Editoriali

Francesco e Leone

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Cari amici,

dopo le prime esternazioni e l’inizio solenne del nuovo “ministero petrino”, si può azzardare un’ipotesi o forse un’intuizione sul futuro pontificato, ed è questa: che il confronto tra papa Francesco e papa Leone non vada fatto tra le due persone, in ciò che abbiano di simile o di diverso: in realtà sono simili in tutto, ambedue sono “grandi persone”, ambedue amati dalle folle, ambedue sono migranti d’origine. come del resto lo siamo tutti tra l’Europa e l’America e sempre più lo saremo, ambedue sono uomini non di potere ma di servizio, entrambi sono modelli di santità, sono “due cristiani sul trono di Pietro”, come si disse, rapiti, di papa Giovanni per esprimerne la novità.

Le differenze però ci sono, e sono profonde, e non riguardano le persone, ma sono differenze di mondi, di identità sociali, di orizzonti filosofici e teologici, differenze che segnalano un passaggio di fasi storiche e addirittura di epoche (non siamo in un’epoca di cambiamento, diceva papa Francesco, ma a un cambiamento d’epoca).

Si può alludere ad alcune di queste differenze che si sono potute cogliere in queste prime descrizioni di sé e del suo pontificato che ha fatto Leone. E anzitutto “Leone”, due nomi, Leone e Francesco, che per un pontificato del XXI secolo non potevano essere più distanti. E in secondo luogo un maggiore distacco, una più netta distinzione (disambiguazione) tra Chiesa e mondo, tra fede e storia, tra umanità e popolo di Dio: per Francesco si trattava di abbracciare “todos, todos”, per Leone si tratta di “guardare lontano”, per andare incontro alle inquietudini e alle sfide del mondo d’oggi; per Francesco era farsi servo a musulmani, a indù, a non credenti, lavando piedi siriani, nigeriani, pakistani; per Leone è farsi “servo della fede e della gioia” dei credenti della sua Chiesa; da Francesco l’Europa era accettata nella sua identità, non più confessionale, ma memore dei suoi ideali e delle sue “radici cristiane”, che il cristianesimo “aveva il dovere di annaffiare, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita” (intervista a “La Croix”); per Leone si tratta di “pescare l’umanità per salvarla dalle acque del male e della morte”; per papa Francesco la Chiesa viveva nel turbine della storia, ospedale da campo, proiettata a Lampedusa e a Gaza; per Leone è una Chiesa che apre le braccia al mondo e si lascia “inquietare” dalla storia, invocando come è d’obbligo la pace disarmata e disarmante a cominciare da Gaza e dall’Ucraina: una cura ma anche una diversa percezione del dramma del tempo; per Francesco Dio arriva per primo, “primerea”, noi siamo anticipati da Dio, prima ancora del nostro peccato, della nostra preghiera, per questo egli immaginava che l’inferno fosse vuoto, anche se diceva: “chi sono io, per giudicare?”; per Leone noi siamo “chiamati col nostro Battesimo a costruire l’edificio di Dio”.

Accenti carismi e doni diversi, ma una sola cosa in Cristo, per dirla con sant’Agostino e col motto episcopale di papa Leone, “in illo uno, unum”.

Allora è bene trovare le fonti di queste identità e differenze. Non è affatto da ignorare quanto siano diversi i due mondi che dei due papi sono la vera origine: l’America del Sud, ribollente nella sua miseria e nelle sue culture native, nel suo cristianesimo sfidato dalle ruvide teologie della Liberazione, e gli Stati Uniti, cresciuti in una relativa ricchezza, costruiti ex novo da coloni portatori di sperimentate culture e di un cristianesimo messianico traboccante di divino, tesoro in uscita grazie ai buoni uffici del presidenti americani pro tempore, piangenti “sulla spalla di Dio” (come Bush) o salvati da lui (come Trump).

E non è da ignorare la diversità tra Gesuiti e Agostiniani, e le due età che essi idealmente rappresentano. Agostino sta all’inizio di un cristianesimo legittimato dall’Impero, ha 31 anni quando Teodosio emana i decreti per l’interdizione del paganesimo e quando con il Concilio di Costantinopoli si perfeziona la struttura teologica della fede cristica e trinitaria; è al tempo di Agostino l’incipit del regime costantiniano o di cristianità, che finirà solo col Concilio Vaticano II; è al tempo di Agostino che la rovina del vecchio mondo umano mostra in tutta la sua luce le meraviglie dell’agognata agostiniana città di Dio. Dunque siamo a un inizio.

Non così con Ignazio e la Compagnia di Gesù, che arrivano mille anni dopo già come testimoni di una fine, fine dell’unità cristiana, per le guerre tra i principi cristiani, fine dell’unità della Chiesa per l’irrompere della riforma protestante, fine della libertà dalla legge, per l’imperversare dell’Inquisizione, e un Dio già consumato che il Concilio di Trento tende a restaurare: ciò a cui i Gesuiti rispondono senza rete con la missione a convertire i popoli più lontani, con l’investirsi della responsabilità del mondo, con l’obbedienza al papa fino all’estremo; e questo arriva fino a noi, a questa nostra epoca che si potrebbe dire della cultura e forse dell’antropologia della fine: le lancette dell’orologio spostate dai fisici fino a pochi secondi prima dell’ecatombe nucleare, la fine annunciata per la crisi del clima e il dissesto ecologico, la fine dell’unità umana dilacerata dalla cultura dello scarto, e la guerra mondiale a pezzi, l’antisemitismo suicida di Israele, il genocidio in corso. Tutto ciò è stato preso in mano dal papa gesuita, annunciando un Dio che è solo misericordia, denunciando la guerra come perenne sconfitta, intonando la lode francescana del creato, promulgando il “Fratelli tutti” che rimette alla sapienza divina anche l’irenismo della pluralità delle religioni. Una teologia escatologica che si contrappone alla cultura di un mondo che getta ormai alle sue spalle anche l’ipotesi Dio, che pur la modernità non aveva escluso, fino a che anche credenti si dicono post-teisti, Dio come figura del passato, il mondo del “dopo Dio”.

Ed è qui che si profila il rovesciamento. Un papato che apre a un nuovo inizio, che invita a non restare nella sindrome della fine. Non un dopo Dio, ma un prima di Dio, un Dio che di nuovo è atteso, Non è questo il cristianesimo? Un argine alla fine, un “katekon”, preludio a un nuovo avvento, a una seconda venuta di Cristo che torna, comunque lo si possa pensare, e si chiede se troverà ancora la fede sulla terra. Ebbene essa c’è ancora, quale si è vista nello straordinario evento di partecipazione popolare di massa al dolore per la morte di Francesco e alla gioia per l’elezione di Leone; essa fa risuonare quella oscura predizione che “solo un Dio ci può salvare” che ci hanno lasciato interpreti della modernità come da ultimo Claudio Napoleoni che aveva “cominciato a pensare” che con le risorse allora disponibili non ce la facessimo a fare la pace sulla terra e ad avere la meglio sulla tecnica; c’è un’epoca nuova che forse comincia, non più quella della fine, dopo Dio, ma di un tempo nuovo prima di Dio, in attesa di Lui.

E allora forse acquista ancora più significato quel “prima loro” che è di questo sito: perché se un genocida o un guerriero si sbaglia sulla volontà di Dio, comunque i poveri, le vittime, i dispersi della vita, i nemici, sono da mettere, come dice il Vangelo, prima di Lui.

Nel sito pubblichiamo un articolo di Roberta de Monticelli, “Agostiniano senza mezze verità”, e il discorso di papa Leone nella Messa d’inizio del pontificato.

Con i più cordiali saluti,

da “Prima Loro” (Raniero La Valle).
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https://www.primaloro.com/2025/05/20/la-pace-e-la-guerra-nel-segno-di-agostino/
di Roberta De Monicelli
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18 maggio 2025
Al termine della Celebrazione Eucaristica di inizio del Ministero Petrino, il Santo Padre Leone XIV, prima di recitare la preghiera del Regina Caeli, ha pronunciato le parole che pubblichiamo di seguito:

Prima del Regina Caeli

Al termine di questa celebrazione, saluto e ringrazio tutti voi, romani e fedeli di tante parti del mondo, che avete voluto partecipare!

Esprimo in particolare la mia gratitudine alle Delegazioni ufficiali di numerosi Paesi, come pure ai Rappresentanti delle Chiese e Comunità ecclesiali e di altre Religioni.

Un caloroso saluto rivolgo alle migliaia di pellegrini convenuti da tutti i Continenti in occasione del Giubileo delle Confraternite. Carissimi, vi ringrazio perché mantenete vivo il grande patrimonio della pietà popolare!

Durante la Messa ho sentito forte la presenza spirituale di Papa Francesco, che dal Cielo ci accompagna. In questa dimensione di comunione dei santi ricordo che ieri a Chambéry, in Francia, è stato beatificato il sacerdote Camille Costa de Beauregard, vissuto tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, testimone di grande carità pastorale.

Nella gioia della fede e della comunione non possiamo dimenticare i fratelli e le sorelle che soffrono a causa delle guerre. A Gaza i bambini, le famiglie, gli anziani sopravvissuti sono ridotti alla fame. Nel Myanmar nuove ostilità hanno spezzato giovani vite innocenti. La martoriata Ucraina attende finalmente negoziati per una pace giusta e duratura.

Perciò, mentre affidiamo a Maria il servizio del Vescovo di Roma, Pastore della Chiesa universale, dalla “barca di Pietro” guardiamo a Lei, Stella del Mare, Madre del Buon Consiglio, come segno di speranza. Imploriamo dalla sua intercessione il dono della pace, il sostegno e il conforto per chi soffre, la grazia, per tutti noi, di essere testimoni del Signore Risorto.
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Trump e Socrate

img_4033 Donald Trump, un falso mistero
di Roberto Paracchini

Urlo e scalcio violentemente. Un tonfo e mi sveglio tutto sudato. Sono per terra vicino al letto. Al risveglio i miei sogni svaniscono sempre, questa volta no: c’è un estraneo in casa, chiamo aiuto, una persona a me cara si precipita verso di me, ma non mi aiuta e ansimando tenta di mordermi. Poi il mio urlo.
La sera prima mi avevano coinvolgo in una animata discussione su Donald Trump…
- E già, ma anche tu, farti coinvolgere in queste cose con personaggi simili…
- Beh, ha vinto le elezioni americane…
- Quindi?
- Rappresenta il capo di Stato oggi più aggressivo della destra mondiale e anche quella più retriva e incolta; ed è il presidente degli Usa, lo Stato più potente del mondo.
- Quindi?
- Beh, quando mi han detto che Trump sta solo facendo gli interessi del suo popolo e, citando il suo consigliere Elon Musk, mi han raccontato che l’empatia sta rovinando l’umanità…; beh!, non potevo certo stare zitto e sono sbottato.
- Bravo!
- Grazie.
- Veramente il mio “bravo” era ironico, arrabbiarsi serve a poco, occorre riflettere.
- Giusto, bisogna riflettere, ma tu chi sei?
- Quasi niente…
- Cioè?
- Un pensiero che sfugge o un‘intuizione che prima trascuri e poi ti riappare, un’ombra che ti sembra qualcosa e poi scompare, una persona che cammina a piedi scalzi che ti pare di intravvedere.
- Mi stai confondendo, ho perso il filo. Eppoi, ripeto, non mi hai ancora detto chi sei, nè che cosa vuoi.
- Calma, innanzi tutto sei tu che mi stai coinvolgendo.
- Veramente mi sei apparso tu tra queste righe, così, di colpo.
- Già, ma chi le sta scrivendo “queste righe”?
- Va beh sì, io però…
- “Però…”, se mi hai coinvolto, vuol dire che c’è un motivo, forse quel “quasi niente” che mi ha fatto apparire nel tuo scritto.
- Potrebbe, ma in verità non ricordo.
- Allora concentrati e rifletti, fa sempre bene.
- Ma io rifletto, eccome e pure molto!
- Bando alla presunzione, piuttosto sarebbe più saggio pesare e analizzare meglio le parole quando le si usa, loro ti aiuterebbero.
- Ma davvero?
- Non fare lo spiritoso, piuttosto osserva l’etimologia: ad esempio “riflettere” deriva da reflectĕre, ri-piegare, piega indietro; come a dire volgi indietro lo sguardo.
- Quindi?
- Non soffermarti solo su quello che ti sembra più ovvio.
- Fosse facile: appari all’improvviso e mi sballottoli da una parte all’altra.
- Non ti distrarre: il nostro contesto è un dialogo, quello che stiamo facendo in questo momento, giusto?
- Beh, sì, mi sei come caduto sulla pagina.
- Non svicolare con falsi problemi. Sei tu che mi hai cercato facendomi apparire nel tuo scritto. Forse sono un transfert prodotto dalle tue inquietudini, qualcuno che pensi possa darti un aiuto per capire Trump.
- Trump?
- Sì il nuovo presidente degli Stati Uniti, il responsabile indiretto del tuo incubo, di cui mi hai accennato poco fa.
- Già, ricordo, mi sono svegliato urlando. Si tratta di un personaggio non solo xenofobo, illiberale, misogino, prepotente e anti scienza, ma pure bugiardo seriale e falsificatore della realtà.
- Ho dato un’occhiata e visto che nega anche il cambiamento climatico, che nelle penultime elezioni ha inventato che fossero state truccate. Poi noto che dice fandonie a ripetizione: sull’inflazione e sui dazi ad esempio, sugli immigrati illegali negli USA afferma addirittura che siano il frutto dello svuotamento delle prigioni e dei manicomi da parte dei Paesi esteri e che questi li spingano ad andare negli USA. Afferma pure che il canale di Panama sia gestito dai cinesi, mentre la repubblica di Panama lo possiede e gestisce dal 1999. Ma l’elenco delle sue bugie è lunghissimo e non credo che tu ti possa permettere, qui ed ora, di inserirlo tutto nel tuo articolo-dialogo.
- Già, ma il problema che affligge me come tantissime altre persone è il sapere che vi sono decine di milioni di persone che gli credono e lo seguono sino a farne un mito. Mi spaventa questo eludere la realtà delle cose e questo modo di accettare tutto quello che dice Trump senza un minimo di analisi razionale.
- Forse posso aiutarti, ma dovrai assistermi anche tu dialogando con me. Ma andiamo per gradi.
- D’accordo, però una cosa di te mi è rimasta in gola: spiegami perché non hai condiviso la mia rabbia sulle farneticazioni del miliardario Elon Musk quando afferma che “la debolezza fondamentale della civiltà occidentale è l’empatia”.
- Attenzione, io ho criticato il tuo “sbottare” come da te precisato, non la tua indignazione che reputo più che giustificata.
- Guardi alla forma e non alla sostanza?
- Ma che discorsi fai? La mancanza di forma implica spesso assenza di rispetto e lealtà verso la o le persone che hai davanti, nonché una forte carenza di riflessione.
- Già, tu sai tutto!
- Per niente, io so solo una cosa: di non sapere.
- Questo mi ricorda qualcosa…
- Bene, rifletti ancora un po’: che cosa vuol dire “non sapere”?
- Che non si conosce un qualcosa…
- Certo, ma che cos’è quel qualcosa che diventa più importante di tutte…
- Caspita: sei Socrate!
- Socrate. Diciamo di sì. In questo momento, tranfert o meno, e proprio perché stiamo dialogando assieme, io sono Socrate e tu sei il mio attuale autore.
- Autore. Spiega meglio.
- S. allargherei il discorso: il dialogo va sempre fatto con un interlocutore con cui ci si misura. Io e te, ad esempio, ci stiamo reciprocamente confrontando, stiamo iniziando un percorso che, se continuato con onestà, ci porterà a una forma di leale apertura in grado di “mostrarci” reciprocamente.
- A. Mostrarci?
- S. Sì, nel senso di un vedere reciproco che ci fa percepire e sentire il nostro spirito o, se preferisci, il nostro modo di essere e quindi di pensare e di amare, scegli tu l’espressione a te più congeniale.
- A. Scusa, non ti seguo, sono ancora frastornato dal trovarmi nella pagina niente meno che Socrate.
- S. Tranquillo, ti sto dicendo che io posso capire sempre più me stesso, quanto più riesco a capire te.
- A. Facile a dirsi, e come?
- S. Percependo e sentendo, tramite il nostro dialogo, il tuo modo di essere. E lo stesso capita a te nei miei confronti.
- A. Sarà semplice per te, ma io non riesco a capire.
- S. Che c’è di strano, questa è la potenza, o la meraviglia se preferisci, del dialogo, anche se solo immaginato come stai facendo tu con me.
- A. Certo certo, Socrate, ma non ti allargare troppo, altrimenti mi perdo di nuovo: mi sembra di trovarmi in un labirinto.
- S. Giusta osservazione, non spaventarti: il dialogo è come un labirinto infinito e virtuoso in cui ogni svolta, anche se non lo sai e spesso ne hai timore, ha il valore di una scoperta, del calore di un abbraccio o del colore di un bacio. Quindi non temere, la confusione ti apre e spalanca avventure nuove e, se ti lasci andare, spesso meravigliose.
- A. D’accordo, però continuo a sentirmi smarrito, come se camminassi sull’orlo di un precipizio.
- S. Allora siamo sulla buona strada, l’orlo del precipizio rappresenta le tue certezze, quelle che temi di perdere; mentre sono solo false sicurezze, gabbie che ti impediscono di conoscere te stesso attraverso gli altri e viceversa.
- A. D’accordo, mi affido a te, Socrate.
- S. Direi che ci stiamo come guardando negli occhi ed è così che, pian piano, io riesco a vedere il tuo animo e proprio per questo vedo anche il mio. E lo stesso sta capitando a te. Questo è il frutto del dialogo.
- A. Chiaro, quasi, ma gli interrogativi su Trump li abbiamo lasciati da parte?
- S. Affatto, anzi il dialogo è indispensabile anche per questo.
- A. Sarà ma appena mi sembra di capire qualcosa, subito mi devo ricredere.
- S. Pazienta un attimo: ricordi le immagini dell’assalto al Campidoglio del gennaio del 2021 da parte di un gruppo di americani fanatici incitati da un discorso di Trump, che contestava l’elezione di Joe Biden?
- A. Certamente, quelle immagini hanno fatto il giro del mondo.
- S. Bene, ti sembra che quelle persone stessero dialogando o fossero reduci da un dialogo? Ti sembra che il discorso che aveva tenuto poco prima Trump, pieno di rumore, furore e odio fosse un dialogo?
- A. Ovviamente no.
- S. E come erano quelle persone che hanno assaltato il Campidoglio?
- A. Fanatici e arrabbiati.
- S. Sì, alcun i anche mascherati, quasi fossero presi dal compimento di un rito, in ossequio al mito di Trump.
- A. In che senso parli di Trump come di un mito?
- S. Perché per loro non aveva importanza che ci fossero state le elezioni e che tutti gli organi di controllo le avessero convalidate. Per loro i fatti che contraddicevano il mitico Trump, colui che secondo loro gli dava voce, non avevano valore.
- A. Proprio così.
- S. Ma perché? Te lo sei domandato? Pensi proprio che tutti coloro che appoggiano Trump siano incapaci di pensare un qualcosa di razionale? Che cosa significa seguire un mito?
- A. Durante l’assalto al Campidoglio sembrava che quegli americani fossero sotto l’effetto di allucinogeni per quanto erano invasati.
- S. Grazie alla possibilità dei miei viaggi sulle ali della storia, ho visto anch’io quelle scene e posso aggiungere che in termini di fanatismo, hanno molte somiglianze con quelle prodotte dai fondamentalismi religiosi in Iran (i guardiani della rivoluzione islamica) o in Afganistan (il regime dei talebani); ma non solo: anche nella destra oltranzista che guida Israele nella strage genocidaria di decine di migliaia di persone che si sta compiendo a Gaza o nei fondamentalisti di Hamas che hanno brutalmente assassinato oltre 1.200 persone e rapite 240 nell’attacco a sorpresa nel sud di Israele dell’ottobre del 2023, vedo un fanatismo analogo. Così come lo scorgo anche in Putin che invade l’Ucraina pensando alla vecchia URSS e all’impero zarista; e vedo lo stesso fanatismo nella guerra in Congo, in Sudan e in tantissime altre parti del vostro sanguinoso mondo.
- A. Noto che sei molto informato e spero sappia che hai toccato temi anche molto divisivi.
- S. Questi sono problemi tuoi, l’articolo è tuo.
- A. Grazie, però tu ne sei diventato il personaggio chiave.
- S. Allora dialoghiamo.
- A. Torniamo a Trump, Socrate, come te li spieghi quei fatti legati all’assalto del Campidoglio?, o, meglio, perché Trump ha rivinto le elezioni?, e perché ha tanto seguito?, nonostante le innumerevoli bugie che utilizza come clava per la sua politica di prepotenza e potenza?
- S. Ripensiamo un attimo all’assalto al Campidoglio, per l’eco mediatico e simbolico che ha avuto nel vostro occidente: un gravissimo tentativo di sovvertire l’ordine democratico in un Paese da voi considerato, a torto o a ragione, una grande democrazia.
- A. Già, vedremo se questa democrazia resisterà alla spallate di Trump; se pur con tutti i suoi difetti, gli Usa dei poteri bilanciati e dello stato di diritto riuscirà a stare in piedi e a mantenere il suo carattere interno negoziabile.
- S. Questo lo lascio a voi del XXI secolo. So bene che il problema Trump rappresenta più di tanti altri l’enigma del populismo nazionalista: l’eliminazione delle mediazioni e contemporaneamente l’affidarsi a un unico personaggio forte e il chiudersi verso l’esterno.
- A. Va poi detto, Socrate, che il successo di Trump si basa pure su problemi reali: la sua base elettorale è spesso composita, composta da un ceto medio impoverito dalla globalizzazione selvaggia e che coltiva tutti i pregiudizi possibili (contro i migranti, le elite, la cultura ecc. ecc.).
- S. Ora ti rifaccio sostanzialmente la stessa domanda che prima hai rivolto a me, e che sembra il convitato di pietra di questo nostro dialogo: com’è possibile che decine di milioni di persone si turino il naso e le orecchie e anche gli occhi per seguire cose come i fantomatici complotti a scapito dell’umanità orditi da una specie di Spectre segreta assetata di sangue, pervasiva e crudele, spesso ispirati dalla destra trumpiana?
- A. Caspita, Socrate, per essere vissuto circa duemila e quattrocento anni fa, sei molto informato sull’oggi.
- S. Ti confesso, però, che queste idee complottiste quasi mi spaventano, oltre a rattristarmi parecchio. Prosegui pure tu.
- A. Già, in questa narrazione complottista si va dalla “Grande sostituzione”, mito neo-nazista secondo cui i bianchi vengono sostituiti dai non bianchi, sino alla teoria cospirazionista detta “QAnon” diffusa negli Stati Uniti a partire dal 2017 sulla base della quale esisterebbe una sorta di stato nascosto mondiale, un deep state globalizzato, composto da celebrità di Hollywood, miliardari e politici democratici dediti alla pedofilia e al satanismo, contro cui il presidente Trump condurrebbe una strenua lotta per smascherarne le trame occulte.
- S. Non dimenticare la pandemia del Covid-19 che è stata fertilizzata da tantissimi presunti complotti orditi anche da chi, tramite i vaccini pensava venisse inoculato nelle persone un qualcosa di microscopico in grado di controllarle. Per poi continuare con una miriade di teorie antiscientifiche, senza alcun riscontro fattuale, ma usate anche per negare il cambiamento climatico. Il grosso problema vostro, però, è che di fronte a questi complottismi, siete sostanzialmente impotenti.
- A. Sì, come arginare infatti teorie che si basano fondamentalmente su questi tre argomenti: 1) nulla accade per caso; 2) nulla è come sembra; 3) tutto è connesso.
- S. Certo avete un bel problema. Se nulla è come sembra, qualsiasi confutazione razionale viene meno in quanto mancano i punti d’appoggio da cui partire. Poi se tutto accade per caso, viene meno la possibilità di qualsiasi rapporto causa-effetto e il fatto che tutto sia connesso può permettere la giustificazione di qualsiasi cosa. In sintesi quei tre pilastri permettono di avvalorare qualunque avvenimento senza tema di smentita.
- A. Come uscirne, quindi?
- S. Cambiando strada.
- A. Cioè.
- S. Mi sembra che tu e tutti voi, che puntate a un mondo più in armonia tra gli esseri viventi, stiate facendo però un grosso errore.
- A. Che cosa staremmo sbagliando?!
- S. Volete arginare questi irrazionalismi, tipo il complottismo di cui Trump è un protagonista di spicco, trascinandoli sul vostro terreno, quello della razionalità.
- A. Ora non capisco di nuovo, che cosa dovremmo fare altrimenti?
- S. Seguimi: ciò che è irrazionale, falso ecc. ecc., è per definizione non razionale…
- A. Ovvio!
- S. Allora perché vuoi attirare questo “nodo” privo di fondamenti razionali, o immagine di un mondo irrazionale, o se preferisci questa idea magica e mitica dell’esistenza, nel cerchio della razionalità e del pensiero scientifico? Non capisci che coi suoi metodi questo “nodo” dimostrerà sempre a sé stesso e a chi crede e si rifugia in queste credenze irrazionali, che tu hai torto e che sei tu e non loro, vittima o complice di cospirazioni e complotti che distorcono la percezione della realtà. In questo modo, inoltre, tu non potrai mai dimostrare che quel tipo di atteggiamento è scorretto, né che si basa su dati inesistenti e privi di qualsiasi consequenzialità. E questo perché – come da te accennato – uno dei capisaldi dei complottisti è che “niente è come sembra”.
- A. Scusa, Socrate, questo pessimismo mi sconcerta. In verità ho sempre pensato che il tuo dialogo potesse in ogni caso raggiungere un punto di equilibrio, invece…
- S. Non essere frettoloso e ricordati che riflettere non vuol dire avere la soluzione dietro l’angolo.
- A. D’accordo, ma se gli strumenti della razionalità non funzionano, come arginare questa concezione del mondo che vuole riconfigurare i rapporti umani come interni a un’arena di contrattazioni continue in cui vince il più prepotente e chi la spara più grossa in termini di presunti complotti?
- S. Ci arriveremo tra poco. Ora, però, vorrei aggiungere altri due elementi di riflessione.
- A. Ancora?
- S. Non essere impaziente…
- A. Io ho dei tempi e degli spazi da rispettare.
- S. Certo certo, però ora seguimi. Riflettendo sul discorso legato alla prevaricazione, ci si accorge di due aspetti importanti: il primo è che l’idea stessa di vittoria implica sempre la presenza di uno sconfitto, quindi di una persona subordinata. L’etimologia di sconfiggere deriva dal latino exconficere, annientare, sfinire, abbattere; il contrario di un qualcosa che possa produrre la ben che minima parvenza di felicità. E la parola vincere, rafforza ancor più questo aspetto.
- A. La vita, però, non è altro che una continua gara.
- S. Ma la gara non è un combattimento con vincitori e vinti.
- A. ?
- S. La parola “gara” deriva da garare, concorrenza, emulazione: correre con altri per emularne le virtù, che si formano appunto solo assieme agli altri. E’ entrata nella vostra storia la foto di Coppi e Bartali che in una gara ciclistica si passano la borraccia dell’acqua mentre continuano a pedalare.
- A. Bel ricordo e va bene, ma qual è il secondo aspetto di cui mi hai accennato?
- S. E’ legato alla vittoria e alla sua crudeltà.
- A. Addirittura!
- S. la parola “vincere” presenta un’etimologia molto varia ma sempre di sopraffazione, da vincire, legare e vinculum, catena: il nemico vinto, legato, incatenato e ridotto in servitù.
- A. Già, ma come arginare questa concezione del mondo basata sui rapporti di forza che si nutrono e crescono soprattutto sulle menzogne e i complottismi di cui abbiamo parlato prima?
- S. Il problema non è semplice e in molti, nel tuo tempo, ci stanno riflettendo. Permettimi di richiamare il Fedro, un dialogo in cui il mio allievo Platone riporta alcuni eventi che mi erano capitati.
- A. Bene , so che in quel dialogo si parla dell’amore e che vi sono tre discorsi sull’amore, che servono anche come esempio di articolazione della retorica.
- S. Certo, ma io preferisco soffermarmi su un altro aspetto di quel dialogo dai più considerato secondario.
- A. Riprendo un attimo la parola.
- S. Te la cedo pure tutta, sei tu l’autore.
- A. No, no, Socrate, vorrei solo toglierti dall’imbarazzo visto che ne sei il protagonista, e ricordare che in quel dialogo, tu e Fedro siete usciti discorrendo dalla città e percorrendo l’Ilisso, un ruscello che si trovava poco fuori Atene, state cercando un luogo fresco in cui sedersi a parlare.
- S. Certo mio autore. In quell’occasione Fedro mi chiese “non è proprio di qui, da qualche parte dell’Ilisso, che si racconta che Borea rapì Orizia?”. Ed è proprio in questo punto del discorso che entriamo nel cuore di quel che vorrei dire sui miti.
- A. Sono tutto orecchie.
- S. Orizia era una ninfa figlia del re ateniese Eretteo. Il mito racconta che Borea, personificazione del vento del nord, rapì Orizia.
- A. A quel punto, nel dialogo, interviene Fedro.
- S. Sì, ricordo le sue parole: “Ma dimmi, per Zeus, tu Socrate, credi che questo mito sia veritiero?” e io gli rispondo in modo un po’ articolato e…
- A. Non mi tenere sulle spine, racconta e spiega, ti prego.
- S. Preciso che quelli che vengono considerati i sapienti di allora, i sofisti, non ci credono e che seguendo il loro ragionamento avrei potuto sostenere che un soffio di Borea avesse fatto precipitare Orizia dalle rocce vicine, dove giocava con un’altra ninfa sua amica, Farmacia.
- A. Anche tu dai questa spiegazione di quel mito?
- S. No, e rispondo a Fedro che, seppure quelle interpretazioni siano anche piacevoli, mi sembrano troppo ingegnose e laboriose.
- A. Però danno una spiegazione razionale.
- S. Appunto ma solo all’interno di una razionalità che direi troppo facile. I miti sono tanti (dagli Ippocentauri, metà uomini e metà cavalli, alla Chimera composta da parti di leone, di capra e di serpente; alle Gorgoni Steno, Euriale e Medusa, che si narra trasformino in sasso chiunque le guarda; a Pegaso, il cavallo alato nato dalla testa di Medusa e a moltissimi altri) ed è anche impossibile intervenire su tutti.
- A. Quindi tu, Socrate, rinunci a capire per non impelagarti in lungaggini eccessive?
- S. Affatto, semmai ti invito di nuovo a riflettere. Che cosa sono i miti? C’erano nella mia antica Grecia e ci sono anche oggi nel tuo mondo, meticciati con una infinita miriade di linguaggi simbolici. Sono modi di dare un senso alla realtà, sono spesso il frutto di emozioni, sentimenti, rabbia, dolore, paura di persone che cercano un modo per capire qualcosa che non comprendono e di farlo senza un ragionamento logico, ma appunto in modo mitico.
- Quindi i sofisti di allora potremmo paragonarli ai razionalisti di oggi?
- In parte, sì: sapere che da una premessa falsa puoi dimostrare qualunque fandonia, come racconta in modo rigoroso la logica formale, non basta, non in questo caso se si vuole capire prima ed arginare poi, questi fenomeni di falsità irrazionali.
- A. Fammi capire: che tipo di spiegazione avevi dato a Fedro?
- S. Gli dissi e lo sottolineo anche a te, che coloro che vogliono rendere verosimili i miti dandone solo una spiegazione razionale, quindi trascurandone la profondità dei loro aspetti mitici, con tutta la loro carica vitale di materialità ed erotismo, non riusciranno a ottenere alcun risultato positivo. Gli rimarcai che mi sembra che questi sofisti volessero cancellare con un colpo di spugna tutto quell’insieme di piccole grandi credenze che gli esseri umani utilizzano da sempre per dare un senso a un qualcosa per loro ignoto e per controllare così le proprie paure.
- A. Quindi, come superare questa impasse?
- S. Le vostre scienze hanno fatto oggi passi da gigante in tutti i campi, dalle neuroscienze alle matematiche. E soprattutto vi stanno dicendo con convinzione che tutti i saperi sono collegati e interconnessi tra loro.
- A. E tu che dici?
- S. Io posso affermare che quella che io ho chiamato, nella mia chiacchierata con Fedro “sapienza rustica”, e che oggi potresti denotare come una razionalità vecchia e di stampo positivista che semplifica e non tiene conto della complessità del reale, va decisamente abbandonata.
- A. E tu, nel tuo mondo sei riuscito a farlo?
- S. Io non ho mai amato le semplificazioni. Infatti mi definivo e mi definisco un atopos, un atipico, strano, stravagante. Ma non a tutti piaccio: Polo nel dialogo Gorgia di Platone utilizza atopos per definirmi al negativo come un inconcludente.
- A. Infine e tornando a Trump?
- S. Lui, come già detto, è diventato un mito, seppure dal mio e dal tuo punto di vista, un mito del tutto negativo, ma sempre un mito, così come lo è Putin per tante altre persone.
- A. E quindi?
- S. In primo luogo occorre capire a che esigenze rispondono questi miti e in parte lo abbiamo già detto. Ma non basta, occorre agire con progetti sulla carne e sangue, gioie, dolori e speranze, di chi li sostiene; cercando, però ed è importantissimo, di crearne altri di miti, ma questa volta virtuosi.
- A. Esempio?
- S. Martin Luther king lo era, Mandela lo era, Rosa Parks lo era: davano tutti concretezza ai sogni di riscatto e di giustizia e facevano crescere le speranze.
- A. Nel Fedro di Platone, tu affermi che non hai tempo da perdere per rendere verosimili i miti.
- S. Da quello che abbiamo detto, non serve renderli verosimili perché questo non elimina il loro significato più profondo.
- A. Suggerisci almeno un modo per capire meglio la formazione dei nuovi e virtuosi miti.
- Conosci te stesso. Dovete tutti impegnarvi di più a conoscere voi stessi, ma questo è possibile solo se, come si è già detto, entrate nello spirito dell’altro e viceversa. Se vi meticciate tutti e sempre di più tramite il dialogo. Ed è questo il modo per formare anche tanti nuovi Mandela, Rosa Parks e Martin Luther King. Ricorda: il dialogo è contagioso ed è un atto profondamente politico: capendo gli altri, conosci te stesso e la città e i suoi problemi. Rammenta: ognuno di voi è plurale perché composto da miriadi di identità frutto del processo dei propri atti, che vivono, si nutrono e crescono nel dialogo con le altre pluralità viventi. E tutti siete intrisi di voglia d’amore, anche se non sembra. Il dialogo è la chiave per capirlo e produrne sempre di più, di amore.

