Editoriali

Perché manifestare per l’Europa con le bandiere della pace

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Perché manifestare per l’Europa con le bandiere della pace
14/03/2025
(Da “il manifesto” del 11/03/2025) Verso il 15 marzo. Si possono condividere gli argomenti critici proposti da questo giornale a riguardo della manifestazione per l’Europa promossa dall’appello di Michele Serra, eppure decidere di partecipare ugualmente.

Luigi Ferrajoli per il NOdi Luigi Ferrajoli

Perché farlo? Per impedire all’Europa delle armi, voluta dalle von der Leyen e dai Macron, di proporsi come la sola Europa esistente.
Per manifestare l’esistenza di un’altra idea dell’Europa: quella, sicuramente maggioritaria, che vede nell’Europa il luogo delle democrazie costituzionali, delle separazioni dei poteri, dell’“unità nelle diversità” secondo la massima adottata nel 2000 dall’Unione, cioè dell’uguaglianza e, soprattutto, della pacifica convivenza.
È GIUSTO PARTECIPARE anche per molte altre, importanti ragioni: perché l’Europa, non solo la nostra ma anche quella delle von der Leyen e dei Macron, è oggi aggredita da tutti i reazionari e i fascisti dell’Occidente, che vogliono distruggere la sua residua identità democratica; perché contro i fascisti, in crescita in tutto il mondo, qualunque alleanza è doverosa; perché manifestare in difesa dell’Unione europea, pur con tutti i suoi limiti gravissimi, vuol dire oggi manifestare contro Trump, contro Musk, contro Milei, contro Meloni e contro tutti i sovranismi e le derive autocratiche e parafasciste in atto in tutto l’Occidente; perché l’Europa, grazie alla straordinaria convivenza pacifica che ha realizzato tra 27 paesi con 23 lingue diverse e un passato di guerre e di contrapposti imperialismi, ha mostrato che un’integrazione tra diversi è possibile, anche per l’intera umanità; perché quindi, nell’Unione europea, vediamo una tappa esemplare del processo di unificazione del genere umano perseguito da Costituente Terra, sulla base dei due valori che essa – come l’Onu, parimenti sotto attacco – pose alla base della sua fondazione: la pace e l’uguaglianza.
Sappiamo bene che ormai da molti anni l’Europa ha rinnegato se stessa, negando e violando questi due valori costitutivi: la pace, con l’insensata politica bellicista e l’assurda corsa a nuovi armamenti, e l’uguaglianza, con le sue politiche disumane contro i migranti e il razzismo alimentato dalla riapparizione in Europa della figura della persona illegale e clandestina per la sola colpa di esistere.
Ma proprio per questo, per difendere questi due valori e, insieme, i valori della legalità, delle separazioni dei poteri, dei limiti e dei vincoli ai poteri selvaggi dei nuovi padroni del mondo, è oggi necessario manifestare in difesa dell’Europa, che su quei valori è nata e a quei valori vogliamo che torni ad ancorarsi.
SOLO QUEST’ALTRA Europa, opposta a quella espressa dall’opzione dissennata per sempre nuovi armamenti, può oggi emanciparsi dalla subalternità agli Stati Uniti e promuovere un’autonoma iniziativa di pace nei confronti della Russia, basata non già sul riarmo ma sul disarmo e su reciproche garanzie di sicurezza, in vista di un progressivo ritorno della Russia nella sua casa europea.
È stato l’osceno ricatto di Trump che ha mostrato, insieme al fallimento di tre anni di politiche europee, quella che è un’assoluta ovvietà: che la garanzia della sicurezza proviene non già dal riarmo, che segnala ostilità, sfiducia e aggressività nei confronti della Russia, concepita aprioristicamente come nemico, bensì dalla disponibilità a un progressivo disarmo, che al contrario attesta la volontà di pace e sollecita l’analoga volontà e l’identico interesse della controparte.
E’ infatti chiaro che l’ulteriore corsa a nuovi armamenti – una corsa ininterrotta da oltre 20 anni – mentre non potrà mai portarsi all’altezza delle 6.000 testate nucleari di cui è in possesso la Russia, avrà il solo effetto di sottrarre alla sanità, all’istruzione e alla sussistenza gli 800 miliardi che si vuole siano ad essa destinati.
Manifestare per l’Europa vuol dire anche, perciò, manifestare a sostegno di quello stato sociale che solo in Europa si è realizzato in nome dell’uguaglianza, e che oggi Trump e le destre di tutto il mondo vogliono distruggere.
VUOL DIRE CONTRAPPORRE, al volto feroce ed ostile delle armi e dell’abbattimento dello stato sociale perseguito dalle politiche liberiste dei nostri governi, il volto benefico e civile dell’Europa della pace, dell’uguaglianza e della garanzia dei diritti e della dignità delle persone.
L’Europa con il primo volto è destinata a disgregarsi, non solo perché maggiormente esposta alla minaccia della guerra, ma anche per l’inevitabile conflittualità tra opposti sovranismi e per la perdita del consenso popolare.
Solo se assumerà il secondo volto, finanziando istituzioni europee di garanzia dei diritti sociali sussidiarie rispetto a quelle nazionali e promuovendo un disarmo globale e totale che renda impossibili tutte le guerre, l’Europa è destinata non solo a sopravvivere e a diventare popolare tra i cittadini europei, ma anche a proporsi come un modello di civiltà per il resto del mondo e ad attestare che una Federazione della Terra è possibile, oltre che necessaria ed urgente.
Ma questo secondo volto non può rimanere nascosto, coperto, assente, inespresso. Va, appunto, manifestato ed esibito con le bandiere della pace. Per mostrare che solo da esso, e non certo da un’illusoria potenza militare, dipendono il prestigio e l’autorevolezza politica dell’Europa.
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“Salvare l’Europa, riparare il mondo”

