Editoriali

Estote parati

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la situazione sui vari teatri di guerra si sta aggravando; dopo ulteriori bombardamenti israeliani sul Libano è entrata in vigore una tregua di due mesi su questo fronte, giusto per aspettare che cosa farà Trump, mentre continuano gli eccidi di Gaza; Biden, sul punto di uscire dalla Casa Bianca, ha dato a Zelensky la facoltà, o il compito, di colpire in profondità la Russia con i suoi missili a lunga gittata; Putin ha di conseguenza ampliato le ipotesi di risposta anche agli Stati che forniscono gli strumenti per tale offesa. A sua volta l’Europa rilancia il suo obiettivo di sconfiggere la Russia, nell’idea, come dice Putin, che “senza la Russia il mondo sarebbe migliore”.
Intanto abbiamo mandato agli Ebrei delle comunità italiane la lettera al popolo ebraico della diaspora, insieme a una lettera di accompagnamento per sottolinearne lo spirito, teso a un dialogo fraterno: entrambe sono pubblicate sul sito. Nel sito pubblichiamo anche un articolo di Riccardo Petrella sugli esiti del G20 di Rio De Janeiro e sui mandati di arresto della Corte Penale Internazionale, un articolo sui precedenti della guerra in Ucraina, e, in occasione della giornata contro la violenza sulle donne, ripubblichiamo una nostra newsletter del 2020 che dava conto di un significativo documento della Pontificia Commissione Biblica.
Con i più cordiali saluti,

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
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Il progetto costituente
Fermiamo subito tutte le guerre – Raniero la Valle a Campiglia Marittima
16/11/2024
Una saletta comunale colma di persone interessate ad ascoltare Raniero La Valle, pronte a condividere o dibattere il pensiero di un giovane novantatreenne che riesce a coinvolgere profondamente con la sua visione pacifista e razionale del mondo da, come si autodefinisce, “militante per la pace”
CT

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In sintonia con gli amici di Costituente Terra, pubblichiamo il comunicato stampa del Comune di Campiglia Marittima sull’evento che si è tenuto il 14 novembre 2024.
RANIERO LA VALLE FA IL PIENO ALLA SALETTA COMUNALE DI VENTURINA TERME
Iniziativa di Costituente Terra per ripudiare la guerra da subito come unica via di salvezza per l’umanità
Una saletta comunale colma di persone interessate ad ascoltare Raniero La Valle, pronte a condividere o dibattere il pensiero di un giovane novantatreenne che riesce a coinvolgere profondamente con la sua visione pacifista e razionale del mondo da, come si autodefinisce, “militante per la pace”
Raniero La Valle, fondatore di Costituente Terra, deputato della sinistra indipendente per quattro legislature, intellettuale e scrittore, è stato invitato dal Circolo di Costituente Terra – Val di Cornia per dialogare sull’urgenza della pace globale e di un percorso che porti ad un nuovo ordinamento degli stati dove le guerre siano definitivamente escluse. Hanno aderito all’organizzazione numerose associazioni del comprensorio (*). Il Comune di Campiglia, rappresentato dalla sindaca Alberta Ticciati e dall’assessora alla pace Silvia Benedettini ha voluto dare il patrocinio all’iniziativa nel solco dell’attività di promozione di una cultura di pace avviato con l’istituzione dell’assessorato specifico e con una prima camminata tenuta con successo a fine settembre. La Valle ha apprezzato il clima di cordialità che ha percepito nella sala, perché, come ha detto, il primo modo in cui si manifesta la pace, è il rapporto tra le persone, quindi la disponibilità verso l’altro, l’ascolto, la gentilezza, la non aggressività, sono una condizione necessaria per costruire la pace, che non si può realizzare solo invocandola, ma occorre far sì, con la nostra azione quotidiana dal basso, che chi ci governa e chi ha il potere di decidere la persegua. L’intervento ricco di riferimenti storici e culturali, ha argomentato che la guerra, invenzione dell’uomo, può e deve essere ripudiata: oggi non è facile eliminarla perché le nostre culture ne sono permeate, ma se vogliamo che l’umanità abbia un futuro è necessario fermarla subito. Un obiettivo, un sogno, che potrebbe sembrare un’utopia, ma che in realtà, per l’alto rischio attuale di escalation verso la distruzione del genere umano l’utopia della pace è molto più praticabile e ragionevole del lasciare che le guerre prendano il sopravvento. Non dobbiamo lasciare che la guerra sia il principio regolatore del mondo perché una volta superato il limite della disumanità, rappresentato dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, siamo entrati in un’era in cui la guerra è un crimine, fuori dalla ragione e dal diritto e, se è sempre stata un orrore, oggi quell’orrore non ha neanche più regole, e nessun vincitore: solo distruzione. Le riflessioni sulle guerre russo-ucraina e israeliano-palestinese, hanno evidenziato le contraddizioni e le atrocità di conflitti armati di cui non si vede la fine, anche se le soluzioni potrebbero non essere così impossibili e lontane. La possibilità concreta di fermare le guerre e dare all’umanità la prospettiva di un futuro, la prospettiva che la storia possa continuare, è stata una finestra sulla speranza che Raniero La Valle ha aperto facendo respirare aria fresca e nuova a una platea in cui adulti e ragazzi si sono sentiti motivati ad agire. Molti gli interventi del pubblico, le domande, le riflessioni, da quelle più provocatorie alle dimostrazioni di stima e di gratitudine. L’incontro si è chiuso con la proposta di Raniero la Valle di costituire dei comitati per la pace e l’invito è stato subito accolto con la sottoscrizione di un elenco di adesioni. Inoltre, per il mese di gennaio, il Comune tramite l’assessora Benedettini si propone di costituire un tavolo della pace.
(*)Università Libera Val di Cornia, Consulta del sociale del Comune di Campiglia, Anpi Piombino-Campiglia, Spi Cgil, Arci Piombino Val di Cornia, Pubblica Assistenza Piombino, Legambiente Val di Cornia, Auser, Acat, Rete Radie Resch, Associazione Ruggero Toffolutti, Croce del Sud Commercio equo solidale, Circolo interculturale Samarcanda, Gruppo per la pace Massa Marittima, Libera.
COMUNE DI CAMPIGLIA MARITTIMA
Ufficio stampa: Luciana Grandi email: l-grandi@comune.campigliamarittima.li.it cell. 3338760991 – whatsapp 3892792777
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Save the date – Punta de billete – Prendi nota.
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Documentazione
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https://m.youtube.com/watch?v=5LXG1cOgmBQ
Luigi Ferrajoli
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Bisogno di Pace!

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Il progetto costituente
Fermiamo subito tutte le guerre – Raniero la Valle a Campiglia Marittima
16/11/2024
Una saletta comunale colma di persone interessate ad ascoltare Raniero La Valle, pronte a condividere o dibattere il pensiero di un giovane novantatreenne che riesce a coinvolgere profondamente con la sua visione pacifista e razionale del mondo da, come si autodefinisce, “militante per la pace”
CT

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In sintonia con gli amici di Costituente Terra, pubblichiamo il comunicato stampa del Comune di Campiglia Marittima sull’evento che si è tenuto il 14 novembre 2024.
RANIERO LA VALLE FA IL PIENO ALLA SALETTA COMUNALE DI VENTURINA TERME
Iniziativa di Costituente Terra per ripudiare la guerra da subito come unica via di salvezza per l’umanità
Una saletta comunale colma di persone interessate ad ascoltare Raniero La Valle, pronte a condividere o dibattere il pensiero di un giovane novantatreenne che riesce a coinvolgere profondamente con la sua visione pacifista e razionale del mondo da, come si autodefinisce, “militante per la pace”
Raniero La Valle, fondatore di Costituente Terra, deputato della sinistra indipendente per quattro legislature, intellettuale e scrittore, è stato invitato dal Circolo di Costituente Terra – Val di Cornia per dialogare sull’urgenza della pace globale e di un percorso che porti ad un nuovo ordinamento degli stati dove le guerre siano definitivamente escluse. Hanno aderito all’organizzazione numerose associazioni del comprensorio (*). Il Comune di Campiglia, rappresentato dalla sindaca Alberta Ticciati e dall’assessora alla pace Silvia Benedettini ha voluto dare il patrocinio all’iniziativa nel solco dell’attività di promozione di una cultura di pace avviato con l’istituzione dell’assessorato specifico e con una prima camminata tenuta con successo a fine settembre. La Valle ha apprezzato il clima di cordialità che ha percepito nella sala, perché, come ha detto, il primo modo in cui si manifesta la pace, è il rapporto tra le persone, quindi la disponibilità verso l’altro, l’ascolto, la gentilezza, la non aggressività, sono una condizione necessaria per costruire la pace, che non si può realizzare solo invocandola, ma occorre far sì, con la nostra azione quotidiana dal basso, che chi ci governa e chi ha il potere di decidere la persegua. L’intervento ricco di riferimenti storici e culturali, ha argomentato che la guerra, invenzione dell’uomo, può e deve essere ripudiata: oggi non è facile eliminarla perché le nostre culture ne sono permeate, ma se vogliamo che l’umanità abbia un futuro è necessario fermarla subito. Un obiettivo, un sogno, che potrebbe sembrare un’utopia, ma che in realtà, per l’alto rischio attuale di escalation verso la distruzione del genere umano l’utopia della pace è molto più praticabile e ragionevole del lasciare che le guerre prendano il sopravvento. Non dobbiamo lasciare che la guerra sia il principio regolatore del mondo perché una volta superato il limite della disumanità, rappresentato dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, siamo entrati in un’era in cui la guerra è un crimine, fuori dalla ragione e dal diritto e, se è sempre stata un orrore, oggi quell’orrore non ha neanche più regole, e nessun vincitore: solo distruzione. Le riflessioni sulle guerre russo-ucraina e israeliano-palestinese, hanno evidenziato le contraddizioni e le atrocità di conflitti armati di cui non si vede la fine, anche se le soluzioni potrebbero non essere così impossibili e lontane. La possibilità concreta di fermare le guerre e dare all’umanità la prospettiva di un futuro, la prospettiva che la storia possa continuare, è stata una finestra sulla speranza che Raniero La Valle ha aperto facendo respirare aria fresca e nuova a una platea in cui adulti e ragazzi si sono sentiti motivati ad agire. Molti gli interventi del pubblico, le domande, le riflessioni, da quelle più provocatorie alle dimostrazioni di stima e di gratitudine. L’incontro si è chiuso con la proposta di Raniero la Valle di costituire dei comitati per la pace e l’invito è stato subito accolto con la sottoscrizione di un elenco di adesioni. Inoltre, per il mese di gennaio, il Comune tramite l’assessora Benedettini si propone di costituire un tavolo della pace.
(*)Università Libera Val di Cornia, Consulta del sociale del Comune di Campiglia, Anpi Piombino-Campiglia, Spi Cgil, Arci Piombino Val di Cornia, Pubblica Assistenza Piombino, Legambiente Val di Cornia, Auser, Acat, Rete Radie Resch, Associazione Ruggero Toffolutti, Croce del Sud Commercio equo solidale, Circolo interculturale Samarcanda, Gruppo per la pace Massa Marittima, Libera.
COMUNE DI CAMPIGLIA MARITTIMA
Ufficio stampa: Luciana Grandi email: l-grandi@comune.campigliamarittima.li.it cell. 3338760991 – whatsapp 3892792777
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Save the date – Punta de billete – Prendi nota.
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Documentazione
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Luigi Ferrajoli
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Cosa succede?

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Carissimi,
molto è stato detto sull’elezione di Trump alla Casa Bianca, non insisteremo perciò qui sulle diagnosi, più o meno allarmate, su quanto potrà accadere soprattutto a Gaza, dato lo stretto rapporto della famiglia Trump con anna-foaIsraele e Netanyahu: c’è il rischio di un incentivo al suicidio di Israele, come lo chiama Anna Foa, e di una sua ricaduta sul popolo ebraico della diaspora, come fanno presagire le violenze scatenatesi ad Amsterdam tra olandesi e tifosi ultras israeliani; né si può non essere atterriti al preannuncio trumpiano della deportazione di milioni di immigrati dagli Stati Uniti.
Quello che invece vorremmo qui rilevare è che la vittoria di Trump ha sdoganato una crudeltà che prima era nascosta. L’abbiamo vista con sgomento nei volti di alcuni partecipanti a uno dei consueti talk show televisivi, un professore, un imprenditore, una parlamentare di governo, sia che si parlasse di Gaza sia che si discutesse della “deterrenza” con cui il governo vuol dissuadere i migranti dal venire in Italia suscitando in loro il terrore di finire in Albania e di qui essere rispediti là da dove, per tremende ragioni, sono fuggiti.
Sui volti di questi interlocutori televisivi abbiamo visto i tratti di una singolare durezza nell’imperativo della “difesa dei confini”, e più ancora abbiamo visto addirittura un sorriso beffardo di fronte alle immagini degli uccisi, degli scacciati, degli affamati e dei disperati di Gaza con l’alibi di dire che nulla vi fosse di vero.
Ci siamo ricordati allora della invocazione di Italo Mancini il cui auspicio, per uscire dai tormenti di questa nostra modernità, era che “tornino i volti”, cioè che si torni a rapportarsi con l’infinito valore e l’unicità di ogni persona, i volti, “questi inauditi centri di alterità che sono i volti, volti da guardare, da rispettare, da accarezzare”: ma oggi sono i volti di Gaza, i volti nascosti dalla fitta selva di mani alzate per cercare di strappare un frammento di cibo o una ciotola di minestra sfuggiti al blocco degli aiuti impediti dall’assedio per fame.
E abbiamo pensato a quello che oggi l’Occidente non vuole vedere dei tormenti che esso stesso ha inflitto e infligge a popoli interi, a milioni di volti, per quella falsa coscienza che esalta la violenza travestita da democrazia e da Stato di diritto come difesa della nostra identità e dei “nostri” valori. È quello che dice Roberta De Monticelli denunciando la “catastrofe intellettuale e morale” in cui si è trasformato il dibattito pubblico sull’eccidio di Gaza, su questa “umanità violata”, come recita il titolo del suo libro dedicato alla “Palestina e l’inferno della ragione”. È il libro che mancava sulla guerra in corso nel Vicino Oriente, della quale sono piene le cronache, mentre non viene scandagliata la sua ragione profonda, la filosofia che la interpreta, la fenomenologia che la spiega: la Palestina come un “nodo del pensiero”. Un libro che perciò non si può fare a meno di leggere perché, se nulla possiamo fare per lenire la sofferenza anche di un solo volto a Gaza o a Nablus, almeno abbiamo il dovere di capire e sapere, per immaginare, sperare e promuovere un altro futuro per Israele, i palestinesi, e anche per noi. Quel futuro che oggi, come spiega la De Monticelli, è oggetto di rimozione, perché come riconosceva un autorevole articolo a più voci pubblicato su Foreign Affairs, c’è un “innegabile” che è anche “indicibile”: l’innegabile è che “una soluzione a uno Stato non è una futura possibilità, esiste già un unico Stato tra il Mediterraneo e il Giordano”, ciò che per Israele è irreversibile benché l’annessione non sia stata dichiarata, e si risolve in un regime di apartheid; ma questo innegabile è “indicibile” perché fingendo che sia ancora in corso il processo per la soluzione a due Stati si può ancora mascherare la contraddizione tra l’ebraicità e la democraticità dello Stato di Israele, come è stato finora concepito.
La soluzione è perciò che la realtà innegabile e indicibile sia resa visibile, presa in carico e trasformata attraverso un processo di riconciliazione fino a fare di Israele uno Stato binazionale, con due tradizioni, due culture, due popoli con pieni e identici diritti. Solo allora la crudeltà sarà sconfitta, e torneranno i volti da amare.
Sulla elezione di Trump e il deperimento della democrazia di cui è segno, pubblichiamo, da Other News, un articolo di Gabriele Crocco; sui progetti di trasformazione di Gaza, tolti i palestinesi, in un paradiso di coloni e di ricchi, pubblichiamo un allarmato articolo dell’Osservatore Romano, e sugli scontri di Amsterdam un’informazione di RaiNews
La lettera ai nostri fratelli ebrei della diaspora non è stata ancora inoltrata, anche se uno se ne è già adontato. Vi terremo informati dello sviluppo dell’iniziativa a cui si sono associati finora 300 mittenti.
Con i più cordiali saluti,

Raniero La Valle

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
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LETTERA AI NOSTRI CONTEMPORANEI DEL POPOLO EBRAICO DELLA
DIASPORA

Carissimi Ebrei della Diaspora,

Lettera agli Ebrei della Diaspora

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Gentili Amici,
approfitto della consueta disponibilità della Vs pubblicazione, che già ci tiene in comunicazione, per mettervi a parte di una iniziativa che riguarda la tragedia in atto in Palestina e nel Vicino Oriente. Si tratta di una lettera che vorremmo indirizzare agli Ebrei della Diaspora. Siamo tutti sgomenti nel vedere il livello estremo cui è giunta la distruzione della popolazione e del territorio di Gaza, nonché la caccia ai palestinesi considerati indocili o terroristi, sia in Cisgiordania che in Libano e in Iran, con grave rischio per la stessa pace mondiale. Ma non minore è lo sgomento per la acquiescenza del mondo di fronte a questa tragedia e per la nostra impotenza a fare alcunché per mettervi fine. Sentiamo però fortemente che non ci è consentita né la rassegnazione né l’indifferenza dinanzi alla passione palestinese, né possiamo ignorare il dramma che vive la stessa popolazione di Israele, una gran parte della quale vorrebbe sottrarsi alla complicità con le politiche genocide del proprio governo, mentre lo stesso popolo ebreo della Diaspora è coinvolto in una contraddizione che lo mette a rischio nel suo rapporto con le nazioni in cui vive.
Ci sembra pertanto che questa crisi non coinvolga solo Israeliani e Palestinesi, ma tutti noi, Ebrei e non Ebrei, per l’intreccio strettissimo delle nostre storie e per i legami di fraternità e di amicizia che, soprattutto dopo l’Olocausto, siamo riusciti a ristabilire tra noi.
Il nostro coinvolgimento in questa tragedia è determinato anche dal fatto che essa non investe direttamente solo i due popoli in lotta, né è solo un evento di portata locale, ma investe tutti i popoli e gli Stati ed ha una portata di carattere mondiale. Se, non risolvendosi questo conflitto, esso lasciasse dietro di sé due
popoli irrimediabilmente nemici, la cui spinta vitale
fosse la distruzione l’uno dell’altro, così ogni altro popolo potrebbe cadere nella stessa sindrome di annientamento reciproco, in modo tale che l’unità della famiglia umana sarebbe rotta e il mondo non potrebbe sussistere.
La lettera vorrebbe promuovere un dialogo fecondo, non viziato da estremismi e preconcetti. Ve ne allego il testo, non solo per conoscenza, ma anche perché chi lo condivida e voglia firmarla associandosi ai mittenti risponda alla e-mail ranierolavalle@gmail.com, indicando nome e qualifica.
Con i più cordiali saluti,
Raniero La Valle