Roberto Paracchini

E’ il Papa della gioia

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di Raniero La Valle
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Cari Amici,

prima di quanto potessimo aspettarcelo, abbiamo avuto un papa nuovo, che ha lenito il dolore per la morte di papa Francesco. Noi lo abbiamo salutato come “il Papa della gioia“, perché ci ha detto che il male non prevarrà. E ci ha colpito la gioia con cui è stato accolto da parte di tutti: a cominciare dai cardinali che lo avevano eletto e lo hanno attorniato sul balcone di piazza san Pietro, per ascoltare il suo primo saluto in cui in 100 secondi per dieci volte ha fatto appello alla pace.

Che significa questa gioia, esplosa in piazza san Pietro e nel mondo? Inaspettata com’era, ci è apparsa come un segno dei tempi. E che tempi sono questi? Secondo papa Leone i tempi saranno buoni, se noi li viviamo bene. Ma, citando sant’Agostino, che è a monte della sua spiritualità, ha affermato che “noi siamo i tempi”. E questo lo ha detto ai giornalisti, per esortarli a stare nella storia, e questo è un cimento anche per noi, dato che ciascuno è responsabile di tutto. E l’altra esortazione, rivolta ai giornalisti ma valida per tutti, è che anche la parola deve essere “disarmata e disarmante”, come la pace, non viziata e faziosa: perché tutto comincia dalla parola, “in principio era la Parola”, appunto.

Ma i tempi sono anche cattivi. C’è un Barbaro insediato alla Casa Bianca e c’è in corso una guerra pericolosissima a due passi da noi, addirittura contro la Russia, una guerra che come tutte le guerre si vorrebbe che finisse al più presto, e che invece l’Europa fa di tutto perché non finisca; e c’è un genocidio che non si può chiamare tale, perché se no chi lo sta facendo si offende.

Per questo è una gran cosa che sia arrivato un Papa così. Viene dall’America, anzi dalle due Americhe, insieme periferia e centro del mondo; e ci ha detto che dobbiamo tenerci per mano, tutti gli uomini, tutti i popoli, mano nella mano con la mano di Dio: e ha gridato: “mai più la guerra”, esprimendo una continuità nel servizio petrino mai venuta meno da Giovanni XXIII in poi.

Ma questa volta c’è una novità nella ricezione di questa parola, finora inascoltata da tutti i potenti. E la novità è che ora un potente sembra d’accordo, e riprende la motivazione che fu di papa Giovanni: tutti i Papi hanno denunciato l’inumanità della guerra, la sua crudeltà, il suo essere sempre una sconfitta, come da ultimo diceva papa Francesco, motivi molto congeniali al ministero papale; ma papa Giovanni aveva dato il motivo nuovo e più moderno del ripudio della guerra (“in questa età”, precisava la “Pacem in terris”): il motivo era che essa è “fuori della ragione”, cioè è da dementi. Ed ecco che due giorni dopo Trump dice a Zelensky e a Putin: “fate finire questa stupida guerra”: finire la guerra non solo perché è malvagia, ma soprattutto perché è stupida: “Ho un messaggio per entrambi: fate finire questa stupida guerra. Stiamo perdendo cinquemila soldati a settimana, sia russi che ucraini”.

Per questo se ne può uscire: perché è così stupida da travolgere e punire prima di tutto chi la fa, e tanto più se la fa “senza ragione”. In questo senso oggi il più stupido di tutti è Zelensky, che si è tirato addosso e ha voluto continuare a tutti i costi una guerra che non gli toccava affatto e per la quale ha dato in olocausto il suo Paese; ma tutte le guerre dal Novecento in poi sono state stupide rovesciandosi contro i loro autori: gli Imperi centrali nella prima guerra mondiale, Hitler, Mussolini, il Giappone, tutti suicidi, la guerra del Vietnam, l’Iraq (le due Torri!), l’Afghanistan, la Libia, e naturalmente l’Ucraina, per non parlare di Gaza.

E qui c’è una logica nel fatto che a proclamare la follia della guerra sia il più folle dei governanti di oggi. Se Trump non vuole la guerra, non è perché la giudica cattiva (se no non manderebbe armi a Israele), ma perché è stupida, non fa “grande” l’America, costa un sacco di soldi e mette a rischio il dollaro: e lui lo comprende perché è un folle lucido più degli altri, e preferisce non il burro, ma i dazi ai cannoni. Perciò ora possiamo sperare che almeno la guerra d’Ucraina pur all’insaputa dell’Europa illuminista, e nonostante l’Europa, stupida com’è, finalmente, finisca.

Di seguito pubblichiamo il discorso di Papa Leone XIV ai giornalisti. Nel sito Prima Loro un’intervista all’Unità su papa Leone XIV.

Con i più cordiali saluti,
da “Prima Loro” (Raniero La Valle).
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Incontro con i Rappresentanti dei Media convenuti a Roma per il Conclave, 12.05.2025

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Alle ore 11.00 di questa mattina [12.05.2025], nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Leone XIV ha incontrato i Rappresentanti dei Media convenuti a Roma per il Conclave.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto loro:

Discorso del Santo Padre

Buongiorno! Good morning, and thank you for this wonderful reception! They say when they clap at the beginning it doesn’t matter much… If you are still awake at the end, and you still want to applaud… Thank you very much!

[traduzione italiana: Buongiorno e grazie per questa bellissima accoglienza! Dicono che quando si applaude all’inizio non vale granché! Se alla fine sarete ancora svegli e vorrete ancora applaudire, grazie mille!]

Fratelli e sorelle!

Do il benvenuto a voi, rappresentanti dei media di tutto il mondo. Vi ringrazio per il lavoro che avete fatto e state facendo in questo tempo, che per la Chiesa è essenzialmente un tempo di Grazia.

Nel “Discorso della montagna” Gesù ha proclamato: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). Si tratta di una Beatitudine che ci sfida tutti e che vi riguarda da vicino, chiamando ciascuno all’impegno di portare avanti una comunicazione diversa, che non ricerca il consenso a tutti i costi, non si riveste di parole aggressive, non sposa il modello della competizione, non separa mai la ricerca della verità dall’amore con cui umilmente dobbiamo cercarla. La pace comincia da ognuno di noi: dal modo in cui guardiamo gli altri, ascoltiamo gli altri, parliamo degli altri; e, in questo senso, il modo in cui comunichiamo è di fondamentale importanza: dobbiamo dire “no” alla guerra delle parole e delle immagini, dobbiamo respingere il paradigma della guerra.

Permettetemi allora di ribadire oggi la solidarietà della Chiesa ai giornalisti incarcerati per aver cercato di raccontare la verità, e con queste parole anche chiedere la liberazione di questi giornalisti incarcerati. La Chiesa riconosce in questi testimoni – penso a coloro che raccontano la guerra anche a costo della vita – il coraggio di chi difende la dignità, la giustizia e il diritto dei popoli a essere informati, perché solo i popoli informati possono fare scelte libere. La sofferenza di questi giornalisti imprigionati interpella la coscienza delle Nazioni e della comunità internazionale, richiamando tutti noi a custodire il bene prezioso della libertà di espressione e di stampa.

Grazie, cari amici, per il vostro servizio alla verità. Voi siete stati a Roma in queste settimane per raccontare la Chiesa, la sua varietà e, insieme, la sua unità. Avete accompagnato i riti della Settimana Santa; avete poi raccontato il dolore per la morte di Papa Francesco, avvenuta però nella luce della Pasqua. Quella stessa fede pasquale ci ha introdotti nello spirito del Conclave, che vi ha visti particolarmente impegnati in giornate faticose; e, anche in questa occasione, siete riusciti a narrare la bellezza dell’amore di Cristo che ci unisce tutti e ci fa essere un unico popolo, guidato dal Buon Pastore.

Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che rappresentano una sfida per tutti noi e che non dobbiamo fuggire. Al contrario, essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi, di non cedere mai alla mediocrità. La Chiesa deve accettare la sfida del tempo e, allo stesso modo, non possono esistere una comunicazione e un giornalismo fuori dal tempo e dalla storia. Come ci ricorda Sant’Agostino, che diceva: “Viviamo bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi” (cfr Discorso 80, 8).

Grazie, dunque, di quanto avete fatto per uscire dagli stereotipi e dai luoghi comuni, attraverso i quali leggiamo spesso la vita cristiana e la stessa vita della Chiesa. Grazie, perché siete riusciti a cogliere l’essenziale di quel che siamo, e a trasmetterlo con ogni mezzo al mondo intero.

Oggi, una delle sfide più importanti è quella di promuovere una comunicazione capace di farci uscire dalla “torre di Babele” in cui talvolta ci troviamo, dalla confusione di linguaggi senza amore, spesso ideologici o faziosi. Perciò, il vostro servizio, con le parole che usate e lo stile che adottate, è importante. La comunicazione, infatti, non è solo trasmissione di informazioni, ma è creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto. E guardando all’evoluzione tecnologica, questa missione diventa ancora più necessaria. Penso, in particolare, all’intelligenza artificiale col suo potenziale immenso, che richiede, però, responsabilità e discernimento per orientare gli strumenti al bene di tutti, così che possano produrre benefici per l’umanità. E questa responsabilità riguarda tutti, in proporzione all’età e ai ruoli sociali.

Cari amici, impareremo con il tempo a conoscerci meglio. Abbiamo vissuto – possiamo dire insieme – giorni davvero speciali. Li abbiamo, li avete condivisi con ogni mezzo di comunicazione: la TV, la radio, il web, i social. Vorrei tanto che ognuno di noi potesse dire di essi che ci hanno svelato un pizzico del mistero della nostra umanità, e che ci hanno lasciato un desiderio di amore e di pace. Per questo ripeto a voi oggi l’invito fatto da Papa Francesco nel suo ultimo messaggio per la prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali: disarmiamo la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio; purifichiamola dall’aggressività. Non serve una comunicazione fragorosa, muscolare, ma piuttosto una comunicazione capace di ascolto, di raccogliere la voce dei deboli che non hanno voce. Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra. Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana.

Voi siete in prima linea nel narrare i conflitti e le speranze di pace, le situazioni di ingiustizia e di povertà, e il lavoro silenzioso di tanti per un mondo migliore. Per questo vi chiedo di scegliere con consapevolezza e coraggio la strada di una comunicazione di pace.

Grazie a tutti voi. Che Dio vi benedica!

[00533-IT.02] [Testo originale: Italiano]
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Referendum per il lavoro, la solidarietà, la democrazia

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Firma la petizione e aiutaci a rompere questo silenzio:https://referendumcittadinanza.it/basta-censura-sui-referendum/
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. Al Consiglio di Amministrazione RAI
. All’amministratore delegato RAI
. Alla Direzione delle emittenti RAI
. Alla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.

Con questa petizione pubblica denunciamo un fatto gravissimo: nonostante le interlocuzioni istituzionali e le rassicurazioni ricevute, i referendum dell’8 e 9 giugno non hanno avuto, fino ad oggi, nemmeno un minuto di copertura nei palinsesti televisivi della RAI.

Non un servizio, non un approfondimento, non un dibattito.
Zero minuti. Zero informazione. Zero democrazia.

Questo silenzio è intollerabile. Il referendum è un diritto costituzionale, sancito dall’art. 75, e rappresenta l’unico strumento di democrazia diretta previsto dalla nostra Costituzione. Garantire ai cittadini una corretta e completa informazione sui quesiti referendari è un dovere della televisione pubblica. È, prima ancora, una garanzia democratica.
Oscurare deliberatamente il referendum significa negare ai cittadini la possibilità di scegliere consapevolmente. Significa calpestare il diritto all’informazione. Significa indebolire il patto democratico su cui si fonda la Repubblica.
Chiediamo, con forza, che la RAI — servizio pubblico finanziato con risorse pubbliche — rispetti immediatamente i propri obblighi di informazione e assicuri un’adeguata copertura dei referendum dell’8 e 9 giugno, come previsto dalla legge e dallo spirito della nostra Costituzione.
Non vi stiamo chiedendo un favore. Vi stiamo chiedendo di rispettare la legge.
Ogni giorno in più di silenzio è un giorno in meno di democrazia.

BASTA CENSURA. LA RAI DIA SPAZIO AI REFERENDUM. ORA.
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L’occasione dei referendum: una proposta per rompere il silenzio
02/05/2025
(Da “Il Manifesto del 01/05/2025)

La destra ha deciso di sabotare i cinque referendum abrogativi dell’8 e del 9 giugno. Di questi referendum i giornali non parlano, su di essi le televisioni non informano, i dibattiti pubblici li ignorano. L’obiettivo delle destre è il loro fallimento.
di Luigi Ferrajoli

Il successo dei referendum dipende infatti dal raggiungimento del quorum, cioè dal fatto che vadano a votare almeno la metà degli elettori. La destra punta sull’astensionismo, sull’apatia, sull’egoismo, sull’indifferenza morale, sul disimpegno civile, sul disinteresse politico delle persone per problemi che direttamente non le riguardano.
Eppure si tratta di cinque quesiti la cui condivisione è una scelta di civiltà. Sono tutti quesiti sull’uguaglianza, o meglio sulla riduzione delle disuguaglianze e delle discriminazioni. Il referendum sull’abbassamento da 10 a 5 anni del tempo di residenza legale in Italia necessario a ottenere la cittadinanza, vale a ridurre le disuguaglianze formali, di status, abbreviando i tempi nei quali i migranti sono non-persone, esclusi anziché inclusi nella nostra società. È un referendum contro il razzismo, contro l’esclusione, contro le paure, contro le diffidenze e le ossessioni identitarie, sulle quali le nostre destre hanno speculato, ottenendo consenso alle loro politiche disumane e così abbassando il senso morale dell’intera società.
I referendum sul lavoro, per la cui promozione dobbiamo essere grati soprattutto alla Cgil, sono diretti a ridurre le disuguaglianze sostanziali tra i lavoratori generate dalla precarietà e dalla potestà di licenziare. Sono referendum contro l’arbitrio, per la sicurezza contro gli infortuni e a sostegno della dignità del lavoro. Sono contro leggi che hanno distrutto l’uguaglianza nei diritti dei lavoratori, e con essa la solidarietà sulla quale si basava la soggettività politica del movimento operaio. Privando i lavoratori dei loro diritti e mettendoli in concorrenza tra loro, queste leggi hanno ridotto i lavoratori a merci. Hanno ribaltato la direzione del conflitto sociale: non più verso l’alto, ma verso il basso, nei confronti dei migranti e dei devianti di strada; non più contro le disuguaglianze ma contro le differenze – di nazionalità, di religione, di sesso, di condizioni economiche e sociali.
Sono tutti, questi referendum, altrettanti quesiti sul nostro grado di adesione e di condivisione della nostra Costituzione. Giacché tutti sono a sostegno dei fondamenti della Repubblica scritti nei primi articoli della nostra carta costituzionale: il lavoro, la dignità, l’uguaglianza di tutte le persone solo perché tali, siano esse migranti o lavoratori.
Soprattutto, questi referendum abrogativi non equivalgono a una qualsiasi votazione. Con essi non ci si limita a votare su chi ci governerà. Il voto nei referendum non equivale a una delega, ma a una concreta decisione destinata a migliorare la vita di milioni di persone. Rispondendo “Sì” ai quesiti referendari, i cittadini decidono, direttamente e personalmente, su questioni di fondo.
Operano una scelta per l’uguaglianza e contro il razzismo, le discriminazioni e lo sfruttamento. Fanno un passo nel senso dell’attuazione della nostra Costituzione. Difendono, con la dignità di migranti e lavoratori, la dignità di tutti noi.
Per questo è necessaria una mobilitazione dell’intero elettorato democratico diretto a indurre la maggioranza della popolazione ad andare a votare. Per questo, al silenzio-stampa e alla disinformazione con cui le destre intendono far fallire i referendum, è giusto opporre una risposta civile e di sicuro impatto mediatico. Tutti gli esponenti dell’opposizione – dal partito democratico ai Cinque Stelle, da Alleanza Verdi e Sinistra ai centristi antifascisti – tutte le volte che, in occasione dei telegiornali, vengono interpellati sulle svariate questioni del giorno, dovrebbero utilizzare questi brevi spazi di comunicazione per invitare le persone ad andare a votare. Dovrebbero trasformare le battute rituali ed inutili, che sono loro richieste, in informazioni sui contenuti dei referendum e in inviti ad andare a votare. Dovrebbero farlo in maniera apertamente provocatoria, ostentando la totale incongruenza di questi inviti con la questione sulla quale, volta a volta, vengono interpellati. Proprio perché la destra controlla la Rai e gran parte della stampa, proprio perché punta sull’ignoranza e la disinformazione, è necessario che quanti vengono intervistati su qualunque problema mostrino di voler far uso dei brevi spazi di comunicazione loro concessi per dire: «L’8 e il 9 giugno andate a votare nei referendum».
Un successo di questi referendum abrogativi equivarrebbe a un risveglio della ragione e, soprattutto, della coscienza democratica del nostro paese. Varrebbe a bocciare non solo le pessime leggi sottoposte ai quesiti referendari, ma l’intera politica di questo governo, illiberale e antisociale, e la sua penosa istigazione all’astensione e al qualunquismo. Rifonderebbe la fiducia nella democrazia. Restituirebbe vigore e vitalità alle nostre malandate istituzioni. Suonerebbe come un appello all’unità delle forze di opposizione e a un atto radicale di sfiducia popolare, e virtualmente di sfratto, nei confronti di questa destra al governo. È un’occasione storica irripetibile: la possibilità di una svolta, di un’inversione di rotta della nostra politica. Spetta a tutti noi non perdere questa occasione.
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I cinque quesiti referendari

Dal sito web della CGIL i cinque quesiti referendari e il punto di vista dello stesso sindacato.
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Stop ai licenziamenti illegittimi

Quesito: “Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante ‘Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183′ nella sua interezza?”.

Sostiene la Cgil: “Il primo dei quattro referendum sul lavoro chiede l’abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti del Jobs Act. Nelle imprese con più di 15 dipendenti, le lavoratrici e i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi non possono rientrare nel loro posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo. Sono oltre 3 milioni e 500mila ad oggi e aumenteranno nei prossimi anni le lavoratrici e i lavoratori penalizzati da una legge che impedisce il reintegro anche nel caso in cui la/il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto. Abroghiamo questa norma, diamo uno stop ai licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo”.
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Più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese

Quesito: “Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante ‘Norme sui licenziamenti individuali’, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: ‘compreso tra un’, alle parole ‘ed un massimo di 6′ e alle parole ‘La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro’”.

Sostiene la Cgil: “Il secondo riguarda la cancellazione del tetto all’indennità nei licenziamenti nelle piccole imprese. In quelle con meno di 16 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento, anche qualora una/un giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto. Questa è una condizione che tiene le/i dipendenti delle piccole imprese (circa 3 milioni e 700mila) in uno stato di forte soggezione. Obiettivo è innalzare le tutele di chi lavora, cancellando il limite massimo di sei mensilità all’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato affinché sia la/il giudice a determinare il giusto risarcimento senza alcun limite”.
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Riduzione del lavoro precario

Quesito: “Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante ‘Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183′, comma 1, limitatamente alle parole ‘non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque’, alle parole ‘in presenza di almeno una delle seguenti condizioni’, alle parole ‘in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b bis)’; comma 1 -bis , limitatamente alle parole ‘di durata superiore a dodici mesi’ e alle parole ‘dalla data di superamento del termine di dodici mesi’; comma 4, limitatamente alle parole ‘in caso di rinnovo’ e alle parole ‘solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi’; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole ‘liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente?’”.

Sostiene la Cgil: “Il terzo punta all’eliminazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine per ridurre la piaga del precariato. In Italia circa 2 milioni e 300 mila persone hanno contratti di lavoro a tempo determinato. I rapporti a termine possono oggi essere instaurati fino a 12 mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. Rendiamo il lavoro più stabile. Ripristiniamo l’obbligo di causali per il ricorso ai contratti a tempo determinato”.
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Più sicurezza sul lavoro

Quesito: “Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante ‘Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro’ come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”.

Sostiene la Cgil: “Il quarto interviene in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Arrivano fino a 500mila, in Italia, le denunce annuali di infortunio sul lavoro. Quasi 1000 i morti, che vuol dire che in Italia ogni giorno tre lavoratrici o lavoratori muoiono sul lavoro. Modifichiamo le norme attuali, che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Cambiamo le leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità dell’imprenditore committente significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro”.
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Più integrazione con la cittadinanza italiana

Quesito: “Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole ‘adottato da cittadino italiano’ e ‘successivamente alla adozione’; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: ‘f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica’, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza?’”.