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LE DUE AGGRESSIONI
di Raniero La Valle

Cari Amici,

forse è arrivato ora, in questi primi mesi del 2025, quel “cambiamento d’epoca” che papa Francesco aveva evocato in un profetico discorso alla Curia romana per il Natale 2019. Con la conversione ad U della politica americana ad opera di Trump, a cominciare dai rapporti con la Russia, tutti i discorsi che continuano i discorsi di prima, che usano le categorie di giudizio usate finora, che sbandierano le bandiere già sventolate, appaiono privi di senso, prima ancora che di consapevolezza storica. Ciò si verifica prima di tutto in Europa, i cui governanti sembrano impazziti, da Macron che promette gentilmente di mettere a disposizione la sua force de frappe nucleare, a sir Keir Starmer che l’”Economist” e “Repubblica” celebrano come il nuovo Churchill perché proprio lui, che è uscito dall’Europa, dovrà guidare di nuovo l’Europa alla vittoria, a Ursula von der Leyen che indice la campagna europea per la “pace attraverso la forza” e chiede agli Stati dell’Unione i soldi per le armi, come una volta si indicevano le Crociate e si chiedeva alle Potenze cristiane di finanziarle, benché il cambiamento consista precisamente nel fatto che, come diceva il Papa, “non siamo più in quell’epoca. E’ passata. Non siamo nella cristianità, non più”.

Sicché accade quello che ha descritto Marco Revelli in un lucido articolo su “Volere la luna”: mentre il mondo ruota di 180 gradi sul proprio asse, “tutti i riferimenti mutano di posto e di segno. Bene e male, giusto e ingiusto, amico e nemico, virtù e vizio, i termini polari di tutte le antitesi si scambiano di posizione. Ne è un sintomo la moltiplicazione dei paradossi. Come quello, ad esempio, per cui gli argomenti dei critici della guerra definiti fino a ieri spregiativamente come “anti-americani” si ripresentano oggi come “Voce dell’America” senza che nessuno faccia un plissé”, e come gli altri paradossi di questa nuova Babele.