LETTERA AI NOSTRI CONTEMPORANEI DEL POPOLO EBRAICO DELLA DIASPORA
Carissimi Ebrei della Diaspora,
vi scriviamo per parteciparvi una duplice angoscia che cresce in noi a partire da quel 7 ottobre del 2023, quando un’efferata azione dei palestinesi di Hamas fece scempio dinun gran numero di ebrei di Israele e di molti non israeliani sui bordi della “striscia” di Gaza.
Insieme al dolore per le vittime e alla esecrazione per la brutalità dell’aggressione, la prima di tali angosce ha tratto origine dalla percezione che le conseguenze di quella azione, con tutto il male che portava con sé, sarebbero ricadute sulla intera popolazione di Gaza e sul popolo palestinese in quanto tale, ovunque situato, nei territori colonizzati della Cisgiordania come nei Paesi vicini.
L’altra angoscia è sorta, ed è cresciuta nel tempo, dalla considerazione che le conseguenze della spietata ritorsione intrapresa dagli Ebrei delle Israel Defence Forces, con tutto il male che porta con sé, ricadranno sull’intero popolo ebraico, sia privando di ogni sicurezza, ad onta di ogni possibile difesa, i cittadini dello Stato di Israele, sia mettendo a repentaglio, con risultati imprevedibili, il popolo ebraico della Diaspora in quanto tale.
A questa duplice angoscia si aggiunge quella per ciò che può accadere a causa dell’allargamento del conflitto al Libano e all’Iran, e per le conseguenze che ne possono derivare per tutto il Medio Oriente e la residua pace del mondo. Ciò che ci accomuna di fronte a questi eventi, è la nostra condizione di terzietà che ci fa trovare con voi dalla stessa parte sia al cospetto delle attuali condotte dello Stato di Israele, che sono in odore di genocidio, sia delle reazioni violente e illegittime dei suoi antagonisti, sia della responsabilità che tutti abbiamo in ordine alla “questione palestinese”.
Il nostro coinvolgimento in questa tragedia è determinato anche dal fatto che essa non investe direttamente solo i due popoli in lotta, né è solo un evento di portata locale, ma investe tutti i popoli e gli Stati ed ha una portata di carattere mondiale. Se, non risolvendosi questo conflitto, esso lasciasse dietro di sé due popoli irrimediabilmente
nemici, la cui spinta vitale fosse la distruzione l’uno dell’altro, così ogni altro popolo potrebbe cadere nella stessa sindrome di annientamento reciproco, in modo tale che l’unità della famiglia umana sarebbe rotta e il mondo non potrebbe sussistere.
Perciò, e non solo per molte altre ragioni di cui si potrebbe parlare, noi sentiamo il vostro problema come nostro, e vi scriviamo non per darvi moniti e consigli che non abbiamo l’autorità di darvi e che voi potreste non trovare alcuna ragione di accogliere, ma perché siamo convinti che insieme dobbiamo farci carico di questa sfida e insieme immaginare e cercarne la soluzione sul piano effettuale e politico. Se siamo, come si dice, a un “cambiamento d’epoca”, tutti noi contemporanei ne siamo responsabili e autori.
Un’altra ragione per farlo, senza che questo voglia dire un’interferenza in una questione che è solo vostra, è il fatto che come noi comprendiamo ed è di dominio comune, alla radice di questa terribile vicenda c’è una realtà di fatto che non è solo dello Stato di Israele, che in oltre 70 anni non è riuscito a dare soluzione al problema del rapporto sulla stessa terra con un gran numero di residenti che hanno altra origine, storia, lingua, religione e cultura, ma è anche e sempre più potrà diventare un problema anche nostro; e ciò in ragione delle correnti migratorie, regolari e irregolari, che affluiscono nei nostri Stati e che le nostre politiche sembrano non in grado di fronteggiare. La differenza sta nel fatto che mentre gli Ebrei sono gli “altri sopraggiunti a sostituire una popolazione già esistente, i nostri Stati sono la popolazione esistente a cui si aggiungono gli “altri” che arrivano sempre più numerosi, provocando in essa inevitabili cambiamenti. Se i nostri Stati affrontassero il problema del rapporto con i migranti nella prevalente preoccupazione di una “identità” e invarianza da preservare, il rischio sarebbe di vivere “la questione migratoria” con la stessa ambascia con cui lo Stato di Israele fin dall’inizio ha avvertito “la questione palestinese”. E sarebbe una catastrofe se noi volessimo difendere la “nazione” e i valori nazionali, ben oltre la chiusura delle frontiere e dei porti, in modo corrispondente alla perentorietà con cui lo Stato di Israele rivendica e tutela la propria identità nella sua Legge fondamentale. Tale Legge, adottata per iniziativa del premier Netanyahu ma con l’opposizione del Presidente di Israele Reuven Rivlin il 19 luglio 2018, com’è noto definisce Israele come “Stato Nazione del Popolo Ebraico”, la Terra di Israele (più volte identificata in Israele con la terra che si stende dal mare al Giordano) come “la patria storica del popolo ebraico in cui lo Stato di Israele si è insediato” e “Gerusalemme integra e indivisa” come la capitale – di Israele.
Si può obiettare che l’identità che rende così tipico e coeso il popolo ebraico è ben più forte e storicamente sperimentata di quella che unisce i cittadini dei nostri Stati, che sono ormai inclusi in società per larga parte multietniche e pluraliste, legittimate da
ordinamenti democratici, a differenza dello Stato di Israele in cui la citata Legge fondamentale riserva i diritti di natura politica “esclusivamente al popolo ebraico”. Ma se si rifiuta di cogliere la “differenza ebraica” nella specificità razziale, che è stata usata a fondamento della perversione dell’antisemitismo (“razziali” si chiamavano le leggi che l’hanno promosso) si deve cercare altrove il cemento di questa unità e specificità del popolo cui appartenete; e noi lo troviamo nella storia di Israele, nella sua fede, nel suo riferimento alla tradizione biblica e talmudica, (“la Legge e i Profeti”!), e nella
solidarietà nel dolore determinata dall’esperienza e dalla memoria delle persecuzioni subite.
Ma allora di nuovo si scopre quanto abbiamo in comune e come sia anche nostro il problema delle politiche e della figura attuali dello Stato di Israele.
Prima di tutto ci sembra che il riferimento alla fede e alla tradizione religiosa di Israele apra uno spazio fecondo di alterità tra voi, popolo ebraico della Diaspora, e i vostri fratelli ebrei dello Stato di Israele. Diverso infatti nei due casi ci appare questo rapporto. I cittadini anche non credenti della società israeliana, in larga parte secolarizzata (non diversamente dalle altre società dell’Occidente) vi fanno riferimento e le professano fedeltà come fondamento e garanzia dello Stato, che fin dall’origine ha scelto di stabilire in essa la propria legittimazione; infatti essa è implicitamente
riconosciuta dalla comunità internazionale che correntemente si riferisce ad Israele
come allo “Stato ebraico”. Questo però comporta una lettura del patrimonio spirituale
dell’ebraismo in termini temporali e politici, non sempre prudenti, che distorcono agli
occhi degli osservatori esterni il significato della fede ebraica e che nei momenti di crisi sono accentuati dai governanti di Israele per difendere le loro scelte e ottenere una sorta di insindacabilità delle loro politiche, mettendo in carico all’antisemitismo le
riserve e le critiche che vengono loro rivolte. Il danno di questo uso strumentale dei tesori dell’ebraismo ci è apparso ingigantito nel corso di questa crisi, per il frequente ricorso che vi ha fatto il premier Netanyahu, rivendicando una filiazione diretta delle sue scelte dai comandi di Mosè e dalle gesta di Giosuè, stabilendo una continuità di
fatto tra le azioni distruttive di oggi e gli stermini di ieri dei popoli vinti da Israele
nell’epica conquista della Terra promessa, interpretando settariamente l’effetto della
presenza di Israele sulla “mappa” del mondo in termini di benedizione e maledizione,
presentando lo Stato di Israele nella forma di un messianismo realizzato e rompendo
con la comunità delle Nazioni in una rinnovata contrapposizione tra Ebrei e “Gentili”.
Una linea di governo che si è manifestata bollando l’Organizzazione che le riunisce, l’ONU, come una “palude di antisemitismo”, non risparmiando la vita dei suoi operatori umanitari, attaccandone i militari in missione di pace, dichiarando persona
non grata il suo massimo rappresentante e sdegnando le pronunzie i moniti e le accuse
dei suoi organi istituzionali e giudiziari. Siamo particolarmente raccapricciati e appare
blasfema la pratica di uccidere i nemici uno per uno e promettere di ucciderli tutti invocando il nome di Dio, avendo in premio la luce e l’entusiastico consenso di Biden.
Vogliamo rendervi atto che molto diversa è la testimonianza dei valori dell’ebraismo e
della fede di Israele che si sprigiona dal vasto mondo degli Ebrei della Diaspora. Anche tra voi ci sono credenti e non credenti, e senza dubbio è ragione di arricchimento per tutti la presenza e l’integrazione degli Ebrei della Diaspora nelle nostre società laiche
e nella costruzione di autentiche democrazie. Ma se teniamo conto della ricca varietà
di posizioni espresse in seno all’ebraismo, vediamo come una gran parte dei sapienti
d’Israele e dell’ebraismo rabbinico ha respinto nel passato, e in notevole misura lo fa
anche oggi, una interpretazione del messianismo in senso politico e mondano, professando come riservata a Dio l’attuazione delle promesse messianiche, ha giurato
di “non forzare la fine”, si è dissociata da una versione del sionismo in un suo intreccio
perverso con lo Stato, rivendica il valore della vita ebraica “nel differimento” della
redenzione e nell’esilio, legge in modo non fondamentalista il libro sacro e ha parole
di vita riguardo a molte altre cose. Grande perciò, dal nostro punto di vista, sarebbe
l’importanza di una crescita del dialogo e del confronto tra il mondo della Diaspora e
gli Ebrei dello Stato di Israele, in vista di un cambiamento e di una rettifica degli errori
commessi (denunciati perfino dagli Stati Uniti) e anche ai fini di un contenimento e di
un antidoto al risorgente mostro dell’antisemitismo o, come è stato chiamato anche da
autorevoli Ebrei, al “suicidio di Israele”.
La seconda realtà chiamata in causa dal riferimento alla fede e alla tradizione biblica
di Israele è quella dell’Occidente, il quale non a caso è collocato, da un luogo comune
di cui molti ignorano la vera portata, nella filiazione dalla tradizione “ebraico-cristiana”.
Se questo è vero, si pone un problema molto grave per noi, al di là delle opzioni di fede
di ognuno. A questa nostra tradizione appartiene una parola di Gesù detta alla donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe, tramandata dal Vangelo di Giovanni, che afferma: “La salvezza viene dai Giudei”. La nostra esperienza attuale e la tragedia di
Gaza insinuano che ne venga invece la perdizione e la fine. Il problema consiste nel
fatto che o lasciamo cadere come infondata e inattendibile la predizione di Gesù, ma
allora è tutto il Vangelo che cade, oppure la situazione presente viene rovesciata e
questa profezia si traduce in lieto preannunzio di un altro futuro e in un compito da
assolvere. Nella storia della cristianità per molto tempo questa seconda ipotesi è stata
scartata (“i perfidi Giudei”!) ma nel nostro tempo il rovesciamento è avvenuto, come
dimostrano la riforma della liturgia, la fede espressa nel documento “Nostra aetate”
del Concilio Vaticano II”, il dialogo ecumenico e quello ebraico-cristiano, il
riconoscimento degli Ebrei come “nostri fratelli maggiori” secondo la pronunzia di
Paolo VI, il documento di Abu Dhabi e la “Fratres omnes” di papa Francesco, così
come nel mondo laico il ravvedimento è attestato dal pentimento e dalla condanna
universale della Shoà insieme all’onore e al pregiudizio favorevole riservati agli Ebrei
contro ogni antisemitismo. A ciò si aggiunge, da parte della storiografia scientifica e
della ermeneutica cristiana una lettura non pedissequa della Bibbia (quella letterale
sarebbe secondo i teologi cattolici “un suicidio del pensiero”) che non considera
“storici” i libri “storici” dell’Antico Testamento, scritti molti secoli dopo i fatti narrati,
e perciò non attestanti fatti effettivamente avvenuti. Ciò significa liberare il popolo
ebraico dalla pretesa origine da un delitto fondatore, e addirittura da un passato di
decreti di sterminio ed eccidi di interi popoli (molti dei quali all’epoca nemmeno
esistenti) su commissione di un improbabile Dio violento, a sua volta successivamente
ucciso nel Figlio, e cancellare l’intero armamentario ideologico su cui è stata
storicamente fondata la persecuzione antisemita. Per contro un passato di delitti
fondatori e di messianismi letali lo hanno molte realizzazioni genocide e colonizzazioni
insediative dell’Occidente “civilizzatore”, come nella “scoperta” e conquista
dell’America, nell’America cosiddetta “latina”, nell’Africa non solo del Sud, in
Oceania e altrove.
Così ristabilito l’orizzonte in cui operare, si apre la possibilità di un’alleanza di tutti i
soggetti fautori di pace con gli Ebrei della Diaspora per un dialogo con l’attuale Stato
di Israele, la ricerca di una soluzione e la costruzione di un’alternativa riguardante non
solo Israele e i palestinesi ma la pace e l’unità stessa del mondo.
Sarebbe una presunzione e ancora il riflesso di una mentalità egemonica stabilire i
termini di tale soluzione, che possono scaturire solo da una ricerca comune e dalla
inventiva della storia. Si può però affermare con un sufficiente grado di certezza che
una soluzione può risiedere solo in una riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi e non
solo venire da artifici politici e diplomatici.
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Per la costruzione di un’alternativa si deve ormai abbandonare la fuorviante soluzione a due Stati, anche ove mai fosse stata possibile e auspicabile in passato, e la finzione di negoziati in realtà ordinati a confermare e preservare la situazione qual è, come è stato sostenuto anche in un dialogo tra due culture diverse, quale il dialogo tra Ilan Pappé con Noam Chomski. Resta la soluzione a uno Stato, ma allora va costruita attraverso una riforma della figura di Stato
vigente, riforma che pertanto riguarda non solo lo Stato di Israele, nel quale l’identità etnico-religiosa spinta all’estremo ha dato luogo a un regime di dominio e di guerra, ma la stessa forma di Stato moderno, quale si è andata a fissare negli Stati esistenti, che
nel loro insieme ormai globalizzato si presentano come un coacervo di sovranità in competizione se non in lotta tra loro, che hanno eletto come ultimo (e spesso anche primo) giudice tra loro, la guerra. Lo Stato rispondente alla nuova realtà di una comunità mondiale pluralistica e multiculturale dovrà piuttosto costruirsi in una pluralità di ordinamenti giuridici interagenti tra loro, che insedino come sovrana la
pace, assicurino l’eguaglianza, riconoscano non solo come affare individuale e “privato”, ma sociale e significante per tutti, le culture le religioni e le tradizioni diverse, e aprano le frontiere e i porti alla libera circolazione non solo delle economie
e delle merci, ma delle persone e dei popoli. Si potrebbe perfino pensare che nel nuovo “villaggio globale” agli organismi che corrispondono ai tre poteri competenti nelle relazioni interne agli Stati, legislativo, esecutivo e giudiziario, possa aggiungersi un altro organo, quello della diplomazia, con poteri di consiglio e di controllo sui rapporti esterni e le scelte internazionali dello Stato, a partire dalla scelta costituzionalmente obbligante della pace, della salvaguardia del creato e della dignità delle creature. Così come si potrebbe pensare a uno sviluppo del diritto che giunga ad abrogare e sanzionare la figura del “Nemico”; e ciò non solo in Europa, quando perfino nell’Impero ottomano Ebrei e Islamici hanno vissuto insieme pacificamente per secoli, senza ombra di
antisemitismo.
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Questo volevamo dire agli Ebrei con noi conviventi, nostri vicini, concittadini, sorelle e fratelli in quest’epoca nuova.

Primi firmatari: Raniero La Valle e Comitati Dossetti per la Costituzione, Domenico
Gallo, giurista, Elena De Monticelli, filosofa, Raffaele Nogaro, vescovo cattolico,
Claudio Grassi, legislatore, Felice Scalia, gesuita, Elena Basile, ambasciatrice, Luigi
Ferrajoli, giurista, Giovanni Ricchiuti, vescovo cattolico, presidente di Pax Christi
Italia, Stefania Tuzi, storica dell’architettura, Francesco Di Matteo, avvocato,
Francesco Zanchini di Castiglionchio, canonista, Massimo Zucconi, architetto, Fulvio
De Giorgi, ordinario di filosofia, Agata Cancelliere, insegnante, Giorgio Rivolta,
docente di pedagogia, Santino Di Dio, impiegato, Raffaele Luise, giornalista, Sergio
Tanzarella, storico del cristianesimo, Vito Micunco, Comitati pugliesi per la Pace,
Nicola Colaianni, già Magistrato di Cassazione; Nicola Costantino, ex Rettore del
Politecnico di Bari; Nicola Pantaleo, già Presidente del Consiglio della Chiesa
Evangelica Battista di Bari;, Antonio Malorni, biochimico, Paolo Cento, legislatore,
Fabio Filippi, editore, Enrico Peyretti, insegnante e maestro di pace, Grazia Portoghesi
Tuzi, etnomusicologa, Francesco Comina, insegnante, Tonio Dell’Olio, presidente Pro
Civitate Christiana, Don Renato Sacco, Pax Christi, Mario Menin, direttore di
“Missione Oggi”, Paola Patuelli, insegnante, Anna Sabatini Scalmati, psicanalista,
Angelo Cifatte, funzionario pubblico, Riccardo Valeriani, assistente sociale, Luca
Robino, (Persona al centro), Don Emilio Maltagliati, già Parroco, Lina Ibba, medico, Franco Meloni, direttore Aladinpensiero, Giacomo Meloni, segretario generale della CSS, e…
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Importantissimo! Rapporto ASviS 2024: l’Italia è in “drammatico ritardo” su tutti gli Obiettivi dell’Agenda 2030.

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[Articolo di Flavio Natale]
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“L’alternativa a un mondo sostenibile è un mondo insostenibile. Come l’attuale”: questo l’avvertimento lanciato da Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, nel
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Rapporto ASviS 2024 “Coltivare ora il nostro futuro”, che come ogni anno fa il punto sull’avanzamento dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030 a livello nazionale ed europeo, oltre a offrire un’analisi globale. Il Rapporto, frutto del lavoro di un vasto numero di esperte ed esperti provenienti da più di 320 aderenti dell’Alleanza, è stato lanciato durante l’evento di presentazione che si è tenuto il 17 ottobre presso l’Acquario Romano.

“Per chi si occupa seriamente di sviluppo sostenibile l’attuale stato del mondo non è una sorpresa”, ha aggiunto Giovannini. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha in più occasioni ribadito che l’Agenda 2030 “non è un esercizio burocratico per sognatori” e che “per troppo tempo abbiamo affrontato in modo inadeguato la questione della tutela dell’ambiente e del cambiamento climatico”. Ma nonostante gli appelli del Capo dello Stato e la firma del Patto sul Futuro, in cui i leader del mondo (inclusa l’Italia) si sono impegnati ad attuare 56 azioni da attuare nei prossimi anni per non precipitare verso crisi devastanti, l’Agenda 2030 non gode di buona salute nel nostro Paese, e i dati lo dimostrano. A questo proposito, le previsioni effettuate dall’ASviS, sulla base della metodologia Eurostat, si sono avvalse quest’anno (per la prima volta) della collaborazione della società di consulenza Prometeia, per indicatori e previsioni al 2030. Altra novità di questa edizione riguarda l’elaborazione di pillole infografiche del Rapporto, prodotte dallo studio editoriale Withub.

Sarà inoltre possibile visionare tutti i contenuti chiave del paper attraverso una pagina dedicata del sito asvis.it, con infografiche interattive, card facilmente divulgabili per raccontare i dati, possibilità di esplorare ciascun Obiettivo, e molto altro.

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Infografiche interattive, indicatori statistici, card social e molto altro:
esplora il Rapporto ASviS 2024
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L’Italia è su un sentiero di sviluppo insostenibile

Secondo il Rapporto ASviS, il nostro Paese è in “drammatico ritardo” su tutti gli Obiettivi dell’Agenda 2030. Tra il 2010 e il 2023 si riscontrano peggioramenti per cinque Goal: povertà, disuguaglianze, qualità degli ecosistemi terrestri, governance e partnership. Miglioramenti molto contenuti per sei Obiettivi: cibo, energia pulita, lavoro e crescita economica, città sostenibili, lotta al cambiamento climatico e qualità degli ecosistemi marini. Miglioramenti più consistenti per cinque Goal: salute, educazione, uguaglianza di genere, acqua e sistemi igienico-sanitari e innovazione, mentre l’unico miglioramento molto consistente interessa l’economia circolare. Guardando invece alle disuguaglianze territoriali, si evidenzia una riduzione per un solo Goal (governance), un aumento per due (educazione e acqua e servizi igienico-sanitari) e una sostanziale stabilità per i restanti dodici per cui sono disponibili dati sul territorio, in totale contraddizione con il principio chiave dell’Agenda 2030 di “non lasciare nessuno indietro”.

Se guardiamo agli obiettivi quantitativi, elaborati in base agli impegni definiti a livello europeo o dalla Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile 2022 (SNSvS), le scelte del Paese risultano insufficienti per raggiungere i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile. Secondo l’analisi condotta in collaborazione con Prometeia, dei 37 target da raggiungere entro il 2030 solo otto sono raggiungibili (il 21,6%), 22 non potranno essere raggiunti (il 59,5%) e per sette il risultato è incerto (il 18,9%). A conferma del ritardo del nostro Paese, i grafici contenuti nel Rapporto ASviS dimostrano che i dieci obiettivi raggiungibili per l’Ue si riducono a cinque per l’Italia. Mentre i cinque non raggiungibili a livello europeo diventano dieci per l’Italia. “Siamo di fronte a un disastro annunciato”, ha commentato Giovannini.

La situazione appare ancora più grave se si considera il divario tra le preoccupazioni della popolazione e l’azione politica: circa la metà degli italiani si sente minacciata da rischi ambientali come incendi, frane o alluvioni, solo il 21% pensa che il governo stia operando pensando alle prospettive del Paese a lungo termine, il 62% chiede al Governo una transizione ecologica più rapida e incisiva e il 93% ritiene che l’Italia debba rafforzare i propri impegni per affrontare il cambiamento climatico. I dati allarmanti e le opinioni dei cittadini dovrebbero far raccogliere attorno all’Agenda 2030 tutte le forze politiche, economiche e sociali del Paese, ma così non è: “Nonostante il sostegno della cittadinanza a queste tematiche e gli impegni assunti in sede Ue, G7 e Onu dal Governo italiano, l’attuazione dell’Agenda 2030 non appare centrale nel disegno delle politiche, visto che gli interventi adottati negli ultimi due anni non solo non sono in grado di produrre il cambio di passo necessario, ma diversi di essi sono andati in contrasto con quanto previsto dalla SNSvS 2022”.

Mancare questi obiettivi non è solo una questione di traguardi, ma significa generare effetti negativi sulla nostra popolazione: secondo gli studi raccolti nel Rapporto ASviS, nel 2023 5,7 milioni di persone si trovano in condizioni di povertà assoluta e il 22,8% della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale; nel 2022, il 5% delle famiglie italiane più ricche deteneva il 46% della ricchezza netta complessiva, mentre il 50% delle famiglie più povere possedeva meno dell’8% della ricchezza netta totale; nel 2023, il 10,5% dei giovani di 18-24 anni sono usciti dal sistema di istruzione e formazione senza un diploma o una qualifica, mentre i 25-34enni che hanno completato l’istruzione terziaria sono il 30,6%, in aumento ma comunque molto al di sotto del 45% previsto dagli obiettivi concordati con l’Europa. L’Italia è inoltre al centro dell’hotspot climatico del Mediterraneo, e si riscalda a quasi il doppio della media globale. Ultimo dato: il nostro Paese si classifica in 83esima posizione su 146 Stati per la parità di genere, perdendo otto posizioni rispetto al 2023.

Cosa succede in Europa

Il Rapporto ASviS dedica anche un capitolo all’analisi delle politiche Ue e all’andamento degli indicatori europei per l’Agenda 2030, di grande rilevanza in particolare dopo la rielezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione. Nei suoi orientamenti politici, in linea con il manifesto che l’ASviS aveva pubblicato alla vigilia delle elezioni europee, von der Leyen ha infatti avanzato numerose proposte per rafforzare le iniziative già avviate in materia di sostenibilità (compreso il Green Deal) e stimolarne di nuove. Inoltre, la Presidente, come aveva già fatto cinque anni fa, ha inserito nelle lettere di missione dei nuovi Commissari l’obiettivo di raggiungere gli SDGs di propria competenza, ribadendo così l’impegno complessivo dell’Unione europea per l’attuazione dell’Agenda 2030.

Ma come sta messa, in effetti, l’Ue? Dal 2010 a oggi sono stati registrati progressi per gran parte degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, anche se appaiono insufficienti per sperare di conseguire i Target dell’Agenda 2030 entro la fine di questa decade. Sulla base dei dati pubblicati da Eurostat vediamo che, rispetto ai valori del 2010, nel 2022 si registra una crescita molto consistente solo nel caso dell’uguaglianza di genere, aumenti significativi per energia pulita, lavoro e crescita economica, e innovazione, dinamiche moderatamente positive per dieci Goal, e peggioramenti per la qualità degli ecosistemi terrestri e la partnership. I risultati dell’Italia sono complessivamente sotto la media degli Stati membri. Tra quelli che vanno molto male istruzione, lavoro, povertà e riduzione delle disuguaglianze. Mentre va molto bene l’economia circolare, fiore all’occhiello del nostro Paese.

Quattro game changer per l’Italia

Altra novità del Rapporto è l’individuazione di quattro possibili fattori di cambiamento per il futuro del Paese, uno negativo e tre positivi: la legge sull’autonomia differenziata e i fortissimi rischi ad essa associati in termini di aumento dei divari territoriali; l’impatto sulle imprese derivanti dalle nuove normative europee sulla rendicontazione di sostenibilità e il dovere di diligenza di impresa sui temi sociali e ambientali; il recepimento della direttiva europea sul ripristino della natura; la modifica della Costituzione del 2022 e la recente sentenza della Corte Costituzionale in materia di bilanciamento delle esigenze economiche con la tutela dell’ambiente e della salute. Secondo l’ASviS, dalle evoluzioni e svolte che prenderanno questi game changer potrebbe dipendere il futuro del nostro Paese.

Le proposte dell’ASviS

Infine, il Rapporto avanza come ogni anno numerose proposte per invertire la rotta del Paese, alcune di carattere trasversale, altre riguardanti questioni più settoriali, ma sempre nell’ottica integrata tipica del lavoro dell’Alleanza. L’obiettivo è quello di stimolare i soggetti pubblici, a partire da Governo e Parlamento, e quelli privati, a fare il necessario salto di qualità. In particolare, per ciò che riguarda gli interventi “di sistema”, l’Italia deve attuare con urgenza la Strategia nazionale di sviluppo sostenibile approvata dal Governo nel settembre 2023 e poi dimenticata. Inoltre, occorre:
definire il Piano d’accelerazione nazionale per il conseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, assegnarne la responsabilità alla Presidenza del Consiglio, e integrarlo nei documenti di programmazione economica;
rendere operativo il Programma d’azione nazionale per la coerenza delle politiche per lo sviluppo sostenibile;
approvare la Legge sul Clima e attuare il Regolamento sul ripristino della natura, in linea con la riforma della Costituzione del 2022;
rafforzare le politiche per lo sviluppo sostenibile in una prospettiva territoriale e contrastare i rischi di aumento delle diseguaglianze territoriali derivanti dall’autonomia differenziata;
attuare la “Dichiarazione sulle Future generazioni” e rafforzare la partecipazione giovanile alla vita democratica del Paese.
Seguire queste proposte aiuterebbe dunque a “colmare il gap tra impegni e realtà”, come scrivono i presidenti ASviS Marcella Mallen e Pierluigi Stefanini nella loro introduzione al Rapporto. Ma il tempo che resta non è molto: “Non realizzare lo sviluppo sostenibile vuol dire ridurre la qualità della vita delle persone, le loro potenzialità, la loro libertà, la resilienza delle comunità locali, la tenuta dei nostri territori, la capacità del pianeta di rigenerarsi e sostenere la nostra società”, scrivono i presidenti. Mentre seguire il sentiero dello sviluppo sostenibile significa orientarci verso una società più giusta ed equa. Come sottolinea anche il titolo del Rapporto, dobbiamo “Coltivare ora il nostro futuro”, attuando adesso con urgenza azioni concrete e trasformative e prendendo sul serio gli impegni che sottoscriviamo a livello internazionale ed europeo per orientarci verso uno sviluppo pienamente sostenibile, perché “È l’unica strada possibile per costruire un futuro di speranza”.

Scarica:

- il Rapporto ASviS
- la presentazione del direttore scientifico.

