riprendo l’appello lanciato da S. Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo dell’anno 2000, di pensare a una «consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che pesa sul destino di molte Nazioni» [17]. Riconoscendo il debito ecologico, i Paesi più benestanti si sentano chiamati a far di tutto per condonare i debiti di quei Paesi che non sono nella condizione di ripagare quanto devono. Certamente, perché non si tratti di un atto isolato di beneficenza, che rischia poi di innescare nuovamente un circolo vizioso di finanziamento-debito, occorre, nello stesso tempo, lo sviluppo di una nuova architettura finanziaria, che porti alla creazione di una Carta finanziaria globale, fondata sulla solidarietà e sull’armonia tra i popoli.

Inoltre, chiedo un impegno fermo a promuovere il rispetto della dignità della vita umana, dal concepimento alla morte naturale, perché ogni persona possa amare la propria vita e guardare con speranza al futuro, desiderando lo sviluppo e la felicità per sé e per i propri figli. Senza speranza nella vita, infatti, è difficile che sorga nel cuore dei più giovani il desiderio di generare altre vite. Qui, in particolare, vorrei ancora una volta invitare a un gesto concreto che possa favorire la cultura della vita. Mi riferisco all’eliminazione della pena di morte in tutte le Nazioni. Questo provvedimento, infatti, oltre a compromettere l’inviolabilità della vita, annienta ogni speranza umana di perdono e di rinnovamento [18].

Oso anche rilanciare un altro appello, richiamandomi a S. Paolo VI e a Benedetto XVI [19], per le giovani generazioni, in questo tempo segnato dalle guerre: utilizziamo almeno una percentuale fissa del denaro impiegato negli armamenti per la costituzione di un Fondo mondiale che elimini definitivamente la fame e faciliti nei Paesi più poveri attività educative e volte a promuovere lo sviluppo sostenibile, contrastando il cambiamento climatico [20]. Dovremmo cercare di eliminare ogni pretesto che possa spingere i giovani a immaginare il proprio futuro senza speranza, oppure come attesa di vendicare il sangue dei propri cari. Il futuro è un dono per andare oltre gli errori del passato, per costruire nuovi cammini di pace.

IV. La meta della pace

12. Coloro che intraprenderanno, attraverso i gesti suggeriti, il cammino della speranza potranno vedere sempre più vicina la tanto agognata meta della pace. Il Salmista ci conferma in questa promessa: quando «amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» ( Sal 85,11). Quando mi spoglio dell’arma del credito e ridono la via della speranza a una sorella o a un fratello, contribuisco al ristabilimento della giustizia di Dio su questa terra e mi incammino con quella persona verso la meta della pace. Come diceva S. Giovanni XXIII, la vera pace potrà nascere solo da un cuore disarmato dall’ansia e dalla paura della guerra [21].

13. Che il 2025 sia un anno in cui cresca la pace! Quella pace vera e duratura, che non si ferma ai cavilli dei contratti o ai tavoli dei compromessi umani [22]. Cerchiamo la pace vera, che viene donata da Dio a un cuore disarmato: un cuore che non si impunta a calcolare ciò che è mio e ciò che è tuo; un cuore che scioglie l’egoismo nella prontezza ad andare incontro agli altri; un cuore che non esita a riconoscersi debitore nei confronti di Dio e per questo è pronto a rimettere i debiti che opprimono il prossimo; un cuore che supera lo sconforto per il futuro con la speranza che ogni persona è una risorsa per questo mondo.

14. Il disarmo del cuore è un gesto che coinvolge tutti, dai primi agli ultimi, dai piccoli ai grandi, dai ricchi ai poveri. A volte, basta qualcosa di semplice come «un sorriso, un gesto di amicizia, uno sguardo fraterno, un ascolto sincero, un servizio gratuito» [23]. Con questi piccoli- grandi gesti, ci avviciniamo alla meta della pace e vi arriveremo più in fretta, quanto più, lungo il cammino accanto ai fratelli e sorelle ritrovati, ci scopriremo già cambiati rispetto a come eravamo partiti. Infatti, la pace non giunge solo con la fine della guerra, ma con l’inizio di un nuovo mondo, un mondo in cui ci scopriamo diversi, più uniti e più fratelli rispetto a quanto avremmo immaginato.

15. Concedici, la tua pace, Signore! È questa la preghiera che elevo a Dio, mentre rivolgo gli auguri per il nuovo anno ai Capi di Stato e di Governo, ai Responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai Leader delle diverse religioni, ad ogni persona di buona volontà.