Sostiene la Cgil: “Il quinto referendum abrogativo propone di dimezzare da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana, ripristinando un requisito introdotto nel 1865 e rimasto invariato fino al 1992. Nel dettaglio si va a modificare l’articolo 9 della legge n. 91/1992 con cui si è innalzato il termine di soggiorno legale ininterrotto in Italia ai fini della presentazione della domanda di concessione della cittadinanza da parte dei maggiorenni. Il referendum sulla Cittadinanza Italiana non va a modificare gli altri requisiti richiesti per ottenere la cittadinanza quali: la conoscenza della lingua italiana, il possesso negli ultimi anni di un consistente reddito, l’incensuratezza penale, l’ottemperanza agli obblighi tributari, l’assenza di cause ostative collegate alla sicurezza della Repubblica. Questa modifica costituisce una conquista decisiva per circa 2 milioni e 500mila cittadine e cittadini di origine straniera che nel nostro Paese nascono, crescono, abitano, studiano e lavorano. Allineiamo l’Italia ai maggiori Paesi Europei, che hanno già compreso come promuovere diritti, tutele e opportunità garantisca ricchezza e crescita per l’intero Paese”.
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Franciscus

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Sulla tomba di Francesco:
Per vedere l’effetto che fa
.

di Gianni Loy

La scena: 300.000 fedeli accalcati lungo il percorso; 160 delegazioni ufficiali, re, principi e capi di Stato in tenuta quasi impeccabile, al seguito di un cerimoniale studiato nei particolari; potenti di tutto il mondo, in tutto il loro splendore, che assistono al rito. Due assenti, per la verità, ché inseguiti dal mandato di cattura di uno strampalato Tribunale penale internazionale, hanno preferito non correre il rischio. Il Ministro della giustizia nostrano, per prudenza, aveva evitato di trasmettere l’ordine agli sbirri, ma ogni caso non si sono presentati: non si sa mai. Alcuni dei potenti approfittavano delle brevi pause della liturgia per scambiarsi qualche territorio, acquistare terre rare, o ritoccare la percentuale dei dazi in entrata. Trump e von der Leyen, taccuino alla mano, si davano appuntamento, in data prossima, per aggiornare le regole del gioco.
Solo che, proprio nel momento di porgere l’ultimo saluto al defunto, prima di rinchiuderlo nel loculo da lui scelto per la sepoltura – forzando usanze e tradizioni tramandate da secoli – sono comparsi quaranta improbabili personaggi che, si capiva subito, non provenivano dai quartieri borghesi della capitale: persone senza fissa dimora, detenuti, donne vittime di tratta, prostitute, transessuali … tutti e quaranta con in mano un rosa bianca.
Il copione prevede che siano loro – mentre i signori e le signore incominciano ad abbandonare il presidio, e già consultano l’ora per il rientro – a dare l’ultimo saluto, a deporre un fiore sulla sua tomba.
Potrebbe sembrare la surreale e provocatoria sceneggiatura di un film di Buñuel, ma non è così. Si tratta dell’ultimo copione scritto da un ex emigrato piemontese (nel senso della sua famiglia) che neppure quando ha raggiunto il massimo della carriera ha voluto cambiare le proprie abitudini, difendendo con forza, alcuni spazi della vita personale e la propria rete di amicizie.
Aveva molti amici, provenienti da differenti classi sociali. Tuttavia, l’interpretazione della scena finale ha voluto affidarla a quelle quaranta, belle, persone che era andato a scovare, o aveva casualmente incontrato, nella nuova città dove era andato a vivere; dove era stato chiamato dallo Spirito Santo, certamente, ma anche grazie alle avemarie che Padre Nicolas recitava e faceva recitare ai fedeli che si affidavano alla sua direzione spirituale, nella casa dei gesuiti di Buenos Aires, alla quinta manzana dell’avenida Callao.
Buñuel avrebbe potuto aggiunge qualche altra scena, come il goffo tentativo di Milei – non riuscito – di introdurre una motosega nel palco riservato alle autorità.
Il defunto, non è la prima volta che accade, ha voluto dettare alcuni aspetti del proprio funerale, come il tragitto lungo le strade di Roma e il luogo della sepoltura, proseguendo nel percorso di progressiva eliminazione delle pompe, avviata già dal Papa buono, un po’ anche da Pio XII, e proseguita con i loro successori.
Possiamo immaginare che l’abbia fatto per ripicca – un piccolo sardonico dispetto – nei confronti di quanti, sin dal primo giorno dell’investitura, cercavano di modificare le sue abitudini e di fargli abbracciare un galateo più consono alla nuova carica.
Solo che quel gesuita, che tanto per incominciare aveva scelto di chiamarsi Francesco, come il poverello, riteneva che non ci fosse ragione alcuna per modificare le abitudini apostoliche praticate a Buenos Aires. Quindi, aveva scelto un alloggio più modesto di quello che gli veniva proposto e aveva rifiutato i calzari rossi.
Che quel sudamericano potesse rappresentare un pericolo per la stabilità del sistema, qualcuno l’aveva intuito, subito incominciando a soffiare sul venticello della calunnia, che ha soffiato sino ad alimentare persino l’iperbole dell’usurpatore, dell’antipapa.
Aveva continuato a frequentare persone emarginate, ad inoltrarsi per le vie di Roma, anche eludendo, beffardamente, l’asfissiante controllo dei guardiani che vigilavano sulla sua sicurezza. A Sergio, – un cartonero, uno dei tanti, famiglie intere, che si guadagnavano la vita raccogliendo carta e cartone tra le montagne di rifiuti che invadevano la città di Buenos Aires – aveva regalato un biglietto aereo per averlo accanto il giorno dell’incoronazione, poi gli aveva battezzato un figlio – di nome Francisco, ovviamente – e l’ha voluto anche al suo funerale.
Francesco, in definitiva, era riuscito a non lasciarsi sopraffare dal ruolo, a mantenere una propria vita personale. E poi, non aveva saltato le pagine del vangelo che parlano di cammelli e di crune dell’ago, e magari, se gli capitava di poter disporre di un edificio, preferiva farne un alloggio per i bisognosi piuttosto che un hotel di lusso.
Credo che avesse anche altre intenzioni, ancor più somiglianti alla radicale dottrina di un suo antico predecessore. Del resto, ciò che andava predicando non era tutta farina del suo sacco, ripeteva parabole già sentite, ripeteva il messaggio di un povero Cristo che prendeva sempre le parti degli emarginati, fossero pubblicani, prostitute, samaritani …. Parabole usurate da un eccesso di interpretazione che, a volte, le hanno annacquate, consentendo ai suoi successori di venire a patti con Costantino – pagandone un prezzo – e di addobbare di troppi orpelli la pietra su cui edificare la memoria di lui. Una credente-non credente, come Giovanna Marini, la definiva pietra “piazzata tra me e lui come una pietra tombale”, Francesco, semplicemente: clericalismo.
Non tutte le intenzioni le ha potute mettere in pratica, perché non era così temerario come a volte dava a vedere; sapeva che anche l’edificio più solido, se sottoposto ad eccessivo stress, potrebbe rompersi.
In ogni caso, è riuscito difendere la sua peculiarità di persona che, prima di tutto, vive le proprie emozioni, le proprie passioni, la sua umanità. Dopo gli ammonimenti contenuti nelle lettere pastorali, nell’ultimo scorcio di tempo, ha voluto, con insistenza, parlarci della sua umanità, della sua famiglia, della sua passione per il tango, della sua squadra del cuore, della passione per il cinema di Fellini, incurante del fatto – ma ne era al corrente – che, almeno in Italia, solo ad entrare in una sala dove si proiettava “La dolce vita” si rischiava l’inferno.
Il cinema, amava il cinema. E non gli difettavano testardaggine, spirito e ironia. Ha incominciato il pontificato rifiutando le scarpe d’ordinanza, e l’ha concluso facendosi seppellire con le scarpe, consunte, di tutti i giorni.
E poi ci ha lasciato quella fantastica scena finale: lo scorrere dei potenti in pompa magna, in mise o in livrea, che assistono al rito – alcuni in tutt’altre faccende affaccendati – e poi l’improvviso irrompere dei servi, dei samaritani, delle prostitute, dei transessuali, dei pubblicani, degli immigrati a lui tanto cari, dei senza tetto, dei lebbrosi. Quaranta in tutto che, con una rosa bianca in mano, lo salutano.
È questo il ricordo che, dopo tanta speranza, di lui mi resta.
Me lo immagino sogghignare, divertito, al vedere l’effetto che fa.

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Conclave: uno dei 135 papabili
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https://www.repubblica.it/cultura/2017/10/13/news/luis_antonio_gokim_tagle_gesu_cristo_era_asiatico_e_con_il_sorriso_tornera_in_cina_-178152984/amp/
- Il cardinale Luis Antonio Tagle

Lunedì 28 aprile 2025 Sa Die de Sa Sardigna

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#SaDie
Il 28 aprile si celebra “Sa Die de sa Sardigna”.
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La ricorrenza fu scelta nell’ottobre del 1993 dal Consiglio regionale della Sardegna.
Era la fase finale della X legislatura, Presidente della Regione l’on. Antonello Cabras, coalizione di “governissimo” (un centrosinistrone PDS-PSI-PSDI-PRI-DC), costituitasi a seguito di un compromesso dopo uno scontro campale sulla legislazione urbanistica e sulla pianificazione paesaggistica.
Il Presidente del Consiglio regionale era l’on. Mario Floris.
L’iniziativa legislativa fu unitaria, ma nacque su impulso del PSd’Az (all’opposizione), per istituire una giornata celebrativa della memoria identitaria del Popolo Sardo.
La decisione mise un punto fermo su un’annosa discussione, scartando altre ipotesi alternative, la principale delle quali era stata quella di celebrare una Festa dello Statuto Speciale (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3).
Sembrava che, retrocedendo la celebrazione identitaria a un momento storico abbastanza remoto del periodo contemporaneo e a un fatto simbolicamente insurrezionale contro una dominazione esterna, si potesse trovare un compromesso adeguato rispetto al ricordo di altri momenti considerati più divisivi.
Già ascoltando la discussione in Aula, intrisa di retorica patriottica, ma poco approfondita nel merito della vicenda, avvertivo un certo paradosso, che fu evidenziato forse dal solo on. Francesco Cocco, comunista del Gruppo consiliare PDS, l’unico che mi parve davvero consapevole.
La Sarda Rivoluzione infatti conteneva in nuce il principale dei nodi irrisolti della debole soggettività politica sarda. L’aspirazione a un’identità moderna e radicale, infatti, si infranse nel 1794 contro lo scoglio del conservatorismo politico e più ancora sociale e culminò nel tradimento e nella sconfitta epocale.
Non essersi resi conto delle implicazioni profonde di quella vicenda e non avervi mai fatto i conti consapevolmente ha fatto sì che Sa Die resti ancora una celebrazione dai contorni incerti, un po’ alla ricerca di un ubi consistam che non sia quello -rischioso, in periodi di xenofobia- dell’incitazione a cacciar via qualcuno, non meglio identificato, ma sempre evocato come esterno e invasore.
Questo solo ho oggi da aggiungere a completamento di una riflessione che ho scritto tre anni fa e che ripropongo qui di seguito.
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SA DIE DE SA SARDIGNA
Sobria sintesi e sintetiche considerazioni.

Il 28 aprile 1794 la popolazione cagliaritana si rivolta contro i Piemontesi.
Il Vicerè Balbiano, tutti i funzionari reali continentali e le loro famiglie vengono costretti a rimpatriare in terraferma.
La Sarda Rivoluzione si estenderà all’intera Isola e vedrà svilupparsi un complesso tentativo di ampliare i poteri di autogoverno delle istituzioni e delle classi dirigenti locali.
Nel contempo, tuttavia, si manifesterà un profondo conflitto interno, tra rinnovatori e conservatori.
Questi ultimi alla fine prevarranno, riconsegnando ai Piemontesi il pieno controllo della Sardegna.
L’esponente più prestigioso dei rinnovatori, Giovanni Maria Angioy, per sfuggire all’arresto e alla prigione, riparerà in Francia, dove resterà fino alla morte, avvenuta a Parigi nel 1808.
La vicenda ha un prologo: nell’anno precedente, le milizie sarde, reclutate dalle città e dai possidenti locali anche in considerazione della scarsa consistenza dell’Armata reale stanziata nell’Isola, sventarono il tentativo della Francia rivoluzionaria di invadere la Sardegna.
I Savoia non se ne mostrarono affatto riconoscenti, scatenando il giustificato malcontento popolare. Alla fine i sardi si erano opposti all’invasione francese per difendere degli altri invasori, per di più reazionari.
E’ opinione prevalente, tra gli storici, che dovunque, anche sanguinosamente, come accadde in particolare nel periodo napoleonico, in Europa, le armate francesi siano passate, esse, insieme a tanta violenza, spesso rapinatoria, abbiano diffuso i segni indelebili di un grande avanzamento nelle idee, nei costumi, nel diritto, che la Restaurazione non riuscì a cancellare.
La Sardegna, per rincontrare quelle idee e vederle incarnarsi in processi istituzionali democratici, ha dovuto attendere il 1948, anno di approvazione della Costituzione repubblicana e dello Statuto speciale.
Io sono favorevole a una evoluzione istituzionale che veda affermarsi pienamente la soggettività del popolo sardo, della sua inestinta specificità linguistica, culturale, storica.
Considero da tempo l’autonomismo una fase superata.
Non disdegnerei di essere indipendentista, ma preferisco ancora considerarmi un federalista.
Tuttavia non saprei vedere, oggi, in Sardegna, chi potrebbe scrivere con altrettanta maestria e generosità dei costituenti repubblicani i principi fondamentali della Costituzione nata dall’antifascismo.
E ancora vorrei una classe dirigente sarda che quei principi li sapesse interpretare con l’esempio.
Allora, forse, mi fiderei.
(A. D. 27 aprile 2014.)
@inprimopiano
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[Dal sito web della RAS]. Cagliari, 28 aprile 2025 – La presidente della Regione Sardegna, Alessandra Todde, oggi ha presenziato alle celebrazioni ufficiali de “Sa die de Sa Sardigna 2025” che si sono tenute nel Consiglio regionale della Sardegna. Dopo l’esecuzione di “Procurad’ ‘e moderare”, l’inno del popolo sardo, quello italiano, quello Europeo, l’Inno alla Gioia, il coro del Teatro Lirico ha eseguito anche la celebre “No potho reposare” e il Va pensiero di Giuseppe Verdi, il presidente del Consiglio ha aperto ufficialmente la giornata di festa con un discorso basato sull’importanza dell’unità del popolo sardo.

A seguire l’assessora della Cultura, Ilaria Portas, ha portato i saluti della Regione aprendo e chiudendo il suo discorso in lingua sarda. L’assessora si è rivolta principalmente alle scolaresche presenti – le studentesse e gli studenti dell’istituto superiore “Ciusa” di Nuoro e del “Muggianu” di Orosei – oltre al coro dell’Università della terza età “Utes” di Sestu: “invito voi e i vostri insegnanti a cogliere l’occasione di questa giornata per approfondire e studiare la nostra storia. Solo conoscendo da dove veniamo possiamo capire chi siamo. Conoscere e studiare la storia della Sardegna ci aiuta a riscoprire quello spirito e quell’orgoglio che ci rendono fieri della nostra identità”. L’assessora ha poi esortato i ragazzi a riprendersi in mano il loro futuro: “Fate tesoro della nostra storia, anche dei nostri errori. Non permettete a nessuno di rubarvi il futuro. Lottate, con tutte le vostre forze, come fecero i nostri antenati”.

Ed è proprio facendo leva sul significato politico de Sa Die e degli eventi che portarono al 28 aprile del 1794, che si è aperto il discorso della presidente Alessandra Todde.

“231 anni sono passati da quando il popolo sardo, in quel 28 aprile del 1794, si ribellò all’oppressione. Già allora la Sardegna, che millenni prima aveva generato una delle più avanzate civiltà dell’epoca, quella nuragica, veniva da una storia di dominazione e sfruttamento che è proseguita nei secoli successivi.

Torniamo per un attimo a QUEL 28 aprile, a Cagliari prima e poi, nei giorni seguenti, a Sassari e ad Alghero, alle tensioni che covavano. Portiamo le nostre menti a tutti i centri dell’interno che insieme alle città si sollevarono contro i funzionari piemontesi, in reazione allo sfruttamento diffuso e alla condizione di oppressione che la Sardegna stava vivendo.

Il 28 aprile fu una conseguenza della presa di coscienza delle proprie forze da parte del popolo sardo, dei vassalli delle campagne, dei ceti produttivi e dei professionisti delle città. Un processo iniziato un anno prima, quando i feudatari e i nobili delle campagne, chiamarono a raccolta i propri vassalli per organizzarli in milizie e contrastare così le truppe rivoluzionarie francesi che volevano tentare uno sbarco nell’isola. Fu in quel momento che i sardi, riuniti assieme contro un nemico comune, si resero conto che potevano contrastare chi li opprimeva in casa loro: i feudatari e il governo sabaudo.

Una eterogenesi dei fini che portò in poco tempo prima alla richiesta di incarichi di governo civile e militare, poi a una maggiore coscienza politica di autogoverno e di superamento dell’anacronistico sistema feudale.

Non è certo questa l’occasione per un’analisi storiografica, che peraltro i nostri storici hanno già abbondantemente prodotto nelle sedi deputate alla ricerca e al dibattito. Quello che mi preme sottolineare qui, nella massima assemblea organizzata del popolo sardo, è che quando noi ci uniamo, quando superiamo le divisioni, quando superiamo la rassegnazione e prendiamo coscienza di ciò che siamo, del nostro valore, riusciamo in missioni che, poco prima, noi stessi ritenevamo impossibili.

Il 28 aprile e i successivi moti antifeudali Angioyani, ci dicono però anche altro: che spesso chi ci boicotta sono le forze ostili al cambiamento, quelle che guadagnano da rendite di posizione e che per questo ostacolano lo sviluppo per il bene comune.

Anche allora, infatti, ci fu chi tradì la spinta al cambiamento e collaborò con l’oppressore per ristabilire lo status quo: i funzionari sabaudi tornarono infatti dopo poche settimane e la restaurazione di un potere ancora più prevaricante portò alla fine, nel 1847, alla perdita completa dell’autonomia.

“La storia insegna ma non ha scolari”, disse uno dei nostri più insigni concittadini, Antonio Gramsci. Ebbene, noi qui, oggi, possiamo dimostrare di essere invece dei suoi ottimi alunni e imparare dalla storia, imparare da quegli errori. Saper individuare quali sono le forze interne ed esterne ostili al cambiamento e allo sviluppo della Sardegna e contrastarle, è la nostra missione attuale. Ed è su questo che vorrei chiamare a raccolta le migliori forze civili e politiche di quest’isola, per combattere una battaglia moderna in difesa e per l’applicazione completa della nostra autonomia, per il futuro della Sardegna.

È necessario, ora più che mai, unire le forze e ricordare come la reazione all’oppressione, alla tirannia, il richiamo al senso di giustizia come il valore più alto e come sprone per il coraggio e l’azione, siano temi che tornano nella nostra letteratura, nella nostra storia, nel pensiero delle nostre persone più illustri e come, applicati alla realtà attuale, siano temi da cui attingere e trarre ispirazione per cambiare le cose, per trasformare la nostra condizione e ridare dignità a un popolo che dignità merita di avere.

L’oppressione perdurata per secoli è diventata sfruttamento, dipendenza economica. L’abbiamo giustificata con l’isolamento, l’abbiamo spesso subìta e troppe volte l’abbiamo elaborata in rassegnazione, la peggiore delle condizioni, perché è la legittimazione della subordinazione e della dipendenza.

Eppure, ci basta guardare alla storia per trovare una certezza: la condizione di oppressione, di sfruttamento, non è mai stato un limite alla forza delle idee. La condizione dei sardi non ha impedito che proprio qui, in Sardegna, siano nati alcuni tra i più sensibili, brillanti e sempre attuali pensatori e uomini d’azione.

Oggi voglio che ci soffermiamo insieme sulle varie forme con cui in questa terra la reazione ha preso forma, dal 1794 ad oggi, sulle nostre tante dies de sa Sardigna.

Voglio ricordare con voi la forza di un giovane ufficiale della Brigata Sassari, che ha saputo trasformare lo spirito di sacrificio di contadini-soldati in aspirazione al diritto di essere rappresentati. Per dar loro voce ha fondato un partito su solide basi antifasciste, le stesse basi che l’hanno prima costretto ad un esilio di lotta, con Carlo Rosselli, poi a dare un contributo decisivo alla Costituzione repubblicana e allo Statuto di Autonomia della Sardegna. Quel giovane ufficiale si chiama Emilio Lussu, è di Armungia, il suo antifascismo militante è universale.

Voglio ricordare con voi la reazione straordinaria di un ragazzino povero di Ghilarza, che è stato capace di produrre uno dei pensieri politici più originali del ‘900, un pensiero ancora oggi vivo nelle università di tutto il mondo per la capacità generativa che le sue idee sono ancora in grado di sprigionare. Quel bambino si chiama Antonio Gramsci, è nato ad Ales ed è cresciuto a Ghilarza, il suo pensiero è del mondo.

Voglio ricordare ancora con voi l’incrollabile senso della giustizia di un ventunenne che durante i “moti del pane”, nel gennaio del ’44, pagò col carcere l’impegno e l’attivismo profusi per sfamare la sua gente. Quel ragazzo sarebbe poi diventato segretario del più grande partito comunista europeo, capace di porre il dialogo democratico e la moderazione al centro dell’esperienza politica italiana, di rigenerare il pensiero progressista europeo in chiave di autonomia e indipendenza da Mosca e di porre al centro del dibattito la questione morale con parole che hanno ispirato generazioni di giovani ad impregnarsi per la cosa pubblica. Quel ragazzo sarebbe stato capace di dialogo con la sua controparte politica, penso ad Aldo Moro e a Giorgio Almirante si chiama Enrico Berlinguer, lui è di Sassari, la sua rettitudine e il suo pensiero sono patrimonio europeo.

Tre grandi esempi, tre vite che ancora oggi sono capaci di trasmettere energia e voglia di impegnarsi per cambiare le cose. Ognuno di loro, a suo modo, ha tenuto viva la fiaccola accesa il 28 aprile 1794. Ognuno di loro ha creduto nella possibilità di emancipazione del popolo sardo, sia essa sociale, politica o culturale. Ognuno di loro ci ha insegnato a non rassegnarci ma, invece, a guardare avanti con coraggio e speranza.

Ed eccoci al presente, al nostro compito attuale. Cosa significa oggi, nel 2025, mantenere viva quella fiaccola, quel coraggio, quella voglia di reagire? Quale idea di Sardegna vogliamo costruire, ispirati da questo grande passato ma con lo sguardo rivolto al futuro?

Una Sardegna dell’emancipazione sociale. Un’isola in cui nascere in una famiglia povera non significhi essere condannati ad avere meno opportunità. In cui ogni bambina e ogni bambino possa studiare, crescere, costruirsi un futuro qui, senza dover andare via se non per scelta. Una Sardegna dove il lavoro sia un diritto garantito e sicuro, non un privilegio per pochi, dove le disuguaglianze – tra città e paesi, tra coste e interno, tra uomini e donne – vengano sanate da politiche giuste e lungimiranti. Emancipazione sociale significa anche combattere ogni forma di discriminazione, liberare le energie positive delle nostre comunità. Per quante volte ancora dobbiamo sentire descrivere la Sardegna come stereotipo dell’arretratezza? Troppo spesso in passato i nostri giovani migliori hanno dovuto cercare fortuna altrove, e interi paesi dell’interno si sono spopolati. Ebbene, noi diciamo basta a questo destino rassegnato. Vogliamo creare le condizioni perché chiunque voglia restare, tornare o venire in Sardegna, lo possa fare con orgoglio, trovando un tessuto sociale vivo, fertile, solidale, in cui realizzarsi. Questo è il senso più alto dell’autonomia: dare ai sardi gli strumenti per decidere e agire sul proprio sviluppo, per non essere più gli ultimi in nulla.

Una Sardegna dell’innovazione tecnologica. Dobbiamo investire con coraggio nelle nuove tecnologie. Pensiamo alle opportunità del digitale: la rete internet annulla le distanze, permette alle imprese sarde di vendere nel mondo, ai professionisti di lavorare da qui per clienti globali, agli studenti di accedere al sapere universale. Sfruttare la straordinaria opportunità trasformativa dell’Einstein Telescope per sviluppare attrazione di investimenti e di talenti.

Una Sardegna della modernità culturale. La nostra è una terra di cultura antica e viva.

È la terra di Grazia Deledda, che da Nuoro seppe parlare al mondo intero meritando il premio Nobel; la terra dei nuraghi, delle domus de janas, dei Giganti. È la terra delle launeddas e dei tenores, che incantano e che l’UNESCO ha riconosciuto patrimonio immateriale dell’umanità. Ma Sardegna culturale oggi vuol dire anche arte contemporanea, cinema, letteratura, nuove forme di espressione. I nostri giovani artisti vincono premi in Europa, i nostri registi portano scorci di Sardegna nei festival internazionali, i nostri musei e le nostre biblioteche innovano nei linguaggi e testimoniano una cultura di valore, viva e tutta da valorizzare, conoscere e far conoscere. Modernità culturale significa sapere coniugare l’orgoglio identitario con la mente aperta. Nessuno ama la Sardegna più di noi sardi, ma amare la nostra terra vuole dire farla dialogare col mondo, NON chiuderla in sé stessa. Penso alla valorizzazione della lingua sarda nelle sue numerosissime sfaccettature e non lo penso come reliquia del passato, ma come ponte verso il futuro: studiare e usare la lingua sarda, rafforza la nostra identità e al tempo stesso ci rende unici nel panorama globale, ci permette di resistere a quella egemonia culturale che, tornando a Gramsci, è nemica della libertà.

E sempre pensando alla modernità, penso anche alla cultura dell’inclusione: la Sardegna è stata terra di emigrazione ma anche di accoglienza; popoli diversi si sono incontrati qui nei secoli, e noi vogliamo continuare a essere una società aperta, dove chi viene da fuori si sente a casa e chi è nato qui non ha paura del diverso, del nuovo. Una Sardegna culturalmente moderna è una Sardegna che investe in scuole, in teatri, in spazi di creazione, che porta la sua cultura in ogni paese e accoglie le culture di tutti i paesi, che incoraggia il dialogo tra generazioni.

Perché senza cultura non c’è futuro.

Una Sardegna protagonista nel Mediterraneo e in Europa. Basta guardare la cartina geografica: la nostra isola è un ponte naturale tra Europa e Africa. Per troppo tempo questa centralità geografica non si è tradotta in centralità politica o economica. Dobbiamo avere l’ambizione di cambiare questo stato di cose. Essere centrali nel Mediterraneo significa fare della Sardegna un centro di dialogo fra i popoli di questo mare, un luogo di incontro e cooperazione. In un Mediterraneo spesso teatro di conflitti, di crisi umanitarie, di divisioni, la Sardegna può offrire un modello di convivenza e pace. Possiamo essere un’isola di pace dove discutere di disarmo, di diritti, di sviluppo sostenibile per l’intera area mediterranea. E allo stesso tempo essere centrali in Europa: la Sardegna, pur con le sue peculiarità, è parte integrante dell’Unione Europea, ne condivide i valori di democrazia e libertà. Dobbiamo far sentire più forte la voce dei sardi in Europa: nelle politiche che ci riguardano, a partire dalla coesione territoriale che per noi non sarà mai negoziabile con il riarmo, e sui trasporti, sull’accoglienza, sulla transizione ecologica. In breve, una Sardegna che da periferia diventa centro: centro di idee, di incontri, di nuove opportunità.

Questo è ciò per cui stiamo lavorando. Un progetto ambizioso, sì, ma alla nostra portata se sapremo essere all’altezza della nostra storia. Sa Die de sa Sardigna ci ricorda che i sardi, quando fanno comunità, sanno compiere imprese straordinarie. Ce lo ricordano i contadini e gli artigiani del 1794, che senza eserciti e senza aiuti esterni si ribellarono a un governo ingiusto. Ce lo ricorda Emilio Lussu, che con pochi uomini coraggiosi tenne viva la fiamma della libertà durante la notte più buia della dittatura. Ce lo ricorda Antonio Gramsci, che dal buio di una cella costruì con le idee un avvenire possibile per gli oppressi. Ce lo ricorda Enrico Berlinguer, che con la forza gentile dell’esempio cambiò il modo di fare politica, mettendo al centro l’onestà e le persone comuni. Siamo eredi di giganti. Abbiamo sulle spalle il peso e l’onore di quanto hanno fatto per noi, e sta a noi il compito di esserne degni, portando avanti quella lotta con strumenti nuovi, ma con la stessa passione.

E allora, in questa giornata di festa e memoria, invito ciascuno di voi a sentirsi parte attiva di questo cammino. Le istituzioni, da sole, non bastano: abbiamo bisogno dell’energia del nostro popolo, di tutti voi. Abbiamo bisogno dei giovani, di voi giovani che mi ascoltate, perché siete voi il seme del domani: studiate, formatevi, partecipate, come ci esortava Gramsci: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza; agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo; organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”. Abbiamo bisogno della forza e della saggezza degli anziani, memoria storica vivente delle nostre comunità. Abbiamo bisogno dell’impegno delle donne sarde, che da sempre sono colonne della nostra società e oggi più che mai contribuiscono con talento e competenza in ogni campo. Abbiamo bisogno degli imprenditori onesti, dei lavoratori instancabili, degli insegnanti appassionati, degli artisti, dei contadini, dei pastori, di tutti coloro che amano questa terra e ogni giorno, magari in silenzio, fanno il loro dovere e qualcosa di più per il bene comune. Un popolo, per risollevarsi, deve camminare unito. Ce l’ha insegnato la nostra storia e io so che il popolo sardo sa essere unito nelle sfide cruciali.

Insieme, con unità, orgoglio e speranza, possiamo davvero rendere la Sardegna ciò che può e deve essere: una terra prospera, giusta, innovativa e aperta. Una terra in cui il fatto di essere un’isola in mezzo al mare non sia più un limite ma una singolare ricchezza”.

E tando, comente s’annu passadu, kerzo narrere in nugoresu, bona die de sa Sardigna a totus!”
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In morte di un papa venuto da lontano

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UN NUOVO INIZIO?

Cari amici,

Gli eventi di questi giorni, intorno alla morte e ai funerali di papa Francesco, ci inducono non solo al compianto, al ricordo, al dolore, ma anche al pensiero: che significa tutto questo? La parola più frequentata nei giornali e nei media italiani è “ipocrisia”. Data la sua ricorrenza, deve avere una sua verità. Intanto può significare l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Ma già così sarebbe una cosa positiva, perché vuol dire attestare che la virtù è superiore al vizio, così come la realtà, diceva papa Francesco, è superiore all’idea.

Ma forse c’è anche qualcosa di più. Ed è che il consenso che si è scatenato attorno a papa Francesco, come è successo con papa Giovanni XXIII, non è finto, è reale. Ed è certamente vero che non tutto papa Francesco piace a tutti, ma ognuno, come si dice per diagnosticare l’ipocrisia, ne prende un pezzo, chi la pace, chi il no all’aborto, chi l’ortodossia, chi i migranti, chi la Madonna, chi Gaza, chi l’amore per “i fratelli ebrei”; solo Netanyahu non prende niente e ci tiene a farlo sapere. Però, al di là dei singoli pezzi, è la figura complessiva di papa Francesco che colpisce ed è arrivata al cuore delle masse o, per dirla in modo più tecnico, ad essere elogiato è stato il suo magistero globale, quel tutto, quella costante che c’è in ogni singolo “pezzo”. Questo tutto, e non potrebbe non esserlo, è stato il farsi testimone di Dio e, più ancora l’annuncio del regno di Dio che viene, e ancora di più, il modo e i contenuti inediti di questo annuncio.

E come mai questo annuncio nuovo suscita tanto consenso in un mondo secolarizzato, ateo, o post-teista, come pure ci piace chiamarlo? Come mai ne sono stati altrettanto toccati i pacifisti, i democratici, le donne in nero e quelli e quelle che mandano le armi perché uccidano e siano uccisi?

La domanda rimette in gioco la secolarizzazione, cioè quella che diciamo essere la modernità. È proprio vero, come dicono i sociologi, e i custodi del tempio, che Dio è stato perduto, che la secolarizzazione ha vinto e che i fiumi di folla sono, come li si chiama irrispettosamente in negativo, di “non credenti” e perciò, se partecipi e devoti, ipocriti? La Chiesa ha sempre pensato, e papa Francesco più di tutti, che non è il mondo clericale o il clero, da solo, ad autenticare la fede, ma il popolo, o meglio clero e popolo insieme, il “popolo di Dio”, che non è solo quello raccolto nella Chiesa cattolica, ma “Todos”, come diceva papa Francesco, anche in latino: “Fratres omnes”.

Dunque, ciò vuol dire che il popolo di Dio, forse senza saperlo, non ha perduto Dio, comunque gli creda. E allora forse si deve una riparazione alla modernità, prenderla per quello che veramente dice di essere, non per quello che noi diciamo che sia, non il “secolo” dove Dio non c’è, come di fatto la consideriamo, ma il luogo e il tempo di una convenzione: “facciamo e pensiamo come se Dio non ci fosse e non si occupasse dell’umanità”, secondo la nota formula seicentesca, che la proponeva come una finzione. E dunque lo diciamo “come se”, non perché “così è”. Facciamo l’ipotesi che Dio non ci sia, e ignoriamo l’ipotesi esclusa, ma nel sottotesto in molti consideriamo che, anche in modo a noi ignoto, egli ci sia, e che il suo regno possa arrivare davvero.