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Cari Amici,
riprendiamo il nostro dialogo, che ha avuto una lunga pausa per varie ragioni. Ma in questo tempo non hanno conosciuto pausa né il genocidio a Gaza, né la guerra in Ucraina, e ciò che è ancora più grave è che non se ne vede la fine, perché sia nell’uno che nell’altro conflitto una delle parti esclude di porvi termine fino a quando non abbia raggiunto il suo obiettivo o, come dice uno di loro, “finché non abbia finito il lavoro”. E l’obiettivo, o il lavoro da finire, è irraggiungibile sia per l’uno che per l’altro: per lo Stato di Israele si tratterebbe di chiudere definitivamente la questione palestinese, estirpando il popolo palestinese da tutta la terra – dal mare al Giordano – che esso considera sua, e lo sta facendo con la devastazione di Gaza programmata con gli algoritmi e guidata dall’Intelligenza Artificiale; l’Ucraina, a sua volta, insieme all’Europa e agli Stati Uniti che ne sono i mandanti, persegue l’obiettivo della sconfitta o in ogni caso dell’annichilimento della Russia. Dunque dalla crisi innescata da queste due guerre, che danzano sul ciglio di una possibile guerra nucleare e mondiale, non sembra possibile un’uscita attraverso le vie della politica e della razionalità umana. E il discorso di Netanyahu all’ONU del 27 settembre scorso ha dato il colpo di grazia non solo all’idea che possa aver termine la spietata mattanza di Gaza, ma anche che possa esserci un mondo decente nel nostro prossimo futuro. Attribuendone il movente direttamente a Mosè, e quindi a un comando divino, il primo ministro israeliano ha infatti difeso i crimini del suo governo come protesi alla “vittoria totale”. Questa consisterebbe nel dar luogo a un mondo raffigurato in due mappe che egli ha esibito all’attonita assemblea dell’ONU (dimezzata per l’assenza polemica di un gran numero di Stati non gravanti nell’orbita occidentale). Nella sua descrizione queste due mappe sono l’una di benedizione e l’altra di maledizione, la prima è quella di una metà del mondo sotto lo scettro di Israele, dall’Arabia Saudita all’Oceano Indiano, e l’altra siamo noi. Israele ha peraltro cominciato ad attuare questo disegno con l’invasione del Libano, l’assalto alle forze di interposizione dell’ONU, tra cui gli Italiani, e perciò la rottura anche militare con la comunità delle Nazioni, l’attacco all’Iran.
Netanyahu non è il primo a fare il mondo a pezzi. L’altro è il Corriere della Sera che ama celebrare le glorie dell’Occidente come quelle che lo dividono dal “resto del mondo”, “democrazie” contro “autocrazie”. Ma c’è anche il mondo teatro della “competizione strategica” indetta dagli Stati Uniti, dove la sfida sta nel mettere al tappeto la Russia e la Cina, c’è l’Europa che manda l’Ucraina a morire e ghettizza i mondi che una volta andava a scoprire, e c’è il vecchio fantasma della cortina di ferro che torna a dividere l’Est e l’Ovest.
In un mondo così frantumato sarebbe molto strano che non ci fossero guerre su guerre, infinite, pervasive e non convenzionali. Siamo ancora in grado di uscirne? Se “la casa brucia”, come ha gridato un convegno fiorentino a ciò dedicato, e la politica non è in grado di dare risposte, non se ne deve chiedere conto non solo a questo o a quel governo, a questa o a quella cultura, ma alla stessa modernità fondata sul vecchio presupposto, ben noto a Mosè, di mettere un idolo manufatto al posto di Dio? L’idolo è oggi la tecnologia grazie alla quale, come denunciò papa Giovanni nella “Pacem in terris”, siamo entrati nell’età che si gloria della potenza atomica, e che ora, con l’Intelligenza Artificiale, dà ragione a Heidegger per il quale la tecnica non ha più nulla a che fare con gli strumenti, ma “nella sua essenza è qualcosa che l’uomo di per sè non è in grado di dominare”. Messo di fronte a questo abisso, lo stesso Heidegger in una estrema riflessione consegnata alla rivista tedesca “Der Spiegel”, apriva un vertiginoso spazio alla domanda se “solo un Dio ci può salvare”. Era un’ipotesi temeraria, non “politicamente corretta”, in quanto proferita nel cuore di una modernità fondata sull’ipotesi opposta, che “Dio non ci sia e non si occupi dell’umanità”, che provocatoriamente era stata avanzata dal cristiano Ugo Grozio nell’Olanda riformata del XVII secolo per aprire la stagione dell’età adulta dell’uomo. Senonché di questa ipotesi la modernità ha fatto un assoluto e su questo presupposto ha fondato tutta la sua identità, la sua feconda laicità e il dogma del secolarismo, escludendo come dismessa e infantile l’ipotesi opposta. Ma oggi, di fronte alla guerra perpetua e alla minaccia della fine non è forse venuto il momento di rimettere in questione questo assunto, e chiederci se l’ipotesi esclusa della presenza amorevole di Dio nella storia non debba avere la stessa legittimità di quella assunta per vera?
Ciò non vuol dire invocare un miracolo, un intervento straordinario da parte di Dio, abbandonarsi a una trascendenza che non possiamo controllare, ma vuol dire sapere come in rapporto con questo Dio gli uomini possano cambiare, possano convertirsi, possano abbandonare i loro propositi di guerra di sterminio e di odio; e questo è possibile perfino se non credono in Dio e se non sanno nulla della grazia, perché come dice papa Francesco con un neologismo spagnolo, Dio “primerea”, cioè arriva col suo amore prima ancora dell’invocazione o del peccato dell’uomo.
È questo il messianismo cristiano, fondato sull’incarnazione, sullo “scambiarsi” degli uomini con Dio, sulla vocazione a farsi come lui, di cui parla san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi. Se rimettiamo in gioco l’ipotesi esclusa, forse possiamo chiedere a noi stessi e agli altri che sono con noi in questa vita, di rimettere in discussione le loro scelte, di rimettere in discussione le loro guerre, di rimettere in discussione la loro idea del Nemico, e dar mano a costruire una società diversa, un mondo diverso, un mondo che non finisca.
Nel sito pubblichiamo l’intervento di Raniero La Valle al citato convegno di Firenze [vedasi più sotto], e un articolo dell’americano Alon Ben-Meir sugli errori compiuti da tutti gli attori della tragedia israelo-palestinese.
Con i più cordiali saluti,

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri

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La sfida di Israele
CAMBIARE LA MODERNITÀ?

11 OTTOBRE 2024 / EDITORE / DICONO LA LORO /
Netanyahu rompe con la comunità internazionale e apre una voragine all’antisemitismo. Dopo 3000 anni di guerra non è forse il caso di riprendere l’ipotesi di una presenza dell’amore di Dio nella storia? La lezione di Claudio Napoleoni

Raniero La Valle

Pubblichiamo l’intervento fatto da Raniero La Valle il 5 ottobre 2024 a Firenze al convegno promosso dall’associazione “Il coraggio della pace”, sul tema: “La casa brucia, La guerra dell’Occidente”

Cari Amici,

Il tema di questo Convegno è che l’Occidente sta distruggendo se stesso. Ma ancora di più, il fatto è che l’Occidente ha perduto se stesso. Non perché compie dei crimini, perché questo lo ha sempre fatto dalla Pace di Augusto e dalla “donazione di Costantino” in poi, ma perché non riconosce questi crimini come tali; l’Occidente ha abbandonato il diritto, che era il suo valore più prezioso, la sua vera gloria, l’anima del suo ethos, contraddice i valori di cui si vanta, esalta l’individuo e fa a pezzi i popoli, persegue lo sviluppo e produce sfruttamento, incrementa il turismo e dà la caccia ai migranti, promette sicurezza e dà le armi a un suicidio, assiste a un genocidio e lo chiama difesa.

Dunque è venuto il momento di prendere una decisione impossibile e necessaria, oggi, non domani, prima dell’ultimo ucciso, prima dell’ultimo bambino dilaniato, prima dell’ultima donna stuprata, prima dell’ultima speranza perduta. Fermiamo la guerra. È vero che la guerra ci ha accompagnato per tutta la storia, e la modernità l’ha messa come arbitra tra Stati sovrani, ma proprio per questo va strappata fin dalla radice, non basta fermarla a Gaza o in Ucraina o nel Libano, bisogna farlo in ogni luogo della terra.

Ma come? Quello che mi ripromettevo venendo qui oggi era un’analisi del punto cui la guerra è arrivata, e fare delle proposte per dare un contributo ad uscirne. Poi mi sono reso conto che questo non basta più, bisogna dire qualche altra cosa e forse qualche cosa che precede la proposta politica.

Ma, prima di tutto che cosa possiamo dire della guerra, anzi delle guerre in atto?

Io penso che dobbiamo guardare al cambiamento che nella guerra è intervenuto, dobbiamo guardare a come sta cambiando questa istituzione che è la guerra. E dunque possiamo dire forse che dopo 3000 anni la guerra ha cambiato natura. Sono 3000 anni che c’è la guerra, la guerra ha accompagnato sempre il corso della storia. Da quando è stata teorizzata dalla filosofia greca, da Eraclito, che l’ha definita come “il padre e il re di tutte le cose”, questa guerra ci ha accompagnato sempre, è stata il re che ha dominato, è stata la sovrana delle nostre relazioni pubbliche. Però da quando questa guerra è cominciata (ed è durata finora), ha avuto dei cambiamenti. E il più importante che vorrei ricordare è quella svolta che c’è stata nel 1945, quando con l’avvento dell’età atomica – di “questa età che si gloria della potenza atomica”, come aveva detto Giovanni XXIII nella Pacem in Terris – essa era uscita dalla ragione; la diagnosi di papa Giovanni era che ormai la guerra, dal momento che c’era il nucleare, che era cominciata l’età atomica, non aveva più alcuna possibilità di entrare dentro una logica, dentro una dimensione razioneale, e quindi non era più una cosa umana, perché una cosa che sta fuori della ragione, di questa ragione che abbiamo messo – anch’essa – sul trono, non è umana; però la guerra non era uscita solo dalla ragione, era uscita anche dal diritto, perché lo Statuto dell’ONU l’aveva messa fuori legge considerandola un crimine; e in Italia era uscita anche da quel suo legame indissolubile con le glorie della Patria, perché con la Costituzione le avevamo dato il libello del ripudio, non possiamo più celebrarla come il segnale delle glorie patriottiche.

Ma ora siamo nella situazione in cui la guerra ha cambiato di nuovo natura, e l’ha cambiata sotto almeno tre profili.

1) La prima novità è che la guerra oggi ti può raggiungere ovunque, anche dove non è stata dichiarata nessuna guerra, come in Iran, come in Libano; la guerra può arrivare “da remoto”, cordless, col cercapersone, col telefonino, con il messaggio improvviso che sopraggiunge come un bagliore, come un fulmine domesticato, come la pubblicità sgradita, che ti arriva in casa; la morte arriva per grandi numeri, ma individualizzata, ti viene addosso, uno per uno, non 180.000 in un colpo solo, come a Hiroshima, ma disseminata per regioni intere, provocando lo scempio dei corpi a volontà, quanti se ne possono volere, quanto più si vuole spaventare, distruggere, punire. Il genocidio per corrispondenza. Questo è Netanyahu! Ma operazioni immaginate e programmate in questo modo, con tecnologie sofisticate e complesse, sono una perversione del pensiero, anche se vengono ammirate dai giornali in Occidente. Le persone, gli uomini, le donne, non sono persone ma “obiettivi” e basta dar loro un nome infamante, chiamare Hezbollah i libanesi o gli iraniani, chiamare Hamas i palestinesi, chiamare terroristi i talebani, ed ecco l’indiscriminata licenza ad uccidere, ma non solo i cosiddetti “obiettivi”, a morire possono essere anche i bambini nelle culle che vengono localizzati a distanza dal pianto (sapete che ci sono quei piccoli trasmettitori che fanno sentire il bambino che piange, anche quelli possono diventare strumenti di morte), e i clienti del supermercato alla lettura del codice a barre dei prodotti che passano alle casse, e magari gli arrestati a domicilio col braccialetto elettronico L’informatica va alla guerra, l’Intelligenza Artificiale prende il comando, ogni prodotto della tecnologia può diventare un’arma; per salvarcene dovremmo tornare all’età della pietra: nella pietra, infatti, non si possono inserire circuiti elettrici, con la fionda eravamo più sicuri. Finirà che non sarà più permesso di salire su un aereo coi cellulari, con i computer, con gli smartphone, e negli aeroporti si creeranno montagne di telefonini, che poi la gente dovrà ricomprare, e saranno fonte di enormi ricchezze.

2) L’altra novità, oltre l’elettronica ubiquitaria, è la guerra infinita. Essa non ha più fine, è come l’ergastolo: fine pena, mai. Non deve finire in Ucraina, non deve finire a Gaza, nel Libano. L’atto di nascita di questa guerra infinita si può far risalire alla famosa frase del maresciallo Badoglio quando alla caduta del fascismo, annunziando di aver avuto dal re l’ordine di formare un governo militare al posto di Mussolini, dichiarò, contro ogni speranza: “la guerra continua”. Da allora non è mai finita, dalla guerra fredda alla prima guerra del Golfo è continuata fino ad ora: di guerra in guerra e si potrebbe dire di abisso in abisso.

Perché la guerra non finisce?

Non finisce anzitutto perché l’America mette la sua sicurezza nel dominio del mondo, dice di non volere nessuna potenza eguale a sé e concepisce la sua politica estera come una “competizione strategica” fino alla sfida finale con la Cina. Perciò non ha un termine che possa essere previsto. La competizione strategica non è la pace, è la guerra potenziale o reale, che dura sempre.

In secondo luogo non finisce perché è stata presa la decisione di non farla finire, la decisione di adottare la guerra come permanente anche mentre si finge di perseguire negoziati, tregue e soluzioni di cui si sa che non potranno essere realizzate (come i due Stati in Palestina, come la “sconfitta” della Russia, come le immigrazioni controllate).

La guerra non finisce perché con la guerra si possono instaurare i fascismi: con la guerra è più facile fare uno Stato di polizia, passare il potere alla Polizia sul piano interno, agli Eserciti sul piano esterno – lo vediamo con la NATO – e al potere economico e bancario sul piano mondiale.

In Israele con la guerra perpetua finisce la cosiddetta democrazia del Medio Oriente, e Netanyahu porta a compimento il passaggio da quello che doveva essere uno Stato democratico (addirittura socialista, si pensava all’inizio), allo Stato ebraico, monoetnico, dove per legge costituzionale i diritti di natura politica sono riservati in esclusiva al solo popolo ebreo; e dice Netanyahu che non smetterà la guerra finché il lavoro non sarà finito, e il lavoro è l’estirpazione dei palestinesi da Israele.

In Ucraina la guerra (che deve durare per legge) è finalizzata alla transizione a un regime dispotico (capo carismatico, abolizione dei partiti, divieto di espatrio, bulimia di armamenti per fare dell’Ucraina lantemurale dell’Occidente).

In Italia c’è la consegna del potere alla Polizia mediante la legge per la sicurezza in corso di approvazione, che giunge fino al punto di vietare la vendita delle SIM card – le schede telefoniche – agli immigrati che non hanno il permesso di soggiorno, cioè vieta le comunicazioni individuali, tra le persone. Si conferma così che si va verso uno Stato di polizia, ciò che si sta facendo con la consegna della giurisdizione ai P.M., con il premierato, con l’indottrinamento scolastico, che è in corso, con la chiusura (o difesa, come si dice) dei confini e con la sostituzione della cultura che si sostiene sia stata finora egemone, cioè la cultura democratica e di sinistra, con quella prefascista e sovranista: non sarà fascista ma certamente è prefascista.

In Europa grazie alla guerra permanente la Von der Lein è acclamata come Capo del costituendo esercito europeo, il Parlamento europeo vota per la sconfitta della Russia, rinunziando così a fare politica: ma che l’Ucraina sia pure con le nostre armi sconfigga la Russia è fuori del principio di realtà, a meno che non si voglia passare attraverso la guerra atomica mondiale.

In sintesi viene prescelta la guerra perpetua come uscita dalla democrazia e come ritorno dello Stato al modello hobbesiano teorizzato da Carl Schmitt come ”Stato della moderna polizia” fondato sul criterio del Nemico e la guerra come possibilità reale. E questa è una lezione per noi: vuol dire che la lotta per la pace è ormai indissolubile da quella per la democrazia.

3) Il terzo cambiamento nella natura della guerra sta nel suo contenuto stesso. Lo scopo della guerra non era quello di uccidere i nemici, essa aveva i fini più svariati, conquistare un territorio, costruirsi un impero, impadronirsi di ricchezze, risarcire diritti violati, risolvere le controversie internazionali, come dice il nostro articolo 11; ma l’uccisione dei nemici, tanto più se civili, era il costo della guerra, non era il suo scopo, tanto è vero che c’erano le Convenzioni sul diritto di guerra, che legittimavano le carneficine, ma con moderazione, ammettevano che ci andassero di mezzo i civili, i non combattenti, gli obiettivi non militari, ma li chiamava danni collaterali, sarebbe stato meglio che non ci fossero, erano supposti come involontari; tanto meno si potevano bombardare gli ospedali, le autoambulanze, i bambini nelle sale parto, o tagliare alle popolazioni l’acqua e il cibo. Oggi invece la guerra ha per obiettivo di uccidere i nemici, perché sono loro che non devono esistere, che devono essere annientati, allora se ne uccidono 42.000 a Gaza, non importa se ci sono donne e 14.000 bambini, tanto più che i bambini diverranno adulti, saranno un pericolo, l’aveva già capito Erode con la strage degli innocenti; e per ammazzare un nemico, dovunque si trovi, specie se è un capo, se ne ammazzano cento; come racconta il Corriere della sera – questo giornale di salotto e di guerra – per ammazzare Nasrallah a Beirut “sono stati livellati alcuni palazzi, impiegate decine di bombe, alcune da una tonnellata, che hanno scavato crateri giganteschi e provocato forse centinaia di vittime, Concepite per distruggere protezioni, anche in cemento, penetrano nei target ed esplodono dall’interno”. Il giornale aggiunge che quelle bombe gliele hanno mandate gli Stati Uniti. Questi non sono danni collaterali, si uccidono uno per uno e tutti insieme gli appartenenti al popolo palestinese, ai termini della Convenzione dell’ONU questo è un genocidio; e ormai ogni guerra è un genocidio.

Ecco, questo è ciò che volevo dirvi fino a ieri, prima di procedere con delle proposte concrete: Comitati territoriali, ricorso a forme di democrazia diretta, petizioni alle Camere, ecc.

Ma poi ho sentito e visto integralmente il discorso di Netanyahu all’ONU e questo discorso mi ha spaventato, perché mi ha fatto capire che siamo a un punto limite, siamo per così dire a una soglia terminale, dopo la quale non sappiamo che cosa può accadere, qualcosa che non riguarda più solo la guerra ma investe il nostro destino, l’epoca nostra. Questo discorso di Netanyahu è un discorso feroce, annuncia la decisione di combattere fino alla “vittoria totale”, dice che non c’è nessun posto in Iran, ma nemmeno in Medio Oriente che non possa essere raggiunto dalla violenza vendicativa dell’esercito di Israele; e poi presenta due mappe, una di benedizione e una di maledizione, due mappe di un mondo diviso in due, e da una parte c’è la mappa con Israele, e l’Arabia Saudita che Israele vorrebbe recuperare dopo gli accordi di Abramo, e il Medio Oriente fino all’Oceano Indiano, e questo sarebbe il mondo sognato, il mondo fatato, il mondo bello che Israele vorrebbe costruire insieme ai suoi partner, quelli che non sono i suoi nemici; e poi c’è l’altra mappa, che egli insieme alla prima ha mostrato, così, davanti all’assemblea dell’ONU, la mappa del male, la mappa della maledizione, di quelli che sono contro Israele, che è l’Occidente questo Occidente di cui stiamo parlando qui oggi. E ciò nel contesto di una rottura irriducibile con l’ONU, definita come una “palude di antisemitismo”, e quindi con la comunità delle Nazioni. Ma c’è ancora qualcosa di più importante, cioè viene esibito il fondamento indiscutibile di questa pretesa di predominio; e questo fondamento indiscutibile risale a migliaia di anni fa, e deriva da una lettura fondamentalista, una lettura integralista, letterale, della Bibbia, una lettura che rappresenta un vilipendio della Sacra Scrittura; e di fronte a questo l’Occidente, che ormai ignora queste categorie e non sa leggere la Bibbia, e forse non sa nemmeno cos’è, è disarmato, non può entrare in dialogo, non può nemmeno veramente capire gli appelli drammatici di papa Francesco, mentre, sul versante dei credenti, entra in una crisi grave quello che era il promettente e benedetto dialogo ebraico-cristiano, che risale alla profezia di Gesù al pozzo di Giacobbe, quando disse: “la salvezza viene dai Giudei”.
[segue]

«Spes non confundit», «la speranza non delude»: Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025

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1. «Spes non confundit», «la speranza non delude» (Rm 5,5). Nel segno della speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma. La speranza è anche il messaggio centrale del prossimo Giubileo, che secondo antica tradizione il Papa indice ogni venticinque anni. Penso a tutti i pellegrini di speranza che giungeranno a Roma per vivere l’Anno Santo e a quanti, non potendo raggiungere la città degli apostoli Pietro e Paolo, lo celebreranno nelle Chiese particolari. Per tutti, possa essere un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, «porta» di salvezza (cfr. Gv 10,7.9); con Lui, che la Chiesa ha la missione di annunciare sempre, ovunque e a tutti quale «nostra speranza» (1Tm 1,1).

Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni. Lasciamoci condurre da quanto l’apostolo Paolo scrive proprio ai cristiani di Roma.

Una Parola di speranza

2. «Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. [...] La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,1-2.5). Sono molteplici gli spunti di riflessione che qui San Paolo propone. Sappiamo che la Lettera ai Romani segna un passaggio decisivo nella sua attività di evangelizzazione. Fino a quel momento l’ha svolta nell’area orientale dell’Impero e ora lo aspetta Roma, con quanto essa rappresenta agli occhi del mondo: una sfida grande, da affrontare in nome dell’annuncio del Vangelo, che non può conoscere barriere né confini. La Chiesa di Roma non è stata fondata da Paolo, e lui sente vivo il desiderio di raggiungerla presto, per portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto, come annuncio della speranza che compie le promesse, introduce alla gloria e, fondata sull’amore, non delude.

3. La speranza, infatti, nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,10). E la sua vita si manifesta nella nostra vita di fede, che inizia con il Battesimo, si sviluppa nella docilità alla grazia di Dio ed è perciò animata dalla speranza, sempre rinnovata e resa incrollabile dall’azione dello Spirito Santo.

È infatti lo Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa, a irradiare nei credenti la luce della speranza: Egli la tiene accesa come una fiaccola che mai si spegne, per dare sostegno e vigore alla nostra vita. La speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? [...] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» ( Rm 8,35.37-39). Ecco perché questa speranza non cede nelle difficoltà: essa si fonda sulla fede ed è nutrita dalla carità, e così permette di andare avanti nella vita. Sant’Agostino scrive in proposito: «In qualunque genere di vita, non si vive senza queste tre propensioni dell’anima: credere, sperare, amare». [1]

4. San Paolo è molto realista. Sa che la vita è fatta di gioie e di dolori, che l’amore viene messo alla prova quando aumentano le difficoltà e la speranza sembra crollare davanti alla sofferenza. Eppure scrive: «Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (Rm 5,3-4). Per l’Apostolo, la tribolazione e la sofferenza sono le condizioni tipiche di quanti annunciano il Vangelo in contesti di incomprensione e di persecuzione (cfr. 2Cor 6,3-10). Ma in tali situazioni, attraverso il buio si scorge una luce: si scopre come a sorreggere l’evangelizzazione sia la forza che scaturisce dalla croce e dalla risurrezione di Cristo. E ciò porta a sviluppare una virtù strettamente imparentata con la speranza: la pazienza. Siamo ormai abituati a volere tutto e subito, in un mondo dove la fretta è diventata una costante. Non si ha più il tempo per incontrarsi e spesso anche nelle famiglie diventa difficile trovarsi insieme e parlare con calma. La pazienza è stata messa in fuga dalla fretta, recando un grave danno alle persone. Subentrano infatti l’insofferenza, il nervosismo, a volte la violenza gratuita, che generano insoddisfazione e chiusura.

Nell’epoca di internet, inoltre, dove lo spazio e il tempo sono soppiantati dal “qui ed ora”, la pazienza non è di casa. Se fossimo ancora capaci di guardare con stupore al creato, potremmo comprendere quanto decisiva sia la pazienza. Attendere l’alternarsi delle stagioni con i loro frutti; osservare la vita degli animali e i cicli del loro sviluppo; avere gli occhi semplici di San Francesco che nel suo Cantico delle creature, scritto proprio 800 anni fa, percepiva il creato come una grande famiglia e chiamava il sole “fratello” e la luna “sorella”. [2] Riscoprire la pazienza fa tanto bene a sé e agli altri. San Paolo fa spesso ricorso alla pazienza per sottolineare l’importanza della perseveranza e della fiducia in ciò che ci è stato promesso da Dio, ma anzitutto testimonia che Dio è paziente con noi, Lui che è «il Dio della perseveranza e della consolazione» ( Rm 15,5). La pazienza, frutto anch’essa dello Spirito Santo, tiene viva la speranza e la consolida come virtù e stile di vita. Pertanto, impariamo a chiedere spesso la grazia della pazienza, che è figlia della speranza e nello stesso tempo la sostiene.

Un cammino di speranza

5. Da questo intreccio di speranza e pazienza appare chiaro come la vita cristiana sia un cammino, che ha bisogno anche di momenti forti per nutrire e irrobustire la speranza, insostituibile compagna che fa intravedere la meta: l’incontro con il Signore Gesù. Mi piace pensare che un percorso di grazia, animato dalla spiritualità popolare, abbia preceduto l’indizione, nel 1300, del primo Giubileo. Non possiamo infatti dimenticare le varie forme attraverso cui la grazia del perdono si è riversata con abbondanza sul santo Popolo fedele di Dio. Ricordiamo, ad esempio, la grande “perdonanza” che San Celestino V volle concedere a quanti si recavano nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila, nei giorni 28 e 29 agosto 1294, sei anni prima che Papa Bonifacio VIII istituisse l’Anno Santo. La Chiesa già sperimentava, dunque, la grazia giubilare della misericordia. E ancora prima, nel 1216, Papa Onorio III aveva accolto la supplica di San Francesco che chiedeva l’indulgenza per quanti avrebbero visitato la Porziuncola nei primi due giorni di agosto. Lo stesso si può affermare per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela: infatti Papa Callisto II, nel 1122, concesse di celebrare il Giubileo in quel Santuario ogni volta che la festa dell’apostolo Giacomo cadeva di domenica. È bene che tale modalità “diffusa” di celebrazioni giubilari continui, così che la forza del perdono di Dio sostenga e accompagni il cammino delle comunità e delle persone.