Rimetti a noi i nostri debiti, Signore,
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e in questo circolo di perdono concedici la tua pace,
quella pace che solo Tu puoi donare
a chi si lascia disarmare il cuore,
a chi con speranza vuole rimettere i debiti ai propri fratelli,
a chi senza timore confessa di essere tuo debitore,
a chi non resta sordo al grido dei più poveri.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2024

FRANCESCO

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[1] Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025 (9 maggio 2024), 8.
[2] Cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 51.

[3] Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 36.

[4] Cfr Discorso ai partecipanti all’Incontro promosso dalle Pontificie Accademie delle Scienze e delle Scienze Sociali, 16 maggio 2024.

[5] Cfr Esort. ap. Laudate Deum (4 ottobre 2023), 70.

[6] Cfr Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025 (9 maggio 2024), 16.

[7] Homilia de avaritia, 7: PG 31, 275.

[8] Cfr Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 123.

[9] Cfr Catechesi, 2 settembre 2020: L’Osservatore Romano, 3 settembre 2020, p. 8.

[10] Cfr Discorso ai partecipanti all’Incontro “Debt Crisis in the Global South”, 5 giugno 2024.

[11] Cfr Discorso alla Conferenza degli Stati parte alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 28), 2 dicembre 2023.

[12] Cfr Discorso ai partecipanti all’Incontro “Debt Crisis in the Global South”, 5 giugno 2024.

[13] Cfr Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025 (9 maggio 2024), 16.

[14] Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 35.

[15] Cfr Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025 (9 maggio 2024), 23.

[16] Discorso X (Terza collezione), Preghiera con cui i solitari si intrattengono, 100-101: CSCO 638, 115. S. Agostino arriva persino ad affermare che Dio non smette di farsi debitore dell’uomo: «Poiché “nei secoli è la tua misericordia”, ti degni con le tue promesse di diventare debitore di coloro ai quali rimetti tutti i debiti» (cfr Confessiones, 5,9,17: PL 32, 714).

[17] Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 51.

[18] Cfr Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025 (9 maggio 2024), 10.

[19] Cfr S. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 51; Benedetto XVI, Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 9 gennaio 2006; Id., Esort. ap. postsin. Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007), 90.

[20] Cfr Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 262; Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 8 gennaio 2024; Discorso alla Conferenza degli Stati parte alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 28), 2 dicembre 2023.

[21] Cfr Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), 61.

[22] Cfr Momento di preghiera nel decennale dell’“Invocazione per la pace in Terra Santa”, 7 giugno 2024.

[23] Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025 (9 maggio 2024), 18.
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“Deus ti salvet Maria, chi ses de gratzias piena”

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S’Ave Maria Sarda
de Gigi Sotgiu

In Sardigna tenimos una tradissione manna de religiosidade populare chi agattamos in medas manifestatziones de devossione: Rosarios, Gosos e Goccius, cantigos de Cunfrarias po sa Chida Santa. Su cantigu massimamente prus connottu este cussu chi cuminzat cun sas paraulas “Deus ti salvet Maria, chi ses de gratzias piena”, chi s’este ispaniadu meda finzas a fora de sa devossione religiosa e a fora de sa Sardigna. Custa cantone est diventada unu simbulu de identidade sarda ed est connotta comente S’Ave Maria Sarda. Su Coro de Casteddu, chi hat organizzau custu attobiu, bo la cherede faghere connoschere menzus.
Sas paraulas de su Deus ti salvet Maria las attobiamos po sa primma borta a sa fine de su seculu 1600, iscrittas in italianu da unu Gesuita, forzis Padre Innocenzi, cun su titulu “Ave Maria”. Sos padres Gesuitas aian ammaniadu sas Missiones populares, ghiraian tottu sa Sardigna pro s’evangelizatzione e impittaian fintzas sos catechismos in versos. Su primmu testu chi cumparidi in limba sarda est sa bortadura de s’Ave Maria de sos Gesuitas in sardu logudoresu e l’agattamos a intro de su Rosariu de San Vero Milis de su 1731; da cussu momentu tottu sas Cunfrarias hant cumintzau a lu impittare. No ischimos chie at fattu sa bortadura in sardu ma sos missionarios hant ispaniadu custu cantigu in tottu sas partes de sa Sardigna. In sos annos intro sa fine de su 1700 e su cumintzu de su 1800 sunt bessidas duas bortadas in sardu campidanesu in Casteddu e in Quartu Sant’Aleni. Su Deus ti salvet Maria assimizzaiada meda a sas Laudes ispirituales, chi fuint iscrittas cun limbazzu semprice e fazile a intonare.
Po tottu su 1800 e su cumintzu de su 1900 tenimos provas iscrittas chi su Deus ti Salvet fuit connottu e cantadu in totta sa Sardigna ma no ischimos nudda de comente su cantigu beniada intonau e ancora prus pagu de comente fuit iscritta sa musica. Una furriada manna benit in su 1927 cando in Cuglieri benit apertu su Seminariu regionale cun sa Facultade Teologica inue, sos zovanos chi arribaian dae totta sa Sardigna, benian istruidos po diventare predis. Su Gesuita piemontesu Paolo Gamba hat insegnau musica in su Seminariu e fattu su Direttore de sa Schola Cantorum, s’iscola de sos cantores, dae su 1958 a su1970 e hat fattu chircas importantes subra de sa musica religiosa de tradissione sarda. Padre Gamba, cando ch’este torrau in continente, c’hat pigau tottu cussos documentos e sos ultimos annos de vida, los hat passados ind’unu collegiu in Cuneo. Custu archiviu, de importu mannu po sos istudiosos, chi fuit in Cuneo, appustis de azzumai 50 annos, est torrau in Sardigna gratzias a s’impignu de duos cuglieridanos chi aiana muntenniu s’amistade cun Padre Gamba e sunu andaos apposta a Cuneo a lu chircare.