Allora vale la seconda alternativa avanzata in un articolo molto bello scritto da un filosofo “non credente”, Sergio Labate, In morte di un papa venuto da lontano: papa Francesco è stato l’ultimo argine «che frena l’inevitabile fine del mondo», oppure è stato il potere che spera, ancora e nonostante tutto, che «l’umanità, persino nella secolarizzazione, può non sentirsi orfana, affidarsi alla fraternità, non cedere al cinismo e alla disperazione, trovare un modo per non farsi la guerra»? «Modernità e cristianesimo». Cioè non una fine, ma un nuovo inizio.

Nel sito “PRIMA LORO” e sotto pubblichiamo l’articolo di Sergio Labate.

Con i più cordiali saluti,
da “Prima Loro” (Raniero La Valle).
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CHE ABBIA RAGIONE LUI?
In morte di un Papa venuto da lontano
Aprile 25, 2025
Prendere sul serio la speranza in un’umanità che può affidarsi alla fraternità, non cedere al cinismo e alla disperazione, non farsi la guerra.
Sergio Labate
È strano – o forse non lo è per nulla – come a poche ore dalla sua morte, Papa Francesco sia stato immediatamente riportato dentro la maschera che suo malgrado indossava. Dentro le mura, non più fuori nel mondo. Invertendo subitaneamente un movimento che aveva scelto e che ha stupito tutti fin dall’inizio, una forma di spazientita rivendicazione del suo essere soprattutto un uomo di fede. Un uomo, tra gli altri e nel mondo. Senza i lussi, senza la regalità di un sovrano che vive e che, alla fine, addirittura muore. Adesso sono tutti d’accordo con lui, adesso che non può più spazientirsi e possiamo normalizzare le cose. È morto il pontefice, il sovrano.
Era un uomo di fede. Se c’è qualcosa che mi colpisce delle nostre società post-secolari è proprio la scarsità di veri uomini di fede. Ci sono tanti atei devoti, altrettanti uomini “religiosi”. Ma di uomini che siano illuminati e rasserenati dalla loro fede, ne conosco sempre meno. Non so nemmeno più dove cercarli, se non in qualche silenzioso monastero o in qualche tumultuosa missione. Perché ricordo questa cosa? Perché è per rispetto alla luminosità della sua fede che stasera non riesco a non coltivare anche un sorriso. Da non credente, sento che vale la pena dare credito alla sua fede, molto più che alla mia incredulità. Noi scettici, in fondo speriamo che abbia ragione lui. E che dentro la morte, si possa fare esperienza della grazia. La grazia, un’altra categoria teologica che noi umani increduli non sappiamo maneggiare, non sappiamo che farcene. Eppure in questi anni spesso ho pensato – vergognandomene anche un po’ – che il suo venire inaspettato e quasi dalla fine del mondo, portando la Chiesa cattolica dall’essere sentinella della conservazione a essere avanguardia delle rivendicazioni progressiste non potesse che dirsi nei termini della grazia. Nulla nella storia della Chiesa faceva pensare a un pontefice in grado di assumere con chiarezza posizioni sociali e politiche così radicali. Un pontefice in grado di “dire la verità” al mondo su se stesso. E questo suo dire la verità si scontrava con la storia, col suo procedere imperterrita verso il peggio, verso la demolizione di ogni pietà per gli oppressi dell’umano. Per i credenti è stato semplice trovare un principio di causalità nello Spirito Santo. Ma noi increduli ci siamo trovati un alleato, senza capire il perché e senza che nessuna dialettica della storia potesse in qualche maniera spiegarcelo.
Certo, questa alleanza politica e sociale ha convissuto con una ferma ostilità d’ordine morale. Al di là delle aperture alle persone e al rispetto per la loro dignità, Papa Francesco ha mantenuto il punto quanto alle scelte su aborto, omosessualità, matrimonio, uguaglianza di genere; è stato per certi versi riluttante sullo scandalo della pedofilia dei sacerdoti; ha fatto poco per democratizzare le istituzioni ecclesiali e per disintossicare la gestione del potere da un patriarcato angusto e inaccessibile. Ma tutto ciò in fondo ci ha anche rassicurato circa le sue intenzioni: non era una spia che cercava di impossessarsi di battaglie della sinistra per avocarle a sé, per strumentalizzarle. La sua sincerità era garantita anche dalla sua estraneità, che in fondo aveva anche dei tratti fisiologici. Abbiamo combattuto le stesse battaglie, ma non c’è stato bisogno né che lui si presentasse né che noi lo riconoscessimo in modo diverso da ciò che era realmente, un uomo di fede.
Altri più esperti di me chiariranno la genealogia del suo progressismo. Bergoglio apparteneva alla teologia popolare, una corrente che in America Latina nacque quasi per arginare il successo della teologia della liberazione. Non per contestarlo, ma per integrarlo. Recuperandone le istanze più sociali e minimizzandone forse la radicalità teologica. Non un conflitto, ma una “correzione fraterna”. A cui dobbiamo probabilmente sia la sua prossimità con la sinistra sia la sua irriducibile differenziazione. Tutto ciò che abbiamo condiviso con lui, per lui in fondo non era altro che il Vangelo e non richiedeva alcuna correzione di rotta teologica, nessuna simpatia per Marx.
La maggior parte dei commentatori ricordano tre questioni su cui si è manifestata questa prossimità senza mimetizzazioni o sconti: ecologia, migrazione, guerra. E non c’è dubbio che queste questioni siano state da Papa Francesco valorizzate nel dramma di un mondo che prendeva sempre più coscienza che attorno a esse si stesse giocando la propria sopravvivenza e la propria umanizzazione. Ma lo spessore teologico di Francesco era tale da rivendicare per ciascuna di queste questioni una radicalità cristiana, niente affatto una semplificazione. Per fare solo un esempio: la Laudato si, pubblicata nel 2015, è un’enciclica papale che scommette di essere al contempo una meditazione teologica sul creato e una riflessione filosoficamente originale sulla responsabilità per la terra. Scommesse vinte entrambe. Allo stesso modo tutte le riflessioni, le aperture e gli appelli disperati sulle migrazioni erano al contempo meditazioni teologiche sull’accoglienza evangelica e riflessioni antropologiche sull’homo viator, sulla necessità dell’essere umano di viandare (e d’essere accolto in quanto tale). Per non parlare poi della guerra e della sua disperata e tenace insistenza di fronte alla regressione bellica degli ultimi anni.
Accanto a queste tre questioni ne aggiungerei anche un’altra: il pauperismo o, meglio, l’incrollabile e non formale preferenza per i poveri. Anche in questo caso, non è difficile rintracciare i riferimenti biografici e la fedeltà evangelica: le tragedie economiche della storia argentina da un lato, una teologia evangelica per cui la povertà è uno scandalo ma è anche il segno di una conversione spirituale, dell’uomo che vive concentrato sulle cose essenziali. Ma in quella scelta anche estetica c’era soprattutto un certo modo di fare i conti col potere, dunque con la Chiesa come istituzione di potere. Tutti ricordiamo lo stacco tra l’ostentazione liturgica di Ratzinger e l’umiltà delle forme di Bergoglio. Abbiamo riscoperto la dignità del povero perché abbiamo imparato la sua lezione per cui la povertà non è la mancanza di potere, ma il modo più umano e dignitoso di resistergli, soprattutto nel tempo del lusso sfrenato e dei super-capitalisti al potere.
Ma la vera novità – ciò che per certi versi continua a essere un mistero – è quella di esser stato contemporaneamente il Papa dei credenti (quasi tutti, non tutti) e anche di coloro che mai avrebbero sognato di aver bisogno di un Papa, dei non credenti. Di essere diventato l’unica figura di riferimento credibile non solo per coloro che ne riconoscevano il ruolo ecclesiale, ma anche per quelli che non potevano non riconoscerne la legittimità morale di unica voce che urlava nel deserto. Come è stato possibile tutto questo? Che proprio la massima autorità religiosa sia stata l’unico vessillo per chi credeva in un mondo più giusto senza la vigilanza di una fede? Le mie ipotesi di risposta sono due.

25 aprile 1975 – 25 aprile 2025: i primi cinquant’anni del muralismo orgolese

img_2948I primi cinquant’anni del muralismo orgolese
di Banne Sio

Oggi è una data fondamentale per la storia italiana, ma è anche un giorno importante per il muralismo orgolese, che il 25 aprile del 1975 muoveva i suoi primi passi grazie a Francesco Del Casino, senese, professore di educazione artistica nelle scuole medie, giunto nel paese barbaricino, per sua scelta, quale vincitore di cattedra, a seguito della suggestione avuta nel vedere il film “Banditi a Orgosolo” di Vittorio De Seta.
E’ lo stesso Del Casino che in un’intervista racconta com’è cominciata questa straordinaria avventura: “I primi murali nacquero per caso il 25 aprile del 1975, quando, dopo aver incollato sui muri della via principale del paese più di cento manifesti, realizzati a scuola in una delle rare attività pluridisciplinari, ci accorgemmo che il paese era cambiato, era diventato un’esplosione di colori e di immagini e questo ci portò a pensare di ingrandire alcuni di questi manifesti sui muri delle case. Tutto questo era favorito dal momento politico–culturale in cui si viveva”.
Per tutti i ragazzi della mia generazione, e non solo, il muralismo è stato educazione civica, apprendimento della storia, anche della nostra storia, spesso oscurata dai testi scolastici. Tramite il muralismo si è avuta l’opportunità di conoscere altri mondi, di stimolare confronto e apertura. Inoltre, il muralismo è stato anche educazione all’arte e al bello, in un paese alquanto “brutto” dal punto di vista architettonico, e, per questo motivo, al fine di rendere più gradevole il contesto urbanistico, nel primo periodo venivano “presi di mira” vecchi e fatiscenti muri.
Nel rammarico di non aver avuto Del Casino quale insegnante, si può senz’altro riconoscere come egli abbia educato generazioni di studenti non solo all’arte ma, attraverso i murales, alla lettura della storia, all’interpretazione degli avvenimenti storici, allo spirito critico.

Papa Francesco

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Cari Amici,

Su papa Francesco, come è ricordato da “Prima loro”, l’Unità di oggi 23 aprile ha chiesto un’intervista a Raniero La Valle, che qui vi trasmettiamo:

1) C’è qualche ricordo personale che le è tornato alla mente pensando a Francesco?

– C’è un ricordo che è legato a una cosa che mi è successa una sola volta nella vita: una Messa interrotta a metà, come se fosse successo qualcosa di più importante di quella. Eravamo nella chiesa di san Gregorio al Celio insieme ad altre persone care per una Messa nel trigesimo della morte di mia sorella Fausta. E a un certo punto irruppe un monaco camaldolese dicendo: “Hanno eletto il Papa! Hanno eletto il Papa!”, ma ancora non se ne sapeva il nome. Allora lasciammo tutti l’altare e ci precipitammo alla Televisione per sapere chi fosse. Ed era Bergoglio. E la cosa che mi colpì non fu il “Buonasera!”, ma il fatto che non avesse la mozzetta rossa, la mantellina purpurea che i Papi portavano dopo l’elezione e nelle occasioni più solenni. La mozzetta rossa era il manto regale che gli Imperatori indossavano e che da Costantino era arrivata fino all’ultimo papa. Poi ho saputo (ma non ho potuto averne conferma) che quando Bergoglio dalla cappella Sistina era andato alla Loggia delle Benedizioni che si affaccia su piazza san Pietro, e un prelato gli aveva presentato insieme all’abito bianco sulla sua misura la mozzetta imperiale, egli l’aveva respinta dicendo: “Il carnevale è finito”. E invece di salire idealmente sul trono, aveva chinato il capo davanti alla folla improvvisamente in silenzio, quasi a farsi dare l’investitura non più dai cardinali ma dal popolo di Dio. Il carnevale era già finito, quanto alla sedia gestatoria, fin da papa Giovanni XXIII, che l’aveva demitizzata dicendo che gli ricordava quando da bambino era portato sulle spalle dello zio a Sotto il Monte; e quanto al Triregno (una corona, tre Regni!) esso era stato abbandonato da Paolo VI che, ricevutolo in dono dalla sua diocesi di Milano, lo regalò (o lo vendette) alla Chiesa americana perché ne distribuisse il ricavato ai poveri o per le missioni.

Ma queste rinunzie dovevano raccontare una storia ben più importante che papa Francesco ha poi rivelato solennemente alla Curia, alla Chiesa e al mondo: “Non siamo più nel regime di cristianità, non più!”.

La cristianità è “quel processo avviato con Costantino in cui – per dirla con la Civiltà cattolica – si attua un legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa”; un processo che supponeva la Chiesa come la realizzazione stessa del Regno di Dio sulla terra, e quindi faceva della Chiesa la vera sovrana terrena. E si può dire, con padre Antonio Spadaro, che “la missione di Carlo Magno è finita”, e che la proclamazione finale di questa uscita dal regime costantiniano c’è stata nel maggio 2016 quando papa Francesco, ricevendo a Roma il Premio Carlo Magno, che di quel sacro romano impero aveva ricevuto la corona in san Pietro dal Papa, con i leaders europei che ne celebravano il vanto l’ha rimandata al mittente per restituirla all’Europa, cioè ai popoli che ne sono gli unici titolari.

2) Cosa ha differenziato Francesco dai suoi predecessori più immediati?

– Naturalmente, all’ingrosso, si può dire “nulla”. Perché lo stesso è, per tutti i papi, il Vangelo del mistero cristiano. Però, nel suo annuncio, si può dire “tutto”: già papa Giovanni, prima di morire aveva consacrato il cambiamento, dicendo che “non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Rispetto ai suoi ultimi predecessori si può dire che essi sono stati come una parentesi tra Giovanni XXIII e lui, tra la conclusione del Concilio vaticano II e la sua effettiva ripresa cinquant’anni dopo col Giubileo della misericordia indetto da papa Francesco e cominciato nella data simbolica dell’8 dicembre 2015, corrispondente a quella della chiusura del Concilio. Si può dire infatti che il rinnovamento radicale, non solo della Chiesa ma della sua teologia, inaugurato dal Concilio Vaticano II sia stato ripreso col suo pontificato. Lo stesso Paolo VI che lo aveva riconvocato dopo la morte di papa Giovanni, ne fu poi spaventato, fino a dire che dopo il Concilio fosse “da qualche fessura entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». Anche papa Ratzinger ci tenne a dire che il Vaticano II doveva essere interpretato secondo “l’ermeneutica della continuità”, contro quella della “discontinuità e della rottura”; due ermeneutiche contrarie che “si erano trovate a confronto e che avevano litigato tra loro”, quest’ultima portando confusione nei mass media e anche in una parte della stessa teologia. Quanto a papa Wojtyla, aveva cercato di riciclare il carisma del Concilio nella spettacolarità del suo pontificato.

3) Quali sono stati i tratti più significativi del pontificato di Jorge Bergoglio e cosa lascia a chi è credente e anche ai tantissimi non credenti che hanno visto in lui un punto di riferimento ideale come pochi altri al mondo?

– A questo punto si può rispondere sull’eredità che ci ha lasciato. Non è un’eredità, pur molto celebrata, è una donazione, rimasta nascosta o fraintesa per duemila anni e ora consegnata alle nuove generazioni per sempre: la Chiesa è di tutti e per tutti, “para todos, todos!” ha ripetuto con tutta la sua voce e tutta la sua fede alle folle non abituate a crederlo. E “Todos” vuol dire non solo gli ultimi, i poveri, gli scartati, i migranti, i malati, gli anziani, i nonni, le donne e i bambini (soprattutto quelli che hanno perso il sorriso). Non solo i comprati e venduti, ossia gli alienati sul mercato del capitalismo selvaggio, e gli spogliati, gli omosessuali, i divorziati risposati. “Todos” vuol dire quelli che finora non erano ritenuti appartenenti al popolo di Dio, perché non entrati nella Chiesa attraverso la porta del battesimo, anche se “uomini di buona volontà” che, parola di sant’Agostino, si perdono perché “extra Ecclesiam nulla salus”, fuori della Chiesa non c’è salvezza. “Todos” vuol dire non solo le donne cattoliche finalmente ammesse dalla Congregazione del Culto Divino a farsi lavare i piedi nei riti del Giovedì Santo non meno degli uomini cattolici; nel 2013, da poco eletto, nel carcere minorile di Casal del Marmo papa Francesco lavò i piedi a 12 giovani detenuti anche musulmani o non credenti, e alla laica operatrice umanitaria: tutti membri del popolo di Dio. “Fratres omnes”. E ad Abu Dhabi, insieme al grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb firmò Il documento che qualifica non come errori, ma come “una sapiente volontà divina”, con la quale Dio ha creato gli esseri umani, “il pluralismo e le diversità di religione” insieme a quelle “di colore, di sesso, di razza e di lingua”.

Tutti, dunque: ma per quale salvezza? Solo per la vita presente, non oltre? Qui c’è una risposta di Francesco non suffragata dal dogma, ma “una cosa mia personale: io amo pensare che l’inferno sia vuoto, spero sia realtà”. Vuoto? E allora dov’è la retribuzione? Dov’è il Dies Irae? Dov’è la Cappella Sistina? La verità che sta sopra a tutte è che Dio è solo misericordia, un Dio che non fosse misericordioso non sarebbe neanche un Dio, ama tutti, “arriva prima”, “primerea”, come dice l’argentino con un neologismo spagnolo, prima ancora del nostro peccato, prima ancora che noi lo invochiamo. Questo è il regalo. Allora forse sì, nell’Inferno c’erano i Conti Ugolino, e i Papi, e gli amanti, come canta Dante, ma ecco che ora c’è un Papa sceso dalla cattedra, un successore di Pietro a cui secondo il Vangelo Gesù aveva detto che quello che avrebbe sciolto sulla terra sarebbe stato sciolto anche in cielo, il quale pensa che l’inferno sia vuoto; e se il Figlio di Dio mantiene le sue promesse, forse lo è ora davvero perché così l’ha pensato il discepolo che ha molto amato “todos”, come lui.

4) Per le sue prese di posizione contro il riarmo, le guerre, in ultimo a denuncia della disperata tragedia di Gaza e del popolo palestinese, Francesco è stato accusato delle peggior cose: amico di Putin, veteropacifista, terzomondista, addirittura antisemita…

– Non è stato un Papa neutrale. Paolo Vi pensava che la Chiesa dovesse essere neutrale tra gli Stati Uniti e i Vietcong, e per questo si rifiutò di condannare i bombardamenti americani sul Vietnam del Nord, come molta Chiesa, e anche l’arcivescovo Lercaro e l’ “Avvenire d’Italia”, gli chiedevano di fare. Quando tanti anni dopo papa Francesco è andato in visita a Bologna, ha citato ciò che allora aveva sostenuto quella Chiesa, e ha ripetuto, con essa, che “la via della Chiesa non è la neutralità, ma la profezia”.

Guerra e pace, diritto e fame, Ucraina e Gaza, Sudan e Myanmar, economia ed ecologia, guerra mondiale a pezzi e sua trasformazione ormai in un “vero e proprio conflitto globale”: su questo è stato detto molto, in questi giorni, Maurizio Acerbo ha scritto che “sopra ogni cosa sarà ricordato come il papa pacifista che non ha avuto paura di usare la parola genocidio su Gaza”; non si tratta perciò di riprendere l’analisi qua. Si può forse dire tutto in una sola riga, la parola detta alla fine della sua vita, dal Policlinico Gemelli: “Da qui la guerra appare ancora più assurda”.

5) Sul piano strettamente ecclesiale, quanto Bergoglio è riuscito realmente a riformare la Chiesa?

– E se questa non è una riforma della Chiesa, che cos’è? Non un’eredità, un dono.

(Intervista di Umberto De Giovannangeli a Raniero La Valle)

Con i più cordiali saluti,

da PRIMA LORO.
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Gli insegnamenti di una voce rivoluzionaria
22/04/2025
(Da “Il Manifesto” del 22/04/2025) – Ai capi di Stato e di governo che oggi lo celebrano vanno ricordate le sue parole dell’ultima benedizione ’urbi et orbi’: «Nessuna pace è possibile senza il disarmo». Per Francesco i migranti sono oggi le vittime delle nostre ’strategie’ che hanno diviso in due l’umanità: chi viaggia libero e…

di Luigi Ferrajoli

Papa Francesco ha impersonato, in questi tempi bui e tristi, la coscienza morale e intellettuale dell’intera umanità. Non è esistito, prima di lui, un altro Papa che con altrettanta forza, lucidità e passione abbia riproposto il messaggio evangelico. Denunciando tutte le grandi sfide e catastrofi dalle quali dipende il futuro dell’umanità: le terribili e crescenti disuguaglianze globali e sociali, l’orrore delle guerre, le aggressioni che un capitalismo selvaggio e predatorio sta recando al nostro ambiente naturale.
INNANZITUTTO le disuguaglianze. Nella sua enciclica Fratelli tutti del 3 ottobre 2020, Papa Francesco ha richiamato i valori della fraternità universale, della solidarietà e dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani, violentemente lesi dalla crescita esponenziale delle grandi ricchezze e delle sterminate povertà.
È nella figura dei migranti che Francesco ha identificato le vittime oggi più emblematiche delle nostre politiche disumane, che hanno diviso in due il genere umano: un’umanità che viaggia liberamente nel mondo, per turismo o per affari, e un’altra umanità, dei sommersi e degli esclusi, costretti dalla fame o dalle guerre a terribili odissee, fino a rischiare la vita per arrivare nei nostri paesi dove sono destinati a detenzioni illegittime o a sfruttamenti razzisti come non-persone.
È una vergogna che Papa Francesco non si è mai stancato di denunciare. La visita a Lampedusa nel luglio 2013, con la quale egli inaugurò il suo pontificato, fu un atto d’accusa nei confronti dei nostri governi che, come disse nella sua omelia, trasformano «una via di speranza» in «una via di morte». E fu anche una severa condanna della «globalizzazione dell’indifferenza, che ci ha tolto la capacità di piangere».
IN SECONDO LUOGO le guerre, con il loro «potere distruttivo incontrollabile che colpisce», egli scrisse in Fratelli tutti, soprattutto «civili innocenti». «Ogni guerra – aggiunse – è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male».
Ai capi di stato e di governo che celebrano oggi la sua scomparsa, vanno ricordate le sue ultime parole, pronunciate ieri nella benedizione urbi et orbi: «Nessuna pace è possibile senza il disarmo». È questa, infatti, la sola garanzia della pace. Senza le armi le guerre sarebbero impossibili, cesserebbe la potenza delle organizzazioni criminali e crollerebbe il mezzo milione di omicidi ogni anno nel mondo.
Ricordo perciò con commozione il messaggio che Papa Francesco inviò al convegno contro le guerre, promosso dalla nostra Costituente Terra il 23 maggio dell’anno scorso. In esso egli affermò che il principio della pace, enunciato in tante carte internazionali, «serve realmente nella misura in cui è effettivo e produce cambiamenti nella realtà del mondo» quali sarebbero, appunto, la messa al bando della produzione e del commercio di tutte le armi, lo scioglimento delle attuali imprese produttrici di morte, in breve il disarmo globale e totale.
Esprimendo il suo apprezzamento per il “progetto di una Costituzione della Terra”, Papa Francesco ci scrisse, sul disarmo e le garanzie dei diritti umani, che “nessuno può sentirsi estraneo a ciò che succede nella nostra casa comune. È qui che il diritto deve attuarsi e rendersi effettivo, differenziandosi dalle mere dichiarazioni di principio”.
INFINE LA QUESTIONE ecologica, alla quale è dedicata l’enciclica forse più bella e famosa di Papa Francesco, la Laudato si’ del 24 maggio 2015. “La sfida ambientale” è in essa concepita come un fattore di unificazione dell’umanità e la fonte di una «nuova solidarietà», giacché «le sue radici umane ci riguardano e ci toccano tutti».
Ma questa sfida è generata proprio dall’irresponsabile assenza di solidarietà: «Si producono centinaia di milioni di tonnellate di rifiuti l’anno: rifiuti domestici e commerciali, detriti di demolizioni, rifiuti clinici, elettronici o industriali, rifiuti altamente tossici e radioattivi. La terra, nostra casa, sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia». Tutto questo, scrive Papa Francesco, è dovuto al fatto che «l’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a conseguenze negative per l’essere umano». Non solo.
«L’ENERGIA NUCLEARE, la biotecnologia, l’informatica, la conoscenza del nostro stesso Dna e altre potenzialità che abbiamo acquisito ci offrono un tremendo potere. Anzi, danno a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere economico per sfruttarla un dominio impressionante sull’insieme del genere umano e del mondo intero. Mai l’umanità ha avuto tanto potere su se stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene».
Al contrario, è lecito supporre che lo utilizzerà malissimo, se non altro, scrive ancora Francesco, per l’illusione dominante «di una crescita infinita o illimitata», la quale «suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a ‘spremerlo’ fino al limite e oltre il limite».
Oggi questa voce rivoluzionaria si è spenta, generando un dolore profondo tra credenti e non credenti e lasciando un vuoto enorme in tutto il mondo dei difensori dei diritti umani, della pace e della natura. Ma i suoi insegnamenti sono per tutti un’eredità preziosa, e la loro difesa e la loro attuazione sono il miglior omaggio che potremo rendere alla sua memoria.
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Francesco è vivo

img_2901Per la morte di Papa Francesco che ci ha colpito e addolorato proponiamo un saggio di Domenico Gallo [Coordinamento Democrazia Costituzionale].