Dunque, la prima operazione da fare sarebbe di rimettere le cose nella loro casella giusta, o per lo meno di smettere di insistere con le caselle sbagliate. Per esempio riguardo alla questione da cui oggi dipende tutto il resto: la questione del discernimento tra aggressore e aggredito. Si deve partire da una verità finora non ammessa, ma ormai acquisita: tutti dicono che avendo l’America di Trump tolto all’Ucraina il supporto della sua “Intelligence”, l’Ucraina non può più difendersi e quindi non può continuare la guerra senza subire una clamorosa sconfitta. Ciò vuol dire che la vera guerra, a parte il sangue dei caduti, era l’America a farla, che dirigeva e controllava tutte le operazioni, oltre che metterci dollari ed armi, ragione per cui la guerra è durata tre anni, nonostante lo scarto di potenza tra i due nemici ufficiali, Ucraina e Russia. Ma gli Stati Uniti non erano stati aggrediti dalla Russia; dunque se erano loro a fare la guerra alla Russia, si scambiano le parti, e anche la Russia figura per aggredita, come del resto ha sempre sostenuto giustificando la sua guerra con la minaccia della NATO ai suoi confini, e come il prof. Sachs ha documentato nel suo discorso al Parlamento europeo. Allora non si capisce perché nel momento in cui l’America di Trump vuole ritirarsi dalla guerra e spinge Zelensky a fare altrettanto, non ci si rallegra per la fine dell’aggressione americana, e della NATO al seguito, così come giustamente si depreca l’aggressione russa. Questa è la ragione per cui, checché ne pensino i fautori della vittoria dell’Ucraina e della sconfitta della Russia, a cominciare dall’improbabile Europa di Ursula von der Leyen, questa guerra deve e può finire subito. Del resto ciò conferma la teoria (di René Girard, e non solo) secondo cui la guerra è sempre una guerra dei doppi, amici e nemici sono eguali, si rassomigliano fino a confondersi, e la pace consiste nel cessare le rispettive, e in questo caso conclamate, reciproche aggressioni.

Ma a questo punto si pone il vero problema, che sarebbe una follia non affrontare subito: che mondo, se quello di prima finisce, vogliamo fare? Ossia qual è il nostro futuro? È questo il vero problema politico dell’Europa, e in ogni caso qui, da noi, per l’Italia.

Di questo, d’ora in poi, dovremo discutere. Forse non è più il mondo di cui una sola Potenza, o un sistema di Potenze (come la NATO, o “l’Occidente”) pretenda il dominio, ma è un mondo finalmente multipolare, dove l’India abbia la stessa dignità degli Stati Uniti, e il Brasile della Russia; e prima di tutto non ci siano scempi come quelli di Gaza, della Cisgiordania, della Siria, del Congo.

Con i più cordiali saluti

PRIMA LORO (Raniero La Valle)

P.S. Nel sito “Prima loro” pubblichiamo ancora l’appello “Che fare? Salvare l’Europa, riparare il mondo” con le relative firme, a cui altre si possono aggiungere, e due interventi o, se si vuole, ricette per la pace, di Jeffrey Sachs, che si aggiungono al suo discorso (anche questo nel sito) ai deputati europei: un articolo che sostiene che “L’accordo può essere firmato immediatamente” e un’intervista su “Il fatto quotidiano”: “Non armi nucleari ma dialogo con Putin”. Pubblichiamo anche un saggio di Riccardo Petrella sul “sistema America”, visto come “un pericolo per il mondo intero”, tanto più ora, dopo l’avvento di Trump.

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CHE FARE?
Salvare l’Europa, riparare il mondo

Marzo 4, 2025
Un appello per un più equilibrato giudizio sui fatti trascorsi e per aprire un cantiere di proposte per dare soluzione alle crisi in atto e creare le condizioni di un mondo diverso. L’Italia come soggetto politico innovativo.
Le nuove politiche di Trump, a prescindere dal giudizio che ciascuno ne può dare sul piano politico, culturale o religioso, mettono l’Europa in condizioni di massima emergenza e di transizione epocale.