In mesu a sos documentos de padre Gamba bi fuit puru una cartolina, fatta in su Seminariu de Cuglieri in su 1930, inue bi sunu totucantas sas paraulas de Deus ti Salvet Maria cun sa definissione “Su cantu de S’Ave Maria in sardu”. Imparis a sas paraulas b’hat puru unu ispartiu musicale po coro a tres boghes. Cherzo ammentare chi po sa prima borta agattamos iscritta una melodia de su cantigu Deus ti Salvet Maria. Cussa melodia, naschida in su seminariu de Cuglieri, da assora si imponet subra atteras chi esistiana in Sardigna e divèntada a sa fine su modellu unicu chi finzas oe este connoschiu e impreau da chie la cantada.
Custu cantigu, partidu dae su Seminariu de Cuglieri, po mesu de sos seminaristas este arribadu finzas a sas biddigheddas prus isperdias, a sas parrocchias, sas cunfrarias e sas associaziones cattolicas. Sos predis, bene formados a sa musica in Cuglieri, dae su 1930 a innantis ant diffundiu medas cantones e, in cussos annos, sunu naschidos finzas medas coros polifonicos.
Dae assora su Deus ti Salvet incuminzada a essere cantau dae cantores a battoro boghes (a cuncordu, a tenore, a tragiu e ateros) comente cantu de devossione ma fintzas in ateros momentos de disvagu; cun su tempus incuminzana a bessire discos e musicassettas e custu cantigu est diventadu unu simbulu de identidade sarda. In su 1950 in Nugòro cuminzana a naschere coros de boghes de omines, custu modu de cantare appustis benidi nomenadu “iscola nugoresa” de cantu. Su primmu coro nugoresu cantaiada su Deus ti Salvet Maria cun sa musica a battoro boghes ammaniada dae Banneddu Ruju. Toccada a ammentare puru chi, in cussos annos, in Nugòro si cantaiada una vortada de brulla, “Sa fide la professo”, prus connotta comente Tzia Tatana, unu innu a sos piagheres de su binu iscritta da Mastru Predischedda subra de sa melodia de Deus ti Salvet Maria. De assora a oe non b’hat coro in Sardigna, sian omines o feminas, chi non cantet custa cantone.
A dies de oe s’Ave Maria sarda este bistada cantada dae sos artistas sardos prus mannos, donzunu a modu sou. Sa primma a la cantare este bistada Maria Carta chi, in su 1971, l’hat cantada accumpanzada da unu mastru de organu; Andrea Parodi, in su 1986 l’hat cantada cun unu coro tattaresu. In su 1971 Elena Ledda l’hat cantada accumpanzada dae sa trumba de Paolo Fresu; Clara Murtas, in su 2002, l’hat cantada cun s’orchestra de su Mastru Ennio Morricone. Finzas Fabrizio de André hat creffiu cantare s’Ave Maria sarda, a modu sou.
Marco Lutzu, unu istudiosu de musica sarda de s’universidade de Casteddu, cun ateros istudiosos, a custu cantigu hat impreau unu libru intreu, pubbricau in su 2020.
Casteddu, 14 de su mese de Nadale
(Gigi Sotgiu)
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Dossier Caritas 2024. Riflessioni sapienziali. Articolo di Franco Meloni.