Francesco è vivo
di Domenico Gallo
Il dolore per la scomparsa di Francesco non può far prevalere la tristezza sulla gratitudine per il messaggio che ci ha lasciato. Voglio ricordare le sue parole di pace in un saggio che ho scritto sul suo magistero pubblicato su costituzionalismo.it

LA PACE ATTRAVERSO IL DIRITTO NEL MAGISTERO DI PAPA FRANCESCO

1. La Pace ed il Diritto nell’Ordinamento internazionale
E’ un dato di fatto che il progetto di ordine internazionale, preannunciato dalla Carta Atlantica (14 agosto 1941), partorito con la Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945) e fondato sulla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948), non si è mai completamente realizzato e adesso sta attraversando una crisi profonda che ne mette in dubbio persino l’esistenza giuridica dei suoi assiomi principali. L’ordine internazionale prefigurato dalla Carta ONU in qualche modo raccoglieva la sfida del perseguimento di una pace stabile ed universale fra le Nazioni da realizzarsi attraverso il diritto, sulla falsariga dell’insegnamento di Hans Kelsen in Peace through Law.[1] La novità principale del nuovo diritto internazionale post-bellico consisteva nella messa al bando della guerra, proclamata categoricamente dall’art. 2, comma 4, della Carta di San Francisco: «I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.»
La Carta delle Nazioni unite non ha messo la guerra fuori dalla Storia (non avrebbe potuto), ma l’ha messa fuori dal diritto[2], espungendo dalle prerogative della sovranità lo ius ad bellum, o quanto meno degradandolo.[3] Si è trattato di una scelta politica che ha cambiato la natura del diritto realizzando la fusione fra la tecnica giuridica ed un’istanza etica di valore universale. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ha completato questo processo attraverso l’inserimento nel diritto internazionale di una tavola di valori che mette al centro la dignità di ogni essere umano, in questo modo ponendo le basi del diritto internazionale dei diritti umani. Questa è stata la vera lezione positiva che l’umanità ha tratto uscendo dalla notte della Seconda guerra mondiale, la gloria del Novecento (come scriveva Italo Mancini)[4], il patrimonio morale che l’Occidente (compresi i Paesi socialisti) ha costruito per l’umanità intera.
Il diritto internazionale, sotto il profilo del bando della guerra e della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, si colloca su un crinale aspro e roccioso, battuto dai venti della Storia, alla frontiera fra la Storia e la filosofia, fra l’etica e la tecnica del diritto. A questa frontiera si può arrivare da più versanti, attraverso il sentiero della Storia o del pensiero filosofico o attraverso quello dell’etica. E’ attraverso il sentiero dell’etica che Papa Francesco è arrivato a confrontarsi con il diritto internazionale e ad ergersi, unico leader politico mondiale, a difensore dei valori universali del diritto, non più e non solo Defensor fidei, ma – per quello che più ci riguarda – Defensor iuris humanitatis.
2. Prima di tutto la pace!
La pace è al centro del messaggio dell’evangelizzazione cristiana.
«Offrire la pace è al cuore della missione dei discepoli di Cristo – osserva Francesco nel messaggio per la celebrazione della LII giornata mondiale della pace, il 1° gennaio 2019 – E questa offerta è rivolta a tutti coloro, uomini e donne, che sperano nella pace in mezzo ai drammi e alle violenze della storia umana. (..) La “casa” di cui parla Gesù è ogni famiglia, ogni comunità, ogni Paese, ogni continente, nella loro singolarità e nella loro storia; è prima di tutto ogni persona, senza distinzioni né discriminazioni. È anche la nostra “casa comune”: il pianeta in cui Dio ci ha posto ad abitare e del quale siamo chiamati a prenderci cura con sollecitudine.»[5]
Bergoglio sa che la pace fra le Nazioni si costruisce nell’ordinamento politico e gli strumenti sono quelli forniti dal diritto internazionale, in primis la Carta delle Nazioni Unite, per questo, come leader politico, si spende per dare attuazione alla Carta.
Il 25 settembre 2015 di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni unite sottolinea che: «il preambolo e il primo articolo della carta delle Nazioni unite indicano quali fondamenta della costruzione giuridica internazionale la pace, la soluzione pacifica delle controversie e lo sviluppo delle relazioni amichevoli fra le Nazioni. Contrasta fortemente con queste affermazioni, e le nega nella pratica, la tendenza sempre presente alla proliferazione delle armi specialmente quelle di distruzione di massa come possono essere quelle nucleari. Un’etica e un diritto basati sulla minaccia della distruzione reciproca – e potenzialmente di tutta l’umanità – sono contraddittori e costituiscono una frode verso tutta la costruzione delle Nazioni unite che diventerebbero: “”Nazioni Unite dalla paura e dalla sfiducia“”. Occorre impegnarsi per un mondo senza armi nucleari applicando pienamente il trattato di non proliferazione nella lettera e nello spirito, verso una totale proibizione di questi strumenti.»[6]
Nell’Udienza generale del 10 marzo del 2021, il Pontefice ritorna sulla disumanità della guerra, la guerra è un mostro che distrugge l’umanità e il mondo:
«La guerra è il mostro che, col passare delle epoche, si trasforma e continua a divorare l’umanità. Ma la risposta alla guerra non è un’altra guerra, la risposta alle armi non sono altre armi (..) la risposta non è la guerra ma la fraternità. Questa è la sfida per l’Iraq, ma non solo: è la sfida per tante regioni di conflitto, e in definitiva è la sfida per il mondo intero: la fraternità. Saremo capaci noi di fare la fraternità fra noi, di fare una cultura di fratelli? O continueremo con la logica iniziata da Caino, la guerra?» [7]
Nell’Enciclica Fratelli tutti, Francesco esprime la preoccupazione per il crescente degrado dell’ordine internazionale e conia la famosa espressione della «Terza guerra mondiale a pezzi».
«Guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro l’umano giudicati in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi, essenzialmente economici. Ciò che è vero quando conviene a un potente cessa di esserlo quando non è nel suo interesse. Tali situazioni di violenza vanno moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una Terza guerra mondiale a pezzi.»[8]
3. Il Ripudio delle armi nucleari attraverso il diritto
Francesco si rende conto che dal ripudio della guerra, concepita realisticamente dalla Carta dell’ONU come un flagello per l’umanità, deriva l’inammissibilità delle armi di sterminio di massa, specialmente le armi nucleari. La strada per liberarsi delle armi nucleari passa attraverso il diritto. Il disfavore dell’opinione pubblica verso le armi nucleari ha portato più volte l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a dichiarare che l’uso delle armi nucleari rappresenterebbe una violazione della Carta dell’ONU ed un crimine contro l’umanità, fino ad arrivare ad una Risoluzione, approvata il 15 dicembre 1994, con la quale l’Assemblea Generale ha interpellato la Corte Internazionale di Giustizia richiedendo un parere consultivo sulla liceità delle armi nucleari. Nel giudizio che si è svolto innanzi alla Corte dell’Aja, tutti gli Stati membri della NATO, compresa l’Italia, sono intervenuti chiedendo di rigettare la richiesta, assumendo che la questione non poteva essere giudicata dal diritto. La CIG si è pronunciata con una sentenza resa pubblica l’8 luglio 1996 con la quale ha respinto decisamente la tesi che voleva relegare la questione dell’uso delle armi nucleari al di fuori del perimetro del diritto confinandola nel campo delle “political question”, ed ha affermato che, nella generalità dei casi, l’uso delle armi nucleari è illegale perché inconciliabile con il diritto bellico umanitario. La battaglia per la messa al bando delle armi nucleari è proseguita in sede ONU, fino ad arrivare ad una storica Risoluzione, approvata dall’Assemblea Generale il 26 dicembre 2016, con la quale è stata convocata una Conferenza internazionale finalizzata a negoziare uno strumento giuridicamente vincolante sulla proibizione delle armi nucleari. La Conferenza ha concluso i suoi lavori adottando il testo di un Trattato per la messa al bando e la totale eliminazione delle armi nucleari. Il Trattato è stato approvato da 122 paesi (quasi due terzi dei membri dell’ONU) il 7 luglio 2017 ed è entrato in vigore il 22 gennaio 2021. Inutile dire che i Paesi membri della NATO hanno cercato di boicottare i lavori della Conferenza internazionale rifiutandosi perfino di parteciparvi (salvo l’Olanda, inviata come osservatore). Al contrario, Papa Francesco ha assunto la battaglia per la messa al bando, nell’ordinamento politico, delle armi nucleari come un impegno centrale del suo magistero.
Il 23 marzo 2017 ha inviato un messaggio di sostegno e di incoraggiamento ai lavori della Conferenza:
«Saluto cordialmente Lei, Signora Presidente, e tutti i rappresentanti delle varie Nazioni, Organizzazioni Internazionali e società civile che partecipano a questa Conferenza. Desidero incoraggiarvi a lavorare con determinazione per promuovere le condizioni necessarie per un mondo senza armi nucleari». Dopo aver richiamato il proprio intervento di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, osserva il Pontefice:
«Se si prendono in considerazione le principali minacce alla pace e alla sicurezza con le loro molteplici dimensioni in questo mondo multipolare del XXI secolo, come, ad esempio, il terrorismo, i conflitti asimmetrici, la sicurezza informatica, le problematiche ambientali, la povertà, non pochi dubbi emergono circa l’inadeguatezza della deterrenza nucleare a rispondere efficacemente a tali sfide. Siffatte preoccupazioni assumono ancor più consistenza quando consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari con devastanti effetti indiscriminati e incontrollabili nel tempo e nello spazio. Simile motivo di preoccupazione emerge di fronte allo spreco di risorse per il nucleare a scopo militare, che potrebbero invece essere utilizzate per priorità più significative, quali la promozione della pace e dello sviluppo umano integrale, così come la lotta alla povertà e l’attuazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Dobbiamo anche chiederci quanto sia sostenibile un equilibro basato sulla paura, quando esso tende di fatto ad aumentare la paura e a minare le relazioni di fiducia fra i popoli. La pace e la stabilità internazionali non possono essere fondate su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca o di totale annientamento, sul semplice mantenimento di un equilibrio di potere. La pace deve essere costruita sulla giustizia, sullo sviluppo umano integrale, sul rispetto dei diritti umani fondamentali, sulla custodia del creato, sulla partecipazione di tutti alla vita pubblica, sulla fiducia fra i popoli, sulla promozione di istituzioni pacifiche, sull’accesso all’educazione e alla salute, sul dialogo e sulla solidarietà. In questa prospettiva, abbiamo bisogno di andare oltre la deterrenza nucleare: la comunità internazionale è chiamata ad adottare strategie lungimiranti per promuovere l’obiettivo della pace e della stabilità ed evitare approcci miopi ai problemi di sicurezza nazionale e internazionale. In tale contesto, l’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfida, sia un imperativo morale e umanitario. Un approccio concreto dovrebbe promuovere una riflessione su un’etica della pace e della sicurezza cooperativa multilaterale che vada al di là della “paura” e dell’“isolazionismo” che prevale oggi in numerosi dibattiti. Il conseguimento di un mondo senza armi nucleari richiede processi di lungo periodo, basati sulla consapevolezza che “tutto è connesso”, in un’ottica di ecologia integrale (cfr. Laudato si’, 117, 138). Il destino condiviso dell’umanità richiede di rafforzare, con realismo, il dialogo e costruire e consolidare meccanismi di fiducia e di cooperazione, capaci di creare le condizioni per un mondo senza armi nucleari. La crescente interdipendenza e la globalizzazione significano che qualunque risposta diamo alla minaccia delle armi nucleari, essa debba essere collettiva e concertata, basata sulla fiducia reciproca. Quest’ultima può essere costruita solo attraverso un dialogo che sia sinceramente orientato verso il bene comune e non verso la tutela di interessi velati o particolari; questo dialogo dovrebbe essere il più inclusivo possibile di tutti: Stati nucleari, Paesi non possessori di armi nucleari, settore militare e quello privato, comunità religiose, società civile, Organizzazioni internazionali. In questo sforzo dobbiamo evitare quelle forme di recriminazione reciproca e di polarizzazione che intralciano il dialogo invece di incoraggiarlo. L’umanità ha la capacità di lavorare insieme per costruire la nostra casa comune; abbiamo la libertà, l’intelligenza e la capacità di guidare e dirigere la tecnologia, così come di limitare il nostro potere, e di metterli al servizio di un altro tipo di progresso: più umano, più sociale e più integrale. Questa Conferenza intende negoziare un Trattato ispirato da argomenti etici e morali. Si tratta di un esercizio di speranza e mi auguro che possa rappresentare anche un passo decisivo nel cammino verso un mondo senza armi nucleari. Sebbene questo sia un obiettivo di lungo periodo estremamente complesso, non è al di fuori della nostra portata. Signora Presidente, formulo i miei migliori auguri affinché i lavori di questa Conferenza possano essere proficui e diano un contributo efficace nell’avanzamento di quell’etica della pace e della sicurezza cooperativa multilaterale, di cui oggi l’umanità ha tanto bisogno».[9]
Del resto, Papa Francesco aveva già espresso chiaramente il suo pensiero e si era pronunciato sulla follia criminale delle armi nucleari, nel messaggio in occasione della Conferenza sull’impatto umanitario delle armi nucleari, Vienna 7 dicembre 2014:
«Le armi nucleari – osserva il Pontefice – sono un problema globale, che colpisce tutte le nazioni, e avranno un impatto sulle generazioni future, come pure sul pianeta, che è la nostra casa. Occorre un’etica globale se vogliamo ridurre la minaccia nucleare ed operare per un disarmo nucleare. Ora più che mai, l’interdipendenza tecnologica, sociale e politica esige urgentemente un’etica di solidarietà (cfr Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 38), che incoraggi i popoli ad operare insieme per un mondo più sicuro ed un futuro che sia radicato sempre più nei valori morali e sulla responsabilità in una dimensione globale. Le conseguenze umanitarie delle armi nucleari sono prevedibili e planetarie. Mentre spesso ci si concentra sul potenziale delle armi nucleari per le uccisioni di massa, si deve porre maggior attenzione sulle “sofferenze non necessarie” causate dal loro uso. I codici militari e il diritto internazionale, tra gli altri, hanno da tempo condannato persone che hanno inflitto sofferenze non necessarie. Se simili sofferenze sono condannate nel corso di una guerra convenzionale, allora dovrebbero ben di più essere condannate nel caso di conflitto nucleare. Vi sono coloro, tra noi, che sono vittime di tali armi; essi ci mettono in guardia a non commettere gli stessi irreparabili errori, che hanno devastato popolazioni e la creazione. Porgo i miei calorosi saluti agli Hibakusha, come pure alle altre vittime degli esperimenti delle armi nucleari, presenti a questo incontro. Incoraggio tutti loro ad essere voci profetiche, richiamando la famiglia umana ad un più profondo apprezzamento della bellezza, dell’amore, della cooperazione e della fraternità, ricordando allo stesso tempo al mondo i rischi delle armi nucleari, le quali hanno il potenziale di distruggere noi e la civiltà. La deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono essere la base di un’etica di fraternità e di pacifica coesistenza tra i popoli e gli Stati. I giovani d’oggi e di domani hanno diritto a molto di più. Hanno il diritto ad un pacifico ordine mondiale, basato sull’unità della famiglia umana, fondato sul rispetto, sulla cooperazione, sulla solidarietà e sulla compassione. Il tempo di contrastare la logica della paura con l’etica della responsabilità è adesso, così da promuovere un clima di fiducia e di dialogo sincero. Spendere in armi nucleari dilapida la ricchezza delle nazioni. Dare priorità a simili spese è un errore e uno sperpero di risorse che sarebbero molto meglio investite nelle aree dello sviluppo umano integrale, dell’educazione, della salute e della lotta all’estrema povertà. Quando tali risorse sono dilapidate, i poveri e i deboli che vivono ai margini della società ne pagano il prezzo. Il desiderio di pace, di sicurezza e di stabilità è uno dei desideri più profondi del cuore umano, poiché esso è radicato nel Creatore, che fa membri della famiglia umana tutti i popoli. Tale aspirazione non può mai essere soddisfatta soltanto da mezzi militari, e meno che mai dal possesso di armi nucleari ed altre armi di distruzione di massa. La pace non “può ridursi unicamente a rendere stabile l’equilibrio delle forze avverse; essa non è effetto di una dispotica dominazione” (Gaudium et spes, 78). La pace deve essere costruita sulla giustizia, sullo sviluppo socio-economico, sulla libertà, sul rispetto dei diritti umani fondamentali, sulla partecipazione di tutti agli affari pubblici e sulla costruzione di fiducia fra i popoli. (..) Nel contesto della presente Conferenza, desidero incoraggiare un dialogo sincero e aperto tra parti che sono all’interno di ogni Stato che possiede armi nucleari, fra vari Stati che hanno armi nucleari, e fra questi e gli Stati sprovvisti di armi nucleari. Un simile dialogo deve essere inclusivo, coinvolgendo le organizzazioni internazionali, le comunità religiose e la società civile; esso deve essere orientato verso il bene comune e non verso la protezione di interessi particolari. “Un mondo senza armi nucleari” è un obiettivo condiviso da tutte le nazioni, del quale si sono fatti portavoce i leader mondiali, come pure l’aspirazione di milioni di uomini e donne. Il futuro e la sopravvivenza della famiglia umana si impernia sull’andar oltre a tale obiettivo e assicurarsi che esso divenga realtà».[10]
Nel suo viaggio apostolico in Giappone, il Papa dal memoriale della pace di Hiroshima il 24 novembre 2019, aveva ribadito, con parole toccanti, la sua denuncia delle armi nucleari: «Qui, di tanti uomini e donne, dei loro sogni e speranze, in mezzo a un bagliore di folgore e fuoco, non è rimasto altro che ombra e silenzio. Appena un istante, tutto venne divorato da un buco nero di distruzione e morte. Da quell’abisso di silenzio, ancora oggi si continua ad ascoltare il forte grido di coloro che non sono più. Provenivano da luoghi diversi, avevano nomi diversi, alcuni di loro parlavano diverse lingue. Sono rimasti tutti uniti da uno stesso destino, in un’ora tremenda che segnò per sempre non solo la storia di questo Paese, ma il volto dell’umanità. (..) Ho sentito il dovere di venire in questo luogo come pellegrino di pace, per rimanere in preghiera, ricordando le vittime innocenti di tanta violenza, portando nel cuore anche le suppliche e le aspirazioni degli uomini e delle donne del nostro tempo, specialmente dei giovani, che desiderano la pace, lavorano per la pace, si sacrificano per la pace. Sono venuto in questo luogo pieno di memoria e di futuro portando con me il grido dei poveri, che sono sempre le vittime più indifese dell’odio e dei conflitti. (..) Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa. Saremo giudicati per questo. Le nuove generazioni si alzeranno come giudici della nostra disfatta se abbiamo parlato di pace ma non l’abbiamo realizzata con le nostre azioni tra i popoli della terra. Come possiamo parlare di pace mentre costruiamo nuove e formidabili armi di guerra? Come possiamo parlare di pace mentre giustifichiamo determinate azioni illegittime con discorsi di discriminazione e di odio? »[11]
Dopo aver appoggiato con entusiasmo i lavori della Conferenza che ha negoziato il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, il Pontefice è intervenuto anche alla prima riunione degli Stati parte al Trattato inviando, il 21 giugno 2022, un messaggio letto da s.e. mons. Paul r. Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali. La guerra in Ucraina era già scoppiata da alcuni mesi, nel messaggio del Papa si avverte la consapevolezza che si sono aperti nuovi scenari di distruzione e morte per cui: «Nel contesto attuale, parlare di disarmo o sostenerlo può apparire paradossale a molti. Ciononostante, – osserva il Pontefice – dobbiamo restare consapevoli dei pericoli di approcci miopi alla sicurezza nazionale e internazionale e ai rischi di proliferazione. Come tutti sappiamo bene, se non lo facciamo, il prezzo è inevitabilmente pagato da un numero di vite innocenti prese e misurato in termini di carneficina e di distruzione. Di conseguenza, rinnovo con enfasi il mio appello a far tacere tutte le armi e a eliminare le cause dei conflitti attraverso l’instancabile ricorso ai negoziati: “Chi fa la guerra dimentica l’umanità”. La pace è indivisibile, e per essere veramente equa e duratura, deve essere universale. È un modo di ragionare ingannevole e controproducente pensare che la sicurezza e la pace di alcuni siano disgiunte dalla sicurezza collettiva e la pace di altri. (..) La Santa Sede è certa che un mondo libero dalle armi nucleari è sia necessario sia possibile. In un sistema di sicurezza collettiva, non c’è posto per le armi nucleari e per altre armi di distruzione di massa. (..) Desidero riaffermare qui che l’uso di armi nucleari, come pure il loro mero possesso, è immorale. Cercare di difendere e di assicurare la stabilità e la pace attraverso un falso senso di sicurezza e un “equilibrio del terrore”, sostenuti da una mentalità di paura e di sfiducia, conduce inevitabilmente a rapporti avvelenati tra popoli e ostacola ogni possibile forma di vero dialogo. Il loro possesso conduce facilmente a minacce del loro uso, diventando una sorta di “ricatto” che dovrebbe essere aberrante per le coscienze dell’umanità.(..) I trattati di disarmo esistenti sono molto più di meri obblighi giuridici. Sono anche impegni morali basati sulla fiducia tra Stati e tra i loro rappresentanti, radicati nella fiducia che i cittadini ripongono nei loro governi, con conseguenze etiche per le attuali e future generazioni dell’umanità. Adesione a, e rispetto per, gli accordi di disarmo internazionali e il diritto internazionale non è una forma di debolezza. Al contrario, è una fonte di forza e di responsabilità in quanto accresce la fiducia e la stabilità. (..) Concludendo, mentre ponete le basi per l’attuazione di questo Trattato, desidero incoraggiarvi, rappresentanti degli Stati, organizzazioni internazionali e società civile, a continuare lungo il cammino da voi scelto di promuovere una cultura di vita e pace basata sulla dignità della persona umana e sulla consapevolezza che siamo tutti fratelli e sorelle».[12]
4. Pace, dignità e Diritti Umani
Com’è noto la Dichiarazione universale dei Diritti Umani ha incontrato forti resistenze nei Paesi islamici, non è stata accettata, fino al punto che ad essa sono state contrapposte varie dichiarazioni islamiche dei diritti umani. Una Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo venne proclamata il 19 settembre 1981 presso l’UNESCO a Parigi. Essa fu preceduta da un intervento presso le Nazioni Unite da parte del rappresentante iraniano Saʿid Rajaie Khorasani, secondo il quale la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo rappresentava “una interpretazione laica della tradizione giudaico-cristiana” che non avrebbe potuto essere attuata dai musulmani senza violare la legge dell’Islam.[13] Si tratta di un testo composto da 23 articoli che segue la falsariga degli articoli della Dichiarazione Universale, ma interviene per limitare il tessuto dei diritti e marcare la supremazia della legge islamica sui diritti della persona. Tanto per fare un esempio, in tema di libertà del pensiero, di fede e di religione, la Dichiarazione universale recita:
«Articolo 18
Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.
Articolo 19
Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere».
mentre nella Dichiarazione islamica del 1981 troviamo:
«Art. 12 – Il diritto alla libertà di pensiero, di fede e di parola:
Ogni persona ha il diritto di pensare e di credere, e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia, fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la Legge islamica prevede a questo proposito. Nessuno, infatti, ha il diritto di propagandare la menzogna o di diffondere ciò che potrebbe incoraggiare la turpitudine o offendere la Comunità islamica».
In seguito gli Stati Membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, hanno adottato la Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’Islam (1990). Anche questa Dichiarazione si muove sulla falsariga delle dichiarazioni dei diritti adottate in ambito ONU, rimane ferma, però, in ogni campo la supremazia della legge islamica sui diritti della persona. In particolare viene “”funzionalizzata“” la libertà di espressione del pensiero:
« Articolo 22
a) Ognuno ha il diritto di esprimere liberamente la propria opinione in un modo che non contravvenga ai principi della Shari’ah.
b) Ognuno ha il diritto di sostenere ciò che è giusto e propagandare ciò che è buono e mettere in guardia contro ciò che è sbagliato e malvagio secondo le norme della Shari’ah islamica.
c) L’informazione è una necessità vitale per la società. Essa non può essere sfruttata o usata in modo scorretto in modo tale da poter violare le cose sacre e la dignità dei Profeti, sminuire i valori morali e etici o disgregare, corrompere o ledere la società o indebolirne la fede.»[14]
Successivamente il 15 settembre 1994 il Consiglio della Lega degli Stati Arabi (Lega Araba), ha adottato la Carta araba dei Diritti dell’Uomo, emendata in occasione del Summit della Lega Araba del 22-23 maggio 2004. Si tratta di un documento che fa dei significativi passi avanti rispetto alla precedenti Dichiarazioni e che concepisce anche l’ambizioso progetto di un “Comitato arabo per i diritti umani” sulla falsariga del Comitato per i Diritti umani della Nazioni Unite (OHCHR). [15]
Uno dei risultati più significativi del Pontificato di Papa Francesco è quello conseguito durante il viaggio apostolico negli Emirati arabi (3-5 febbraio 2019) che si è concluso con l’emanazione di uno straordinario Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, concordato con il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb. L’importanza di questo documento sta nel ripudio di ogni forma di integralismo religioso e nella sconfessione di ogni ideologia volta a legittimare lo scontro fra le religioni, attizzato dal dilagare in Europa e nel Medio Oriente del terrorismo islamico sulla scia della barbarica esperienza dello Stato islamico in Siria e in Irak. Con questo documento Francesco supera la frattura storica e antropologica fra l’universo islamico e quello cristiano attraverso il riconoscimento del superiore principio della fratellanza umana. Il Documento è una pietra miliare non solo nei rapporti fra cristianesimo e Islam, indicando come bussole la cultura del dialogo, la collaborazione comune e la conoscenza reciproca, ma si rivolge a tutta la Comunità internazionale con l’appello per porre fine alle guerre e la condanna delle piaghe del terrorismo e della violenza, specialmente quella rivestita di motivazioni religiose. Il documento di Abu Dhabi si basa sullo stesso presupposto della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che esiste una sola famiglia umana, che tutti gli uomini nascono liberi e hanno pari dignità.
Utilizzando un linguaggio comprensibile ad entrambe le comunità religiose, il Documento sulla fratellanza umana può essere letto in modo sinottico con la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, partendo dalla premessa che, in qualche modo richiama il Preambolo della Dichiarazione Universale:
«In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace.
In nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera. (..)
In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna.
In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre.
In nome della» fratellanza umana «che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali. In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini.
In nome della libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa.
In nome della giustizia e della misericordia, fondamenti della prosperità e cardini della fede. In nome di tutte le persone di buona volontà, presenti in ogni angolo della terra.
In nome di Dio e di tutto questo, Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio».
Partendo da questa premessa, il Pontefice ed il Grande Iman di Abu Dhabi chiedono: «ai Leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace; di intervenire, quanto prima possibile, per fermare lo spargimento di sangue innocente, e di porre fine alle guerre, ai conflitti, al degrado ambientale e al declino culturale e morale che il mondo attualmente vive.(..)
La storia afferma – prosegue il documento – che l’estremismo religioso e nazionale e l’intolleranza hanno prodotto nel mondo, sia in Occidente sia in Oriente, ciò che potrebbe essere chiamato i segnali di una «terza guerra mondiale a pezzi», segnali che, in varie parti del mondo e in diverse condizioni tragiche, hanno iniziato a mostrare il loro volto crudele; situazioni di cui non si conosce con precisione quante vittime, vedove e orfani abbiano prodotto. Inoltre, ci sono altre zone che si preparano a diventare teatro di nuovi conflitti, dove nascono focolai di tensione e si accumulano armi e munizioni, in una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi».
A questo punto il Documento prende di petto il tema dei conflitti generati dall’integralismo religioso e sconfessa l’uso politico delle religioni per seminare la discordia e la violenza nella famiglia umana:
«Altresì dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portali a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici ed economici mondani e miopi. Per questo noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione. Lo chiediamo per la nostra fede comune in Dio, che non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente.»
Di conseguenza:
«Il terrorismo esecrabile che minaccia la sicurezza delle persone, sia in Oriente che in Occidente, sia a Nord che a Sud, spargendo panico, terrore e pessimismo non è dovuto alla religione – anche se i terroristi la strumentalizzano – ma è dovuto alle accumulate interpretazioni errate dei testi religiosi, alle politiche di fame, di povertà, di ingiustizia, di oppressione, di arroganza; per questo è necessario interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondiale. Occorre condannare un tale terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni.»
Anche il tema della libertà e dei diritti viene rivisitato, con l’effetto di ristabilire – per quanto possibile – i principi della Dichiarazione Universale, superando i limiti delle varie Dichiarazioni islamiche dei diritti umani:
«La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano.»[16]
5. L’Ucraina, la NATO che abbaia, il contrasto al partito unico della guerra
Il 24 febbraio 2022 si è fatto buio all’improvviso. Una guerra feroce e catastrofica è scoppiata sul confine orientale dell’Europa, travolgendo i destini di milioni di persone e riverberando i suoi effetti nefasti, a cominciare dall’Europa, in tutto il Mondo. Nel volgere di pochi giorni l’orizzonte di vita dei popoli europei è cambiato bruscamente. Il 24 febbraio non è esploso soltanto un conflitto fondato sulla violenza delle armi, è dilagato in tutt’Europa lo spirito nefasto della guerra, si è materializzata l’immagine del nemico ed è iniziata una mobilitazione bellica della comunicazione, della cultura, delle coscienze. La condanna unanime della azzardata aggressione russa all’ucraina si è trasformata velocemente nella acritica accettazione della logica della guerra. Di fronte a questo disastro, segno tangibile del fallimento della politica di sicurezza e cooperazione in Europa, le principali forze politiche, non solo in Italia, con il conforto del fuoco di sbarramento unanime dei mass media, hanno assunto il linguaggio della guerra e si sono esercitate in una guerra delle parole contro il nemico. Contro il linguaggio della guerra, si è levato il fermo monito di Papa Francesco, che nel suo primo intervento pubblico, all’Angelus del 27 febbraio 2022, ha richiamato il principio pacifista solennemente affermato dall’art. 11 della Costituzione italiana:
«In questi giorni siamo stati sconvolti da qualcosa di tragico: la guerra. Più volte abbiamo pregato perché non venisse imboccata questa strada. E non smettiamo di pregare, anzi, supplichiamo Dio più intensamente. Per questo rinnovo a tutti l’invito a fare del 2 marzo, Mercoledì delle Ceneri, una giornata di preghiera e digiuno per la pace in Ucraina. Una giornata per stare vicino alle sofferenze del popolo ucraino, per sentirci tutti fratelli e implorare da Dio la fine della guerra.
Chi fa la guerra dimentica l’umanità. Non parte dalla gente, non guarda alla vita concreta delle persone, ma mette davanti a tutto interessi di parte e di potere. Si affida alla logica diabolica e perversa delle armi, che è la più lontana dalla volontà di Dio. E si distanzia dalla gente comune, che vuole la pace; e che in ogni conflitto è la vera vittima, che paga sulla propria pelle le follie della guerra. Penso agli anziani, a quanti in queste ore cercano rifugio, alle mamme in fuga con i loro bambini… Sono fratelli e sorelle per i quali è urgente aprire corridoi umanitari e che vanno accolti.
Con il cuore straziato per quanto accade in Ucraina – e non dimentichiamo le guerre in altre parti del mondo, come nello Yemen, in Siria, in Etiopia… –, ripeto: tacciano le armi! Dio sta con gli operatori di pace, non con chi usa la violenza. Perché chi ama la pace, come recita la Costituzione Italiana, «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (Art. 11)».[17]
Lo spirito di guerra comporta una divisione manichea dell’umanità, per cui tutto il male sta dalla parte del nemico e tutto il bene dall’altra. Non sono ammesse critiche o dubbi, infatti, nei giornali italiani sono subito state stipulate le liste di proscrizione dei “putiniani”.[18]
Contro la lettura manichea di questi tragici eventi, interviene il Pontefice con una stupefacente chiarezza. Il 24 marzo 2022 intervenendo all’Incontro promosso dal Centro Femminile Italiano sul tema: “Identità creazionale dell’uomo e della donna in una condivisa missione” sfida apertamente la politica di riarmo della NATO, definendola una pazzia:
«Penso che per quelle di voi che appartengono alla mia generazione sia insopportabile vedere quello che è successo e sta succedendo in Ucraina. Ma purtroppo questo è il frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica. La storia degli ultimi settant’anni lo dimostra: guerre regionali non sono mai mancate; per questo io ho detto che eravamo nella terza guerra mondiale a pezzetti, un po’ dappertutto; fino ad arrivare a questa, che ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero. Ma il problema di base è lo stesso: si continua a governare il mondo come uno “scacchiere”, dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri.
La vera risposta, dunque, non sono altre armi, altre sanzioni. Io mi sono vergognato quando ho letto che non so, un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento, del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia! La vera risposta, come ho detto, non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato – non facendo vedere i denti, come adesso –, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali. Il modello della cura è già in atto, grazie a Dio, ma purtroppo è ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare.»[19]
Il 19 maggio 2022, in un colloquio con i direttori delle riviste culturali europee dei Gesuiti, Francesco rompe il tabù manicheo e così si esprime:
«D. La Compagnia è presente in Ucraina, parte della mia Provincia. Stiamo vivendo una guerra di aggressione. Noi ne scriviamo sulle nostre riviste. Quali sono i suoi consigli per comunicare la situazione che stiamo vivendo? Come possiamo contribuire a un futuro di pace?
R. Per rispondere a questa domanda dobbiamo allontanarci dal normale schema di “Cappuccetto rosso”: Cappuccetto rosso era buona e il lupo era il cattivo. Qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto. Sta emergendo qualcosa di globale, con elementi che sono molto intrecciati tra di loro. Un paio di mesi prima dell’inizio della guerra ho incontrato un capo di Stato, un uomo saggio, che parla poco, davvero molto saggio. E dopo aver parlato delle cose di cui voleva parlare, mi ha detto che era molto preoccupato per come si stava muovendo la Nato. Gli ho chiesto perché, e mi ha risposto: “”Stanno abbaiando alle porte della Russia. E non capiscono che i russi sono imperiali e non permettono a nessuna potenza straniera di avvicinarsi a loro“”. Ha concluso: “”La situazione potrebbe portare alla guerra“”. Questa era la sua opinione. Il 24 febbraio è iniziata la guerra. Quel capo di Stato ha saputo leggere i segni di quel che stava avvenendo.
Quello che stiamo vedendo è la brutalità e la ferocia con cui questa guerra viene portata avanti dalle truppe, generalmente mercenarie, utilizzate dai russi. E i russi, in realtà, preferiscono mandare avanti ceceni, siriani, mercenari. Ma il pericolo è che vediamo solo questo, che è mostruoso, e non vediamo l’intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra, che è stata forse in qualche modo o provocata o non impedita. E registro l’interesse di testare e vendere armi. È molto triste, ma in fondo è proprio questo a essere in gioco.»[20]
Dopo il fallimento del negoziato di pace fra la delegazione russa e quella ucraina, fatto abortire nell’aprile del 2022 per l’interesse di Stati Uniti e Gran Bretagna al prolungamento della guerra[21], la parola negoziato è stata bandita dai radar della politica ed esclusa da tutti i documenti ufficiali delle autorità politiche europee ed in ambito NATO. Nessun negoziato, nessun compromesso viene proposto, l’obiettivo definito dal partito unico della guerra è uno solo e indiscutibile: la vittoria. Un documento del Parlamento europeo del 6 ottobre 2022 [22] mette in chiaro cosa si intende per vittoria, la possibilità per l’Ucraina “di riacquisire il pieno controllo su tutto il suo territorio riconosciuto a livello internazionale”, ivi compresa la Crimea, nel frattempo divenuta una Repubblica autonoma inserita nella Federazione Russa. Ovviamente i costi umani, l’inutile strage di centinaia di migliaia, se non di milioni di esseri umani, sacrificati per perseguire il mito della vittoria, non vengono minimamente presi in considerazione dalla politica che istiga al prolungamento e all’escalation della guerra.
Contro i dogmi sanguinosi del partito unico della guerra, prende una posizione chiarissima Francesco in nome dell’umanità e del diritto. Non si tratta di una invocazione alla pace puramente dottrinale, il Pontefice, entra nel campo della politica ed invita direttamente al negoziato i due principali protagonisti della guerra. Il 2 ottobre 2022, rivolge un appello accorato: «L’andamento della guerra in Ucraina è diventato talmente grave, devastante e minaccioso, da suscitare grande preoccupazione. Per questo oggi vorrei dedicarvi l’intera riflessione prima dell’Angelus. Infatti, questa terribile e inconcepibile ferita dell’umanità, anziché rimarginarsi, continua a sanguinare sempre di più, rischiando di allargarsi. Mi affliggono i fiumi di sangue e di lacrime versati in questi mesi. Mi addolorano le migliaia di vittime, in particolare tra i bambini, e le tante distruzioni, che hanno lasciato senza casa molte persone e famiglie e minacciano con il freddo e la fame vasti territori. Certe azioni non possono mai essere giustificate, mai! È angosciante che il mondo stia imparando la geografia dell’Ucraina attraverso nomi come Bucha, Irpin, Mariupol, Izium, Zaporizhzhia e altre località, che sono diventate luoghi di sofferenze e paure indescrivibili. E che dire del fatto che l’umanità si trova nuovamente davanti alla minaccia atomica? È assurdo. Che cosa deve ancora succedere? Quanto sangue deve ancora scorrere perché capiamo che la guerra non è mai una soluzione, ma solo distruzione? In nome di Dio e in nome del senso di umanità che alberga in ogni cuore, rinnovo il mio appello affinché si giunga subito al cessate-il fuoco. Tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili. E tali saranno se fondate sul rispetto del sacrosanto valore della vita umana, nonché della sovranità e dell’integrità territoriale di ogni Paese, come pure dei diritti delle minoranze e delle legittime preoccupazioni. Deploro vivamente la grave situazione creatasi negli ultimi giorni, con ulteriori azioni contrarie ai principi del diritto internazionale. Essa, infatti, aumenta il rischio di un’escalation nucleare, fino a far temere conseguenze incontrollabili e catastrofiche a livello mondiale. Il mio appello si rivolge innanzitutto al Presidente della Federazione Russa, supplicandolo di fermare, anche per amore del suo popolo, questa spirale di violenza e di morte. D’altra parte, addolorato per l’immane sofferenza della popolazione ucraina a seguito dell’aggressione subita, dirigo un altrettanto fiducioso appello al Presidente dell’Ucraina ad essere aperto a serie proposte di pace. A tutti i protagonisti della vita internazionale e ai responsabili politici delle Nazioni chiedo con insistenza di fare tutto quello che è nelle loro possibilità per porre fine alla guerra in corso, senza lasciarsi coinvolgere in pericolose escalation, e per promuovere e sostenere iniziative di dialogo. Per favore, facciamo respirare alle giovani generazioni l’aria sana della pace, non quella inquinata della guerra, che è una pazzia! Dopo sette mesi di ostilità, si faccia ricorso a tutti gli strumenti diplomatici, anche quelli finora eventualmente non utilizzati, per far finire questa immane tragedia. La guerra in sé stessa è un errore e un orrore!» [23]
Di fronte all’indifferenza della politica che pianifica la morte di migliaia di giovani e la trasforma in uno strumento al servizio del potere, non si rassegna Francesco e nel messaggio alla Conferenza europea dei giovani a Praga, il 6 luglio 2022, invita a ribellarsi ai potenti che mandano i giovani a morire e propone come modelli due splendidi esempi di obiezione di coscienza:
«Cari giovani, mentre voi state svolgendo la vostra Conferenza, in Ucraina – che non è UE, ma è Europa – si combatte una guerra assurda. Aggiungendosi ai numerosi conflitti in atto in diverse regioni del mondo, essa rende ancora più urgente un Patto Educativo che educhi tutti alla fraternità.
L’idea di un’Europa unita è sorta da un forte anelito di pace dopo tante guerre combattute nel Continente, e ha portato a un periodo di pace durato settant’anni. Ora dobbiamo impegnarci tutti a mettere fine a questo scempio della guerra, dove, come al solito, pochi potenti decidono e mandano migliaia di giovani a combattere e morire. In casi come questo è legittimo ribellarsi!
Qualcuno ha detto che, se il mondo fosse governato dalle donne, non ci sarebbero tante guerre, perché coloro che hanno la missione di dare la vita non possono fare scelte di morte. Allo stesso modo mi piace pensare che, se il mondo fosse governato dai giovani, non ci sarebbero tante guerre: coloro che hanno tutta la vita davanti non la vogliono spezzare e buttare via ma la vogliono vivere in pienezza.
Vorrei invitarvi a conoscere una figura straordinaria di giovane obiettore, un giovane europeo dagli “occhi grandi”, che si è battuto contro il nazismo durante la Seconda guerra mondiale, Franz Jägerstätter, proclamato Beato dal Papa Benedetto XVI. Franz era un giovane contadino austriaco che, a motivo della sua fede cattolica, fece obiezione di coscienza di fronte all’ingiunzione di giurare fedeltà a Hitler e di andare in guerra. Franz era un ragazzo allegro, simpatico, spensierato, che crescendo, grazie anche alla moglie Francesca, con la quale ebbe tre figli, cambiò la sua vita e maturò convinzioni profonde. Quando venne chiamato alle armi si rifiutò, perché riteneva ingiusto uccidere vite innocenti. Questa sua decisione scatenò reazioni dure nei suoi confronti da parte della sua comunità, del sindaco, anche di familiari. Un sacerdote tentò di dissuaderlo per il bene della sua famiglia. Tutti erano contro di lui, tranne sua moglie Francesca, la quale, pur conoscendo i tremendi pericoli, stette sempre dalla parte del marito e lo sostenne fino alla fine. Nonostante le lusinghe e le torture, Franz preferì farsi uccidere che uccidere. Riteneva la guerra totalmente ingiustificata. Se tutti i giovani chiamati alle armi avessero fatto come lui, Hitler non avrebbe potuto realizzare i suoi piani diabolici. Il male per vincere ha bisogno di complici.
Franz Jägerstätter venne ucciso nella prigione dove era rinchiuso anche il suo coetaneo Dietrich Bonhoeffer, giovane teologo luterano tedesco, antinazista, che fece anch’egli la stessa tragica fine.
Questi due giovani “dagli occhi grandi” vennero uccisi perché rimasero fedeli fino alla fine agli ideali della loro fede. Ed ecco la quarta dimensione dell’educazione: dopo la conoscenza di sé stessi, degli altri e del creato, finalmente la conoscenza del principio e del fine di tutto. Cari giovani europei, vi invito a guardare oltre, in alto, per ricercare sempre il senso della vostra vita, la vostra origine, il fine, la Verità, perché non si vive se non si cerca la Verità. Camminate con i piedi ben piantati sulla terra, ma con sguardo ampio, aperto all’orizzonte, al cielo. (..)
E voglio concludere con un augurio: che siate giovani generativi, capaci di generare nuove idee, nuove visioni del mondo, dell’economia, della politica, della convivenza sociale; ma non solo nuove idee, soprattutto nuove strade, da percorrere insieme. E che possiate essere generosi anche nel generare nuove vite, sempre e solo per amore! Amore al vostro sposo e alla vostra sposa, amore alla famiglia, amore ai vostri figli, e anche amore all’Europa, perché sia per tutti terra di pace, di libertà e di dignità.»[24]
L’appello ai giovani di Papa Francesco è stato seppellito dal più gelido silenzio delle Cancellerie, ignorato dai media e contestato apertamente dalla Chiesa cattolica ucraina, che ha anteposto il “patriottismo” all’obiezione di coscienza alla guerra. Dopo due anni di combattimenti e dopo una controffensiva disastrosa lanciata nell’estate del 2023, l’esercito ucraino ha cominciato a risentire della mancanza di uomini da sacrificare sul campo di battaglia. E’ iniziata così la caccia ai giovani da reclutare, anche attraverso l’obbligo di rimpatrio per i residenti all’estero. Secondo quanto ha riportato l’agenzia cattolica KNA, anche il vescovo di Odessa, Stanislaw Szyrokoradiuk ha rotto il silenzio e ha chiesto ai suoi compatrioti, che sono adatti al servizio militare ma sono fuggiti all’estero, di tornare in Ucraina: «Se amiamo la nostra patria, dovremmo difenderla insieme». Un appello in piena regola a non nascondersi e non abbandonare la patria. «Capisco che molti ragazzi ucraini desiderano una vita normale in Europa. Ma allo stesso tempo, ci sono altri giovani che hanno combattuto in prima linea nella guerra contro la Russia per più di due anni. Questo è ingiusto» ha affermato Szyrokoradiuk. [25]
Purtroppo il grido di dolore di Papa Francesco è caduto nel vuoto. Due anni di guerra catastrofica ed il fallimento in un mare di sangue della tanto invocata controffensiva ucraina, non hanno insegnato nulla sull’insensatezza dei massacri in corso alla frontiera orientale dell’Europa. In Europa si è consolidato un partito unico della guerra, in cui confluiscono tutte le forze politiche di centrodestra e di centrosinistra. E’ particolarmente inquietante che il Parlamento europeo, al termine del suo mandato, con l’ultima risoluzione del 29 febbraio 2024[26], abbia continuato a percorrere la strada dell’escalation del conflitto. Secondo il Parlamento europeo non bisogna lasciare nessuna scelta alla Russia, non ci deve essere nessun negoziato per porre fine alla guerra, nessuna mediazione fra gli interessi contrapposti. La guerra deve finire necessariamente con la “vittoria” dell’Ucraina e con la sconfitta della Russia. La vittoria consiste nel recupero manu militari da parte dell’Ucraina di tutti territori perduti a partire dal 2014, ivi compresa la Crimea. In particolare, il Parlamento Europeo: «ricorda l’importanza di liberare la penisola di Crimea, occupata dalla Russia da ormai un decennio – e allo scopo – sostiene gli sforzi dell’Ucraina volti a reintegrare la Crimea, in particolare la piattaforma per la Crimea». Per consentire all’Ucraina di conseguire una vittoria militare, che al momento appare impossibile, bisogna proseguire con la fornitura di aiuti militari all’Ucraina “”per tutto il tempo necessario.“” Il sostegno militare deve essere incrementato quanto bisogna: «per consentire all’Ucraina non solo di difendersi dagli attacchi russi, ma anche di riconquistare il pieno controllo di tutto il suo territorio riconosciuto a livello internazionale». Per questo non ci deve essere più alcuna restrizione alla fornitura di sistemi d’arma più performanti e a lungo raggio: «come i missili TAURUS, Storm Shadow/SCALP e altri –di cui l’Ucraina ha bisogno, assieme a– moderni aerei da combattimento, vari tipi di artiglieria e munizioni (in particolare da 155 mm), droni e armi per contrastarli». Naturalmente tutto ciò ha un costo, per cui il Parlamento Europeo: «appoggia la proposta secondo la quale tutti gli Stati membri dell’UE e gli alleati della NATO dovrebbero sostenere militarmente l’Ucraina con almeno lo 0,25 % del loro PIL annuo.» Il linguaggio della guerra si alimenta di miti (come lo scontro fra autoritarismo e democrazia) per offuscare la ragione collettiva e occultare la dimensione reale di sofferenza, distruzione e morte che tali scelte politiche producono. Pretendere di disgregare la Russia, staccandone la Crimea, che dal 2014 costituisce una Repubblica autonoma inserita nella Federazione Russa, in virtù di una decisione assunta pacificamente dalla sua popolazione con un referendum, vuol dire puntare all’umiliazione del nemico, calpestare la volontà delle popolazioni locali, ed escludere ogni possibilità di negoziato. Molto sangue sarà versato e non sarà solo sangue ucraino, destinato ad esaurirsi. Se si continua su questa strada, come ci ha ricordato Macron, sarà inevitabile l’invio di truppe di Stati europei.
In questo quadro desolato in cui tutte le istituzioni politiche nazionali ed europee, sotto la spinta della NATO, lavorano per il prolungamento e l’escalation della guerra e si preparano allo scontro diretto con la Russia, considerato inevitabile, stupisce l’intervento di Francesco che scompagina le carte, il 9 marzo 2024, con un’intervista rilasciata a Lorenzo Buccella, giornalista della Radio Televisione Svizzera.
Alla domanda del giornalista:
«InUcraina c’è chi chiede il coraggio della resa, della bandiera bianca. Ma altri dicono che così si legittimerebbe il più forte. Cosa pensa?»
Francesco risponde:
«È un’interpretazione. Ma credo che è più forte quello che vede la situazione, pensa al popolo e ha il coraggio della bandiera bianca e negoziare. E oggi si può negoziare con l’aiuto delle potenze internazionali. Ci sono. Quella parola negoziare è una parola coraggiosa. Quando tu vedi che sei sconfitto, che la cosa non va, avere il coraggio di negoziare. E ti vergogni, ma se tu continui così, quanti morti (ci saranno) poi? E finirà peggio ancora. Negoziare in tempo, cercare qualche Paese che faccia da mediatore. Oggi, per esempio con la guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore. La Turchia, per esempio … Non avere vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggio». [27]
Ci voleva il Papa per rompere il tetto di cristallo delle élite politiche europee, che hanno nascosto sotto la sabbia la parola negoziato e hanno cancellato persino il dubbio che la politica dovesse spendersi per la pace, invece di alimentare la guerra e impiantare nuovi cimiteri. Questa volta la risposta del circo mainstream non è stata il gelido silenzio. Queste parole hanno dato scandalo, da tutte le parti si è levato un vespaio di polemiche, Bergoglio è stato accusato apertamente dal consigliere di Zelensky, Mykhailo Podolyak, di essere “”filorusso“”. Il riferimento alla bandiera bianca è stato in malafede interpretato come una richiesta di resa dell’Ucraina. Invece il diritto internazionale pattizio e consuetudinario ci dice che la bandiera bianca è il vessillo che si deve adoperare per rivolgere al nemico la richiesta di negoziato, come previsto dall’art. 32 del Regolamento allegato alla IV Convenzione dell’Aja dell’11 ottobre 1907.
Di fronte all’impazzimento collettivo della politica, le parole di realismo e di umanità del Papa rompono un tabù, aprono uno squarcio nella tela di menzogne, di irresponsabilità e di fanatismo con la quale tutti i principali attori politici cercano di nascondere la realtà di una tragedia che si consuma sotto i nostri occhi e che noi stessi continuiamo ad alimentare. Proseguire la guerra è un’inutile strage. Aprire un negoziato, cercare la mediazione degli interessi contrapposti, invece che la vittoria e l’umiliazione dell’avversario, è l’unica strada per evitare il martirio di un popolo, sacrificato sull’altare degli opposti nazionalismi e di opposte strategie di potenza e per evitare che il conflitto possa ulteriormente degenerare.
Le parole del Papa fanno scandalo perché introducono il “”principio di realtà“”, mettendo in evidenza l’insensata irresponsabilità di una politica che non vuole prendere atto che la guerra non può essere vinta, per cui proseguirla significa provocare terribili sofferenze ai popoli coinvolti, senza ragione alcuna. Dall’estate del 2023, dopo il fallimento della controffensiva ucraina, sono stati soprattutto i militari a mettere in guardia dal proseguimento del conflitto, nel silenzio dei media, sulla base del principio di realtà. Il 20 febbraio 2024 l’ex capo di stato maggiore britannico Lord Julian Richards in una sorprendente intervista alla Bbc ha lanciato un appello a porre fine alla guerra facendo una confessione di verità. Ha avvertito che c’era da attendersi una prolungata guerra di trincea con pochi guadagni di territorio e con migliaia di morti insensate, e ha chiesto la disponibilità dell’occidente a negoziare la «pace in cambio di terra», visto che i guadagni russi erano stati ancora ridotti. Secondo Lord Richards «stiamo chiedendo ai coraggiosissimi ucraini di combattere una guerra che non siamo adeguatamente attrezzati per vincere – non abbiamo nemmeno definito cosa possa significare “vittoria” – e che quindi perderanno. È sempre più il caso di dire che dobbiamo negoziare con i russi».[28]
Con l’intervista alla TV svizzera, il Pontefice è andato oltre il magistero morale della Chiesa, è intervenuto direttamente sul terreno politico, ha parlato come un leader politico, svergognando gli altri leader politici che si sono arruolati nel partito unico della guerra.
Queste parole sono come pietre, vanno al cuore dei problemi per le verità semplici e tragiche che esprimono e mettono in braghe di tela la politica dell’Occidente, disvelandone il volto velleitario e necrofilo. Quello del Papa è un richiamo alla realtà e un monito al rispetto dei valori fondamentali dell’umanità.
6. Defensor iuris humanitatis
In conclusione, in un epoca storica in cui i principi dell’ordine pubblico internazionale, posti a base della fondazione dell’ONU e della Dichiarazione Universale dei Diritti umani, sono degradati fino al punto di restaurare la guerra come strumento ordinario al servizio della politica; in cui sono stati rinnegati i processi di distensione e collaborazione internazionale, che avevano avuto il loro culmine nell’indimenticabile 1989; in cui ai processi di disarmo è stata sostituita una forsennata corsa agli armamenti, anche nucleari, fino al punto che le lancette del Doomsday Clock (l’orologio dell’apocalisse) sono state spostate a soli 90 secondi dalla mezzanotte, quando nel 1991 le lancette indicavano 17 minuti; in cui il Segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha dichiarato che i membri della NATO devono prepararsi a un possibile scontro con la Russia che potrebbe durare decenni e ha definito, per la prima volta la NATO “”un’Alleanza nucleare“”; in cui il Presidente serbo Aleksandar Vucic in una drammatica intervista al settimanale svizzero Weltwoche, paventa che: «ci restano solo tre o quattro mesi prima della catastrofe»[29]; in quest’epoca drammatica il Pontefice si affaccia alla Storia come l’unico leader politico a livello mondiale che si oppone alla catastrofe e lo fa rivendicando le ragioni del diritto, di quel patrimonio morale che aveva fatto balenare, dalle tenebre della Seconda guerra mondiale, la visione di un’umanità liberata per sempre dal ricatto della violenza, dal flagello delle guerre e degli olocausti. Al di là dell’aspetto religioso, sotto il profilo politico la sua figura si staglia nella Storia come Defensor iuris humanitatis.