Il rovesciamento improvviso della postura americana, al di là di ogni recriminazione o protesta, richiede in ogni caso un altrettanto rapido riassestamento della posizione europea e fa venir meno il vincolo di una lineare continuità con le politiche precedenti. Guerra, riarmo e entusiasmo per il massacro non possono essere la risposta europea alla crisi dei rapporti con Washington, che venga da Londra, da Parigi o da Kiev.

Ciò considerato, ricade sui cittadini europei, e in ogni caso sui cittadini italiani, il compito di cercare le strade della pace e di proporre specifiche politiche capaci di aprire alla speranza e all’alternativa di un mondo diverso.

In particolare si potrebbero fare le seguenti proposte:

Stabilire una moratoria nello scontro politico tra i partiti, senza nulla togliere ai progetti e alle identità di ciascuno nella tradizionale distinzione di destra e sinistra o di maggioranza e opposizione, ai fini di una condotta internazionale il più possibile condivisa.
Indire una Conferenza programmatica in cui discutere con l’apporto di componenti della società civile e la presenza del governo come osservatore, il tema “Salvare l’Europa, riparare il mondo”.
Investire sulla prospettiva che l’Italia, come soggetto politico protagonista della vita internazionale in condizioni di eguaglianza con le altre “nazioni grandi e piccole” a norma dello Statuto dell’ONU, possa promuovere a livello mondiale politiche di risanamento di interesse comune.
Discutere e sostenere in tutte le sedi opportune le seguenti scelte:
Che anche l’Europa, pur confermando la propria riprovazione per la violazione del diritto internazionale perpetrata dalla Federazione Russa col dare inizio alla guerra d’Ucraina, al pari degli Stati Uniti apra un immediato dialogo con la Russia per il ristabilimento di rapporti normali tra loro, prendendo atto che non risulta confermato il luogo comune delle minacciate future aggressioni da parte russa. Tali rinnovati rapporti dovrebbero partire da una rimozione delle sanzioni e da una revoca delle ostilità in corso in Ucraina. Ai fini di una bonifica del linguaggio di ostilità e di odio ancora corrente nei media, andrebbero riprese in esame le cause della guerra e il conclamato dualismo di “aggressore-aggredito”, tenendo conto delle rivelazioni in proposito fatte dal prof. Jeffrey Sachs al Parlamento europeo.
Avviare negoziati tra l’Unione Europea e la Russia, quale storica appartenente all’unica Europa, per il suo ingresso nell’Unione Europea, adeguatamente riformata a questo scopo nelle sue istituzioni e nelle sue procedure, in armonia con gli ideali originari perseguiti con l’unità europea e secondo l’auspicio già enunciato nel 1959 da De Gaulle di un’Europa dall’Atlantico agli Urali. Tale processo farebbe venir meno la pretesa di un incremento delle spese militari (fino a 800 miliardi!), lesivo del benessere delle popolazioni europee, e di una militarizzazione dell’Unione, a partire da un esercito europeo, come se l’Europa dovesse obbedire alle passate ideologie degli Stati identificati come tali dal diritto di guerra. Ai fini di una pacificazione dei cuori andrebbero promossi centri associativi di amicizia Italia-Russia, nella riscoperta della ricchezza delle tradizioni comuni.
Contrastare l’imposizione all’Ucraina di risarcimenti in “terre rare” o in denaro, per gli aiuti militari ricevuti in questi anni per la sua difesa, compresi quelli forniti dall’Italia. Al contrario, va sostenuto anche in sede europea che alla martoriata Ucraina si debba una riparazione e un pur tardivo rammarico per averla indotta a perpetuare una guerra ad oltranza e a inseguire una vittoria non sua a beneficio di Potenze ad essa estranee.