img_0098Pace e guerra: invochiamo Dio che ci salvi, ma la responsabilità per conquistare la Pace spetta all’umanità intera, a partire dai potenti della Terra che governano gli Stati. La Speranza ci aiuterà, come invoca il Giubileo. Che fare come cristiani o semplicemente come uomini e donne pensanti, credenti e non credenti?
di Franco Meloni, giornalista, volontario Caritas.

img_9223Prima di svolgere il tema affidatomi: pace e guerra oggi, ho riletto il pregevole articolo di don Luigi Castangia, nel nostro Dossier dello scorso anno, sul medesimo argomento [1]. Non è un tema facile, avverte don Luigi: “La pace non è semplice assenza di conflitti personali e sociali (…) essa non è solo il contrario della guerra, né tanto meno il frutto di quest’ultima”. Ricorre alla Bibbia per trovare una giusta definizione, cita i profeti per affermare che non esiste pace senza la giustizia e precisa: “Non esiste pace senza un radicale cambiamento di sé, che nel linguaggio biblico è detto conversione: processo nel quale l’uomo rimette in discussione la propria vita e il modo di ragionare in virtù di un bene più grande”. Se la pace non è ridotta a ideologia, essa deve includere tutto ciò che è umano e in primo luogo il rispetto dei diritti, attribuendo a ciascuno quanto gli è dovuto. E per delineare il nostro compito di cristiani: “Il coraggio della pace è possibile fino in fondo solo guardando a un’umanità in cui ciò sia compiuto pienamente. Non con le armi, non con il potere politico, non con grandi mezzi, né imponendosi, Cristo ha vinto il mondo amandolo. (…) Cristo è la nostra pace ed è la via, la verità, la vita, perché insegna a guardare il mondo col realismo di chi sa che la ricerca di pace esige il coraggio della verità e della giustizia, mai disgiunta dalla misericordia”. Il cristiano non è un “pacifista ideologico”. È un costruttore di pace che “lavora per l’unità, umanizzando il mondo”.

Oggi venerdì 20 dicembre 2024

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img_0089Oggi alle ore 10 presso il Consiglio regionale della Sardegna, presentazione del XIV Dossier Caritas 2024

Lettera pastorale Giuseppe Baturi arcivescovo di Cagliari

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- Lettera pastorale Giuseppe Baturi arcivescovo di Cagliari

Don Mario Farci, Vescovo di Iglesias

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
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Ufficio stampa
COMUNICATO STAMPA

ORDINAZIONE EPISCOPALE DI MONSIGNOR MARIO FARCI E PRESA DI POSSESSO DELLA DIOCESI DI IGLESIAS

Dopo la comunicazione, dello scorso 30 novembre, della decisione di papa Francesco di nominare don Mario Farci vescovo di Iglesias, le diocesi di Cagliari e Iglesias rendono noto che il vescovo eletto riceverà l’ordinazione episcopale domenica 9 febbraio 2025 alle ore 16.00, nella basilica di Sant’Elena imperatrice in Quartu Sant’Elena.

Nel pomeriggio di domenica 16 febbraio il nuovo vescovo farà l’ingresso a Iglesias, prendendo possesso canonico della diocesi.

Comunicazioni

Riceviamo e pubblichiamo
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Ufficio stampa
COMUNICATO STAMPA
CONVOCAZIONE DEL CLERO DIOCESANO E DELLA STAMPA PER UNA COMUNICAZIONE PASTORALE
Questa mattina, sabato 30 novembre, alle ore 12, presso l’Aula magna del seminario arcivescovile (via mons. G. Cogoni, 9), l’Arcivescovo di Cagliari, monsignor Giuseppe Baturi, convoca il clero diocesano e la stampa per una comunicazione pastorale.
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Da fonti giornalistiche l’arcivescovo Giuseppe Baturi e il card. Arrigo Miglio annuncerebbero la nomina del nuovo Vescovo di Iglesias.
Aggiornamento (Sala Stampa Vaticano)

Le copertine dei Dossier Caritas – Dal Dossier Caritas I (2011) al Dossier Caritas XIV (2024).

-—-2011 I – —–2012 II -—-—2013 III
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—–2014 IV —-—2015 V —-—2016 VI
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—–2017 VII ———2018 VIII ———2019 IX
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-——2020 X ————-2021 XI ————2022 XII
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-———2023 XIII ————————————–2024 XIV
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