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Note

Messaggio Pasquale del Santo Padre e Benedizione “Urbi et Orbi”, 20.04.2025

img_2853Messaggio del Santo Padre

Traduzione in lingua francese

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua tedesca

Traduzione in lingua spagnola

Traduzione in lingua portoghese

Traduzione in lingua polacca

Traduzione in lingua araba

Alle ore 12, dalla Loggia Centrale della Basilica di San Pietro, il Santo Padre Francesco ha rivolto ai fedeli presenti in piazza San Pietro e a quanti lo ascoltavano attraverso la radio, la televisione e gli altri mezzi di comunicazione il Messaggio Pasquale di cui ha dato lettura S.E. Mons. Diego Ravelli, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie.

Pubblichiamo di seguito il Messaggio Pasquale del Santo Padre:

Messaggio del Santo Padre

Cristo è risorto, alleluia!

Fratelli e sorelle, buona Pasqua!

Oggi nella Chiesa finalmente risuona l’alleluia, riecheggia di bocca in bocca, da cuore a cuore, e il suo canto fa piangere di gioia il popolo di Dio nel mondo intero.

Dal sepolcro vuoto di Gerusalemme giunge fino a noi l’annuncio inaudito: Gesù, il Crocifisso, «non è qui, è risorto» (Lc 24,6). Non è nella tomba, è il vivente!

L’amore ha vinto l’odio. La luce ha vinto le tenebre. La verità ha vinto la menzogna. Il perdono ha vinto la vendetta. Il male non è scomparso dalla nostra storia, rimarrà fino alla fine, ma non ha più il dominio, non ha più potere su chi accoglie la grazia di questo giorno.

Sorelle e fratelli, specialmente voi che siete nel dolore e nell’angoscia, il vostro grido silenzioso è stato ascoltato, le vostre lacrime sono state raccolte, nemmeno una è andata perduta! Nella passione e nella morte di Gesù, Dio ha preso su di sé tutto il male del mondo e con la sua infinita misericordia l’ha sconfitto: ha sradicato l’orgoglio diabolico che avvelena il cuore dell’uomo e semina ovunque violenza e corruzione. L’Agnello di Dio ha vinto! Per questo oggi esclamiamo: «Cristo, mia speranza, è risorto!» (Sequenza pasquale).

Sì, la risurrezione di Gesù è il fondamento della speranza: a partire da questo avvenimento, sperare non è più un’illusione. No. Grazie a Cristo crocifisso e risorto, la speranza non delude! Spes non confundit! (cfr Rm 5,5). E non è una speranza evasiva, ma impegnativa; non è alienante, ma responsabilizzante.

Quanti sperano in Dio pongono le loro fragili mani nella sua mano grande e forte, si lasciano rialzare e si mettono in cammino: insieme con Gesù risorto diventano pellegrini di speranza, testimoni della vittoria dell’Amore, della potenza disarmata della Vita.

Cristo è risorto! In questo annuncio è racchiuso tutto il senso della nostra esistenza, che non è fatta per la morte ma per la vita. La Pasqua è la festa della vita! Dio ci ha creati per la vita e vuole che l’umanità risorga! Ai suoi occhi ogni vita è preziosa! Quella del bambino nel grembo di sua madre, come quella dell’anziano o del malato, considerati in un numero crescente di Paesi come persone da scartare.

Quanta volontà di morte vediamo ogni giorno nei tanti conflitti che interessano diverse parti del mondo! Quanta violenza vediamo spesso anche nelle famiglie, nei confronti delle donne o dei bambini! Quanto disprezzo si nutre a volte verso i più deboli, gli emarginati, i migranti!

In questo giorno, vorrei che tornassimo a sperare e ad avere fiducia negli altri, anche in chi non ci è vicino o proviene da terre lontane con usi, modi di vivere, idee, costumi diversi da quelli a noi più familiari, poiché siamo tutti figli di Dio!

Vorrei che tornassimo a sperare che la pace è possibile! Dal Santo Sepolcro, Chiesa della Risurrezione, dove quest’anno la Pasqua è celebrata nello stesso giorno da cattolici e ortodossi, s’irradi la luce della pace su tutta la Terra Santa e sul mondo intero. Sono vicino alle sofferenze dei cristiani in Palestina e in Israele, così come a tutto il popolo israeliano e a tutto il popolo palestinese. Preoccupa il crescente clima di antisemitismo che si va diffondendo in tutto il mondo. In pari tempo, il mio pensiero va alla popolazione e in modo particolare alla comunità cristiana di Gaza, dove il terribile conflitto continua a generare morte e distruzione e a provocare una drammatica e ignobile situazione umanitaria. Faccio appello alle parti belligeranti: cessate il fuoco, si liberino gli ostaggi e si presti aiuto alla gente, che ha fame e che aspira ad un futuro di pace!

Preghiamo per le comunità cristiane in Libano e in Siria che, mentre quest’ultimo Paese sperimenta un passaggio delicato della sua storia, ambiscono alla stabilità e alla partecipazione alle sorti delle rispettive Nazioni. Esorto tutta la Chiesa ad accompagnare con l’attenzione e con la preghiera i cristiani dell’amato Medio Oriente.

Un pensiero speciale rivolgo anche al popolo dello Yemen, che sta vivendo una delle peggiori crisi umanitarie “prolungate” del mondo a causa della guerra, e invito tutti a trovare soluzioni attraverso un dialogo costruttivo.

Cristo Risorto effonda il dono pasquale della pace sulla martoriata Ucraina e incoraggi tutti gli attori coinvolti a proseguire gli sforzi volti a raggiungere una pace giusta e duratura.

In questo giorno di festa pensiamo al Caucaso Meridionale e preghiamo affinché si giunga presto alla firma e all’attuazione di un definitivo Accordo di pace tra l’Armenia e l’Azerbaigian, che conduca alla tanto desiderata riconciliazione nella Regione.

La luce della Pasqua ispiri propositi di concordia nei Balcani occidentali e sostenga gli attori politici nell’adoperarsi per evitare l’acuirsi di tensioni e crisi, come pure i partner della Regione nel respingere comportamenti pericolosi e destabilizzanti.

Cristo Risorto, nostra speranza, conceda pace e conforto alle popolazioni africane vittime di violenze e conflitti, soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, in Sudan e Sud Sudan, e sostenga quanti soffrono a causa delle tensioni nel Sahel, nel Corno d’Africa e nella Regione dei Grandi Laghi, come pure i cristiani che in molti luoghi non possono professare liberamente la loro fede.

Nessuna pace è possibile laddove non c’è libertà religiosa o dove non c’è libertà di pensiero e di parola e il rispetto delle opinioni altrui.

Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo. La luce della Pasqua ci sprona ad abbattere le barriere che creano divisioni e sono gravide di conseguenze politiche ed economiche. Ci sprona a prenderci cura gli uni degli altri, ad accrescere la solidarietà reciproca, ad adoperarci per favorire lo sviluppo integrale di ogni persona umana.

In questo tempo non manchi il nostro aiuto al popolo birmano, già tormentato da anni di conflitto armato, che affronta con coraggio e pazienza le conseguenze del devastante terremoto a Sagaing, causa di morte per migliaia di persone e motivo di sofferenza per moltissimi sopravvissuti, tra cui orfani e anziani. Preghiamo per le vittime e per i loro cari e ringraziamo di cuore tutti i generosi volontari che svolgono le attività di soccorso. L’annuncio del cessate-il-fuoco da parte di vari attori nel Paese è un segno di speranza per tutto il Myanmar.

Faccio appello a tutti quanti nel mondo hanno responsabilità politiche a non cedere alla logica della paura che chiude, ma a usare le risorse a disposizione per aiutare i bisognosi, combattere la fame e favorire iniziative che promuovano lo sviluppo. Sono queste le “armi” della pace: quelle che costruiscono il futuro, invece di seminare morte!

Non venga mai meno il principio di umanità come cardine del nostro agire quotidiano. Davanti alla crudeltà di conflitti che coinvolgono civili inermi, attaccano scuole e ospedali e operatori umanitari, non possiamo permetterci di dimenticare che non vengono colpiti bersagli, ma persone con un’anima e una dignità.

E in quest’anno giubilare, la Pasqua sia anche l’occasione propizia per liberare i prigionieri di guerra e quelli politici!

Cari fratelli e sorelle,

nella Pasqua del Signore, la morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello, ma il Signore ora vive per sempre (cfr Sequenza pasquale) e ci infonde la certezza che anche noi siamo chiamati a partecipare alla vita che non conosce tramonto, in cui non si udranno più fragori di armi ed echi di morte. Affidiamoci a Lui che solo può far nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5)!

Buona Pasqua a tutti!