Non a caso il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita. Il pellegrinaggio a piedi favorisce molto la riscoperta del valore del silenzio, della fatica, dell’essenzialità. Anche nel prossimo anno i pellegrini di speranza non mancheranno di percorrere vie antiche e moderne per vivere intensamente l’esperienza giubilare. Nella stessa città di Roma, inoltre, saranno presenti itinerari di fede, in aggiunta a quelli tradizionali delle catacombe e delle Sette Chiese. Transitare da un Paese all’altro, come se i confini fossero superati, passare da una città all’altra nella contemplazione del creato e delle opere d’arte permetterà di fare tesoro di esperienze e culture differenti, per portare dentro di sé la bellezza che, armonizzata dalla preghiera, conduce a ringraziare Dio per le meraviglie da Lui compiute. Le chiese giubilari, lungo i percorsi e nell’Urbe, potranno essere oasi di spiritualità dove ristorare il cammino della fede e abbeverarsi alle sorgenti della speranza, anzitutto accostandosi al Sacramento della Riconciliazione, insostituibile punto di partenza di un reale cammino di conversione. Nelle Chiese particolari si curi in modo speciale la preparazione dei sacerdoti e dei fedeli alle Confessioni e l’accessibilità al sacramento nella forma individuale.

A questo pellegrinaggio un invito particolare voglio rivolgere ai fedeli delle Chiese Orientali, in particolare a coloro che sono già in piena comunione con il Successore di Pietro. Essi, che hanno tanto sofferto, spesso fino alla morte, per la loro fedeltà a Cristo e alla Chiesa, si devono sentire particolarmente benvenuti in questa Roma che è Madre anche per loro e che custodisce tante memorie della loro presenza. La Chiesa Cattolica, che è arricchita dalle loro antichissime liturgie, dalla teologia e dalla spiritualità dei Padri, monaci e teologi, vuole esprimere simbolicamente l’accoglienza loro e dei loro fratelli e sorelle ortodossi, in un’epoca in cui già vivono il pellegrinaggio della Via Crucis, con cui sono spesso costretti a lasciare le loro terre d’origine, le loro terre sante, da cui li scacciano verso Paesi più sicuri la violenza e l’instabilità. Per loro la speranza di essere amati dalla Chiesa, che non li abbandonerà, ma li seguirà dovunque andranno, rende ancora più forte il segno del Giubileo.

6. L’Anno Santo 2025 si pone in continuità con i precedenti eventi di grazia. Nell’ultimo Giubileo Ordinario si è varcata la soglia dei duemila anni della nascita di Gesù Cristo. In seguito, il 13 marzo 2015, ho indetto un Giubileo Straordinario con lo scopo di manifestare e permettere di incontrare il “Volto della misericordia” di Dio, [3] annuncio centrale del Vangelo per ogni persona in ogni epoca. Ora è giunto il tempo di un nuovo Giubileo, nel quale spalancare ancora la Porta Santa per offrire l’esperienza viva dell’amore di Dio, che suscita nel cuore la speranza certa della salvezza in Cristo. Nello stesso tempo, questo Anno Santo orienterà il cammino verso un’altra ricorrenza fondamentale per tutti i cristiani: nel 2033, infatti, si celebreranno i duemila anni della Redenzione compiuta attraverso la passione, morte e risurrezione del Signore Gesù. Siamo così dinanzi a un percorso segnato da grandi tappe, nelle quali la grazia di Dio precede e accompagna il popolo che cammina zelante nella fede, operoso nella carità e perseverante nella speranza (cfr. 1Ts 1,3).

Sostenuto da una così lunga tradizione e nella certezza che questo Anno giubilare potrà essere per tutta la Chiesa un’intensa esperienza di grazia e di speranza, stabilisco che la Porta Santa della Basilica di San Pietro in Vaticano sia aperta il 24 dicembre del presente anno 2024, dando così inizio al Giubileo Ordinario. La domenica successiva, 29 dicembre 2024, aprirò la Porta Santa della mia cattedrale di San Giovanni in Laterano, che il 9 novembre di quest’anno celebrerà i 1700 anni della dedicazione. A seguire, il 1° gennaio 2025, Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, verrà aperta la Porta Santa della Basilica papale di Santa Maria Maggiore. Infine, domenica 5 gennaio sarà aperta la Porta Santa della Basilica papale di San Paolo fuori le Mura. Queste ultime tre Porte Sante saranno chiuse entro domenica 28 dicembre dello stesso anno.

Stabilisco inoltre che domenica 29 dicembre 2024, in tutte le cattedrali e concattedrali, i Vescovi diocesani celebrino la santa Eucaristia come solenne apertura dell’Anno giubilare, secondo il Rituale che verrà predisposto per l’occasione. Per la celebrazione nella chiesa concattedrale, il Vescovo potrà essere sostituito da un suo Delegato appositamente designato. Il pellegrinaggio da una chiesa, scelta per la collectio, verso la cattedrale sia il segno del cammino di speranza che, illuminato dalla Parola di Dio, accomuna i credenti. In esso si dia lettura di alcuni brani del presente Documento e si annunci al popolo l’Indulgenza Giubilare, che potrà essere ottenuta secondo le prescrizioni contenute nel medesimo Rituale per la celebrazione del Giubileo nelle Chiese particolari. Durante l’Anno Santo, che nelle Chiese particolari terminerà domenica 28 dicembre 2025, si abbia cura che il Popolo di Dio possa accogliere con piena partecipazione sia l’annuncio di speranza della grazia di Dio sia i segni che ne attestano l’efficacia.

Il Giubileo Ordinario terminerà con la chiusura della Porta Santa della Basilica papale di San Pietro in Vaticano il 6 gennaio 2026, Epifania del Signore. Possa la luce della speranza cristiana raggiungere ogni persona, come messaggio dell’amore di Dio rivolto a tutti! E possa la Chiesa essere testimone fedele di questo annuncio in ogni parte del mondo!

Segni di speranza

7. Oltre ad attingere la speranza nella grazia di Dio, siamo chiamati a riscoprirla anche nei segni dei tempi che il Signore ci offre. Come afferma il Concilio Vaticano II, «è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche». [4] È necessario, quindi, porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza. Ma i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza.

8. Il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova e difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza. Cosa manca ancora a questi popoli che già non abbiano subito? Com’è possibile che il loro grido disperato di aiuto non spinga i responsabili delle Nazioni a voler porre fine ai troppi conflitti regionali, consapevoli delle conseguenze che ne possono derivare a livello mondiale? È troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? Il Giubileo ricordi che quanti si fanno «operatori di pace saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). L’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura.

9. Guardare al futuro con speranza equivale anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere. Purtroppo, dobbiamo constatare con tristezza che in tante situazioni tale prospettiva viene a mancare. La prima conseguenza è la perdita del desiderio di trasmettere la vita. A causa dei ritmi di vita frenetici, dei timori riguardo al futuro, della mancanza di garanzie lavorative e tutele sociali adeguate, di modelli sociali in cui a dettare l’agenda è la ricerca del profitto anziché la cura delle relazioni, si assiste in vari Paesi a un preoccupante calo della natalità. Al contrario, in altri contesti, «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi». [5]

L’apertura alla vita con una maternità e paternità responsabile è il progetto che il Creatore ha inscritto nel cuore e nel corpo degli uomini e delle donne, una missione che il Signore affida agli sposi e al loro amore. È urgente che, oltre all’impegno legislativo degli Stati, non venga a mancare il sostegno convinto delle comunità credenti e dell’intera comunità civile in tutte le sue componenti, perché il desiderio dei giovani di generare nuovi figli e figlie, come frutto della fecondità del loro amore, dà futuro ad ogni società ed è questione di speranza: dipende dalla speranza e genera speranza.

La comunità cristiana perciò non può essere seconda a nessuno nel sostenere la necessità di un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine che vengano a riempire le ormai troppe culle vuote in molte parti del mondo. Ma tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26), non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti.

10. Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi.

È un richiamo antico, che proviene dalla Parola di Dio e permane con tutto il suo valore sapienziale nell’invocare atti di clemenza e di liberazione che permettano di ricominciare: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti» ( Lv 25,10). Quanto stabilito dalla Legge mosaica è ripreso dal profeta Isaia: «Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» ( Is 61,1-2). Sono le parole che Gesù ha fatto proprie all’inizio del suo ministero, dichiarando in sé stesso il compimento dell’“anno di grazia del Signore” (cfr. Lc 4,18-19). In ogni angolo della terra, i credenti, specialmente i Pastori, si facciano interpreti di tali istanze, formando una voce sola che chieda con coraggio condizioni dignitose per chi è recluso, rispetto dei diritti umani e soprattutto l’abolizione della pena di morte, provvedimento contrario alla fede cristiana e che annienta ogni speranza di perdono e di rinnovamento. [6] Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita.

11. Segni di speranza andranno offerti agli ammalati, che si trovano a casa o in ospedale. Le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono. Le opere di misericordia sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori sentimenti di gratitudine. E la gratitudine raggiunga tutti gli operatori sanitari che, in condizioni non di rado difficili, esercitano la loro missione con cura premurosa per le persone malate e più fragili.

Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che limitano molto l’autonomia personale. La cura per loro è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera.

12. Di segni di speranza hanno bisogno anche coloro che in sé stessi la rappresentano: i giovani. Essi, purtroppo, vedono spesso crollare i loro sogni. Non possiamo deluderli: sul loro entusiasmo si fonda l’avvenire. È bello vederli sprigionare energie, ad esempio quando si rimboccano le maniche e si impegnano volontariamente nelle situazioni di calamità e di disagio sociale. Ma è triste vedere giovani privi di speranza; d’altronde, quando il futuro è incerto e impermeabile ai sogni, quando lo studio non offre sbocchi e la mancanza di un lavoro o di un’occupazione sufficientemente stabile rischiano di azzerare i desideri, è inevitabile che il presente sia vissuto nella malinconia e nella noia. L’illusione delle droghe, il rischio della trasgressione e la ricerca dell’effimero creano in loro più che in altri confusione e nascondono la bellezza e il senso della vita, facendoli scivolare in baratri oscuri e spingendoli a compiere gesti autodistruttivi. Per questo il Giubileo sia nella Chiesa occasione di slancio nei loro confronti: con una rinnovata passione prendiamoci cura dei ragazzi, degli studenti, dei fidanzati, delle giovani generazioni! Vicinanza ai giovani, gioia e speranza della Chiesa e del mondo!

13. Non potranno mancare segni di speranza nei riguardi dei migranti, che abbandonano la loro terra alla ricerca di una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie. Le loro attese non siano vanificate da pregiudizi e chiusure; l’accoglienza, che spalanca le braccia ad ognuno secondo la sua dignità, si accompagni con la responsabilità, affinché a nessuno sia negato il diritto di costruire un futuro migliore. Ai tanti esuli, profughi e rifugiati, che le controverse vicende internazionali obbligano a fuggire per evitare guerre, violenze e discriminazioni, siano garantiti la sicurezza e l’accesso al lavoro e all’istruzione, strumenti necessari per il loro inserimento nel nuovo contesto sociale.

La comunità cristiana sia sempre pronta a difendere il diritto dei più deboli. Spalanchi con generosità le porte dell’accoglienza, perché a nessuno venga mai a mancare la speranza di una vita migliore. Risuoni nei cuori la Parola del Signore che, nella grande parabola del giudizio finale, ha detto: «Ero straniero e mi avete accolto», perché «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25,35.40).

14. Segni di speranza meritano gli anziani, che spesso sperimentano solitudine e senso di abbandono. Valorizzare il tesoro che sono, la loro esperienza di vita, la sapienza di cui sono portatori e il contributo che sono in grado di offrire, è un impegno per la comunità cristiana e per la società civile, chiamate a lavorare insieme per l’alleanza tra le generazioni.

Un pensiero particolare rivolgo ai nonni e alle nonne, che rappresentano la trasmissione della fede e della saggezza di vita alle generazioni più giovani. Siano sostenuti dalla gratitudine dei figli e dall’amore dei nipoti, che trovano in loro radicamento, comprensione e incoraggiamento.

15. Speranza invoco in modo accorato per i miliardi di poveri, che spesso mancano del necessario per vivere. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di abituarsi e rassegnarsi. Ma non possiamo distogliere lo sguardo da situazioni tanto drammatiche, che si riscontrano ormai ovunque, non soltanto in determinate aree del mondo. Incontriamo persone povere o impoverite ogni giorno e a volte possono essere nostre vicine di casa. Spesso non hanno un’abitazione, né il cibo adeguato per la giornata. Soffrono l’esclusione e l’indifferenza di tanti. È scandaloso che, in un mondo dotato di enormi risorse, destinate in larga parte agli armamenti, i poveri siano «la maggior parte […], miliardi di persone. Oggi sono menzionati nei dibattiti politici ed economici internazionali, ma per lo più sembra che i loro problemi si pongano come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per obbligo o in maniera periferica, se non li si considera un mero danno collaterale. Di fatto, al momento dell’attuazione concreta, rimangono frequentemente all’ultimo posto». [7] Non dimentichiamo: i poveri, quasi sempre, sono vittime, non colpevoli.

Appelli per la speranza

16. Facendo eco alla parola antica dei profeti, il Giubileo ricorda che i beni della Terra non sono destinati a pochi privilegiati, ma a tutti. È necessario che quanti possiedono ricchezze si facciano generosi, riconoscendo il volto dei fratelli nel bisogno. Penso in particolare a coloro che mancano di acqua e di cibo: la fame è una piaga scandalosa nel corpo della nostra umanità e invita tutti a un sussulto di coscienza. Rinnovo l’appello affinché «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa». [8]

Un altro invito accorato desidero rivolgere in vista dell’Anno giubilare: è destinato alle Nazioni più benestanti, perché riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli: «C’è infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi». [9] Come insegna la Sacra Scrittura, la terra appartiene a Dio e noi tutti vi abitiamo come «forestieri e ospiti» ( Lv 25,23). Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati.

17. Durante il prossimo Giubileo cadrà una ricorrenza molto significativa per tutti i cristiani. Si compiranno, infatti, 1700 anni dalla celebrazione del primo grande Concilio ecumenico, quello di Nicea. È bene ricordare che, fin dai tempi apostolici, i Pastori si riunirono in diverse occasioni in assemblee allo scopo di trattare tematiche dottrinali e questioni disciplinari. Nei primi secoli della fede i Sinodi si moltiplicarono sia nell’Oriente sia nell’Occidente cristiano, mostrando quanto fosse importante custodire l’unità del Popolo di Dio e l’annuncio fedele del Vangelo. L’Anno giubilare potrà essere un’opportunità importante per dare concretezza a questa forma sinodale, che la comunità cristiana avverte oggi come espressione sempre più necessaria per meglio corrispondere all’urgenza dell’evangelizzazione: tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e ministero, corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel mondo.

Il Concilio di Nicea ebbe il compito di preservare l’unità, seriamente minacciata dalla negazione della divinità di Gesù Cristo e della sua uguaglianza con il Padre. Erano presenti circa trecento Vescovi, che si riunirono nel palazzo imperiale convocati su impulso dell’imperatore Costantino il 20 maggio 325. Dopo vari dibattimenti, tutti, con la grazia dello Spirito, si riconobbero nel Simbolo di fede che ancora oggi professiamo nella Celebrazione eucaristica domenicale. I Padri conciliari vollero iniziare quel Simbolo utilizzando per la prima volta l’espressione «Noi crediamo», [10] a testimonianza che in quel “Noi” tutte le Chiese si ritrovavano in comunione, e tutti i cristiani professavano la medesima fede.

Il Concilio di Nicea è una pietra miliare nella storia della Chiesa. L’anniversario della sua ricorrenza invita i cristiani a unirsi nella lode e nel ringraziamento alla Santissima Trinità e in particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, «della stessa sostanza del Padre», [11] che ci ha rivelato tale mistero di amore. Ma Nicea rappresenta anche un invito a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile, a non stancarsi di cercare forme adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù: «Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» ( Gv 17,21).

Al Concilio di Nicea si trattò anche della datazione della Pasqua. A tale riguardo, vi sono ancora oggi posizioni differenti, che impediscono di celebrare nello stesso giorno l’evento fondante della fede. Per una provvidenziale circostanza, ciò avverrà proprio nell’Anno 2025. Possa essere questo un appello per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente a compiere un passo deciso verso l’unità intorno a una data comune per la Pasqua. Molti, è bene ricordarlo, non hanno più cognizione delle diatribe del passato e non comprendono come possano sussistere divisioni a tale proposito.

Ancorati alla speranza

18. La speranza, insieme alla fede e alla carità, forma il trittico delle “virtù teologali”, che esprimono l’essenza della vita cristiana (cfr. 1Cor 13,13; 1Ts 1,3). Nel loro dinamismo inscindibile, la speranza è quella che, per così dire, imprime l’orientamento, indica la direzione e la finalità dell’esistenza credente. [segue]

RAS. Disegno di legge concernente “Misure urgenti per l’individuazione di aree e superfici idonee e non idonee all’installazione e promozione di impianti a fonti di energia rinnovabile, e per la semplificazione dei procedimenti autorizzativi”. Relazione illustrativa

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Disegno di legge concernente “Misure urgenti per l’individuazione di aree e superfici idonee e non idonee all’installazione e promozione di impianti a fonti di energia rinnovabile, e per la semplificazione dei procedimenti autorizzativi”. Relazione illustrativa