Negoziare con la Federazione Russa un assetto di pace definitiva in Europa che comprenda garanzie di reciproca sicurezza tra tutti i Paesi coinvolti nelle presenti ostilità e reduci dalla vecchia contrapposizione tra Est ed Ovest, nello spirito del vecchio Atto finale di Helsinki. Assistere Ucraina e Russia per conseguire un regolamento territoriale tra loro anche mediante l’instaurazione di autonomie nei territori contesi a salvaguardia del diritto e dell’autodeterminazione dei popoli, secondo modelli già sperimentati come ad esempio è avvenuto con la popolazione di origine tedesca in Alto Adige.
Disarmare le testate nucleari presenti in Europa e nel mondo, in modo progressivo e in proporzione a misure analoghe da parte della Russia e delle altre Potenze nucleari. Tale smantellamento genera significative ricadute economiche attuando le uniche possibili procedure che, anche grazie ad apporti scientifici italiani, sono state seguite per la riduzione delle testate nucleari dalle circa 70.0000 dell’epoca della guerra fredda alle circa 13.000 attuali. Occorre incentivare nel contempo il regime di non proliferazione nucleare, per giungere infine a un generale disarmo.
Ultimo ma non ultimo, promuovere una soluzione innovativa della “questione palestinese”, attraverso una rinnovata solidarietà ad Israele per lo scempio subito con gli attentati del 7 ottobre e la detenzione degli ostaggi, e ai palestinesi per la devastazione e gli eccidi perpetrati contro di loro a Gaza e la sempre più grave repressione in Cisgiordania. Ai palestinesi si deve assicurare un futuro non solo scongiurando la pulizia etnica e la minaccia di espulsione della intera popolazione residente da Gaza, condannate anche da centinaia di ebrei italiani, ma pure cancellando l’offesa ricevuta mediante i grotteschi progetti di colonizzazione balneare di quella riviera mediterranea. In prospettiva, si deve purtroppo prendere atto che la soluzione dei due Stati si è resa impossibile per le politiche di insediamento e repressione di Israele. Si potrebbe tuttavia aprire una fase di transizione nella quale sui Territori occupati l’ONU assumesse il mandato, sull’esempio dei vecchi mandati di un tempo, di presiedere e dar vita a uno Stato di Palestina con Gerusalemme est come capitale, uno Stato, però, a differenza di Israele, plurietnico multireligioso e democratico, accogliente per Ebrei e Palestinesi, che possa evolvere fino a diventare con Israele un unico Stato, sede di due popoli tra loro riconciliati, di due ordinamenti tra loro connessi e integrati e di più religioni, egualmente riconosciute come patrimonio originario delle rispettive comunità, sotto l’autorità di uno statuto civile di democrazia eguaglianza e pace.
Altre scelte, come ad esempio sulle migrazioni o il degrado ecologico, dovranno essere contemplate nella progettazione del futuro.
La natura inedita, ma realistica e possibile, delle soluzioni così proposte, proiettata sul piano internazionale potrebbe condurre a un nuovo assetto pacifico e costituzionalmente protetto della intera comunità mondiale, in alternativa al sistema di guerra e al rischio della fine.

“Comitati Dossetti per la Costituzione”, “Prima Loro”, “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”, Raniero La Valle, Giovanna Canavesi, Enrico Peyretti Mario Menin, direttore di “Missione Oggi”, Giuseppe Rotunno (“Civiltà dell’amore”), Comunità di Mambre, Domenico Gallo, Roberta De Monticelli, Roberto Savio, Stefania Tuzi, Sergio Castioni, Felice Scalia S.J., Francesco Di Matteo, Francesco Zanchini, Enrico Calamai, Luigi Maffezzoli, Giuseppe Castellese, Antonella Grimaldi, Giuseppe Riccio, Bianca Di Giovanni, Stella Velotta, Paolo Gini, Rita Podda, Domenico Di Modugno, Paolo Offer, Donatella Cornelio, Giulia Carrillo, Fabio Filippi, Maria Lacerenza, Diego Forlin, Grazia Viaggi, Rita Maria Orlando-Rylko, Giuseppe Moncada, Annunziata Venturelli, Vincenzo Pavan, Francesca Franca Mola, Paolo Zago, Vincenzo Leonoro , Paolo Bertagnolli, Anna Sabatini Scalmati, Antonino Mantineo, Paolo D’Amico, Francesco Comina, Marco Sironi, Francesco Domenico Capizzi, Eva Maio, Luis Orellana, Giovanni Spallanzani
(aperto alle firme)