[00492-IT.01] [Testo originale: Italiano]

Politica oggi

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Costruire adesso l’alternativa alle destre

Alfiero Grandi

La discussione iniziata sul futuro dell’opposizione non è convincente. Anzitutto si dovrebbe riconoscere che le attuali opposizioni hanno la responsabilità storica di avere affrontato nel 2022 la sfida elettorale con le destre (unite da un’alleanza per il potere) incapaci di evitare il disastro di una maggioranza parlamentare di destra del 59% conquistata con solo il 44% dei voti. Le responsabilità di questa sconfitta annunciata sono diffuse e oggi in ogni occasione significativa la maggioranza delle destre ci ricorda che a metà legislatura nessuno sa dire se si ripeterà il disastro del 2022. La gravità del rischio è talmente grave da meritare un’attenzione che ancora non c’è da parte delle diverse opposizioni politiche e che dovrebbe essere oggetto di preoccupazione anche per le diverse soggettività sociali.
Il primo elemento di valutazione è l’influenza di una malintesa fedeltà atlantica che ha condizionato ogni altra scelta, in particolare sulla guerra in Ucraina. Questa scelta ha adottato una visione unilaterale della situazione con la conseguenza di non riuscire ad accompagnare il sostegno all’Ucraina almeno con una forte iniziativa per trattative e pace. Per questo la posizione è diventata un sostegno “fino alla vittoria” dell’Ucraina, in osservanza alle scelte Usa e Nato. Con la drammatica conseguenza di relegare in secondo piano la lotta al cambiamento climatico, che richiede la convergenza tra diversi, e di portare in primo piano il riarmo, fino alla proposta attuale di considerare fuori dai vincoli europei di bilancio le spese per gli armamenti. E’ evidente lo spirito guerrafondaio che caratterizza questa deriva bellicista, fino a prefigurare una nuova suddivisione del mondo, pur diversa dal passato.
Altro elemento è la sottovalutazione del ruolo che può e deve avere la nostra Costituzione i cui principi fondamentali possono ispirare un programma di governo alternativo alle destre, le quali – non a caso – nel loro programma hanno scritto elementi di sovversione costituzionale con cui stiamo facendo i conti. Autonomia regionale differenziata, prezzo pagato dagli alleati alla Lega; separazione delle carriere e conseguente Csm diviso, composto con sorteggio per disarticolare l’associazionismo dei magistrati (l’Anm ha superato l’80% dei votanti per la rappresentanza in controtendenza all’astensionismo nelle elezioni generali) con conseguente rischio per l’autonomia dei Pm e per l’obbligatorietà dell’azione penale, sono tutte modifiche radicali della Costituzione; premierato e cioè elezione diretta del Presidente del Consiglio con conseguente accentramento dei poteri e comprimendo il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica, riducendo il parlamento ad un ruolo subalterno al “capo” eletto direttamente, dando vita alla “capocrazia”.
Le destre puntano a cambiare la Costituzione con interventi radicali, le opposizioni avrebbero buon gioco a presentarsi idealmente (come i magistrati il 25 gennaio scorso) con in mano la Costituzione. L’errore del 2022 oggi viene riproposto da alcuni autorevoli esponenti delle opposizioni che sembrano avere dimenticato che proprio allora le opposizioni non riuscirono neppure a fare il cosiddetto accordo tecnico che oggi viene rilanciato come una grande trovata mentre è in realtà la rinuncia ad affrontare e superare le difficoltà per arrivare ad un accordo politico di legislatura. Perfino l’ipotesi che si torni a votare con il “rosatellum” alle prossime politiche non è detto che si realizzi, visto che a destra c’è un ripensamento sul ruolo della legge elettorale. Se fosse così semplice si sarebbe fatto nel 2022, come fu proposto e non ascoltato come ultima possibilità di evitare il disastro prima del voto. Così avremmo evitato di trovarci con una destra gonfiata dai meccanismi astrusi del rosatellum. Una destra che usa questa rendita (regalata) di una larga maggioranza parlamentare senza tanti riguardi per imporre le sue soluzioni.
La discussione fin qui sviluppata ha un limite di fondo ed è ragionare considerando solo i rapporti tra i gruppi dirigenti delle opposizioni, senza rendersi conto che le destre hanno si avuto un regalo imprevisto ma stanno alacremente lavorando per consolidare il loro ruolo, sia usando il potere allargato che implica lo stare al governo (nomine, ecc.) sia galvanizzando il loro elettorato con descrizioni che non corrispondono alla realtà ma che le opposizioni stentano a contrastare con efficacia.
Per di più dove sta scritto che si voterà nel 2027? La maggioranza è in affanno, sono le opposizioni che non riescono a decollare con un’opposizione alternativa credibile tale da farle esplodere. Ormai è chiaro che questa destra non porterà a risultati per il futuro del nostro paese, che è sostanzialmente fermo malgrado i miliardi del PNRR e che avrebbe bisogno di un intervento forte ed urgente, altrimenti non sarà in grado di reggere la gelata economica del trumpismo che spingerà Italia ed Europa in recessione.
Mancano idee forti e determinazione, è sbagliata l’analisi delle destre e sono deprimenti le loro proposte. Un esempio, l’auto è in crisi e per di più si rischia che la Cina diventi dominante nelle auto elettriche come lo è nei pannelli solari ma il governo ha tolto oltre 4 miliardi di euro dalla legge di bilancio.
Non c’è solo l’economia in stallo, che pure è decisiva, sono i meccanismi di fondo della democrazia moderna che rischiano una crisi verticale e c’è il rischio che le opportunità del PNRR vengano sprecate, anche sulla guerra le destre sono incapaci di qualunque iniziativa autonoma e questo riverbera anche sull’Europa che a sua volta è più afona del solito e sa solo parlare di aumentare produzione ed acquisto di armi, mentre dovrebbe preparare un’evoluzione dell’Europa verso la pace.
La discussione tra le opposizioni non deve guardare solo i rapporti tra i gruppi dirigenti ma deve avere di mira un coinvolgimento forte dei cittadini per renderli protagonisti di una nuova fase di costruzione di un’alternativa di massa alla destra che si candida a governare contro le destre. Una proposta preconfezionata nei salotti per coinvolgere solo dopo i cittadini non darebbe alcun aiuto a ridurre l’astensionismo, che è il vero, grande, preoccupante problema della democrazia. Il referendum sull’autonomia regionale differenziata era una potente occasione, insieme agli altri referendum sul lavoro e sulla cittadinanza. La Corte costituzionale ha preso una decisione contraria, non condivisibile, influenzata dalla preoccupazione che il referendum potesse dividere il paese ma la Consulta ha dimenticato che un referendum abrogativo è sempre promosso per cancellare scelte già fatte, quindi divisiva è la legge Calderoli, che la Consulta però non ha cancellato integralmente.
Il referendum sull’autonomia regionale differenziata era per le opposizioni il massimo punto di unità, ora non c’è più. Il valore di questo referendum stava nel potenziale coinvolgimento delle persone e poteva convincerle a votare, quindi un formidabile appuntamento per tutti: dirigenti, militanti, elettori, cote politico e cote sociale. Ora restano gli altri referendum che sono anch’essi molto importanti ma hanno apprezzamenti non univoci nelle opposizioni. La spinta unitaria non è immediata ma un buon lavoro può risolvere molti problemi.
Quindi se ora non si vuole cadere nella depressione politica di un’opposizione che ha perso il più importante punto di unità politica e sociale occorre costruire un percorso credibile che partendo dalla Costituzione (che resta il fondamento che deve ispirare un programma alternativo alla destra) arrivi ad un progetto che renda possibile e credibile un’alternativa alla destra, anche prima della scadenza naturale del 2027. Sarebbe diabolico se le opposizioni si facessero trovare impreparate di fronte ad una crisi improvvisa del governo delle destre, sempre possibile. Di più, proprio una credibile alternativa potrebbe incalzare il governo della destra e moltiplicarne le difficoltà fino a provocarne la crisi.
Un abbozzo di programma è indispensabile, partendo dalla Costituzione, ed è responsabilità dei gruppi dirigenti, ma occorre che questo dia vita ad un’ampia campagna di partecipazione, puntando a fare scrivere il programma dell’alternativa alle persone che sono disponibili ad impegnarsi sulle proposte, scrivendo, votando, mobilitando. Una grande discussione di massa è il modo migliore per preparare un’alternativa credibile alla destra. Esperienze precedenti hanno dato buona prova, perché dovremmo rinunciare alle esperienze positive del passato? La condizione è che il programma sia non solo dei partiti ma costruito con la società e con gli elettori.
Quello che manca nella discussione fin qui svolta è il lancio di una prospettiva forte, ideale e politica, sociale e partecipata, che cammini nella coscienza e sulle gambe delle persone. Occorre suscitare emozioni, non può essere un confronto a tavolino, nei salotti. E’ nel vivo delle lotte che si formano i quadri, le esperienze dei militanti, le nuove gerarchie nei dirigenti, da solo nessuno di questi sarà in grado di convincere chi si è ritirato deluso dall’impegno a tornare e a fare la sua parte, dando vita ad un grande patto per un’alternativa alle destre. Non c’è più tempo da perdere. Il momento è ora. Trump e la destra in campo nel mondo e in Europa non sono un fenomeno passeggero, la possibilità di costruire elementi di iniziativa unitaria va iniziata prima possibile per evitare di lasciare ad una destra aggressiva il tempo, che altrimenti non avrebbe, di durare. Prima l’alternativa politica e sociale sarà in campo per il futuro dell’Italia e dell’Europa meglio sarà.

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Il progetto costituente
Come vincolare il potere politico

11/04/2025
(Da “Il Manifesto” di venerdì 11/04) – Un estratto da «Progettare il futuro. Per un costituzionalismo globale». Il volume, edito da Feltrinelli, sarà in libreria a partire dal 15 aprile.
Luigi Ferrajoli

I poteri che contano, quelli il cui esercizio selvaggio sta minacciando il futuro dell’umanità, si sono trasferiti irreversibilmente fuori dei confini degli Stati nazionali e perciò della sfera del loro diritto e del loro governo. Ed è cambiata, conseguentemente, la natura delle aggressioni più gravi al diritto e ai diritti, le quali sono tutte di carattere globale. Ne consegue l’inadeguatezza del costituzionalismo odierno a fronteggiare queste aggressioni. A causa dei loro limiti spaziali, i governi nazionali e le loro costituzioni sono oggettivamente impotenti di fronte alle catastrofi planetarie in atto, destinate tutte, peraltro, ad aggravarsi.
NON È SOLO una questione di malgoverno, o di egoismi nazionali, o di volontà di sopraffazione politica o economica e neppure di semplice miopia delle forze politiche. È una questione drammaticamente oggettiva, ben più di fondo di quella soggettiva del presentismo e del localismo. Anche volendo, nessun attore della politica o dell’economia mondiale, per quanto potente – nessuno Stato pur dotato dei massimi armamenti militari, nessuna grande impresa multinazionale pur gestita da filantropi –, potrà mai affrontare, da solo, i problemi del riscaldamento climatico, del disarmo mondiale e delle disuguaglianze planetarie.
Se l’umanità vuole sopravvivere, poteri globali e aggressioni globali impongono un salto di civiltà, cioè un’espansione del costituzionalismo oltre lo Stato, all’altezza dei poteri da cui provengono le minacce al nostro futuro. È chiaro che questa espansione è possibile solo sulla base di un nuovo contratto sociale di carattere globale tra tutti gli Stati e i popoli del pianeta che istituisca, in forma vincolante, le garanzie universali della pace, dei diritti fondamentali di tutti e dei beni vitali della natura. È questo l’ultimo, decisivo passo che va compiuto nella storia del costituzionalismo e che, da quei principi di pace e di giustizia, se presi sul serio, è logicamente implicato e giuridicamente imposto.
Purtroppo la politica è ben lontana dal compiere questo passo. L’aspetto più insidioso e drammatico delle catastrofi in atto consiste nella cecità dei nostri governi e delle nostre opinioni pubbliche. (…) Nonostante i cataclismi ogni anno più gravi e devastanti, il mutare delle stagioni, i grandi caldi, gli incendi e le grandini, le siccità e le alluvioni, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento dei mari e il prosciugarsi dei fiumi e dei laghi, quanti potrebbero accordarsi e concordemente vincolarsi per fronteggiare le sfide globali non stanno facendo nulla, se non varare, come in Italia, leggi punitive contro i giovani che con le loro proteste tentano di aprire loro gli occhi.
EPPURE UNA LEZIONE avremmo dovuta trarla da una grave emergenza che proprio in questi anni ha colpito tutto il mondo e ha mostrato tutta la nostra comune fragilità e interdipendenza: la pandemia di Covid-19, improvvisamente esplosa nel febbraio 2020. Il virus non conosce confini e in poche settimane ha invaso tutto il pianeta, senza distinzioni di nazionalità e di ricchezze. Ha provocato più di 600 milioni di contagi e 7 milioni di morti, ha paralizzato e sconvolto l’economia, ha alterato la vita quotidiana di tutti gli abitanti della Terra, ha reso evidente, con il suo terribile bilancio quotidiano di ammalati e di deceduti, la mancanza di istituzioni globali di garanzia della salute. (…)
UNA SIMILE TRAGEDIA avrebbe dovuto offrire due insegnamenti, entrambi vitali. Essa ha mostrato, in primo luogo, il valore insostituibile della sanità pubblica e del suo carattere universale e gratuito, che è la sola garanzia dell’uguaglianza nel godimento del diritto alla salute quale diritto fondamentale di tutti. Solo la sfera pubblica è in grado di investire fondi nella prevenzione e nella gestione delle epidemie e di pianificare – nell’interesse di tutti, senza privilegi né discriminazioni – le prestazioni sanitarie, al di là delle contingenti convenienze economiche che condizionano invece la sanità privata. In secondo luogo, avrebbe dovuto trarsi, dalla pandemia, l’insegnamento del carattere globale di tutte le catastrofi che minacciano il nostro futuro, e perciò della necessità di risposte parimenti globali. (…) Invece, non abbiamo imparato assolutamente nulla.
AL CONTRARIO si è sviluppata una generale rimozione, o peggio una diffusa negazione della pericolosità del virus e della necessità di misure di difesa – dall’obbligo delle mascherine alle restrizioni della libertà di circolazione – e poi perfino del valore dei vaccini. Immediatamente i populismi di tutto il mondo, sia al governo che all’opposizione – in Italia e in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Brasile –, si sono dapprima avventati contro le misure prescritte dalla scienza medica, e poi hanno dato voce e rappresentanza ai negazionisti per raccattarne i voti. Si è rivelato, in questa vicenda, l’alto tasso di irrazionalità – la sfiducia nella scienza e nella ragione e la diffidenza e l’ostilità per la sfera pubblica – che forma l’oscuro sottofondo dell’anti-politica su cui fanno leva, in particolare a destra, tutti i populismi. In Italia, dove il virus si è diffuso prima e più duramente che in qualunque altro paese occidentale, costringendo a risposte severe ma necessarie, la destra negazionista andata al potere è giunta ad approvare l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia da parte del precedente governo, al solo scopo di censurarne le misure, senza le quali il numero dei nostri morti si sarebbe raddoppiato. Se questa è stata la reazione del nostro ceto politico e di una parte non piccola della pubblica opinione a un fenomeno clamorosamente evidente come è stata la pandemia, che per due anni ci ha chiusi nelle nostre case e ha minacciato la vita di tutti, è facile comprendere la cecità e l’imprevidenza di fronte alle altre ben più gravi catastrofi globali, assai meno visibili e impellenti, che incombono sul nostro futuro.
LE RAGIONI di questa incoscienza – ecologica, nucleare e umanitaria – e della nostra insensibilità morale sono molteplici. C’è il negazionismo più o meno consapevole di verità troppo scomode, comunque alimentato dall’avversione alla sfera pubblica. C’è la nostra indifferenza, generata anche dall’«idea di uomo» che, come ha scritto Joseph Stiglitz, «sta alla base dei modelli economici prevalenti, ossia un individuo calcolatore, razionale, egoista, che pensa solo a se stesso e non lascia spazio alcuno all’empatia, al senso civico, all’altruismo»: un essere orribile, cui non vorremmo assomigliare e che non vorremmo frequentare e che, tuttavia, viene proposto come modello di «razionalità».
C’è poi un altro fattore dell’impotenza e del disimpegno: una sorta di regressione infantile – anti-politica, anti-liberale, anti-sociale, anti-illuminista –, a sostegno della deresponsabilizzazione e della delega in bianco ai poteri, quali che siano, delle decisioni che contano sul nostro futuro. È il disimpegno illustrato da Kant nel suo saggio sull’illuminismo del 1784. «L’illuminismo», egli scrive, «è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità», cioè dall’«incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro». Sono questa minorità e questa passivizzazione che vengono oggi promosse dal crollo della partecipazione politica.
«È COSÌ COMODO essere minorenni!» prosegue Kant. «Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione». Questi «tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sui loro simili minorenni» mostreranno loro – «dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici» e impedito loro di «muovere un passo fuori della carrozzella per bambini in cui li hanno imprigionati» – «il pericolo che li minaccia qualora cercassero di camminare da soli». (…) È su questa mancanza di maturità che si basa l’indisponibilità a guardare la realtà, a prendere atto dei suoi orrori e dei suoi pericoli, a pensare il futuro come un possibile non-futuro, a concepire come possibile la scomparsa del genere umano.
Questa cecità è oggi il principale nemico dell’umanità. Essa è presente soprattutto tra i nostri governanti, più di tutti ammalati di presentismo e localismo, e impone perciò alla cultura giuridica e politica un aggiornamento radicale dei suoi apparati concettuali, onde consentire di vedere la realtà e di pensare le possibili soluzioni dei problemi. Solo se si mostrerà che un’alternativa allo stato attuale del mondo è possibile, pur se difficile, e che essa dipende dall’impegno di tutti, potranno prodursi un risveglio della ragione e lo sviluppo di una nuova energia costituente.

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Europarmata

img_2578EUROPA SOGNI DI GLORIA

Cari Amici,
rincuorati dalla grande manifestazione dei 100.000 di sabato scorso a Roma contro il riarmo europeo e per la cessazione dello sterminio di Gaza, vi mandiamo il lunghissimo testo della risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile. Ve lo mandiamo perché nella sua grottesca follia rappresenta il punto di caduta di questa forma di Unione Europea, partita, come si ricorderà, per unire i denari e i mercati, non i popoli dell’Europa. Questo punto di caduta si può riassumere nella frase: vorrei ma non posso.

Che cosa vorrebbe questa Europa, sedotta e abbandonata dall’America? A parte la dichiarazione di guerra alla Russia, e il miraggio secondo cui grazie al “deciso sostegno militare dell’Unione Europea” e solo grazie ad esso, l’Ucraina “sarà in grado di conseguire la vittoria contro la Russia”, quello che platealmente dice di voler fare l’Europa di Ursula von der Leyen e di Macron, è di prendere il posto dell’America, diventata cattiva, come Prima Potenza mondiale. C’è un sintomo altamente simbolico di questa velleità: gli 800 miliardi del piano di riarmo. Perché proprio 800 e non 750 o 1000? Calcolata come prodotto di improbabili finanziamenti, sembra una cifra di fantasia. Certo non serve a ottenere la famosa vittoria sulla Russia, perché ci vorranno quattro anni per arrivare a questo tetto di spesa, e fra quattro anni chissà che fine avrà fatto la guerra d’Ucraina. Invece gli 800 miliardi sono pari alla spesa militare degli Stati Uniti. Fatto dall’Europa, è un tradimento che risponde a un abbandono, perché un cardine della politica estera e di “difesa” degli Stati Uniti, consacrato da anni nei documenti sulla strategia della sicurezza nazionale americana formulati dalla Casa Bianca e dal Pentagono, è che nessuna Potenza deve non solo superare , ma nemmeno eguagliare la potenza americana. Le altre Potenze sono ben lungi dal poterlo fare (la Russia spende 86 miliardi di dollari, la Cina 291), ed ecco che ora ci si mette l’Europa. Ciò vuol dire sostituirsi agli Stati Uniti nella pretesa di porsi come guida delle Genti e Sovrana del mondo: basta leggere la risoluzione del Parlamento di Strasburgo,ma scritta a Bruxelles, per vedere enunciato questo progetto globale, dal recupero di metà di Cipro dalla dominazione turca al controllo della “regione artica”, dal Mali alla Cina. Ci sarebbe da dire “Prosit !” se non fosse, più che un progetto, un’allucinazione e un incubo. Non per questo è stata fatta l’Europa, non l’Europa di Ventotene che, come siamo stati informati non è l’Europa della signora Meloni, ma nemmeno della nomenclatura che ha preso il potere a Bruxelles.

Questa Europa ha preso il lutto per il divorzio americano, dice che la democrazia è in pericolo, anzi già sconfitta. Ma in realtà altre sono le sue gramaglie: ciò su cui piange è la sconfitta del capitalismo nella forma selvaggia della sua globalizzazione, seguita alla fine della guerra fredda. Valga per tutti l’elogio funebre pronunciato su “La Repubblica” da Ezio Mauro: il nuovo potere, cioè l’America di Trump, scrive, “in un solo giorno ha chiuso il ciclo storico della globalizzazione, ha cancellato il liberismo economico imprigionando il libero commercio e i mercati aperti, ha messo fuori gioco l’Organizzazione mondiale del commercio, ha affondato le Borse e reinstallato il protezionismo”. Come mai non sospettano che se questo capitalismo è andato così rapidamente in crisi, è perché è stato devastante per milioni di uomini e popoli interi? Mai esso aveva portato a diseguaglianze abissali come quelle oggi denunciate, mai aveva prodotto una tale epidemie di guerre. La miopia dell’Unione Europea è quella di volerlo ristabilire tale e quale, e crede di poterlo fare con le solite forme delle armi e della guerra. Invece è il momento di pensare e provvedere a un nuovo modello economico, di cui peraltro già si sono conosciuti i germi, e perciò anche a un nuovo modello di convivenza e di vita.
Nel sito “Prima loro” pubblichiamo la risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile e un articolo di Andrea Zhok sulla crisi del sistema e il nesso tra capitalismo e guerra.

Con i più cordiali saluti

da “Prima Loro” (Raniero La Valle).
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Con convinzione, come Costituente Terra, abbiamo fatto nostro l’appello presentato da Luciana Castellina, Luigi Ferrajoli e Gian Giacomo Migone.
Dobbiamo lavorare per un Europa della democrazia e della giustizia sociale, per un disarmo globale contro chi vuole fare solo profitto sulla vita delle persone.
Per iniziare è necessario il cessate il fuoco immediato in tutte le parti del mondo in cui oggi si stanno compiendo stragi, dalla Palestina all’Ucraina .
Non possiamo essere complici di questo scempio .
È oggi il tempo di costruire un’Europa e un mondo diversi, lontani da guerre e nazionalismi, e lo dobbiamo fare insieme.
L’APPELLO:
“Troviamoci, tutte e tutti, a Roma, sabato 5 aprile, all’appuntamento già indetto dal M5S, a manifestare per un’Europa unita per la pace, fondata sulla giustizia sociale e la democrazia, come l’hanno intesa Spinelli, Colorni e Rossi, dal carcere di Ventotene.
L’arresto delle stragi in atto a Gaza e Cisgiordania, in tutto il Medio Oriente, Sudan, Congo, Ucraina, Yemen e in altre parti del mondo sono la prima urgenza. Siamo dalla parte delle vittime. Rifiutiamo di essere rappresentati dal governo italiano che non riesce nemmeno a seguire l’esempio di altri governi europei che finalmente chiedono il cessate il fuoco a tutela dei Palestinesi.
Un’Europa diversa da quella attuale, unita, federale, dotata di politica estera, con una difesa coerente ed indipendente – radicalmente alternativa al riarmo sostenuto da von der Leyen – può contribuire alla pace da oggi. Serve un mondo multipolare, che abbia come obiettivo il disarmo globale, sottratto agli interessi dei fabbricanti di armi e dei risorgenti nazionalismi, pronti – come quello propagato dal governo Meloni – a sottomettersi a chi, ancora una volta, vuole spartirsi il nostro continente, a Washington come a Mosca. La strada è lunga e piena di ostacoli, ma a Roma, il 5 aprile, saremo in tanti con le sole bandiere della Pace e dell’Europa che intendiamo costruire.
Ci rivolgiamo innanzitutto a tutte le libere associazioni con vocazione di pace, comunità religiose che rifiutano ogni uso aggressivo e strumentale della loro fede, sindacati (il convegno della Cgil può essere una buona occasione per unire le piazze), persone come padre Alex Zanotelli e Moni Ovadia che da tempo c’ispirano.
Cara Schlein, caro Conte, Fratoianni, Bonelli e Acerbo, fate la vostra parte, mettetevi d’accordo e poi troviamoci insieme.“
Luciana Castellina
Luigi Ferrajoli
Gian Giacomo Migone

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Europa, Europa

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IL NOME ALLE COSE

Cari amici,

tutto è cominciato quando l’uomo, nel giardino, ha dato il nome alle cose, Dare il nome alle cose è il primo passo per conoscerle, padroneggiarle, se del caso combatterle. Per questo si discute tanto se definire o no la Meloni fascista, e si insiste sulla litania dell’aggressore-aggredito. Ma nella divisione manichea del mondo, tanto cara all’Occidente, tra quelle che sono chiamate “democrazie” e le cosiddette “autocrazie”, dove collocare l’America di Trump che è eletto a furor di popolo ma sovverte le regole del potere, malmena i giudici, governa per decreti esecutivi e vuol conquistare la Groenlandia e il Canada? E che nome dare a Israele dove pure si vota, ma che si definisce come Stato etnico, esclusivo e confessionale?

Per trovare il nome appropriato bisogna guardare agli indizi. Per gli Stati Uniti si può prendere per esempio una componente identificante del regime trumpiano, che è la deportazione dei migranti presenti nel Paese e che per varie ragioni sono considerati illegittimi o delinquenti o comunque sgraditi. Per farlo Trump ha tirato in ballo la Alien Enemies Act, che è una legge sui nemici, risalente al 1798, forse mai applicata se non nella Seconda guerra mondiale per internare e isolare i giapponesi residenti in America. I primi a farne le spese sono stati i venezuelani, 350.000 dei quali godono di uno statuto di protezione temporanea negli Stati Uniti dove sono arrivati per sottrarsi al regime di Chávez. Centinaia di loro, definiti “stupratori, assassini e gangster” dalla portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt, imbarcati su tre aerei, sono stati deportati in Salvador che ne ha ricavato 5.000 dollari l’uno e li ha imprigionati in un lager. Un giudice ha tentato di fermare gli aerei in volo e di farli rientrare ma l’ordine non è stato eseguito col pretesto che essi non si trovavano più nello spazio aereo degli Stati Uniti, e Trump ha definito quel magistrato “un giudice lunatico, di sinistra radicale, un agitatore e un provocatore”.

Ma, come ha scritto una giornalista che lavora in un’organizzazione per i diritti degli immigrati, Sonali Kolhatkar, in un articolo diffuso in Italia dalla benemerita agenzia Other News di Roberto Savio, non si tratta solo dei venezuelani: chiunque può essere fatto sparire in qualsiasi momento. Il governo sta prendendo di mira i cittadini americani di colore. Sta prendendo di mira gli accademici di colore che lavorano o studiano nel Paese con documenti validi, in particolare quelli che sono musulmani o cercano giustizia per la Palestina. Tutti a rischio di non essere graditi al potere. Ricordando la poesia “First They Came” di Martin Niemöller, si può dire che “oggi l’amministrazione se la prende con venezuelani e palestinesi, domani potrebbe essere chiunque di noi. Tollerare la crudeltà anti-immigrati apre la porta a tutti noi di essere vittime di tale ferocia. Nessuno è immune”.

Un’altra notizia, ben più che un indizio, è che esiste uno stretto rapporto di collaborazione tra l’esercito israeliano e il Massachuttes Institute of Technology (MIT) di Boston, anche nel supporto alla guerra di Gaza. Come rivela un rapporto “Science for Genocide”, pubblicato da un gruppo pro-palestinese interno all’Università, i laboratori del MIT dal 2015 hanno ricevuto 3,7 milioni di dollari di finanziamento da parte del Ministero della Difesa israeliano, destinati a progetti volti a sviluppare algoritmi che aiutino gli sciami di droni a inseguire meglio gli obiettivi in fuga, a migliorare la tecnologia di sorveglianza subacquea e a supportare gli aerei militari nell’elusione dei missili. Dal 7 ottobre 2023 due di queste sponsorizzazioni sono state rinnovate, mentre una è scaduta a dicembre 2024. Inoltre il MIT mantiene collaborazioni istituzionali con aziende che vendono grandi quantità di armi a Israele. Tra queste figurano Elbit Systems, il maggiore appaltatore militare di Israele, nonché Maersk, Lockheed Martin e Caterpillar, collaborazioni che garantiscono ingenti profitti ai complici del genocidio e un accesso privilegiato al talento e alle competenze del MIT. Quello di Israele, afferma il rapporto, “è l’unico esercito straniero a sponsorizzare la ricerca del MIT”. Come dicono gli studenti il regolamento stesso del MIT imporrebbe di rompere le collaborazioni con tali imprese se esistono “prove credibili che le loro attività contribuiscono alla soppressione dei diritti umani”. In risposta alla pubblicazione dei dati, il MIT ha bloccato l’accesso al sistema interno di gestione delle sponsorizzazioni.

Tutto ciò dimostra il coinvolgimento strutturale degli Stati Uniti nelle guerre di Israele, come c’è stato un coinvolgimento finora nella guerra d’Ucraina dove, come ha rivelato il New York Times, dalla base Usa di Wiesbaden, in Germania, i generali Mykhaylo Zabrodskyi e Christopher Donahue, dirigevano le azioni militari ucraine nel quadro di una operazione, chiamata “Task force Dragon”.
Molte altre cose si potrebbero citare per chiedersi in base a quale diritto, interno e internazionale, gli Stati Uniti fanno tutto questo, e se ciò li qualifichi ad essere annoverati tra le democrazie o le autocrazie: un’attribuzione peraltro difficile anche per altri Paesi, a cominciare da Israele con la sua identità di Stato ebraico, di un solo popolo, senza Costituzione e con una capitale eterna, e la pretesa di essere nelle sue condotte militari “legibus solutus”. E tutto ciò mentre la condanna della Le Pen in Francia accende in tutto il mondo il clamore sulle regole della democrazia.