Il presente disegno di legge contiene disposizioni urgenti, ai sensi dell’articolo 20, comma 4, del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199, e nel rispetto di quanto previsto dal decreto del Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica, del 21 giugno 2024, recante: “Disciplina per l’individuazione di superfici e aree idonee per l’installazione di impianti a fonti rinnovabili”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 2 luglio 2024, n. 153, al fine di individuare sul territorio della Regione Autonoma della Sardegna le aree e le superfici idonee e non idonee all’installazione di impianti di energia a fonti rinnovabili. Il richiamato art. 20, comma quarto, del d.lgs. n. 199 del 2021 attribuisce, infatti, al legislatore regionale il compito di individuare le “aree idonee” entro centottanta giorni dall’entrata in vigore dei decreti del Ministro della transizione ecologica, subordinando tale opera di individuazione ai principî e ai criteri dettati da “linee guida” contenute nei suddetti decreti. Considerato che il D.M. 21 giugno 2024 è entrato in vigore il 3 luglio (giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale), il termine dei centottanta giorni per l’adozione della legge regionale sulle “aree idonee” spira nella prima di settimana di gennaio 2025. Di qui la necessità di avviare rapidamente l’iter legislativo di esame e approvazione del DDL, onde scongiurare il rischio che sia esercitato il potere statale sostitutivo ai sensi dell’art. 41 della legge 24 dicembre 2012, n. 234. Nonostante l’art. 20, comma quarto, del d.lgs. n. 199/2021 faccia espressamente riferimento soltanto alle “aree idonee”, tuttavia il primo comma del medesimo articolo determina l’ambito materiale di competenza dei decreti del Ministro della transizione ecologica affidando a essi il compito di definire “principi e criteri omogenei per l’individuazione delle superfici e delle aree idonee e non idonee”, con ciò facendo implicitamente intendere che il legislatore regionale non dovrà limitarsi a indicare soltanto le prime, dovendo altresì delimitare pure le “aree non idonee”. La suddetta ricostruzione è avvalorata dall’art. 1, comma secondo, lett. a), b), c), d), del D.M. 21 giugno 2024, il quale elenca le tipologie di superfici e aree che la legge regionale dovrà definire, secondo la seguente tassonomia: a) superfici e aree idonee, b) superfici e aree non idonee, c) superfici e aree ordinarie, d) aree in cui è vietata l’installazione di impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra. In particolare, le «aree idonee» sono quelle nelle quali i procedimenti autorizzativi sono semplificati e più rapidi, le «aree ordinarie» quelle soggette a regimi autorizzativi ordinari, le «aree non idonee» quelle incompatibili con l’installazione di specifiche tipologie di impianti FER, secondo quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, lettera b) del D.M. del 21.06.2024 ed individuate sulla base dei criteri di cui dal par. 17 e dall’Allegato 3 del D.M. n. 219 del 2010) e, infine, rimangono le aree agricole per le quali vige il divieto di installazione di impianti fotovoltaici con moduli a terra ai sensi dell’art. 20, comma 1-bis, del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199. Se ne evince che alle Regioni è affidato non soltanto il compito di individuare le “aree idonee”, da assoggettare a regime autorizzatorio semplificato, ma anche le “aree non idonee”, in cui vietare
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l’installazione di impianti di determinate tipologie di impianti, distinte per taglia, fermo restando che ogni altra area (in cui non viga il divieto di impianti fotovoltaici con moduli a terra) è residualmente soggetta al regime autorizzatorio ordinario e può, quindi, ospitare l’installazione di impianti. Al duplice compito di definire sia le “aree idonee” che quelle “non idonee” all’installazione degli impianti FER corrisponde una duplicità di obiettivi fondamentali perseguiti dal presente disegno di legge: da un lato, mediante l’indicazione delle “aree idonee”, soggette a regime autorizzatorio agevolato, favorire la transizione energetica verso l’uso preponderante delle fonti rinnovabili, a difesa delle condizioni ecologiche e climatiche, coerentemente con l’art. 9, primo e secondo periodo, della Costituzione e in ossequio al principio (di derivazione europea) della massima diffusione delle fonti di energia rinnovabile; dall’altro lato, mediante la definizione delle “aree non idonee”, di regola sottratte all’installazione di impianti, tutelare il patrimonio paesaggistico, archeologico, storico-culturale, ambientale di cui il territorio sardo è ricco. Merita inoltre osservare che il legislatore sardo può perseguire la seconda finalità fondamentale sopraddetta non soltanto svolgendo i principi di legge statale e le linee guida nell’esercizio della competenza legislativa concorrente ex art. 117, terzo comma, della Costituzione (e ai sensi dell’art. 20, comma quarto, del dlgs 199/2021), ma anche attingendo al novero delle competenze statutarie, e in particolare esercitando la potestà legislativa primaria di cui all’art. 3, lett. f, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, recante lo “Statuto Speciale della Regione Sardegna”, per come specificata e integrata dal Capo III del d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480 (Nuove norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione autonoma della Sardegna). D’altronde, come si evince dalla giurisprudenza costituzionale, «l’attribuzione allo Stato della competenza a porre i princìpi fondamentali della materia “energia” non annulla quella della Regione Sardegna a tutelare il paesaggio, così come la competenza regionale in materia paesaggistica non rende inapplicabili alla medesima Regione i princìpi di cui sopra» (sent. 224 del 2012). In particolare, nei confronti della Regione Sardegna, in quanto speciale, «non sono ammissibili vincoli puntuali e concreti» discendenti da Linee Guida (sentt. 275 del 2011 e 224 del 2012). Ne discende che il legislatore sardo beneficia di margini discrezionali più ampi nella definizione delle «aree non idonee» in relazione alle quali vietare l’installazione di impianti da FER e che possa, quindi, legittimamente «ipotizzare particolari limitazioni alla diffusione dei suddetti impianti», come ha chiarito la Corte costituzionale, la quale peraltro aggiunge che «ove la scelta (delle aree non idonee, ndr) debba essere operata da Regioni speciali, che possiedono una competenza legislativa primaria in alcune materie (…) l’ampiezza e la portata delle esclusioni deve essere valutata non alla stregua dei criteri generali validi per tutte le Regioni, ma in considerazione dell’esigenza di dare idonea tutela agli interessi sottesi alla competenza legislativa statutariamente attribuita» (sent. 224 del 2012). L’articolo 1, recante disposizioni per l’individuazione di aree e superfici idonee e non idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili prevede le finalità della norma, riconducibili al rispetto degli obblighi nazionali e internazionali in materia di transizione energetica, con particolare riferimento agli obiettivi di cui alla Tabella A, articolo 2 del Decreto del Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica del 21 giugno 2024, nel rispetto del riparto competenziale di cui all’articolo 9, primo e secondo periodo della Costituzione, nonché delle disposizioni di cui all’articolo 3, lettere m) e n), articolo 4, lettera e) della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, recante “Statuto Speciale della Regione Sardegna” nonché delle disposizioni di cui al DPR del 22 maggio 1975, n. 480.
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Tra le finalità della presente legge, oltre che quella di fornire una pianificazione territoriale conforme al raggiungimento degli obiettivi di transizione energetica, si fa riferimento alla necessità di massimizzare le aree da individuare al fine di agevolare il raggiungimento degli obiettivi di cui alla Tabella A dell’art. 2 del decreto ministeriale di cui alla lettera a), ma, al contempo, di garantire le esigenze di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, delle aree agricole e forestali, della qualità dell’aria e dei corpi idrici, privilegiando l’utilizzo di superfici di strutture edificate, quali capannoni industriali e parcheggi, nonché di aree a destinazione industriale, artigianale, per servizi e logistica, e verificando l’idoneità di aree non utilizzabili per altri scopi, ivi incluse le superfici agricole non utilizzabili, compatibilmente con le caratteristiche e le disponibilità delle risorse rinnovabili, delle infrastrutture di rete e della domanda elettrica, nonché tenendo in considerazione la dislocazione della domanda, gli eventuali vincoli di rete e il potenziale di sviluppo della rete stessa. I commi dal 4 al 11 dettano disposizioni puntuali circa l’individuazione delle aree idonee, non idonee e ordinarie delle rispettive taglie e tipologie d’impianti FER. Il comma 4 individua le aree non idonee rimandando agli allegati A, B, C, D ed E, prevedendo il divieto di realizzazione di specifiche taglie e tipologie di impianti, in conformità alla definizione di aree non idonee di cui all’articolo 1, comma 2, lettera b) del decreto del Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica del 21 giugno 2024, secondo cui le “aree non idonee sono e siti le cui caratteristiche sono incompatibili con l’installazione di specifiche tipologie di impianti le modalità stabilite dal paragrafo 17 e dall’allegato 3 delle linee guida emanate con decreto del Ministero dello sviluppo economico 10 settembre 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 18 settembre 2010, n. 219”. Infatti, gli allegati A, B, C, D ed E, nell’individuare le aree non idonee, oltre che rispettare pedissequamente le suddette modalità di individuazione, specificano ulteriormente le aree di cui al DM 10 settembre 2010, Allegato 3, lettera f). Inoltre, lo stesso comma 4 disciplina la sorte dei procedimenti in corso o già conclusi al momento dell’entrata in vigore della legge. I procedimenti non ancora conclusi non potranno proseguire se i relativi impianti sono in contrasto con la normativa sopravvenuta di cui alla presente legge. I provvedimenti autorizzatori già emanati, aventi ad oggetto impianti che ricadono nelle aree non idonee, sono privi di efficacia se l’esecuzione dei lavori di realizzazione non ha avuto inizio ovvero non ha comportato una modificazione irreversibile dello stato dei luoghi. Il comma 5 individua le aree idonee, rimandando all’allegato F. Il comma 6, individua le aree ordinarie e disciplina un criterio di risoluzione di eventuali dicotomie relative ai casi in cui un progetto d’impianto ricada in un sito ricompreso sia in area ordinaria che area non idonea. Il comma 7, invece, disciplina il criterio di risoluzione di eventuali dicotomie relative ai casi in cui un progetto d’impianto ricada in un sito ricompreso sia in area idonea che area non idonea. I commi da 8 a 11, invece, dettano disposizioni puntuali sulle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti off-shore, con particolare riferimento alle opere di connessione a terra degli impianti medesimi. L’articolo 2, al comma 1, prevede a decorrere dal 2025 l’istituzione di un fondo, alimentato con risorse regionali, nazionali e europee, con una dotazione iniziale per gli anni 2025-2030 pari a complessivi euro 678.000.000, di cui euro 50.000.000 nel 2025, euro 70.000.000 nel 2026 ed euro 139.500.000 per ciascuno degli anni 2027, 2028, 2029 e 2030 per la concessione di misure di incentivo finalizzate al sostegno di interventi di installazione di impianti fotovoltaici e di accumulo di energia elettrica destinati all’autoconsumo e individuando, genericamente, una serie di soggetti potenzialmente beneficiari: le persone fisiche, le imprese, i professionisti, le comunità energetiche, nonché gli enti pubblici regionali e territoriali. Oltre già menzionato criterio soggettivo, che individua la potenziale platea di soggetti beneficiari, il medesimo comma individua
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nche un criterio oggettivo, ossia quali aree e superfici sono potenzialmente idonee a beneficiare dell’incentivo medesimo: le superfici di copertura degli edifici ad uso abitativo ubicati nel territorio regionale e nella disponibilità dei residenti in Sardegna, i manufatti edili nella disponibilità delle imprese aventi sede operativa in Sardegna, ivi compresi piazzali, parcheggi e altri spazi comunque cementificati ubicati nel territorio regionale, i manufatti edili ivi compresi piazzali, parcheggi e altri spazi comunque cementificati nella disponibilità degli enti locali e degli enti di aria vasta, nonché i manufatti edili, ivi compresi piazzali, parcheggi e altri spazi comunque cementificati nella disponibilità degli enti regionali pubblici e territoriali. Le suddette aree o superfici devono comunque rispettare le previsioni degli strumenti urbanistici, nel rispetto delle eventuali prescrizioni tipologiche dettate, al fine di un loro corretto inserimento architettonico, con particolare riferimento alle previsioni di cui all’allegato F. Il medesimo articolo, al comma 2, prevede che gli incentivi finanziari siano concessi con procedimento valutativo a seguito di emissione di bando, da approvare con deliberazione della Giunta regionale, il quale definisce il riparto delle misure di aiuto per ogni categoria, l’individuazione dei soggetti attuatori della misura, i criteri e le priorità di attribuzione dei benefici con riferimento ad ogni specifica categoria anche in considerazione delle eventuali misure di aiuto regionali e nazionali di cui i possibili destinatari siano già stati beneficiari. L’articolo 3 introduce misure per semplificare e accelerare la promozione di impianti di produzione da fonti rinnovabili in aree non idonee, permettendo agli enti locali di presentare alla Giunta regionale istanze per realizzazione dei singoli impianti, anche se ciò richiede modifiche urbanistiche al fine di garantire, da un lato uno strumento di flessibilità, dall’altro lato un coinvolgimento continuo e costante delle comunità locali L’articolo 3, al comma 3 prevede che l’istanza deve essere approvata con delibera dal rispettivo Consiglio Comunale previo processo partecipativo, denominato “Dibattito Pubblico”, che coinvolge le popolazioni dei Comuni il cui territorio sia interessato dall’intervento. Il medesimo comma prevede che la Giunta regionale, con propria deliberazione, definisce criteri e procedure del Dibattito Pubblico, nonché i meccanismi e le modalità di coinvolgimento delle popolazioni interessate. Infine, il comma 4, disciplina che l’istanza di cui al comma 1 sia proposta all’Assessorato degli Enti Locali, Finanze e Urbanistica. Sull’istanza delibera la Giunta regionale sulla base dei criteri individuati nella delibera di cui al comma 3. In caso di perfezionamento dell’intesa, l’intervento è assoggettato al regime autorizzativo previsto per le aree ordinarie. I commi dal 5 al 8 disciplinano il regime delle polizze fideiussorie connesse alla realizzazione. Il comma 5 prevede in capo al proponente di un progetto di realizzazione di un impianto FER l’obbligo di presentare una polizza fideiussoria a garanzia della corretta esecuzione dell’intervento dell’impianto medesimo. Inoltre, il soggetto titolare dell’impianto, previo rilascio del provvedimento autorizzativo, dell’impianto deve presentare una polizza fideiussoria, pari al doppio del valore dell’impianto, per responsabilità civile derivante da danni verso terzi cagionati dall’impianto. Infine, si dispone che gli effetti del provvedimento autorizzatorio siano subordinati all’attivazione della polizza fideiussoria di cui al precedente periodo. I successivi commi 7 e 8 prevedono clausole puntuali che prevedono che le polizze siano rilasciate dai soggetti controllati dall’IVAS e che, le polizze debbano essere escutibili entro 15 giorni a prima richiesta con rinuncia, ai sensi dell’articolo 1944 del Codice civile, alla preventiva escussione del debitore principale. Il comma 9, invece detta disposizioni in materia di istituzione dell’Agenzia regionale dell’energia per l’esercizio delle competenze in materia di produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, nonché nelle
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materie ad esse connesse, prevedendo che, entro 120 giorni dall’entrata in vigore della presente legge la Giunta regionale approvi il disegno di legge di istituzione. Inoltre, si prevede che nell’ambito dell’Agenzia di cui al presente comma sia istituito l’Osservatorio Regionale per l’Energia, quale strumento di analisi e di monitoraggio della produzione di energia ed a supporto delle politiche energetiche regionali con specifico riferimento alle fonti di energia rinnovabili. Il comma 10 prevede che al fine di garantire una programmazione territoriale, urbanistica ed energetica adeguata e coordinata la Giunta regionale aggiorna la strategia per lo sviluppo sostenibile e adotta l’aggiornamento al Piano paesaggistico regionale (PPR) entro sedici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Entro gli stessi termini la Giunta regionale aggiorna il Piano energetico ambientale della Regione Sardegna (PEARS) I commi 11 e 12 prevedono, rispettivamente, l’abrogazione della legge regionale 3 luglio 2024, recante “Misure urgenti per la salvaguardia del paesaggio, dei beni paesaggistici e ambientali” 5 del 2024 e del comma 1, articolo 17-bis della legge regionale 14 marzo 1994, n. 12, il quale consente l’installazione di impianti FER sulle aree gravate da usi civici. Infine, l’articolo 4, prevede la copertura finanziaria degli oneri derivanti dall’articolo 2, e l’articolo 5 le disposizioni finali inerenti all’entrata in vigore.
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Verso l’incontro Treeology Theology – Documentazione pertinente

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Da DOPPIOZERO
Si cita spesso, fra le riflessioni fondative dell’etica ambientale, un saggio apparso su “Science” nel 1967, The Historical Roots of Our Ecological Crisis [Le radici storico-culturali della nostra crisi ecologica], opera dello storico delle tecniche Lynn White jr. (1907-1987); il saggio venne tradotto da Silvia Laila in italiano nel numero di marzo/aprile (credo sia ormai introvabile) del 1973 della rivista “il Mulino”. L’idea centrale era che “le radici storiche della nostra crisi ecologica” andavano cercate nella tradizione ebraico-cristiana. La sacralizzazione esclusiva dell’uomo, immagine di quel Dio che affida ad Adamo il compito di dare un nome a vegetali e animali per divenirne padrone, prepara il terreno su cui può sorgere l’ideale della modernità: il sapere-potere della scienza, baconiana e cartesiana, invita al dominio umano di una natura ridotta a puro meccanismo, privato d’anima. Lynn White jr. terminava il saggio con le parole: “Forse dovremmo meditare sulla più grande figura del cristianesimo dopo quella di Cristo: san Francesco d’Assisi […]. La chiave per comprendere Francesco è la sua fede nella virtù dell’umiltà, non la semplice umiltà individuale, ma l’umiltà dell’uomo come specie. Francesco tentò di spodestare l’uomo dal suo ruolo di monarca del creato e di instaurare la democrazia di tutte le creature di Dio”. Ma il tentativo di Francesco, il più grande rivoluzionario spirituale dell’Occidente, è fallito. “Il sentimento profondamente religioso, ma eretico, dell’autonomia spirituale di tutte le creature espresso dai primi francescani, può indicarci una direzione. Propongo che Francesco sia considerato il patrono degli ecologisti”.

Forse dovremmo ripartire dalle tesi di Lynn White per apprezzare la novità costituita dall’enciclica Laudato si’ di un altro Francesco. Certo, novità all’interno del mondo cattolico, che può apparirci in ritardo rispetto a quanto il dibattito ecologico ha promosso in questi decenni, ma che non deve lasciarci indifferenti. La Bibbia, sostiene papa Francesco, non dà adito ad un antropocentrismo dispotico; il mandato divino, dopo la cacciata dall’Eden, chiedeva di coltivare e custodire la Terra, ed i doveri nei confronti della natura e del Creatore sono parte integrante della fede cristiana. L’Enciclica muove dal Cantico del poverello d’Assisi, auspicio di una riconciliazione universale con tutte le creature, per invitarci ad ascoltare il grido di protesta che si leva dalla nostra “casa comune”, da “sora nostra matre Terra”. L’abuso irresponsabile dei beni che Dio ha posto in lei non corrisponde al dettato biblico, al dono che Dio ha fatto all’uomo perché ne prendesse cura. I viventi hanno un valore proprio di fronte a Dio, l’uomo è chiamato a rispettare la bontà di ogni creatura, ed anche i ritmi inscritti nella natura dalla mano del Creatore. Del resto, anche Hans Jonas ricordava che la sostanza etico-religiosa della tradizione ebraico-cristiana è data dal motivo della creazione, con l’implicito postulato del rispetto per l’integrità della vita; l’appellativo liturgico di Dio, “colui che vuole la vita”, ha come corrispettivo la libertà e responsabilità della creatura verso la dignità della vita.

Se è vero che il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura, non attribuendole più carattere sacro (ma il grande Pan era morto e gli dei avevano abbandonato la terra ancor prima della diffusione del cristianesimo), non per questo diviene legittimo il dominio dispotico e irresponsabile dell’essere umano sulle altre creature. Tutta la natura è rivelazione del divino, luogo della sua presenza, linguaggio dell’amore di Dio: “suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio”, ricorda papa Francesco. E Dio si prende cura di tutti: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre” (Mt. 6,26). Anzi, riprendendo Teilhard de Chardin, papa Francesco afferma che il traguardo del cammino dell’universo è la pienezza di Dio: tutte le creature avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso questa meta comune.

La novità rilevante dell’Enciclica mi appare l’adozione di una prospettiva ecologica in senso forte: nella “casa comune” tutto è intimamente connesso, le cose sono in dipendenza le une dalle altre e si completano vicendevolmente, gli organismi sono sistemi aperti in costante comunicazione. Il che porta a ridiscutere la visione di una natura retta da una gerarchia, visto che anche la più piccola creatura ha valore per sé ed insieme contribuisce all’equilibrio del sistema cui appartiene. Questo non significa intaccare il privilegio di specie (lo specismo o sciovinismo umano, per dirla con Bryan Norton) che ci vorrebbe unici degni di considerazione morale. E nemmeno accogliere una prospettiva ecocentrica, come quella di Aldo Leopold, il fondatore dell’Etica della Terra: l’appartenenza a una comunità più ampia di quella sociale, a un oikos i cui abitanti includono il suolo, le acque, le piante e gli animali, la terra intera, impone un criterio morale più ampio, per cui giusto è “ciò che tende a mantenere l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica”.

La prospettiva di Francesco è, e non può che essere, quella di un umanesimo cristiano. Non può esserci sentimento di intima unione con gli altri viventi, se non c’è al tempo stesso compassione per gli esseri umani; certo, ogni maltrattamento nei confronti degli animali è contrario alla dignità umana, ma, come ha spiegato Callicot, il pensiero ecologico non chiede di per sé di farsi vegani, di abolire la caccia, di aderire al principio dei diritti degli animali di Tom Regan o di accogliere una morale sensiocentrica, che pone gli umani allo stesso livello delle specie che provano dolore. I facili sentimentalismi di quanti sacrificano la ricerca sanitaria sull’altare della dignità verso le cavie non sempre si coniugano con l’assistenza ai derelitti e disperati della Terra.

Nell’Enciclica, sull’esempio di san Francesco, restano inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri e la pace interiore. L’asse portante dell’Enciclica è l’intima relazione tra la miseria degli umani e la fragilità del pianeta; un vero approccio ecologico diventa sempre anche un approccio sociale, dobbiamo imparare ad “ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”. Solo entrando in comunicazione con tutto il creato, potranno scaturire la sobrietà e la cura verso quel che è debole; e oggi lo è la natura stessa, anch’essa entrata nel regno della finitudine, che credevamo attributo esclusivo dell’umano. Accenti analoghi si trovano in Michel Serres, teorico del “contratto naturale” di simbiosi e reciprocità fra la terra e l’uomo. L’enciclica ribadisce quel che il filosofo francese ha scritto in Tempo di crisi: non esistono due crisi, una sociale ed una ambientale, ambiente naturale ed umano si degradano insieme. Esiste una sola crisi e per affrontarla si richiede un’ecologia integrale che combatta la povertà, restituisca dignità agli esclusi e si prenda cura della natura. La terra ci precede e ci è stata data; i testi biblici non assecondano lo sfruttamento selvaggio della natura, ci invitano a coltivare il giardino, in una relazione di reciprocità responsabile fra uomo e natura. Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: “la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lv). La natura ci è stata data in eredità comune, dobbiamo dunque fare in modo di lasciarla come l’abbiamo trovata, anzi meglio, ai nostri figli e nipoti.

mario-porro-ft-2024Mario Porro

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albero-14-9-24-img_8724Non di rado una conversazione con Aldous Huxley si trasformava in un indimenticabile monologo. Circa un anno prima della sua morte, Huxley stava parlando di un argomento che aveva molto a cuore, il fatto cioè che l’uomo trattava la natura in modo per così dire “innaturale”. Per chiarire il proprio punto di vista raccontò che l’estate precedente era tornato in una piccola valle dell’Inghilterra dove aveva passato lunghi periodi felici durante l’infanzia. La valle, un tempo ricca di declivi erbosi, era invasa da una squallida boscaglia perché i conigli selvatici che ne controllavano la crescita erano stati decimati dalla mixomatosi, malattia che gli agricoltori avevano intenzionalmente diffuso per evitare che i roditori danneggiassero raccolti. Con una punta di saccenteria lo interruppi, non riuscendo a tacere nemmeno di fronte a un’eloquenza di così alto livello, e gli ricordai che anche i conigli erano stati introdotti in Inghilterra come animali domestici nel 1176, probabilmente allo scopo di integrare la dieta proteica dei contadini.

Tutte le forme di vita modificano l’ambiente in cui si sviluppano. L’esempio più spettacolare in positivo è quello del polipo corallino che, perseguendo il proprio interesse, ha creato un habitat sottomarino favorevole a migliaia di altre specie animali e vegetali. Con il suo intervento l’uomo, almeno dai tempi in cui è diventato una specie numerosa, ha sempre alterato l’ambiente in cui vive. Alcuni esempi. È un’ipotesi plausibile, anche se non provata, che il metodo di caccia per mezzo del fuoco abbia dato origine alle grandi praterie e abbia contribuito allo sterminio dei giganteschi mammiferi del pleistocene. Da almeno sei millenni i terreni lungo le sponde del basso Nilo sono opera dell’uomo e non della natura, che avrebbe piuttosto dato luogo alla giungla umida africana. La diga di Assuan, che ha sommerso 8000 chilometri quadrati di territorio, non è che l’ultimo stadio di un lungo processo. In molte regioni la coltivazione a terrazze, l’irrigazione, i pascoli intensivi, i disboscamenti operati dai romani per costruire navi durante le guerre contro i cartaginesi o dai crociati per risolvere i problemi logistici durante le spedizioni in Medio Oriente, hanno apportato profonde modificazioni in numerosi ecosistemi. L’osservazione che il paesaggio francese è caratterizzato a nord da distese erbose e a sud e a occidente dal bocage, convinse Marc Bloch ad approfondire lo studio dei metodi medievali di coltivazione. Le variazioni nelle abitudini di vita dell’uomo hanno avuto effetti certamente non previsti anche su altre specie viventi. Si è osservato, per esempio, che l’avvento dell’automobile ha determinato la scomparsa degli stormi di passeri che si cibavano degli escrementi di cavallo un tempo disseminati su tutte le strade.

uro-europeo-330px-ur-paintingLo studio della storia delle variazioni ambientali è ancora ai primi passi e poco sappiamo di ciò che è realmente accaduto e quali sono state le conseguenze. A quanto sembra, l’estinzione dell’uro europeo, avvenuta nel 1627, fu semplicemente la conseguenza dell’accanimento dei cacciatori, ma in molti casi è impossibile avere notizie sicure in relazione a questioni più complesse. Per circa mille anni frisoni e olandesi hanno perseverato nel tentativo di ricacciare indietro il mare del Nord e, ai nostri giorni, i loro sforzi sono culminati nel recupero dello Zuiderzee. È possibile ipotizzare che alcune specie di animali, uccelli, pesci e altre forme di vita siano nel frattempo scomparse? E che nella loro epica lotta contro Nettuno, gli abitanti dei Paesi Bassi abbiano trascurato di valutare alcuni aspetti ambientali a scapito della qualità della loro vita? Per quanto è a mia conoscenza, nessuno ha mai posto queste domande e tantomeno ha dato risposte. La specie umana ha spesso rappresentato un elemento dinamico nell’ecosistema che lo ospitava, ma le conoscenze storiche fin qui acquisite non ci permettono di conoscere esattamente quando, dove e con quali effetti sono avvenute le modificazioni apportate dall’uomo anche se, in questo scorcio del ventesimo secolo, il problema di quali possano essere le ripercussioni ambientali è diventato sempre più sentito e pressante. Le scienze naturali, concepite come il tentativo di comprendere la natura delle cose, si sono sviluppate nel corso dei secoli in varie parti del mondo e contemporaneamente si è sviluppato, in modo più o meno rapido, il progresso tecnologico. Ma è solo da circa quattro generazioni che, nell’Europa occidentale e nel Nord America, si è stabilito il collegamento fra scienza e tecnica, vale a dire fra l’approccio teorico all’ambiente naturale e l’approccio empirico. La dottrina baconiana, che al sapere scientifico corrisponde il potere tecnologico sulla natura, si è affermata nella pratica solo intorno alla metà del XIX secolo, con l’eccezione dell’industria chimica che si era diffusa già nel XVIII. Nella storia dell’umanità, e non solo dell’umanità, l’accettazione di questo principio nella pratica comune rappresenta l’evento più importante dopo l’invenzione dell’agricoltura. Il nuovo stato di cose ha portato con sé l’affermazione del concetto di ecologia, termine che nella lingua inglese è apparso per la prima volta nel 1873. Oggi, a quasi un secolo di distanza, l’impatto esercitato dalla specie umana sull’ambiente si è intensificato al punto da cambiare nella sostanza. All’inizio del XIV secolo, epoca in cui entrarono nell’uso i primi cannoni, l’impatto ambientale era rappresentato dagli uomini che, alla ricerca di potassio, zolfo, minerali di ferro e carbone, invadevano foreste e montagne provocandone, in un caso la scomparsa, nell’altro l’erosione. Con le bombe all’idrogeno siamo in un ordine completamente diverso poiché, in caso di guerra, il loro uso provocherebbe alterazioni genetiche in tutte le forme di vita del nostro pianeta. Se, già nel 1285, Londra aveva il problema dello smog causato dall’impiego di carbone bituminoso, ai giorni nostri l’uso di combustibili fossili minaccia di modificare la composizione dell’atmosfera con conseguenze che solo ora cominciamo a intravedere. Con l’esplosione demografica, l’urbanizzazione selvaggia, i depositi ormai geologici di rifiuti e scoli fognari, l’uomo è riuscito in breve tempo a insozzare il suo nido come nessun’altra creatura ha mai fatto. Numerose sono le grida di allarme, ma le proposte, seppure in sé meritevoli, appaiono troppo parziali, semplici palliativi, quindi in realtà negative: per esempio, mettere al bando le bombe, eliminare i cartelloni stradali, distribuire contraccettivi agli indiani e convincerli a mangiare le vacche sacre. La soluzione più semplice per evitare qualunque modificazione ambientale è, ovviamente, quella di porvi fine oppure, meglio ancora, di tornare a un passato mitizzato: trasformare quelle orrende stazioni di servizio in altrettanti cottage di Anne Hathaway oppure, nel Far West, in saloon dei pionieri. Questa mentalità, ispirata al concetto di ‘natura incontaminata’, pretende invariabilmente che un ecosistema (non importa se San Gimignano o la Grande Sierra) sia per così dire ‘surgelato’ nelle condizioni in cui si trovava quando fu gettato in terra il primo kleenex. Ma né la regressione al buon tempo antico, né l’abbellimento fine a se stesso possono risolvere la crisi ecologica dei nostri tempi.

Che cosa possiamo fare? Nessuno è ancora in grado di dirlo. Se non affrontiamo il problema alla radice, corriamo il rischio che provvedimenti circoscritti abbiano ripercussioni più gravi di quello a cui dovrebbero porre rimedio.

Come prima cosa dovremmo tentare di chiarire le nostre idee esaminando da un punto di vista storico quali sono i fondamenti alla base della tecnologia e della scienza moderna. La scienza è sempre stata tradizionalmente aristocratica, speculativa e intellettuale; la tecnologia, popolare, empirica in pratica. La loro fusione, avvenuta intorno alla metà del XIX secolo, è sicuramente da collegarsi alle rivoluzioni democratiche di poco precedenti e contemporanee che, rendendo meno rigide le barriere sociali, tendevano ad affermare l’unità funzionale del lavoro intellettuale e di quello manuale. La crisi ecologica attuale è la conseguenza di una cultura democratica emergente e completamente nuova. La questione è se un mondo democraticizzato sia in grado di sopravvivere alle proprie implicazioni. Probabilmente no, a meno che non si proceda alla revisione dei principi alla base della nostra cultura.

Tecnologia e scienza nella tradizione occidentale

Un fatto è certo e può apparire superfluo ribadirlo in questa sede: sia la moderna tecnologia, sia la scienza moderna sono peculiarmente occidentali. Anche se la nostra tecnologia ha assorbito elementi da tutte le parti del mondo, in particolare dalla Cina, attualmente, non importa se in Giappone o in Nigeria, a trionfare è la tecnologia occidentale. La nostra scienza è l’erede di tutte le scienze del passato e deve molto specialmente alle opere di grandi scienziati islamici che spesso superavano gli antichi greci in capacità e dottrina: per esempio, Abu Bakr al-Razi nel campo della medicina, Ibn-al-Haythan in quello dell’ottica, o Omar Khayyam nella matematica. Gran parte delle loro opere di genio non esistono più nella lingua originale, ma sopravvivo nelle traduzioni in latino medievale che contribuirono a gettare le basi della ricerca scientifica nel mondo occidentale. Ai nostri giorni, in tutto il globo, tutta la scienza di un certo livello è occidentale nel metodo e nello stile, qualunque sia la pigmentazione della pelle o la lingua madre degli scienziati.

Esistono poi altri aspetti meno conosciuti in quanto acquisizioni di studi storici recenti. La posizione guida dell’Occidente nel campo della tecnica e della scienza è molto più antica della cosiddetta ‘rivoluzione scientifica’ del XVII secolo e della cosiddetta rivoluzione industriale del XVIII, espressioni superate che mettono in ombra la vera natura di ciò che intendono esprimere, vale a dire due fasi significative di due diversi processi evolutivi di lunga durata. Almeno fin dall’XI secolo d.C., e in qualche caso anche dal IX, in Occidente, l’acqua era utilizzata per produrre energia a uso industriale, non solo per macinare granaglie, e negli ultimi anni del XII secolo si iniziò a sfruttare anche l’energia del vento. Da questi primi tentativi i progressi sono stati costanti e hanno portato alla realizzazione dei congegni meccanici, degli utensili per risparmiare lavoro e all’automazione. Gli scettici dovrebbero ricordare l’opera più grandiosa di tutta la storia dell’automazione, quella dell’orologio meccanico a pesi, realizzata in due versioni nei primi anni del XIV secolo. Nel tardo Medioevo l’Occidente latino superò di gran lunga le raffinate ed esteticamente mirabili culture sorelle di Bisanzio e dell’Islam, non in abilità manuale ma in maestria tecnica. Nel 1444, durante un viaggio in Italia, un ecclesiastico greco, Bessarione, scrisse una lettera a un principe della sua terra in cui si diceva stupefatto della superiorità delle navi, delle armi, dei tessuti e dei vetri occidentali. Ma più di tutto, così affermava, lo aveva sbalordito lo spettacolo di ruote azionate ad acqua che segavano tronchi d’albero e mettevano in funzione i mantici delle fornaci. Evidentemente, Bessarione non aveva mai visto niente del genere nel Medio Oriente.

Alla fine del XV secolo la superiorità tecnologica occidentale era tale che le nazioni europee, piccole e sempre in lotta fra loro, furono in grado di invadere il resto del mondo per conquistare, saccheggiare e colonizzare nuove terre. Simbolo di questa superiorità tecnologica è il Portogallo, una delle nazioni occidentali più deboli, che riuscì a diventare, e rimanere per un secolo, padrone incontrastato delle Indie orientali. Dobbiamo anche ricordare che la tecnologia di Vasco de Gama e di Alfonso de Albuquerque era assolutamente di tipo empirico e non si basava su cognizioni scientifiche.

È opinione diffusa che la scienza moderna nasca nel 1543, anno in cui Copernico e Vesalio pubblicarono i loro scritti. Senza voler in alcun modo sminuire il loro lavoro, è bene ricordare che opere come Fabrica e De rivolutionibus non nascono certo in una notte. La tradizione scientifica occidentale aveva avuto inizio alla fine dell’XI secolo come conseguenza del massiccio lavoro di traduzione in lingua latina di opere scientifiche arabe e greche. Solo pochi libri importanti, per esempio Teofrasto, sfuggirono alla vorace fame scientifica dell’Occidente, ma non erano trascorsi duecento anni che l’intero corpus della scienza greca e islamica era disponibile in latino, avidamente letto e chiosato in tutte le università europee. Lo studio di queste opere dette vita a nuove osservazioni e a nuove ricerche che ebbero come conseguenza una crescente sfiducia negli antichi maestri. Alla fine del XIII secolo l’Europa si era ormai impadronita di tutto il sapere scientifico strappandolo dalle ormai deboli mani dell’Islam. Sarebbe assurdo negare l’originalità del pensiero di Newton, Galileo o Copernico, come lo sarebbe negare quella degli scienziati scolastici del XIV secolo, per esempio Buridano o Oresme, sulle cui opere i primi basarono i loro studi. Si può dire che, prima dell’XI secolo e perfino al tempo dei romani, l’Occidente latino ignorava la scienza, che dall’XI secolo in poi, si è sviluppata in un crescendo inarrestabile.

Poiché in Occidente il progresso tecnologico e quello scientifico ebbero inizio, si caratterizzarono e divennero predominanti durante il Medioevo, è evidente che non possiamo comprenderne l’impatto ambientale se non prendiamo in considerazione quali erano i concetti alla base della cultura del tempo.

La concezione medievale dell’uomo e della natura

Fino a tempi recenti, l’agricoltura è stato il settore produttivo di maggiore importanza anche in società cosiddette “avanzate”, quindi qualsiasi mutamento avvenuto nei metodi di coltivazione assume grande rilevanza. I primi aratri trainati da una coppia di buoi non dissodavano il terreno, ma semplicemente lo smuovevano in superficie, era perciò necessario praticare arature incrociate che determinavano la formazione di campi squadrati. Nei terreni piuttosto leggeri e nei climi semi aridi del Medioriente e del Mediterraneo, il metodo funzionava egregiamente, ma risultava inadeguato nel clima umido e nei territori pesanti dell’Europa settentrionale. Già alla fine del settimo secolo d.C., non sappiamo esattamente quando, alcuni contadini del Nord usavano un nuovo tipo di aratro dotato di una lama verticale che praticava il solco, di un vomero orizzontale che tagliava la zolla e di un versoio che la rovesciava. L’attrito sul terreno era tale che l’aratro doveva essere trainato non da due ma otto buoi e il terreno era aggredito così a fondo che l’aratura incrociata non era necessaria, tanto che i campi presero una forma allungata.

Al tempo in cui era praticata l’aratura superficiale, i campi avevano in genere dimensioni unitarie tali da poter provvedere al sostentamento di una sola famiglia, si trattava cioè di un’agricoltura di sopravvivenza. Ma nessuno possedeva otto buoi, quindi, per usare il nuovo tipo di aratro, i contadini erano costretti a mettere insieme i loro buoi e ciascuno di loro aveva probabilmente diritto a strisce di terreno arato in proporzione al contributo dato. In tal modo, la distribuzione della terra non era più determinata dalle necessità della famiglia, ma piuttosto dalla capacità della macchina. Di conseguenza, il rapporto dell’uomo con la terra si modificò radicalmente: se in precedenza l’uomo faceva parte della natura, ora la sfruttava. In nessun’altra parte del mondo gli agricoltori hanno realizzato un attrezzo di lavoro analogo, è dunque solo una coincidenza che la tecnologia moderna, con la sua spietata indifferenza verso la natura, sia in larga misura opera di discendenti di quei contadini dell’Europa del nord?

Verso l’830 d.C., questo atteggiamento fa la sua comparsa anche nelle illustrazioni dei calendari occidentali. Nei vecchi calendari i mesi erano raffigurati come personificazioni inattive, mentre nei nuovi calendari franchi, che ispirarono l’iconografia medievale, l’uomo si impone sulla natura: ara, miete, abbatte alberi, macella maiali. Uomo e natura sono due cose diverse e l’uomo è il padrone. Queste novità appaiono in armonia con l’atteggiamento culturale dell’epoca. Quello che l’uomo fa al proprio ambiente dipende da quello che pensa di se stesso in rapporto a ciò che lo circonda. L’ecologia umana è profondamente condizionata dalle convinzioni che l’uomo ha della propria natura e del proprio destino, in altre parole dalla religione. A occhi occidentali questo è evidente per quel che riguarda l’India o Ceylon, ma è ugualmente vero nel caso nostro e dei nostri antenati.

La vittoria del cristianesimo sul paganesimo rappresenta la più grande rivoluzione psicologica nella storia della nostra cultura. Attualmente è di moda affermare che, nel bene e nel male, viviamo nell’“era postcristiana”. Se è indubbio che, nella forma, pensiero e linguaggio hanno cessato di essere cristiani, è mia convinzione che la sostanza non sia mai cambiata. Il nostro modo di agire quotidiano, per esempio, è dominato dalla fede implicita nel progresso perenne, concetto sconosciuto sia al mondo greco-romano sia al mondo orientale, ma che ha le sue radici nella teleologia giudaico-cristiana ed è insostenibile al di fuori di quel contesto. Il fatto che i comunisti condividano questo concetto non fa che confermare quanto si può anche altrimenti dimostrare: il marxismo, come l’Islam, è una eresia giudaico-cristiana. Oggi continuiamo a vivere come abbiamo vissuto per circa 1700 anni, in un contesto in larga misura improntato ad assiomi cristiani.

Che cosa insegnava il cristianesimo alla gente sul rapporto dell’uomo con l’ambiente?

La maggior parte delle mitologie hanno storie sulla creazione, ma la mitologia greco-romana ne è singolarmente priva. Come Aristotele, gli intellettuali dell’Occidente antico negavano che il mondo visibile avesse avuto un principio. In realtà, l’idea di principio era inconcepibile nel quadro della loro concezione ciclica del tempo. In netto contrasto, il cristianesimo ereditò dall’ebraismo non solo il concetto di tempo non ripetitivo e lineare, ma anche una stupefacente storia della creazione. In varie fasi un Dio amorevole e onnipotente aveva creato la luce e il buio, i corpi celesti, la terra, le piante, gli animali, gli uccelli e i pesci. Infine Dio aveva creato Adamo e, quindi, Eva, perché Adamo non fosse solo. L’uomo dette un nome a tutte le cose, stabilendo così il proprio predominio su di loro e Dio dispose che tutto fosse a suo esclusivo beneficio: il creato non aveva altro scopo che quello di essere al suo servizio. Inoltre, seppur il suo corpo fosse d’argilla, l’uomo fu fatto a immagine di Dio.

Il cristianesimo, in particolare quello occidentale, è la religione antropocentrica per eccellenza. Nel II secolo d.C. Tertulliano e Sant’Ireneo di Lione affermarono che, nel plasmare Adamo, Dio aveva prefigurato l’immagine del Cristo incarnato, il secondo Adamo. A somiglianza di Dio, l’uomo trascende la natura. Il cristianesimo, in contrasto con l’antico paganesimo e le religioni orientali (fatta forse eccezione del zoroastrismo) non solo stabilì il dualismo uomo-natura, ma affermò essere volontà di Dio che l’uomo sfrutti la natura a proprio beneficio.

Nella pratica tutto questo non fu senza conseguenze. Nell’antichità ogni albero, ogni sorgente, ogni corso d’acqua, ogni collina avevano il proprio genius loci, lo spirito custode. L’uomo poteva entrare in contatto con questi spiriti che erano, tuttavia, diversi da lui nell’aspetto; centauri, fauni e sirene sono l’esempio di tale ambivalenza. Prima di tagliare un albero, scavare una montagna o sbarrare un ruscello, era necessario placare lo spirito custode di quel luogo e fare sì che restasse pacifico. La distruzione dell’animismo pagano, operata dal cristianesimo, rese possibile lo sfruttamento della natura senza tenere conto dei sentimenti degli elementi naturali.

È stato detto che la Chiesa sostituì l’animismo con il culto dei santi. Questo è vero, ma il culto dei santi è funzionalmente diverso dall’animismo. Il santo non risiede negli elementi naturali, può avere propri santuari particolari, ma la sua sede è nei cieli. Un santo, inoltre, è un uomo e a lui ci si può rivolgere secondo modalità umane. Oltre ai santi, il cristianesimo aveva angeli e demoni ereditati dall’ebraismo e forse, in parte, dallo zoroastrismo, ma angeli e demoni avevano le stesse caratteristiche dei santi. Gli spiriti che vivevano negli elementi naturali e che avevano protetto la natura dell’uomo, scomparvero. Si confermò in tal modo il monopolio dell’uomo sul mondo e le antiche proibizioni sullo sfruttamento della natura si sgretolarono.

Quando, come in questa sede, si parla in termini generali, è opportuno fare alcune precisazioni. Il cristianesimo è una fede religiosa complessa che ha conseguenze diverse in contesti diversi. Quanto ho detto si riferisce all’Occidente medievale dove la tecnologia fece passi da gigante; nell’Oriente greco, di grande civiltà e profondamente cristiano, dopo la fine del VII secolo, epoca in cui fu inventato il ‘fuoco greco’, non si è più verificato alcun progresso tecnologico. La chiave per comprendere le ragioni di tale contrasto va ricercata nel diverso tipo di devozione e di pensiero delle Chiese greche e latine, come è riscontrato negli studi di teologia comparata. I greci credevano che il peccato era un male morale e la salvezza era assicurata dalla buona condotta. La teologia orientale era di tipo razionale, la teologia occidentale volontaristica. Il santo greco è un contemplativo, il santo occidentale un uomo d’azione. È indubbio, quindi, che l’Occidente fosse terreno fertile per un cristianesimo che implicava la conquista della natura.

C’è un altro aspetto del dogma della creazione, fondamento della fede cristiana, che aiuta a comprendere la crisi ecologia attuale. Secondo la rivelazione, Dio fece dono all’uomo della Bibbia, il Libro delle Scritture. Ma poiché Dio ha creato la natura, anche la natura rivela il pensiero di Dio. Gli studi religiosi sulla natura per una migliore conoscenza di Dio vanno sotto il nome di teologia naturale. Nella Chiesa primitiva orientale, la natura era concepita essenzialmente come un sistema simbolico attraverso il quale Dio parlava agli uomini: la formica era un sermone diretto agli oziosi, le fiamme ardenti simboleggiavano l’aspirazione dell’anima. La visione della natura era di tipo artistico più che scientifico e, nonostante che a Bisanzio fossero conservati e copiati numerosi antichi testi scientifici greci, l’ambiente non era idoneo allo sviluppo scientifico come noi lo concepiamo.

Nell’Occidente latino, nei primi anni del XIII secolo, la teologia naturale prese una diversa strada. Cessò di rappresentare la spiegazione dei simboli fisici della parola di Dio per trasformarsi nel tentativo di comprendere la Sua mente scoprendo il modo in cui la Sua creazione opera: l’arcobaleno non era più semplice il simbolo di speranza inviato a Noé dopo il diluvio. Ruggero Grossatesta, Ruggero Bacone e Teodorico di Freiberg produssero raffinati studi ottici sull’arcobaleno, ma sempre con intendimenti di tipo religioso. Dal XIII secolo in poi, fino a comprendere Leibniz e Newton, tutti i maggiori scienziati spiegarono le ragioni dei propri studi in termini religiosi. E se Galileo non fosse stato così esperto in questioni teologiche sarebbe sicuramente andato incontro a guai minori, perché nel suo caso i teologi professionisti si risentirono per la sua ingerenza nel loro campo. Sembra che Newton si considerasse più un teologo che uno scienziato e solo alla fine del XVIII secolo fu possibile agli scienziati approfondire i loro studi prescindendo dall’ipotesi dell’esistenza di Dio.

Quando gli uomini spiegano perché stanno facendo ciò che intendono fare, lo storico ha spesso difficoltà a giudicare se le ragioni da loro date siano reali oppure siano ragioni considerate culturalmente accettabili. Tuttavia, il fatto che durante i secoli in cui si andò affermando la scienza occidentale, tutti gli scienziati affermarono che loro compito e premio era “pensare i pensieri di Dio in conseguenza di Lui” ci induce a credere che queste fossero le motivazioni reali. Se così è, allora la moderna scienza occidentale è nata dalla matrice teologica cristiana e ha ricevuto impulso dalla devozione religiosa, modellata dal dogma giudaico-cristiano della creazione.

Una diversa visione cristiana

A quanto sembra ci stiamo avviando verso conclusioni sgradite a molti cristiani. Poiché scienza e tecnologia sono parole del nostro vocabolario molto apprezzate, è probabile che siano in molti a rallegrarsi nel sapere che, primo, dal punto di vista storico la scienza moderna è un’estrapolazione della teologia naturale e, secondo, che la moderna tecnologia può essere spiegata, almeno in parte, come la realizzazione occidentale e volontaristica del dogma cristiano della trascendenza dell’uomo sulla natura e del suo diritto a dominarla. Ma, come abbiamo detto, circa un secolo fa scienza e tecnica, fino ad allora separate, si sono unite per offrire all’umanità un potere che, a giudicare dalle conseguenze, è ormai fuori controllo. Se le cose stanno così, il cristianesimo deve assumersi il peso di questa responsabilità.

Personalmente dubito che le ripercussioni ambientali possano essere evitate semplicemente ricorrendo in maggiore misura a scienza e tecnica. La scienza e la tecnologia si sono sviluppate sulla base della concezione cristiana del rapporto uomo-natura, concezione condivisa non solo dai cristiani e dai neocristiani, ma anche da coloro che si considerano post cristiani. Nonostante Copernico, tutto il cosmo ruota ancora intorno al nostro minuscolo globo e, nonostante Darwin, gli uomini non si sentono parte della natura. Siamo superiori, la disprezziamo e vogliamo usarla a nostra discrezione. Il nuovo governatore della California, come me uomo credente ma meno turbato di quanto io sia, si è espresso secondo la tradizione religiosa affermando, a quanto si dice, che “se uno ha visto una sequoia, le ha viste tutte”. Per un cristiano un albero non è che un accidente fisico, il concetto di bosco sacro è estraneo al cristianesimo e all’etica occidentale. Per quasi due millenni i missionari cristiani hanno distrutto i boschi sacri considerati pagani perché presuppongono uno spirito della natura.

Il modo in cui ci comportiamo nei confronti dell’ambiente è conseguente alla nostra concezione del rapporto uomo-natura. Un ricorso maggiore alla scienza e alla tecnologia non ci salverà dell’attuale crisi ecologica se non troviamo una nuova religione o non ripensiamo l’antica. I beatniks, i rivoluzionari dei nostri gironi, dimostrano di aver compreso il problema quando si dicono vicini al buddismo zen che concepisce il rapporto uomo-natura in modo opposto al cristianesimo. La religione zen, tuttavia, è profondamente condizionata dalla storia orientale, come il cristianesimo lo è da quella occidentale, e io dubito che possa rappresentare una strada per noi percorribile.

Forse dovremmo meditare sulla più grande figura radicale del cristianesimo dopo quella di Cristo: San Francesco d’Assisi. Il miracolo più straordinario di san Francesco è di non essere finito sul rogo, come accadde a tanti dopo di lui. Francesco era un eretico e lo era al punto che un ministro generale dell’ordine francescano, san Bonaventura, eminente cristiano di grande perspicacia, tentò di occultare le prime testimonianze del movimento francescano. La chiave per comprendere Francesco è la sua fede nella virtù dell’umiltà, non la semplice umiltà individuale, ma l’umiltà dell’uomo come specie. Francesco tentò di spodestare l’uomo dal suo ruolo di monarca del creato e di instaurare la democrazia di tutte le creature di Dio. Con lui la formica non rappresenta più un’omelia per l’ozioso, e il fuoco non è più un simbolo dell’anima che aspira all’unione con Dio. Con Francesco essi sono sorella formica e fratello fuoco che, a loro modo, lodano il Signore, come nel suo lo loda fratello uomo.

È stato detto che Francesco predicava agli uccelli per biasimare gli uomini che non gli prestavano ascolto. Ma le testimonianze non dicono questo: egli esortava gli uccelli a lodare Dio e quelli presi da un’estasi spirituale battevano le ali e cinguettavano.

Spesso le leggende dei santi, in particolare santi irlandesi, parlano della loro dimestichezza con animali ma sempre, mi sembra, per dimostrare il loro dominio su quelle creature. Nel caso di Francesco non è così. La terra intorno a Gubbio era devastata da un lupo feroce e, come racconta la leggenda, san Francesco parlò al lupo e lo dissuase. Il lupo si pentì, morì in odore di santità e fu sepolto in terra consacrata. Quella che Steven Runciman chiama “la dottrina francescana dell’anima animale” venne in breve tempo cancellata. È possibile che la dottrina si ispirasse, consciamente o meno, alla teoria della reincarnazione, originaria dell’India e sostenuta dai catari, all’epoca molto numerosi in Italia e nel sud della Francia. È significativo che proprio in quel periodo, 1200 circa, accenni alla metempsicosi si ritrovino anche nell’ebraismo occidentale, in particolare nella Cabbala provenzale. Ma Francesco non credeva nella trasmigrazione delle anime o nel panteismo, la sua visione della natura e dell’uomo si basava su una sorta di panpsichismo di tutte le cose animate e inanimate, concepite a gloria del loro Creatore trascendente il quale, con un gesto di assoluta umiltà cosmica, si fece carne, giacque in una mangiatoia e morì sul patibolo.

Non è certo mia intenzione suggerire ai tanti americani preoccupati dell’attuale crisi ecologica di provare ad ammonire i lupi o a esortare gli uccelli. Intendo affermare che l’attuale e progressivo sfacelo ambientale è il prodotto di una tecnologia e di una scienza dinamiche che hanno avuto origine nell’Occidente medievale, contro le quali san Francesco si ribellò nel suo personalissimo modo. Da un punto di vista storico non possiamo comprendere quale sia stato il loro sviluppo, se prescindiamo dal peculiare atteggiamento nei confronti della natura che ha le sue radici nel dogma cristiano. Non ha alcuna importanza se la maggior parte delle persone non ritiene che tale atteggiamento sia da considerarsi cristiano, la nostra società è comunque improntata ai valori del cristianesimo che mai nessun altro principio è riuscito a sostituire. Ne consegue che la crisi ecologica continuerà ad aggravarsi se non respingeremo l’assioma cristiano che la natura esiste solo in funzione dell’uomo.

San Francesco, il più grande rivoluzionario spirituale nella storia dell’Occidente, suggerì una nuova visione cristiana del rapporto uomo-natura: sostituire il dominio illimitato dell’uomo con il concetto di uguaglianza di tutte le creature, uomo compreso. Il tentativo di Francesco è fallito. Ai nostri giorni scienza e tecnica sono sempre più caratterizzate dalla proterva ortodossia cristiana nei confronti della natura e non è da loro che ci possiamo attendere una soluzione alla crisi ecologica. Poiché le radici dei nostri problemi sono essenzialmente religiose, il rimedio deve essere religioso, qualunque definizione attribuiamo a tale termine. In altre parole dobbiamo giungere a un diverso modo di intendere la nostra natura e il nostro destino. Il sentimento profondamente religioso, ma eretico, dell’autonomia spirituale di tutte le creature espresso dai primi francescani, può indicarci una direzione. Propongo che Francesco sia considerato il patrono degli ecologisti.

[traduzione italiana di Silvia Lalia]

Guerra maledetta guerra

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Su Volerelaluna.
Con l’invasione del territorio russo nella zona di Kursk da parte di truppe corazzate ucraine, armate ed equipaggiate dalla NATO, e con la pretesa ucraina di utilizzare sistemi d’arma occidentali per colpire obiettivi strategici in profondità in Russia, si è verificato un salto di qualità nell’escalation del conflitto russo-ucraino, che ci riguarda e ci coinvolge direttamente.

Lev Tolstoj, in Guerra e Pace, per descrivere Napoleone Bonaparte che ordina l’avanzata in territorio russo nel 1812 ricorre al noto aforisma di Dio che fa impazzire quelli che vuole perdere. La catastrofe della guerra in Russia indubbiamente fu frutto del delirio di potenza che aveva oscurato la mente di Napoleone. Oggi ci troviamo di fronte alla programmazione di una nuova e più catastrofica campagna di Russia, di cui l’invasione ucraina nel territorio di Kursk, rappresenta il detonatore, se Zelensky non verrà ridotto a più miti consigli. La mini-invasione della Russia intrapresa dall’Ucraina con i mezzi corazzati, l’armamento e la copertura di intelligence della NATO, è un’operazione che non ha grandi prospettive sul piano meramente militare, addirittura potrebbe apparire un non senso, dal momento che l’Ucraina ha dovuto distogliere una parte delle sue truppe migliori dal Donbass dove non riesce ad arrestare la lenta ma inesorabile avanzata delle truppe russe. Tuttavia, al di là della sua opinabile rilevanza militare, l’incursione ucraina, rappresenta una provocazione politica che punta a esasperare il conflitto e a indurre la Russia a massimizzare la violenza, provocando così l’ingresso definitivo in guerra della NATO.

L’offensiva dei dirigenti politici ucraini che punta a ottenere mano libera per usare sistemi missilistici USA e NATO allo scopo di colpire siti di valore strategico in Russia e la dichiarata intenzione di Zelensky di presentare un “Piano per la vittoria”, lasciano intendere che la direzione di marcia del piccolo Napoleone di Kiev è quello di provocare l’avversario anche sfidando il rischio che, messa con le spalle al muro, la Russia, ricorra all’uso delle armi nucleari tattiche. La decisione di USA, Gran Bretagna e di numerosi Stati europei, con il sostegno dei vertici dell’Unione Europea, di permettere all’Ucraina di utilizzare sistemi d’arma occidentali sempre più performanti per colpire in profondità nei territori della Russia, rappresenta un crescendo di ostilità che ci coinvolge sempre di più nel conflitto. Qui siamo molto al di là dal sostegno alla resistenza delle forze armate ucraine a fronte dell’attacco russo scatenato il 24 febbraio 2022, ci troviamo di fronte a una alleanza de facto per sostenere una guerra che punta alla “vittoria” dell’Ucraina, attraverso la disfatta militare e l’umiliazione della Russia. Senonché l’unica possibilità di “vittoria” per un Paese più debole come l’Ucraina consiste nel provocare l’intervento dei Paesi della NATO nella guerra contro la Russia. Per ottenere questo risultato qualsiasi azzardo è giustificato, anche quello di spingere la Russia ad utilizzare le sue armi nucleari tattiche. Quella compiuta dall’Ucraina è la più rilevante incursione in territorio russo dalla Seconda guerra mondiale. Le reminiscenze di un passato tragico non possono che attizzare risposte irrazionali nella società e nel potere russo.