In America la questione si complica perché da un’amministrazione all’altra gli Stati Uniti sembrano compiere anche le azioni più efferate ostentando una presunzione d’innocenza. Perciò risulta difficile, ma non solo con Trump, collocarli simpliciter nelle “democrazie” o nelle “autocrazie”, la magica distinzione che rende l’Occidente così fiero di appartenere a queste ultime. Per chiarezza occorrerebbe allora dare agli Stati Uniti un altro nome che corrisponda alla stessa coscienza che essi, e altri Stati simili a loro, hanno di sé. Questa coscienza è quella di essere al di sopra del bene e del male, di godere di una sorta di suprematismo bianco o anglosassone o messianico e religioso, di comportarsi nella presunzione che tutto sia loro concesso e tutto sia loro dovuto (e perché no la Groenlandia, Panama, le terre rare, la Palestina, Gaza?). Allora forse si dovrebbe dar loro un nome nuovo: non democrazie e non autocrazie, ma autolatrie. O piuttosto, poiché di se stessi fanno un idolo, e se lo adorano da soli, autoidolatrie.

Nel sito Prima Loro pubblichiamo un’analisi del professor Massimo Faggioli sui rapporti tra Trump e il Papa, un articolo sulle manifestazioni palestinesi contro Hamas a Gaza e sulla devastazione psicologica prodotta dalla guerra, e un articolo su Israele e l’ipotesi esclusa di Raniero La Valle pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”. Eventuali firme da aggiungere ai mittenti della Lettera all’Europa [vedisotto] possono essere comunicate all’indirizzo notizieda@primaloro.com.

Con i più cordiali saluti

da “Prima Loro” (Raniero La Valle).
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Cara Europa,

ti scriviamo per dirti che ti siamo vicini, perché, dopo che hai perduto le tue coordinate, tutti ti strattonano, cercano di farti andare dove non vuoi, a perderti. Nella confusione, sono pure scesi in piazza, per dire le cose più diverse, abbandonandoti intanto a torvi governanti ben vestiti e ben armati, e in sostanza per esaltarti e tradirti. Dicono Europa Europa, e tu non ci sei, perché ti hanno amputato, ti vogliono divisa, hanno bisogno di un nemico, e questo nemico se lo costruiscono dentro l’Europa stessa, è la Russia, che sarebbe una minaccia e un pericolo per il solo fatto di esistere. Biden addirittura diceva che la Russia doveva essere portata alla “condizione di paria”. Qui aveva ragione Trump quando diceva che Biden era stato il peggiore presidente degli Stati Uniti, una democrazia mitizzata come modello di democrazia da esportare per tutti, che vorrebbe far regredire un altro grande Paese alla condizione castale, non solo ultima casta, ma fuori casta, fuori cioè della società, fuori dell’umanità.

Certo, Biden non era un filosofo, e negli ultimi due anni della sua presidenza la ragione se n’era andata, tanto che l’America era governata dalle due o tre persone che gli erano più vicine, e si è visto con quali risultati. Invece è un filosofo, anzi addirittura sarebbe un “nuovo filosofo”, Bernard Henri Lévy, il quale per aizzarci alla lotta contro la Russia scrive sulla “Stampa” che Putin ci odia (lui lo sa), vuole disgregare l’Unione Europea portando l’Est sotto il suo controllo, e in questo fa con Trump una “coppia diabolica”. Un filosofo che legge la storia come un affare di diavoli! Se fosse questa la tua cultura, dove sarebbe finita la cultura europea!

Ma anche uscendo da queste bassure, ai piani appena più alti della politica e dell’informazione, troviamo i campioni di quella che chiamano Unione Europea, che ti vogliono smembrata e divisa. E in ogni caso approntano il grande bisturi delle armi, almeno 800 miliardi. Si pavoneggiano rivendicando per l’Europa le radici ebraico-cristiane, ma sono contro san Paolo, lo prendono per putiniano. San Paolo dice ai Corinti che un corpo non può essere smembrato: “Non può l’occhio dire alla mano non ho bisogno di te; oppure la testa ai piedi: non ho bisogno di voi. Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli, sono le più necessarie, perché nel corpo non ci sia divisione ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre e se un membro soffre tutte le altre soffrono insieme perché tutte le membra del corpo, pur essendo molte sono un corpo solo”. Dell’Unione Europea sono 27 ma tu Europa, a contare la Russia e perché no, l’Ucraina, ne conti almeno 29.

D’altra parte noi come faremmo se non ci fosse la Russia, e se ci distruggessimo per distruggerla, solo perché ci siamo costruiti il fantasma che ci minaccia? Ma una supposta minaccia può giustificare qualsiasi violenza?

La Russia non è il nostro nemico, lo dice perfino Tajani, e la Meloni non vuole mandare i soldati a combatterla. Certo, l’Ucraina violata, ma lì c’erano precisi e innegabili motivi, come allo stesso Parlamento europeo ha spiegato un autorevole e informato americano, il prof. Jeffrey Sachs. Senza Russia non sei più tu Europa. Ci hai arricchito con i suoi pensieri. Come potevamo noi capire l’anima profonda, efferata, della guerra, senza “Guerra e pace” di Tolstoi? Come potevamo noi capire l’umanità violata di quanti sono considerati “animali umani”, e sono scambiati e venduti, vivi o morti che siano, come le “Anime morte” di Gogol? Lì erano i servi della gleba, qui oggi “l’umanità violata” descritta da Roberta De Monticelli in Palestina e in ogni altro genocidio. E come comprendere tanta ingenuità di un’opinione pubblica candida, onesta e plagiata, senza “L’idiota” di Dostoevskij?

Perciò, cara Europa, dobbiamo ripristinare l’unità del tuo corpo, e risuscitare la tua anima morta. Non basta dire Europa, dobbiamo chiederci chi sei, che cosa c’è nel tuo DNA, qual è l’anamnesi dei tuoi mali e scoprire la cura che ti può guarire.

Nel tuo DNA ci sono anzitutto Creonte ed Antigone, il potere e la libertà, la legge e la grazia, l’obbedienza e la dignità. Ma anche c’è stata l’intronizzazione della guerra, proclamata padre e principio di tutte le cose, di tutti re, da Eraclito a Kant, che la considerava un prodotto della natura, e la pace invece un artificio. Ma nel DNA dell’Europa ci sono anche tutte le passioni umane, che ci sono state svelate nella tragedia greca, amore e morte, gelosia e dono di sé, progetto e speranza.

Ma poi bisogna fare l’anamnesi, tutte le malattie dell’Europa, l’imperialismo universalista dell’Occidente, cominciato a Roma, il culto dei Cesari, la società di signori e servi, le persecuzioni religiose, le scoperte come conquista, il genocidio degli Indios e il rifiuto dell’Altro, le colonie, fino alle due guerre mondiali e alla Shoà, e dopo, le resistenze all’attuazione dello Stato sociale, la mancata messa a profitto della rimozione del muro di Berlino e il recupero della guerra, la restaurazione neoliberista dell’impero del profitto e del mercato, fino al punto da snaturarti, da non sapersi più ciò che tu sei, un personaggio in cerca d’autore[1].

Il problema è che i tuoi governanti credono che tu abbia bisogno di un Nemico, è l’esistenza di un Nemico che ti conferirebbe la tua ragion d’essere, e perfino quando ti sorvolano telefonate di pace ti vogliono disporre alla guerra. Dicono che il Nemico è già lì per invaderci, fino al Portogallo, ma non arriva come nel deserto dei Tartari.

La verità è che non si rassegnano alla caduta del muro di Berlino. Era questo che aveva permesso a un’ancora “Piccola Europa” di avviarsi verso l’unità, di guardare con occhi nuovi al mondo e di avere la pace, era stato questo che aveva fatto spazio all’alternativa keinesiana e l’aveva preparata all’euro, e pazienza per la Germania divisa, a qualcuno piaceva anche così, almeno era senza esercito.

E allora qual è la cura per te, che ti faccia guarire, come avere per l’Europa una prognosi non riservata, che ti metta fuori pericolo?

La cura è capire che l’Europa non ha bisogno di un Nemico, ma ha bisogno di un’Idea. Anzi che l’Europa stessa è un’Idea, un’Idea che si fa storia, altrimenti non è più nulla. “Idea Europa” era appunto il titolo di un’opera che ne scandaglia la storia ideale, di un teologo gesuita tedesco, Erich Przywara, citato da papa Francesco quando ha ricevuto il Premio Carlo Magno.

Avere un’idea vuol dire avere una visione per la quale vale la pena vivere e lottare, le idee che abbiamo tradito, democrazia, socialità, liberalismo. Ma essere un’Idea che si fa storia vuol dire farsi carico del mondo, e rimettere in gioco la fede che attesta che l’umanità sarà salva, le fedi che abbiamo perduto perché non abbiamo saputo difenderle dalla giusta critica della laicità, il socialismo (“avanza con noi l’epoca nuova!”), il cristianesimo…

E allora qui va detta la cosa più trasgressiva ed eretica che oggi si possa dire: che per salvarsi l’Europa deve recuperare il suo bene maggiore e perduto, il cristianesimo. Una tale proposta può apparire paradossale nel momento in cui la fabbrica del male arriva a tetti mai raggiunti prima, fino al decreto di sterminio notificato alla popolazione di Gaza dai volantini lanciati, con le bombe e i missili dall’esercito israeliano: “Alla gente di Gaza – è scritto in arabo – prima di iniziare il piano obbligatorio di Trump, che imporrà il vostro sfollamento da Gaza, che vi piaccia o no, ripensateci: la mappa del mondo non cambierà se la gente di Gaza scompare. Nessuno vi noterà. Nessuno chiederà di voi. Né all’America né all’Europa importa di Gaza. Nemmeno agli Stati Arabi. Sono nostri alleati. Ci forniscono denaro, petrolio e armi. Vi mandano solo sudari. Il gioco finirà presto. Chiunque voglia salvarsi prima che sia troppo tardi, siamo qui per restare fino al giorno del giudizio”. La soppressione dell’umano che qui è rivendicata come cultura comune, è il rovesciamento assoluto del cristianesimo, fondato sull’umanità di Dio, ma è anche la bestemmia che rovescia il Patto del Sinai, e ambedue ti chiamano in causa, dalla Casa Bianca a Tel Aviv: e tu dove sei Europa?

Sembra però irreale che oggi l’Europa possa attingere al tesoro cristiano, perché vi fa ostacolo il secolarismo, penetrato in tutte le sue fibre e perché la modernità stessa, e non senza ragione, si è fondata e si identifica con esso, intendendo il secolo come il luogo in cui Dio non c’è, non importa poi se esista o meno, o se viene creduto nel privato delle istituzioni e dei cuori.

Dalla laicità così intesa non si può tornare indietro, nata com’è dalle guerre di religione tra i principi cristiani nel XVII secolo. Ma è stato proprio un cristiano, luterano olandese, Ugo Grozio, che ha fornito, sia pure come ipotesi paradossale, la formula della laicità su cui la modernità si è costruita: giustizia e diritto sono connaturati alla terra, ed è compito nostro istituirli, anche nella blasfema ipotesi che Dio non ci sia (etsi deus non daretur) e non si occupi dell’umanità. E così abbiamo fatto: senza bisogno di essere atei, abbiamo prodotto l’illuminismo e la modernità accogliendo l’ateismo che è il vero nome della secolarizzazione.

Questa ipotesi è stata abbondante di frutti, ma come ora si vede non basta a salvarci. Forse è il caso di provare l’ipotesi opposta: non c’è bisogno di essere credenti per combattere l’orrore con tutte le forze spirituali e umane mosse dalla indimostrata ipotesi che Dio ci sia e si occupi dell’umanità.

C’è però, c’era fino a ieri, un ostacolo insormontabile perché questo potesse avvenire: che il cristianesimo nel suo risvolto mondano si è intrecciato con l’Idea e con la storia d’Europa nelle forme del regime costantiniano o di “cristianità” che “da Costantino a Hitler”, secondo la formula di Erich Prziwara, ha cercato di organizzare l’Occidente come uno Stato totalitario, nel quale, per dirla con la Civiltà Cattolica, si attuava “un legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa”; ciò che supponeva la Chiesa come la realizzazione stessa del Regno di Dio sulla terra, e quindi faceva della Chiesa la vera sovrana terrena.

Ma questa forma è passata, non solo grazie alla gloriosa laicità, ma perché il cristianesimo ne è uscito e la Chiesa stessa ne ha operato il ripudio, prima reagendo con veemenza, sentendosi aggredita, poi con la grande proclamazione del Concilio Vaticano II e il suggello profetico di Papa Francesco che, proprio ricevendo il premio Carlo Magno, come al Consiglio d’Europa e alla Curia romana, ha attestato che l’impresa di Carlo Magno è finita, che “non siamo più nell’epoca di cristianità, non più”.

Non per questo egli è rimasto a mani vuote, perché in cambio ha offerto all’Europa e al mondo, un annuncio nuovo, che Dio è solo misericordia, e che se, forse, come lui crede, l’Inferno è vuoto, non possono gli uomini né minacciarlo né “aprirne le porte” sulla terra, a Gaza come ad Auschwitz.

Con la più viva partecipazione

Da Prima Loro, Raniero La Valle, Luis Orellana, Giovanni Spallanzani e:

Elena Basile, ambasciatrice, mons. Domenico Mogavero, già vescovo di Mazara del Vallo, mons. Raffaele Nogaro, già vescovo di Caserta, Angelo Gaccione, scrittore, Domenico Gallo, Alex Zanotelli, Enrico Peyretti, Edvige Cambiaghi, Franco Meloni (Aladinpensiero News), Fernando Cancedda, Giuseppe Saponaro, Eva Maio, Antonio Malorni, ricercatore del CNR, Angelo Cifatte, Maria Grazia Campari, Flavio Pajer, docente di Pedagogia delle religioni, Paolo Bertagnolli, Donatella Gregori, Giovanna Ciarlantini, Luana Neri, Federico Palmonari, fisico nucleare, don Sergio Mercanzin (“Russia ecumenica”), Giovanni De Gaetano, Luigi Alfieri, già ordinario di Filosofia politica all’Università di Urbino, Filippo Isgro, Ubaldo Radicchi, Enrico Andreoni, Giuseppe Maria Angelone, Elena Bucchione, Francesco Domenico Capizzi, chirurgo, Maria Teresa Cacciari, Carla Gentilli, docente di lettere, Agata Cancelliere, Ennio Cabiddu, Disarmisti esigenti, Carlo Volpi, Franca Maria Zapponi, Monica Migliorini, Pierpaolo Loi, Alessandra Chiappini, Paolo Brutti, Lucia Tibaldo, Stefano Fiore, Massimo Michelucci, Antonella Doria, Maria Luisa Arena, Franco Borghi, Maria Pia Pelizzoni, Luigi Ghia, Moreno Biagioni, Giovanna Bonina, Sergio Paronetto, Pax Christi Verona, Guido Rapalo, Fabrizio Valletti, gesuita, Fabio Filippi, editore, Giovanni Ambrosoni, Mario Marchiori, Enrico Milani, avvocato, Francesco Di Matteo, avvocato, Fernando Filanti, Lino Balzo, Movimento di Lotta per la Salute, l’Ambiente, la Pace e la Nonviolenza, Maria Grazia Niutta, Davide Ciccarelli, Giuseppe Staccia, Luca Ulianich, Anna Sabatini Scalmati, Liviana Gazzetta, Francesco Zanchini, già ordinario di diritto canonico all’Università di Teramo, Giuseppe Gallelli, Nicola Striano, Marco Panti, Gino Buratti, Oliviero Arzuffi, Franco Barbieri, Ersilia Bosco, Carlo Fiocchi, Addolorata Ines Peduto, biologa, Vincenzo Politi, ingegnere, Fiorella Edvige Pasetti, Angela Mancuso, Gianluca Fioretti, Giovanni Bonomo, Norberto Julini, coordinatore nazionale di Pax Christi Italia, Marco Vitale, Aldo Grilli, Giacomo Meloni, segretario nazionale Confederazione Sindacale Sarda, Norma Naim, già dirigente della Regione Campania.

Quanti volessero aggiungersi ai mittenti di questa lettera lo possono fare comunicando la loro firma a notizieda@primaloro.com.
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La crisi planetaria della ragione

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Disimparare la guerra, Il lavoro e il Sabato, La Terra è di tutti, Umani e Inalienabili
Pace, Lavoro, ambiente, diritti.
31/03/2025
L’intervento del Presidente di Costituente Terra Luigi Ferrajoli all’assemblea pubblica della CGIL “Pace, lavoro, ambiente, diritti: l’Europa e il mondo di fronte a sfide inedite” del 29/03/2025
CT

La corsa verso l’abisso – L’umanità sta vivendo la sua fase forse più drammatica. Per la prima volta nella storia, la sua stessa sopravvivenza è minacciata da sfide e catastrofi globali: il riscaldamento climatico, il pericoli di conflitti nucleari, la crescita delle disuguaglianze e la morte ogni anno di milioni di persone per mancanza di alimentazione di base e di farmaci salva-vita, il dramma di centinaia di migliaia di migranti ciascuno dei quali fugge da una di queste catastrofi: dalle guerre, dalla fame, dalle persecuzioni, dai disastri ambientali. A nessuna di queste sfide vengono date risposte sensate. Siamo di fronte, al contrario, a una crisi della ragione, a una crisi del diritto, a una crisi della democrazia e a una crisi della politica.
Anzitutto a una crisi della ragione. Negli Stati Uniti abbiamo un presidente pregiudicato e condannato per gravi delitti, che sta distruggendo lo stato di diritto e la democrazia del suo paese; che taglia i già scarsi fondi al modestissimo welfare statunitense, attacca le università e chiama “illegali” i giornalisti e i giornali che lo criticano; che ha abbandonato l’Ucraina, progettandone la resa e pretendendo la restituzione dei finanziamenti della resistenza che proprio gli Usa avevano pesantemente sollecitato e, cosa ancor più abietta, progetta una gigantesca pulizia etnia: l’espulsione di due milioni di palestinesi dalla striscia di Gaza dopo la carneficina messa in atto da Netanyahu.
Ebbene, una risposta sensata e razionale dell’Europa a questa rottura dell’Alleanza atlantica e all’umiliazione inflitta da Trump all’intera Unione Europea, avrebbe dovuto essere un’autonoma iniziativa di pace nei confronti della Russia, all’insegna del graduale disarmo reciproco e delle reciproche garanzie di sicurezza. Si sarebbe ottenuta una pace sicuramente più vantaggiosa per l’Ucraina del progetto di spartizione che stanno trattando Trump e Putin. E invece si procede a una corsa insensata a nuovi armamenti: allo stanziamento di ben 800 miliardi voluti da Ursula von der Leyen per il riarmo, mentre Macron progetta l’invio in Ucraina di forze europee e la Germania cambia la sua costituzione per investire in armamenti centinaia di miliardi. Stiamo giocando col fuoco. Le odierne spese militari dei paesi dell’Unione sono già oggi il triplo di quelle russe, ma nessun aumento potrebbe portarle all’altezza delle 6.000 testate nucleari di Putin. Questo riarmo è dunque una follia: è caduto il tabù della guerra nucleare e si ipotizza con leggerezza uno scontro tra l’Unione Europa e la Russia che finirebbe per deflagrare nella distruzione dell’Europa.
Siamo di fronte, in secondo luogo, a una crisi del diritto: del diritto internazionale e del diritto costituzionale. I nuovi autocrati del mondo – Trump e Putin, Erdogan e Netanyahu – ignorano il diritto e i diritti e conoscono solo il diritto del più forte. Anzi, disprezzano il diritto, le costituzioni, le separazioni dei poteri come illegittimi limiti ai loro poteri che intendono come assoluti. L’aspetto più impressionante del fenomeno Trump consiste nell’ostentazione di questo disprezzo del diritto, di questa pretesa di essere investito di pieni poteri e dell’aperta disumanità dei suoi provvedimenti esecutivi, firmati tutti davanti alle telecamere.
Nel momento in cui la crescita delle disuguaglianze globali e il collasso del nostro ambiente naturale – la riduzione della biodiversità, il riscaldamento climatico, le pandemie incontrollate, la distruzione delle faglie acquifere e gli inquinamenti dell’aria, dell’acqua e del suolo – richiederebbero, per essere fronteggiati, un aumento della complessità istituzionale e del ruolo del diritto quale sistema di regole imposte ai poteri selvaggi della politica e dell’economia, si sta producendo, paradossalmente, il fenomeno esattamente opposto: la semplificazione e la personalizzazione dei sistemi politici che stanno riducendosi alla sovranità di pochi padroni del mondo.
Siamo di fronte, in terzo luogo, a un collasso delle nostre democrazie, in questi ultimi 30 anni svuotate dalla globalizzazione, sia nelle forme che nei contenuti. A causa dell’asimmetria tra il carattere globale dei poteri economici e il carattere locale dei poteri politici, si è capovolto il rapporto tra politica ed economia. Non sono più i governi che garantiscono la concorrenza tra le imprese, ma sono le grandi imprese che mettono i governi in una concorrenza al ribasso, spostando i loro investimenti dove possono meglio sfruttare il lavoro, devastare l’ambiente, corrompere i governi e non pagare le imposte. I mercati si sono così trasformati negli odierni sovrani assoluti, invisibili e impersonali, dai quali provengono le maggiori aggressioni alla civile convivenza: le guerre, promosse anche dalla pressione delle grandi società produttrici di armi; il riscaldamento climatico, provocato dallo sviluppo industriale ecologicamente insostenibile; la crescita delle disuguaglianze e delle povertà, determinata dall’imposizione della riduzione delle imposte sui ricchi e delle spese sociali a beneficio dei poveri; il dramma dei migranti e lo sfruttamento crescente del lavoro, tramite la schiavizzazione dei lavoratori nei paesi poveri e, nei nostri paesi, dei lavoratori immigrati tenuti in condizioni di irregolarità e di precarietà.
Ma non avevamo ancora toccato il fondo. Oggi stiamo assistendo a una quarta crisi, quella della politica, che si manifesta in un’ulteriore regressione del capitalismo. La subalternità della politica ai mercati generata dalla globalizzazione manteneva pur sempre la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata. Questa distinzione sta progressivamente venendo meno. Oggi i grandi multimiliardari sono insofferenti dell’esistenza stessa di una sfera pubblica, sia pure subalterna ai loro interessi, e vogliono sbarazzarsene. Sono i nuovi padroni del mondo e non si preoccupano di nasconderlo. Alla politica e alla sfera pubblica questi nuovi padroni del mondo lasciano solamente il ruolo dell’organizzazione delle elezioni e delle campagne elettorali al fine di legittimare come democratici i nuovi assetti di potere e il compito di reprimere il dissenso. E’ un’involuzione pre-moderna, che consente di parlare di un neo-feudalesimo capitalista, caratterizzato dalla concentrazione, nelle mani delle stesse persone di poteri economici e di poteri politici, di proprietà e sovranità, di sfera pubblica e sfera privata, non diversamente da quanto accadeva nelle società feudali.
Il fenomeno Musk, proprietario di 7.000 satelliti destinati a diventare 12.000 che orbitano intorno al nostro pianeta e gestiscono a livello globale le importantissime funzioni in materia di informazione e di comunicazione, è emblematico. Esso ci ha messo di fronte a un fatto terribile e minaccioso: la proprietà privata di beni fondamentali della sfera pubblica, e perciò un potere immenso, senza regole né controlli, che prefigura un mutamento di regime consistente nel dominio diretto, senza neppure la mediazione della politica, da parte di pochi miliardari. Si è infatti ignorato e violato il Trattato sulle attività nello spazio extra-atmosferico, concluso a Washington il 27 gennaio 1967 e approvato da quasi tutti i paesi membri dell’Onu, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’Italia che l’hanno ratificato rispettivamente il 10 ottobre 1967 e il 18 gennaio1981. Il primo articolo di questo trattato stabilisce: “L’esplorazione e l’utilizzazione dello spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, saranno svolte a beneficio e nell’interesse di tutti i paesi, quale che sia il grado del loro sviluppo economico o scientifico, e saranno appannaggio dell’intera umanità”. E’ una norma chiarissima, clamorosamente violata dal quasi monopolio dello spazio acquisito di fatto da Elon Musk. Gran parte dei satelliti in orbita intorno al nostro pianeta sono infatti satelliti Starlink, di sua proprietà.
È avvenuta, in breve, un’appropriazione privata dello spazio pubblico extra-atmosferico, che fa di Musk la persona non solo più ricca (473 miliardi di dollari), ma anche più potente del mondo. E’ una mutazione dello stesso capitalismo neoliberista, che fino ad oggi ha devastato la sfera pubblica e sottomesso la politica all’economia, mantenendo tuttavia la separazione formale tra le due sfere. Il fenomeno Musk segnala un’ulteriore involuzione: una regressione allo stato patrimoniale dell’età feudale, quando la politica non si era separata dall’economia quale sfera pubblica ad essa sopraordinata. Oggi siamo di fronte al diretto governo privato e al tempo stesso globale di settori fondamentali della vita civile e della vita pubblica. Sfera pubblica, separazione dei poteri e diritti fondamentali sono concetti ad esso estranei e con esso incompatibili.
È chiaro che queste sfide globali, se non vogliamo che democrazia e diritti perdano di senso, richiedono risposte globali. Siamo soliti dire che abbiamo la costituzione più bella del mondo. Ma questa costituzione, come tutte le altre costituzioni nazionali, valgono all’interno dei nostri Stati, ma sono del tutto impotenti di fronte ai problemi globali. Abbiamo anche un’embrionale costituzione del mondo, formata dalla carta dell’Onu e dalle tante carte internazionali dei diritti umani. Ma queste carte sono fallite, dato che promettono pace e diritti umani senza introdurre le relative garanzie, cioè i divieti e gli obblighi corrispondenti ai principi proclamati. Si riducono, quindi, a enunciazioni di principio, formule retoriche, screditate purtroppo dalle loro sistematiche violazioni.
Per tutto questo, la nostra associazione Costituente Terra propone una risposta alle crisi e ai drammatici problemi globali che può apparire utopistica, e che invece è l’unica risposta realistica: prendere sul serio i principi del diritto internazionale vigente – la pace, l’uguaglianza e i diritti fondamentali stabiliti nella carta dell’Onu e in tante carte dei diritti umani – e mobilitare l’opinione pubblica mondiale a sostegno di una Costituzione della Terra che introduca le garanzie e le istituzioni di garanzia in grado di renderli effettivi. La prima garanzia è quella della pace, e consiste nella proibizione e nella punizione come crimini gravissimi della produzione e del commercio delle armi – non solo delle armi nucleari ma di tutte le armi da fuoco – e perciò la messa fuori legge delle attuali imprese produttrici di armi, corresponsabili moralmente di ogni guerra e di ogni assassinio. Senza le armi le guerre sarebbero impossibili e il numero degli omicidi – oggi quasi mezzo milione – crollerebbe. A garanzia dell’ambiente dovrebbero essere istituito un demanio planetario, in grado di sottrarre al mercato e alla dissipazione beni vitali della natura come l’acqua potabile, le grandi foreste e i grandi ghiacciai. Dovrebbero infine essere istituiti, a garanzia dei diritti alla salute, all’istruzione e alla sussistenza, servizi sanitari, scolastici e assistenziali globali, finanziati da un fisco globale progressivo sulle attuali ricchezze multi-miliardarie. Non si tratta di un’utopia. La creazione, in un mondo sempre più integrato e interdipendente, di una Federazione mondiale basata su una tale Costituzione della Terra è la sola alternativa razionale e realistica a catastrofi globali il cui esito ultimo potrebbe consistere nell’estinzione delle condizioni di vita sul nostro pianeta e nella scomparsa del genere umano.
Frattanto Costituente Terra ha deciso di promuovere una class action di carattere per così dire universale e planetario contro Musk per indebito arricchimento. Le class actions sono azioni collettive che possono essere promosse da tutte le persone accomunate dalla lesione dei medesimi diritti. In questo caso l’insieme di persone titolari dei diritti lesi è l’intera umanità. Ebbene, esiste già, grazie al trattato del 1967 sugli spazi extra-atmosferici, qualificati come “appannaggio dell’intera umanità” la cui utilizzazione va fatta a beneficio di tutti i paesi del mondo, un frammento del demanio planetario previsto dal nostro progetto di una costituzione della Terra. Di qui la possibilità di un’azione giudiziaria diretta non solo ad accertare l’indebito arricchimento ottenuto da Musk dall’utilizzazione di un bene comune dell’intera umanità, ma anche a sollevare il problema politico dell’indebita privatizzazione di un pezzo enormemente importante della sfera pubblica.
Ma è soprattutto la mobilitazione massiccia dell’opinione pubblica la migliore difesa contro le crisi in atto della ragione, del diritto e della democrazia. Per questo sono estremamente importanti i cinque referendum abrogativi organizzati dalla CGIL per l’8 e il 9 giugno di quest’anno: perché essi prefigurano una risposta di massa a questo fascio-liberismo globale, in grado di ristabilire i diritti da esso negati. Sono referendum importanti non soltanto per i loro contenuti: contro la libertà di licenziamento, contro la precarietà del lavoro, a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro e a favore della riduzione da 10 a 5 anni del periodo di residenza legale necessario per ottenere la cittadinanza italiana. Sono importanti anche per mostrare l’esistenza di un’altra Italia: di un’Italia civile contro l’Italia incivile della Meloni; di un’Italia antifascista contro l’Italia neo-fascista espressa dall’attuale governo; di un’Italia del lavoro e della solidarietà contro l’Italia dei padroni e degli evasori fiscali; di un’Italia costituzionale, impegnata nella difesa dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti, che sono tutti altrettante leggi dei più deboli contro la legge del più forte che si afferma quando essi vengono violati o vengono meno le loro garanzie.
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