Domenico Quirico su La Stampa ha colto che «oggi dopo Kursk qualcosa è cambiato, di profondo, al di là della irrilevanza militare della incursione ucraina» e ha osservato che «un sistema politico, esiste solo se risponde in maniera adeguata a ciò che lo mette in pericolo. Finché riesce a reagire e ad annientare ciò che punta alla sua fine sopravvive. Quando dimostra di non avere più i mezzi per rispondere, subito, drasticamente, muore. La Russia putiniana è forse arrivata a questo dilemma senza vie di uscita». Se Quirico quasi si compiace dell’indebolimento del potere di Putin, noi, al contrario non possiamo che allarmarci. Come farà quel sistema politico a rispondere in maniera adeguata a ciò che lo mette in pericolo?

Persino Tajani e Crosetto, si sono resi conto che stiamo varcando la soglia della guerra con la Russia e hanno messo le mani avanti dichiarando contrarietà all’uso di nostri sistemi d’arma per colpire obiettivi in territorio russo poiché: «noi non siamo in guerra con la Russia». I politici italiani sono campioni mondiali di servilismo, oggi verso la NATO, ieri verso la Germania hitleriana, ma non sono pazzi al punto da rischiare il suicidio per amore di servilismo. L’impazzimento invece dilaga nel territorio dell’Unione Europea e offusca le menti dei dirigenti politici se l’Alto Rappresentante per la politica estera Josep Borrell ha tacciato di ridicolo le esitazioni italiane: «Io credo che sia ridicolo dire che se si permettono di colpire obiettivi militari in Russia allora vuol dire essere in guerra contro Mosca, come dicono alcuni Stati membri». Evidentemente per Borrell dirigere le nostre armi contro obiettivi strategici in Russia e colpirli pesantemente non è un atto di ostilità e la Russia non deve considerarlo come tale. Purtroppo nulla ci garantisce che i generali russi condividano questa tesi.

In questo momento – direbbe Tolstoj – il delirio di potenza circola nelle Cancellerie dei principali Paesi europei, specialmente in Gran Bretagna e nei Paesi nordici. L’Italia non conta nulla, ma facciamo pur sempre parte della NATO e lo scoppio della guerra con la Russia ci coinvolgerà inevitabilmente. Il nostro Paese, come tutti i popoli europei, non ha alcun interesse reale a entrare in guerra con la Russia: sarebbe una tragedia enorme che sovrasterebbe i lutti e le distruzioni provocate dalla Seconda guerra mondiale. La guerra con la Russia non è inevitabile, come sostengono i vertici della NATO, e i leader europei profeti di sventura, ma noi ci troveremmo inevitabilmente coinvolti se continuassimo a fornire a Zelensky gli strumenti per attuare i suoi piani di provocazione politica e militare nei confronti della società e del potere russo.

L’escalation del conflitto russo ucraino è arrivata a un punto di svolta. Dobbiamo fare tutto il possibile per evitare che questa svolta si compia, non basta mettere la testa sotto la sabbia e proclamare (invano) la nostra contrarietà all’uso di armi italiane su territorio russo, bisogna invertire la direzione di marcia respingendo il mito della “vittoria” ucraina come unica soluzione auspicabile del conflitto. Nessuna delle due parti può conseguire la vittoria: l’unica soluzione è un negoziato da attuarsi mediante una Conferenza di Pace sul modello Helsinki 1975. È urgente una mobilitazione delle coscienze per spingere Governo, partiti e strutture della società civile a dire no alla guerra con la Russia, senza se e senza ma. È proprio il caso di dire che si tratta di una questione di vita o di morte.

Una versione ridotta dell’articolo è stata pubblicata su Il Fatto Quotidiano del 4 settembre con il titolo: Dobbiamo tirarci fuori dalla campagna di Russia
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DIBATTITO Energie rinnovabili: Bachisio Bandinu propone un incontro di tutti i protagonisti della Vertenza Sardegna

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo e diffondiamo. Auspichiamo che all’appello di Bachisio Bandinu rispondano tutti i protagonisti di quella che è diventata una Vertenza del popolo sardo nei confronti del governo nazionale. Parliamo della presidente Alessandra Todde, della sua giunta, di tutto il Consiglio regionale, dei comitati contro l’assalto sconsiderato all’ambiente e al paesaggio sardo, con il loro coordinamento, dei parlamentari sardi, dei parlamentari europei rappresentanti della cicoscrizione Sicilia-Sardegna, delle parti sociali sarde (Sindacati dei lavoratori in primis), dell’associazionismo e di tutte le organizzazioni democratiche che sono schierate per la salvaguardia della Sardegna in questa vicenda così decisiva per il futuro della nostra Isola. Anticipiamo in questa sede l’adesione all’iniziativa di Bandinu del MEIC (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale), segnalataci dal presidente Mario Girau.

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Proposta di un incontro-dibattito
di Bachisio Bandinu

Forse per la prima volta, nella storia della Sardegna, si sta
formando una presa di coscienza a forte diffusione popolare
contro quella che può essere definita la più grave servitù che la
nostra Terra si appresta a subire. Da qualche anno a questa parte
si assiste infatti a una crescente mobilitazione popolare contro la
speculazione sulle fonti rinnovabili, che minaccia l’identità
ambientale e l’auspicabile prospettiva di un autonomo modello di
sviluppo economico e sociale che generi salute e benessere diffusi.
In questo quadro positivo di coscienza, intenti e proposte (tutte
utili e valide) si stanno insinuando e si stanno diffondendo motivi
di conflittualità e di lacerazione tra gruppi, tra comitati, tra
associazioni. È un fenomeno estremamente pericoloso, e
purtroppo è anche un retaggio storico, che divide, crea sospetti,
lancia accuse, inventa complotti. Produce le tifoserie. L’energia
positiva si scarica a massa, si disperde e si consuma in
contrapposizioni laceranti.
Occorre sanare il conflitto. In questa prospettiva può essere utile
un incontro di tutte le componenti, per fortuna numerose e
appassionate, per svelenire le polemiche, ma soprattutto
ricomporre l’unità di intenti verso l’obiettivo comune.
Si tratta di consolidare, rinforzare e arricchire attraverso un
momento di dibattito che valuti tutte le risposte, le proposte, gli
interventi, gli obiettivi, che ci permettano di contrapporre allo
Stato le ragioni, i diritti e le necessità vitali del Popolo sardo.
Ciascun gruppo, ciascuna associazione, ciascun comitato, ciascuna
singola persona, mette sul tavolo tutte le carte da giocare, per
impostare un piano di difesa e di attacco delle ragioni più valide a
profitto del Popolo sardo. Così si definisce il quadro di saperi
giuridici, politici, sociali, culturali che si rifanno ad articoli della Costituzione italiana e dello Statuto sardo, alla legge urbanistica, all’estensione del Piano paesaggistico, e altro.
Fondamentale il ruolo dell’Anci che rappresenta più ampiamente
le comunità locali. Del tutto necessaria la presenza della Giunta
regionale, per chiarire le decisioni prese e da prendere, ma
soprattutto per intendere, in senso più decisamente politico, la
volontà del Popolo sardo.
Nessuna primogenitura e nessun atteggiamento da verità in tasca:
questa è una battaglia che si può vincere soltanto uniti, con un
complesso di strumenti e un inedito esercizio dell’intelligenza
collettiva. Pertanto l’incontro-dibattito che si propone, proprio
perché è in gioco il futuro della Sardegna, acquista il valore e il
significato di una embrionale Assemblea Costituente: un incontro
di conoscenze e di passione per fare comunità e scrivere il nostro
futuro, come poche volte nella Storia abbiamo fatto.
La battaglia giuridica e politica con Roma non è affatto facile, anzi
incontrerà difficoltà enormi, perché nel contenzioso tra Stato e
Regione, la Consulta dà quasi sempre ragione allo Stato.
Un motivo in più per essere uniti.
Se c’è un consenso diffuso, l’incontro-dibattito si può mettere in atto, se si ritiene superfluo e inutile, valga almeno il proposito di
conciliazione: disarmati tra di noi, armati contro il comune nemico.
Grazie
Bachisio Bandinu

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Biografia di Bachisio Bandinu

Nel 1967 consegue la laurea in Lettere e Filosofia presso l’Università di Cagliari con una tesi dal titolo “Antonio Fogazzaro e il modernismo”. Nel 1971 si diploma in Giornalismo con un elaborato dal titolo “Montale giornalista” presso la Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nello stesso istituto, nel 1973 si diploma in Radio e Televisione. Nel 1972 si iscrive all’Ordine dei giornalisti della Lombardia, nel 1987 all’Ordine dei giornalisti della Sardegna.
Esponente non accademico della Scuola antropologica di Cagliari,[1] allievo di Ernesto de Martino e di Alberto Mario Cirese al pari dei suoi coetanei Giulio Angioni e Placido Cherchi, è studioso di cultura tradizionale della Sardegna interna in trasformazione repentina negli ultimi decenni, e si occupa in particolare di questioni d’identità culturale e politica. Fra il 1965 e il 1987 insegna Lettere presso l’istituto tecnico industriale di Varese[2]. Poi, fino al 1997, è docente dell’istituto tecnico “Pertini” di Cagliari. Dal 1973 al 1985 collabora con il Corriere della Sera[3].
Nel 1976 ha scritto, con Gaspare Barbiellini Amidei il saggio Il re è un feticcio, nel quale analizza il rapporto tra il mondo tradizionale della pastorizia e la civiltà dei consumi in Sardegna. Nel 1980 ha pubblicato Costa Smeralda, contributo all’analisi del rapporto tradizione/innovazione. Nel 1993 ha vinto il Premio Funtana Elighes e nel 1999 è stato nominato direttore de L’Unione Sarda[4], ruolo ricoperto fino al 2001.
È presidente della “Fondazione Sardinia” e da anni risiede a Olbia.
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andrea-pubusaBene la mobilitazione, ma occorre percorrere la via giusta

di Andrea Pubusa su Democrazioggi

C’è un grande fermento in Sardegna contro l’invasione energetica. Sono da appoggiare tutte le iniziative volte a salvare ambiente e paesaggio. C’è diffusa consapevolezza che è in atto un assalto che ricorda vecchi e più recenti attacchi alla nostra isola. Bene dunque il vasto movimento che si sviluppa un pò dappertutto. Bisogna però non solo manifestare l’istintiva rabbia contro l’ennesimo tentativo di colonizzazione della Sardegna a fini di profitto. Occorre capire la fase attuale della vicenda e individuare correttamente che fare. Sotto questo profilo alcune posizioni, pur decise, appaiono controproducenti. Ora siamo nel tempo in cui la Regione deve indicare formalmente al governo quali sono le aree idonee e quelle non idonee alle installazioni. La Regione ha coinvolto i Comuni, che meglio di ogni altro conoscono i territori. Anche questi si devono pronunciare con atti formali. E qui c’è il primo problema. Non si può dire che tutte le aree sono inidonee. I provvedimenti vanno motivati sulla base di una istruttoria completa. Non farlo significa rendere la manifestazione di volontà inutile, anzi dannosa, perché il governo può esercitare i propri poteri sostitutivi e fare come meglio crede. Quindi i sindaci devono mettersi subito all’opera, lasciando da parte gli slogan estremisti del tipo: “non ci sono aree idonee, son tutte inidonee”. C’è un’occasione per partecipare ad una decisione importante. Bisogna coglierla con responsabilità.
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C’è chi fa propaganda e cerca lo scontro interno. La giunta deve tenere la barra dritta
Ieri si è svolta la preannunciata manifestazione davanti al Consiglio regionale. Duemila partecipanti venuti da ogni parte dell’isola e molti slogan contro la presidente Alessandra Todde, alcuni per la proposta di legge popolare c.d. Pratobello 24. L’Unione, accanto alla cronaca della manifestazione, dà risalto all’adesione di FI, che chiede l’immediato passaggio in aula della proposta di legge popolare, saltando la commissione. Una posizione chiaramente propagandistica per molte ragioni. Anzitutto, perché si tratta di un testo che, non essendo nato in Consiglio, a maggior ragione richiede un esame tecnico e politico nell’organismo consiliare competente composto da tutte le forze rappresentate. In secondo luogo, si sa che l’Assemblea sarà impegnata ad esaminare il testo in cui verrano individuate le aree idonee e non idonee, un percorso imposto dalla legge con tempi strettissimi, diverso da quello d’iniziativa popolare e quindi non sovrapponibile. Fra l’altro l’iter per la definizione del testo della giunta vede il coinvolgimento dei sindaci e delle associazioni degli enti locali e dunque è molto laborioso e complesso, le decisioni non possono essere generiche, ma devono fondarsi su una istruttoria completa e su una adeguata motivazione. Non c’è spazio dunque per slogan o affermazioni generiche. Si capisce che qualcuno vuole andare allo scontro con finalità esulanti dalla questione energetica. La giunta deve sentire tutti, raccogliere il grido diffuso dei sardi, ma deve tenere la barra dritta.
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Lettera di Papa Francesco a Costituente Terra: “No es una utopía”

img_8281La lettera di Papa Francesco a “Costituente Terra”

Pubblichiamo la lettera di Papa Francesco ai partecipanti al convegno “Il problema della guerra e le vie della pace”
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22 MAGGIO 2024 / COSTITUENTE TERRA / L’UNITÀ UMANA /

Francesco scrive a Costituente. E le sue parole rievocano speranza e determinazione. Dice “No es una utopía”

Riportiamo la versione tradotta in italiano e la versione originale spagnola della lettera di Papa Francesco alla nostra Associazione

Me complace conocer la realización de este encuentro y el trabajo conjunto que vienen realizando para dar vida a un constitucionalismo global.

El derecho es una práctica y una herramienta. Condensa valores que pueden ser muy caros a nuestros sentimientos, claro, per realmente sirve en la medida en que es efectivo y genera cambios en el mundo. Las catástrofes descriptas por el profesor Ferrajoli y sobre las que tantas veces alertamos, demuestran que se acaba el tiempo y que es necesario trabajar en acciones concretas. Acuerdos vinculantes a nivel global sobre el cuidado mutuo son necesarios para contener los peligros que también a nivel global la propria acción del hombre ha y sigue generando. Ninguno debe sentirse extraño frente a lo que sucede en nuestra casa común. Ahí es donde el derecho debe actuar y hacerse efectivo, diferenciándose de las meras declaraciones. Como dijimos: “El bien, como también el amor, la justicia y la solidaridad, no se alcanzan de una vez para siempre; han de ser conquistados cada día”.

Me alegra que estén trabajando sobre una propuesta de Constitución de la Tierra y que estén pensando en esa eficacia cada vez más dramáticamente necesaria para asegurar el bien común. Es imperioso alcanzar “organizaciones mundiales más eficaces, dotadas de autoridad para asegurare el bien común mundial, la erradicación del hambre y la miseria, y la defensa cierta de los derechos humanos elementales”.

El derecho romano transmitió al mundo el principio alterum non laedere. Los animo a que lo completen en un hacer por el otro y hagamos juntos realidad el sueño mundial de hermandad. No es una utopía. Piensen también en la periferia porque “cuando la sociedad – local, nacional o mundial – abandona en la periferia una parte de sí misma, no habrá programas políticos ni recursos policiales o de inteligencia que puedan asegurar indefinidamente la tranquilidad”. Los despidos con la alegría de ver detrás de este encuentro y en el compromiso de todos ustedes la esperanza que acompaña a los grandes ideales. Os bendigo de corazón.

Vaticano, 20 de mayo de 2024

FRANCISCO

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Mi fa piacere la notizia della realizzazione di questo incontro e del lavoro che con esso si viene realizzando, al fine di dar vita a un costituzionalismo globale.

Il diritto è una pratica e uno strumento. Incorpora valori che, è chiaro, possono ben corrispondere ai nostri sentimenti. Ma esso serve veramente soltanto nella misura in cui è effettivo e genera cambiamenti nella realtà del mondo. Le catastrofi descritte dal prof. Ferrajoli, sulle quali tante volte abbiamo espresso il nostro allarme, ci dicono che non c’è più tempo e che è necessario impegnarsi in azioni concrete. Per fronteggiare i pericoli di carattere globale, che l’azione stessa degli uomini ha generato e continua a generare, sono necessari accordi effettivamente vincolanti di mutuo soccorso. Nessuno deve sentirsi estraneo a ciò che succede nella nostra casa comune. E’ così che il diritto deve attuarsi e rendersi effettivo, differenziandosi dalle mere dichiarazioni di principio. “Al pari dell’amore”, abbiamo detto, “anche la giustizia e la solidarietà non si raggiungono una volta per sempre ma vanno conquistate giorno per giorno”.

Mi fa piacere che si stia lavorando al progetto di una Costituzione della Terra e che si stia pensando alla sua efficacia, sempre più drammaticamente necessaria per assicurare il bene comune. E’ doveroso pervenire a “organismi mondiali più efficaci, dotati dell’autorità necessaria per garantire il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e l’effettiva difesa dei diritti umani elementari”.

Il diritto romano trasmise al mondo il principio alterum non laedere. Vi invito a completarlo con il principio agire a favore degli altri, affinché tutti insieme possiamo realizzare il sogno mondiale della fraternità. Non è un’utopia. Pensiamo alla periferia del mondo, perché “quando la società – locale, o nazionale o globale – abbandona nella periferia una parte di se stessa, non ci saranno programmi politici né misure di polizia che possano garantire a lungo la sicurezza”.

Concludo esprimendo la gioia di vedere, dietro questo incontro e nell’impegno di tutti voi, la speranza che accompagna i grandi ideali. Vi benedico di cuore.

Vaticano, 20 maggio 2024

FRANCESCO

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Tutto per la Pace

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L’arcivescovo di Cagliari ha diffuso una nota stampa che invita tutti (credenti, non credenti e diversamente credenti) a pregare per la Pace. Lo fa invocando l’intercessione della Madre di Cristo (che è venerata anche dagli islamici) per la Pace in Palestina e nel Mondo, come ha implorato di fare il card. Pierbattista Pizzaballa, patriarca dei Latini di Gerusalemme. Riporto una parte della preghiera a Maria del cardinale, ripresa dallo splendido Magnificat. Leggiamolo pensando ai potenti della terra, da una parte, e ai poveri del mondo dall’altra. Saluti affettuosi e buon Ferragosto a tutte e tutti.
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Gloriosa Madre di Dio,
(…)
Ottieni per questa Terra Santa, per tutti i suoi figli e per l’umanità intera il dono della riconciliazione e della pace.
Che si compia la tua profezia:
i superbi siano dispersi
nei pensieri del loro cuore;
i potenti siano rovesciati dai troni, e finalmente innalzati gli umili;
siano ricolmati di beni gli affamati,
i pacifici siano riconosciuti come figli di Dio
e i miti possano ricevere in dono la terra.
Ce lo conceda Gesù Cristo, tuo Figlio,
che oggi ti ha esaltata
al di sopra dei cori degli angeli, ti ha incoronata con il diadema del regno, e ti ha posta sul trono dell’eterno splendore.
Amen
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Cagliari, 14 agosto 2024
Carissimi,
Sua Beatitudine il Cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini, nel suo recente messaggio per la Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria in Cielo, ha invitato i fedeli a pregare per la pace in Terra Santa e nel mondo “perché, in questa lunghissima notte che stiamo vivendo, l’intercessione di Maria Santissima apra per tutti noi e per il mondo intero uno squarcio di luce”.
Inviamo in allegato, insieme alla lettera del Card. Pizzaballa, il testo della Supplica per la pace alla B.V. Maria Assunta al Cielo, perché possa essere recitata prima o dopo la celebrazione dell’Eucarestia o in un altro momento che si riterrà opportuno.
Preghiamo con fiducia Maria Santissima, la Stella che il Signore ha acceso in Cielo come «segno di consolazione e di sicura speranza» (Lumen gentium, 68).
A tutti voi auguro la grazia, la misericordia e la pace da Dio Padre e da Cristo Gesù Signore nostro.
+ Giuseppe Baturi
Arcivescovo Metropolita di Cagliari

>>> Lettera del Patriarca, Cardinale Pizzaballa

Supplica per la pace alla B.V. Maria Assunta al Cielo

Gloriosa Madre di Dio,
innalzata al di sopra dei cori degli angeli,
prega per noi con san Michele arcangelo
e con tutte le potenze angeliche dei cieli
e con tutti i santi,
presso il tuo santissimo
diletto Figlio, Signore e maestro.

Ottieni per questa Terra Santa,
per tutti i suoi figli
e per l’umanità intera
il dono della riconciliazione e della pace.

Che si compia la tua profezia:
i superbi siano dispersi
nei pensieri del loro cuore;
i potenti siano rovesciati dai troni,
e finalmente innalzati gli umili;
siano ricolmati di beni gli affamati,
i pacifici siano riconosciuti come figli di Dio
e i miti possano ricevere in dono la terra.

Ce lo conceda Gesù Cristo, tuo Figlio,
che oggi ti ha esaltata
al di sopra dei cori degli angeli,
ti ha incoronata con il diadema del regno,
e ti ha posta sul trono dell’eterno splendore.
A lui sia onore e gloria per i secoli eterni.
Amen.

I Cattolici del Meic in campo sull’invasione energetica. Si all’energia rinnovabile senza danni all’ambiente e al paesaggio sardo

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SI’ alle Energie rinnovabili. NO alla devastazione del territorio della Sardegna. Si vince solo uniti e partecipi, con alla testa le nostre Istituzioni autonomiste.
Nota stampa MEIC diocesi di cagliari Oristano Nuoro

La lotta contro la devastante speculazione energetica, che ormai interessa tutti i territori sardi, può diventare l’occasione per costruire con lo Stato un nuovo rapporto paritario fondato nel rispetto di quanto previsto dallo Statuto del 1948. Consiglio e Giunta regionali. Il Consiglio e la Giunta regionali devono raccogliere la voce preoccupata di cittadini e sindaci che da ogni angolo dell’isola si leva a difesa del patrimonio identitario della Sardegna, seriamente minacciato da una invasione affaristica. Un processo speculativo che, se non presidiato e ridimensionato, porterà a una nuova colonizzazione dell’isola questa volta nel nome del “dio Gigawatt”.
La “ribellione” pacifica e corale dei territori, senza differenze partitiche, indica alle massime istituzioni regionali il percorso politico in grado di incidere sulle decisioni del Governo nazionale. Il segnale di un popolo unito – territori, Comuni, istituzioni regionali, parlamentari sardi, parlamentari europei rappresentanti della circoscrizione Sicilia-Sardegna, Università, forze economiche e sociali, terzo settore – è l’unica convincente dimostrazione di forza che la Sardegna può dare alle centrali del potere . Uniti nel confronto/negoziazione con il Governo nazionale e l’Unione Europea. Tutti uniti perché le divisioni partitiche di fronte al bene comune dei sardi sono incomprensibili e ingiustificabili.

Il Meic sa bene che i pubblici amministratori hanno la responsabilità di valutare potenzialità, vantaggi e i molti rischi, connessi all’uso delle energie alternative, e si sente impegnato ad evitare che le loro decisioni siano dettate da pressioni provenienti da interessi di parte. La Dottrina sociale cristiana invita a tener presente che i beni della terra sono stati creati da Dio per essere sapientemente usati da tutti, equamente condivisi. Si tratta perciò di impedire l’ingiustizia di un accaparramento delle risorse e avviare processi di positivo governo delle energie rinnovabili. Quindi di valutare accuratamente la riconosciuta utilità delle energie rinnovabili, ma anche la necessità di ridurre al minimo ogni effetto collaterale negativo per il territorio. Noi ribadiamo la giustezza dell’uscita dalla dipendenza della creazione di energia dalle fonti fossili. Siamo da sempre sostenitori convinti dell’Agenda 2030 dell’Onu che si armonizza in toto con l’Enciclica Laudato si’. Siamo attenti sostenitori della declinazione dei rispettivi obbiettivi nelle dimensioni europee, italiane e sarde. E nella loro pratica attuazione vogliamo che prevalgano gli interessi delle popolazioni, perché l’Economia sia per la vita e non per l’aumento delle “inequita’ e delle povertà. Siamo convinti che la partecipazione dei cittadini nelle forme previste dalla democrazia costituzionale ne sia il più importante strumento.

Al riguardo ci sovviene la convenzione di Aarhus, in vigore nei paesi dell’Unione Europea dal 30 ottobre 2001, che attribuisce al pubblico (individui e associazioni che li rappresentano) il diritto di accedere alle informazioni e di partecipare nelle decisioni in materia ambientale, così come ad avere diritto di ricorso se questi diritti non vengono rispettati.

E’ di grande attualità la raccomandazione di papa San Paolo VI nell’enciclica “Populorum Progressio”:

«Noi abbiamo degli obblighi verso tutti, e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi a ingrandire la cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere». Si tratta di una responsabilità che le generazioni presenti hanno nei confronti di quelle future, una virtuosa responsabilità politica che oggi appartiene in primis al Consiglio e alla Giunta regionali della Sardegna.

Cagliari, 1 agosto 2024

Il Movimento Ecclesiale Impegno Culturale delle Diocesi di Cagliari, Oristano e Nuoro
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img_8082SI’ alle Energie rinnovabili. NO alla devastazione del territorio della Sardegna. Si vince solo uniti e partecipi, con alla testa le nostre Istituzioni autonomiste.

Documento del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale
Diocesi di Cagliari, Oristano e Nuoro

La lotta contro la devastante speculazione energetica, che ormai interessa tutti i territori sardi, può diventare – per la Regione Autonoma della Sardegna – l’occasione per costruire e avviare con lo Stato un nuovo rapporto paritario fondato sul rispetto dello Statuto di Autonomia della Sardegna e delle norme di attuazione [1].

1. Consiglio e Giunta interpreti della volontà popolare.

Il Consiglio regionale, come massima assise rappresentativa del popolo sardo, e la Giunta regionale, come organo di governo, devono raccogliere la voce preoccupata di cittadini e sindaci che da ogni angolo dell’isola si leva a difesa del patrimonio identitario della Sardegna, seriamente minacciato da una nuova invasione affaristica. Un processo speculativo che, se non presidiato e ridimensionato, porterà alla terza colonizzazione dell’isola – dopo quella militare e petrolifera – che “cospargerà di sale” la terrà sarda definitivamente distrutta, anche nelle zone interne, da migliaia di pale eoliche e milioni di pannelli fotovoltaici.

2. Elementi unificatori.

Giunta e Consiglio regionale nella mobilitazione popolare in atto devono trovare l’elemento unificante per presentarsi come una sola forza e una sola volontà politica davanti al Governo, per ottenere di emendare il Decreto legislativo Draghi del 2021 [2] e, di conseguenza, il Decreto attuativo del ministro Pichetto Fratin (2024) [3], alla luce della specificità della Sardegna, per le determinazioni di competenza della Regione.

3. Azione unitaria della Giunta e del Consiglio regionale.

La “ribellione” pacifica e corale dei territori, senza differenze partitiche, indica alle massime istituzioni regionali il percorso politico in grado di incidere sulle decisioni del Governo nazionale. Il segnale di un popolo unito – territori, Comuni, istituzioni regionali, parlamentari sardi, parlamentari europei rappresentanti della circoscrizione Sicilia-Sardegna, Università, forze economiche e sociali, terzo settore – è l’unica convincente dimostrazione di forza che la Sardegna può dare alle centrali del potere. Uniti nel confronto/negoziazione con il Governo nazionale e l’Unione Europea.

4. Divisioni politico-partitiche incomprensibili e ingiustificabili.

Le divisioni partitiche di fronte al bene comune dei sardi sono incomprensibili e ingiustificabili, anche alla luce dei programmi elettorali presentati alle scorse elezioni regionali dai diversi schieramenti, tutti convergenti verso una sostanziale tutela dell’ambiente, del paesaggio e della cultura sarda.

5. Consiglio e Giunta regionali “sentinelle” e custodi della storia, della cultura, del patrimonio identitario, dell’ambiente, del bene comune della Sardegna.

Come cattolici del MEIC (Movimento ecclesiale di Impegno culturale) siamo convinti, seguendo le indicazioni della Dottrina sociale della Chiesa, che in questo momento difficile la risposta unitaria delle nostre istituzioni sia l’espressione più alta di una comunità politica veramente “al servizio della società civile dalla quale essa deriva”, quindi del bene comune, ragion d’essere e prima responsabilità delle istituzioni.

6. Armonizzazione degli interessi settoriali

«Per assicurare il bene comune, il governo di ogni paese – per noi la Regione – ha il compito specifico di armonizzare con giustizia i diversi interessi settoriali (Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n.169) [4]». Fino a questo momento, nel processo di riconversione energetica attraverso le “rinnovabili”, emerge che prioritariamente gli interessi tutelati sono quelli delle società finanziarie organizzatrici del business affaristico a danno dei comuni, delle popolazioni locali e dell’intera isola.

7. Relazione tra il popolo sardo e la sua terra.

L’invasione non controllata delle energie rinnovabili rischia di far perdere a noi sardi tutti – per un vantaggio economico di potenti interessi industriali e finanziari – la relazione con il patrimonio storico-ambientale cui è legata la nostra stessa identità culturale che contraddistingue la gente della Sardegna nel mondo. Una relazione che le Università di Cagliari e Sassari sarebbe bene e necessario che ribadissero pubblicamente, con il sostegno della ricerca scientifica.

8. Impedire l’ingiustizia dell’accaparramento.

Il Meic sa bene che i pubblici amministratori hanno la responsabilità di valutare potenzialità, vantaggi e i molti rischi, connessi all’uso delle energie alternative, e si sente impegnato ad evitare che le loro decisioni siano dettate da pressioni provenienti da interessi di parte. La Dottrina sociale cristiana invita a tener presente che i beni della terra sono stati creati da Dio per essere sapientemente usati da tutti, equamente condivisi. Si tratta perciò di impedire l’ingiustizia di un accaparramento delle risorse e avviare processi di positivo governo delle energie rinnovabili. Quindi di valutare accuratamente la riconosciuta utilità delle energie rinnovabili, ma anche la necessità di ridurre al minimo ogni effetto collaterale negativo per il territorio. Noi ribadiamo la giustezza dell’uscita dalla dipendenza della creazione di energia dalle fonti fossili. Siamo da sempre sostenitori convinti dell’Agenda 2030 dell’Onu [5] che si armonizza in toto con l’Enciclica Laudato si’ [6] [*]. Siamo attenti sostenitori della declinazione dei rispettivi obbiettivi nelle dimensioni europee, italiane e sarde. E nella loro pratica attuazione vogliamo che prevalgano gli interessi delle popolazioni, perché l’Economia sia per la vita e non per l’aumento delle “inequita’ e delle povertà. Siamo convinti che la partecipazione dei cittadini nelle forme previste dalla democrazia costituzionale ne sia il più importante strumento.

Al riguardo ci sovviene la convenzione di Aarhus, in vigore nei paesi dell’Unione Europea dal 30 ottobre 2001 [7], che attribuisce al pubblico (individui e associazioni che li rappresentano) il diritto di accedere alle informazioni e di partecipare nelle decisioni in materia ambientale, così come ad avere diritto di ricorso se questi diritti non vengono rispettati.

9.Responsabilità verso le generazioni future, eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei.

Scriveva quasi 50 anni fa papa san Paolo VI, fondatore proprio a Cagliari nel 1932 del Movimento dei Laureati di Azione Cattolica:

«Noi abbiamo degli obblighi verso tutti, e per ìnon possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi a ingrandire la cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere». [8] Si tratta di una responsabilità che le generazioni presenti hanno nei confronti di quelle future, una virtuosa responsabilità politica che oggi appartiene in primis al Consiglio e alla Giunta regionali della Sardegna.

Con questo spirito unitario, sinceramente volto alla tutela e al benessere del popolo sardo, il Meic appoggia tutte le iniziative in atto e quelle che coerentemente si vorranno intraprendere nel tempo che verrà. E’ la doverosa risposta del nostro Movimento culturale a un’emergenza ambientale – diventata grande problema di giustizia sociale – in coerenza con il dettato conciliare: « Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna» (G.S.,43) [9].

Cagliari, Oristano, Nuoro, 1 agosto 2024

​Il MEIC delle diocesi di Cagliari, Oristano e Nuoro.
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NOTE

[1] https://www.regione.sardegna.it/regione/leggi-e-delibere/statuto
[2] Decreto legislativo Draghi: https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2021-11-08;199 .
[3] Decreto Pichetto Fratin del 2024: https://ageei.eu/wp-content/uploads/2024/06/Nuova-bozza-DM-Aree-idonee.pdf
[4] Compendio della dottrina sociale della Chiesa: https://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/rc_pc_justpeace_doc_20060526_compendio-dott-soc_it.html
[5] Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile: https://asvis.it/l-agenda-2030-dell-onu-per-lo-sviluppo-sostenibile/
[6] Enciclica di Papa Francesco Laudato si’: https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html
[7] Convenzione di Aarhus: https://www.mase.gov.it/pagina/convenzione-di-aarhus-informazione-e-partecipazione .
[8] Populorum progressio: https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/encyclicals/documents/hf_p-vi_enc_26031967_populorum.html
[9] Gaudium et Spes: https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html

[*] Sulle connessioni tra l’Agenda ONU 2030 e l’Enciclica Laudato Si’ si fa riferimento a un articolo di Franco Meloni sul Dossier Caritas 2021: https://www.aladinpensiero.it/?p=103098 .

Democrazia è…

img_7991Ogni atto rivolto contro la libera informazione, ogni sua riduzione a fake news, è un atto eversivo rivolto contro la Repubblica. Garanzia di democrazia è, naturalmente, il pluralismo dell’informazione. A questo valore le istituzioni della Repubblica devono rivolgere la massima attenzione e sostegno. L’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i componenti dell’Associazione Stampa Parlamentare, i direttori dei quotidiani e delle agenzie giornalistiche e i giornalisti accreditati presso il Quirinale per la consegna del Ventaglio da parte dell’Associazione Stampa Parlamentare

24/07/2024
La ringrazio, Presidente, per le sue parole di saluto e ringrazio la Stampa Parlamentare e i quirinalisti per questo incontro, divenuto un appuntamento per riflettere brevemente su quanto ha presentato l’anno di lavoro che si avvia a una pausa per le istituzioni.

Il ringraziamento più intenso riguarda il prezioso e talvolta non facile compito di seguire e interpretare il mondo delle istituzioni e della politica, dandone notizia ai cittadini, esprimendo opinioni, suggerimenti, critiche che – non va mai dimenticato – sono essenziali nella vita democratica.

Le preoccupazioni e gli interrogativi che lei ha presentato sono comprensibilmente numerosi. Anzitutto quello sulla libertà di informazione.

Nella società dell’informazione globale è del tutto superfluo richiamare l’importanza che l’informazione riveste per il funzionamento della democrazia, per un’efficace tutela del sistema delle libertà La democrazia, infatti è, anzitutto, conoscenza. È contesto nel quale avviene il confronto fra le idee e si esercita il diritto a manifestarle e testimoniarle. Alla libertà di opinione si affianca la libertà di informazione, cioè di critica, di illustrazione di fatti e di realtà. Si affianca, in democrazia, anche il diritto a essere informati, in maniera corretta. Informazione, cioè, come anticorpo contro le adulterazioni della realtà.

Operare contro le adulterazioni della realtà costituisce una responsabilità, e un dovere, affidati anzitutto ai giornalisti. La legge Gonella, che ha istituto l’Ordine dei giornalisti, ne dà una rappresentazione pregevole: “È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”.

Va sempre rammentato che i giornalisti si trovano a esercitare una funzione di carattere costituzionale che si collega all’art.21 della Carta fondamentale, con un ruolo democratico decisivo. Si vanno, negli ultimi tempi, infittendo contestazioni, intimidazioni, quando non aggressioni, nei confronti di giornalisti, che si trovano a documentare fatti. Ma l’informazione è esattamente questo. Come anche a Torino, nei giorni scorsi.

Documentazione di quel che avviene, senza obbligo di sconti. Luce gettata su fatti sin lì trascurati. Raccolta di sensibilità e denunce della pubblica opinione. Canale di partecipazione e appello alle istituzioni. Per citare ancora una volta Tocqueville, “democrazia è il potere di un popolo informato”.

Ecco perché ogni atto rivolto contro la libera informazione, ogni sua riduzione a fake news, è un atto eversivo rivolto contro la Repubblica. Garanzia di democrazia è, naturalmente, il pluralismo dell’informazione. A questo valore le istituzioni della Repubblica devono rivolgere la massima attenzione e sostegno.

Si è aperta la discussione sulla opportunità di una nuova legge organica sull’editoria, come è avvenuto in precedenti occasioni di svolta in questa industria. È inevitabile tener conto della evoluzione tecnologica che ha mutato radicalmente diffusione e fruizione delle notizie. È responsabilità della Repubblica e dell’Unione Europea che i valori del pluralismo si affermino anche nei nuovi ambiti e si creino le condizioni per accompagnare la transizione in atto.

Ai giornali, alla stampa, alla radio e alle tv, si sono affiancate oggi le piattaforme digitali, divenute principali responsabili della veicolazione di contenuti informativi.

Appare singolare che a un ruolo così significativo corrisponda una convinzione di minori obblighi che ne derivano, con una tendenza, del tutto inaccettabile, dei protagonisti a sottrarvisi.

Gli over the top appaiono distanti dal sentimento comune, dalle relazioni di appartenenza alla comunità entro cui operano, quasi occupassero uno spazio meta-territoriale che li rende veicoli di innovazione, capaci di intercettare opportunità economiche, senza tuttavia considerare che anche per essi valgono i principi di convivenza civile propri agli Stati e alla comunità internazionale da cui traggono benefici.

Ho citato questioni non nuove, tanto è vero che l’Unione Europea ha approvato, nell’aprile di quest’anno, in un confronto tra Parlamento Europeo e Consiglio dell’Unione, il nuovo Regolamento sulla libertà dei media, adesso in fase di progressiva attuazione, a partire dal prossimo 8 novembre, per quanto riguarda i diritti dei destinatari dei servizi di media, vale a dire dei cittadini.

In sintesi: promozione del pluralismo e della indipendenza dei media in tutta l’Unione, con protezione dei giornalisti e delle loro fonti da ingerenze politiche; pubblicità sui fondi statali destinati a media o a piattaforme; garanzia del diritto dei cittadini alla gratuità e pubblicità delle informazioni; indipendenza editoriale dei media pubblici; protezione della libertà dei media dalle grandi piattaforme; istituzione di un nuovo Comitato europeo per i servizi di media per promuovere una applicazione coerente di queste norme.

Come si vede, un cantiere e un percorso impegnativo per l’Unione e per gli Stati membri, coscienti del valore che questo tema riveste per la libertà del nostro continente.

Tema, vorrei aggiungere, impegnativo per tutti coloro che del mondo dell’informazione fanno parte.

Tra i suoi richiami, Presidente, vi è quello che fa riferimento alla pubblica opinione, che guarda, con apprensione e smarrimento crescenti, alla situazione internazionale, attraversata – come lei ha ricordato – da tensioni, conflitti di varia natura, guerre. Vicino a noi, vicino ai confini dell’Unione Europea: in Ucraina, in Medio Oriente dopo la disumana giornata del 7 ottobre e la reazione israeliana con tante migliaia di vittime. Ma anche altrove, in altri luoghi del mondo.

L’Italia è impegnata, con convinzione, a sostegno dell’Ucraina. Insieme alla quasi totalità dei Paesi dell’Unione e insieme a quelli dell’Alleanza Atlantica. Alla Nato la Federazione Russa ha regalato un rilancio imprevedibile di ruolo e di protagonismo. Chi non ricorda le parole di più di un Capo di Stato e di governo di Paesi della Nato che, appena tre anni fa, la definivano in stato di accantonamento, per usare un termine davvero riduttivo rispetto alle espressioni allora adoperate?

Lei fa presente – con ragionevole fondamento – che si registra una fatica maggiore nelle pubbliche opinioni sull’impegno per l’indipendenza dell’Ucraina.

È vero. A nessuno – comprensibilmente – piace un’atmosfera in cui la guerra abbia prolungata presenza, anche se non vi si è coinvolti. Come non lo è l’Italia.

Pensiamo a come appare questo spettacolo di guerre agli occhi dei nostri giovani, che ritengono Erasmus e Schengen talmente naturali da non ritenerli più una conquista, ma una condizione ovvia, dalla Scandinavia a Malta, da Lisbona a Bucarest.

Aggiungo, personalmente, che spinge a grande tristezza vedere che il mondo getta in armamenti immani risorse finanziarie, che andrebbero, ben più opportunamente, destinate a fini di valore sociale. Ma chi ne ha la responsabilità? Chi difende la propria libertà – e chi l’aiuta a difenderla – o chi aggredisce la libertà altrui?

Uno dei momenti, che fa più riflettere – anche oggi – sugli errori gravidi di conseguenze, si identifica con le parole che Neville Chamberlain, Primo Ministro britannico, pronunziò, a Londra, al ritorno dalla conferenza di Monaco nel 1938: “Sono tornato dalla Germania con la pace per il nostro tempo”.

Come tutti ricordiamo, Hitler pretendeva di annettere al Reich la parte della Cecoslovacchia che confinava con la Germania – i Sudeti – dove viveva anche una minoranza di lingua tedesca. La Cecoslovacchia – che aveva fortificato quel confine temendo aggressioni – ovviamente rifiutava. Le cosiddette potenze europee del tempo – Gran Bretagna, Francia, Italia – anziché difendere il diritto internazionale e sostenere la Cecoslovacchia, a Monaco, senza neppure consultarla, diedero a Hitler via libera. La Germania nazista occupò i Sudeti. Dopo neppure sei mesi occupò l’intera Cecoslovacchia. E, visto che il gioco non incontrava ostacoli, dopo altri sei mesi provò con la Polonia (previo accordo con Stalin). Ma, a quel punto, scoppiò la tragedia dei tanti anni della Seconda guerra mondiale. Che, verosimilmente, non sarebbe scoppiata senza quel cedimento per i Sudeti.

Historia magistra vitae.

L’Italia, i suoi alleati, i suoi partner dell’Unione sostenendo l’Ucraina difendono la pace, affinché si eviti un succedersi di aggressioni sui vicini più deboli. Perché questo – anche in questo secolo – condurrebbe a un’esplosione di guerra globale.

Naturalmente, avvertiamo indispensabile adoperarsi – in Ucraina come tra Israele e Palestinesi – per la fine della guerra, per chiudere queste piantagioni di odio, che le guerre rappresentano anche per il futuro. Palestre di disumanità nel calcolo delle giovani vittime mandate a morire, come avveniva nelle pagine più buie della Prima guerra mondiale. Lei ha richiamato un altro aspetto inquietante: il diffondersi di una sub cultura che si ispira all’odio. Una violenza che – come lei ha detto – da verbale diventa frequentemente fisica.

Nei giorni scorsi il tentativo di grave attentato a Trump; in maggio quello, di più pesanti conseguenze al Primo Ministro slovacco, Fico; nello stesso mese quello all’ex Sindaca (spero che si possa ancora dire) di Berlino, Giffey; al deputato europeo tedesco Ecke; che hanno fatto seguito ad altri attentati contro esponenti politici in Germania, talvolta con conseguenze mortali; due anni fa l’attentato al marito di Nancy Pelosi, sopravvissuto a fatica.

È fondamentale e doveroso ribadire la condanna ferma e intransigente nei confronti di questa drammatica deriva di violenza contro esponenti politici di schieramenti avversi trasformati in nemici.

Occorre adoperarsi sul piano culturale contro la pretesa di elevare l’odio a ingrediente, a elemento legittimo della vita: una spinta a retrocedere nell’inciviltà.

Si registrano anche un crescente antisemitismo, l’aumento dell’intolleranza religiosa e razziale, che hanno superato il livello di guardia. Un odio che viene spesso alimentato sul web, che va non soltanto condannato ma concretamente contrastato con rigore e severità.

Vi sono, in giro per il mondo, molti apprendisti stregoni, incauti nel maneggiare, pericolosamente, strumenti che generano odio e violenza.

Lei ha parlato degli avvenimenti elettorali in altri Paesi. Numerosi quest’anno, e in grandi democrazie. Dall’Indonesia, all’India, dal Regno Unito alla Francia, nell’Unione Europea, a novembre negli Stati Uniti.

L’Italia ha rapporti di amicizia e vicinanza tradizionali con Washington, maturati all’indomani della Seconda Guerra mondiale con il generoso contributo alla ricostruzione offerto con il Piano Marshall e con il sostegno alla nostra democrazia, consolidatosi nell’Alleanza Atlantica e in altri numerosi contesti delle organizzazioni internazionali.

I vincoli di condivisione di valori dei nostri due popoli rafforzano i rapporti tra gli Stati e ne consentiranno la costante crescita. Al Presidente Biden va il ringraziamento della comunità internazionale per il suo apprezzato servizio e per la sua leadership.

Sotto altro profilo, rimango sorpreso quando si dà notizia o si presume che vi possano essere posizionamenti a seconda di questo o quell’esito elettorale, come se la loro indubbia importanza dovesse condizionare anche le nostre scelte. Nessuno – vorrei presumere – ipotizza di conformare i propri orientamenti a seconda di quanto decidono gli elettori di altri Paesi e non in base a quel che risponde al rispetto del nostro interesse nazionale e dei principi della nostra Costituzione. Questo vale sia per l’Italia, sia per l’Unione Europea.

Lei, Presidente, ha cortesemente citato alcune delle parole che ho pronunziato a Trieste qualche giorno addietro.

Come lei ha ricordato, ho parlato di Tocqueville, di Bobbio, di Popper. Ma ho parlato anche di altri, non meno illustri, tutti ormai, purtroppo, non più in vita.

Ho espresso – intenzionalmente – considerazioni concrete ma sul piano generale, di principi, senza alcun trasferimento ai temi del confronto politico attuale. E non è il caso di farlo qui.

Il mio riferimento alla correttezza e nitidezza dei sistemi elettorali muoveva – oltre che dall’inderogabile necessità di piena democraticità – dalla alta preoccupazione delle crescenti astensioni dal voto, invitando a chiedersi se una delle sue ragioni non sia la disaffezione provocata dalla percezione dalla eccessiva limitazione delle scelte effettivamente affidate agli elettori.

Se proprio vuole uno spunto di attualità, non glielo nego.

Riguarda la lunga attesa della Corte Costituzionale per il suo quindicesimo giudice. Si tratta di un vulnus alla Costituzione compiuto dal Parlamento, proprio quella istituzione che la Costituzione considera al centro della vita della nostra democrazia.

Non so come queste mie parole saranno definite: monito, esortazione, suggerimento, invito.

Ecco, invito, con garbo ma con determinazione, a eleggere subito questo giudice. Ricordo che ogni nomina di giudice della Corte Costituzionale – anche quando se ne devono scegliere diversi contemporaneamente – non fa parte di un gruppo di persone da eleggere, ma consiste, doverosamente, in una scelta rigorosamente individuale, di una singola persona meritevole per cultura giuridica, esperienza, stima e prestigio di assumere quell’ufficio così rilevante.

Vi è un altro tema che le sue considerazioni mi inducono ad affrontare. Quello delle paure che attraversano alcuni Paesi, in un mondo globalizzato e sempre più interconnesso.

Vi sono molte persone che vivono in uno stato di tensione di fronte ai grandi cambiamenti in corso sempre più velocemente. Come ben sappiamo, registriamo condizioni nuove: di vita quotidiana, di modelli sociali, di lavoro, di formule di lavoro, di strumenti di cui avvalersi, di prospettive. Vi si affiancano fenomeni nuovi: dai mutamenti del clima alle possibili pandemie, da strumenti economici e sociali, ormai indispensabili, in mani di pochi e potenti gestori al di sopra dei confini e dell’autorità degli Stati, dalle migrazioni, in ogni continente, alla crescente fusione di popolazioni e di culture, a nuovi strumenti che la scienza propone.

Tutto questo genera, forse comprensibilmente, allarme in tanti, che si sentono disorientati, forse indifesi. E che rischiano di cadere nella rete ingannevole di chi fa credere che la soluzione sia semplice: tornare a un’epoca dorata che non c’è più (se pur mai c’è stata). E che non ci sarà più. Perché la storia cammina, i cambiamenti non si possono fermare, il tempo non torna indietro.

img_7994Vi è un tema – l’ultimo che cito – che sempre più richiede vera attenzione: quello della situazione nelle carceri. Non ho bisogno di spendere grandi parole di principio: basta ricordare le decine di suicidi – decine di suicidi – in poco più dei sei mesi, in quest’anno.

Ma vorrei condividere una lettera che ho ricevuto – per il tramite del garante di quel territorio – da alcuni detenuti di un carcere di Brescia: la descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è – e deve essere – l’Italia.

Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, Non va trasformato, in questo modo, in palestra criminale. Vi sono, in atto, alcune, proficue e importanti, attività di recupero attraverso il lavoro. Dimostrano che, in molti casi, è possibile un diverso modello carcerario.

È un dovere perseguirlo. Subito, ovunque.

Vi ringrazio per la vostra presenza e vi ricambio intensamente gli auguri di una buona pausa estiva. E rivolgo i complimenti più grandi a Ilaria Caracciolo per la bellezza e il significato coinvolgente del ventaglio.

Grazie.
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