4 marzo 2025

DISARM EUROPE! Sabato 15 marzo a Roma riuniamoci attorno alla bandiera della pace e del disarmo

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L’invasione russa dell’Ucraina è un crimine. Difendere l’Ucraina è giusto.

Difendere la legalità e il diritto internazionale è un dovere degli Stati. Sempre e ovunque. Senza usare due pesi e due misure. In Ucraina come a Gaza.

Ma continuare la guerra è il modo più sbagliato e inconcludente per farlo.

La guerra e la propaganda di guerra sono vietate dal diritto internazionale dei diritti umani.

L’Europa doveva prevenirla. E non l’ha fatto. Voleva vincerla. E non c’è riuscita. E ora vorrebbe trascinarci in una devastante corsa al riarmo che fatalmente finirà col distruggere anche quel che resta dell’Europa.

Che fare ora?

Non possiamo lasciare che la carneficina continui.

Non possiamo lasciare che l’Europa precipiti in uno stato di guerra permanente.

Non possiamo permetterci una folle e sconclusionata corsa al riarmo che alimenterà la disperazione, i nazionalismi e l’autoritarismo.

Non possiamo permetterci la militarizzazione delle nostre vite, dell’economia e dei nostri paesi.

Non possiamo lasciare che ci tolgano anche la salute, la libertà e la democrazia.

Siamo realisti!

Trump ha riaperto il negoziato con Putin. Non ci piace -per niente- il modo in cui lo sta facendo. Ma dobbiamo fermare la carneficina e le conquiste militari e salvare quel che resta dell’Ucraina.

Questo è il momento di fare quello che non è ancora stato fatto: “lavorare per la pace”. Anche se molti non sanno nemmeno cosa voglia dire.

Nel nome del rispetto della dignità di ogni persona e della vita umana, della legalità e del diritto internazionale; nel superiore interesse dei bambini e delle bambine, per il bene dell’umanità, l’Europa torni ad essere uno “strumento di pace”! Per noi, per tutti i popoli oppressi e per il mondo intero.

La via della pace -lo ripetiamo- è la via della legalità, del diritto internazionale e del multilateralismo. Ridiamo forza alle Nazioni Unite. Organizziamo una nuova Conferenza di Helsinki che, come 50 anni fa, dia nuovo avvio alla costruzione in Europa di un nuovo sistema di sicurezza comune, dall’Atlantico agli Urali, basato sul disarmo, i diritti umani, il diritto all’autodeterminazione dei popoli e i diritti delle minoranze. Costruiamo l’Economia di Francesco, l’economia della pace e della fraternità.

Non basterà dire “Europa, Europa” per evitare l’inferno (vedi il doc. del 3 marzo 2025). L’Europa riscopra la sua ragion d’essere e faccia quello per cui è stata creata: la pace. La bandiera dell’Europa e la bandiera della pace camminano insieme.

Marco Mascia, Presidente Centro Diritti Umani “Antonio Papisca” – Università di Padova

Flavio Lotti, Presidente Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace

10 marzo 2025

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Leggi cosa hanno detto Simone Veil e Alcide De Gasperi.

“Tutti i suoi Stati membri si trovano ora di fronte a tre grandi sfide: la sfida della pace, la sfida della libertà e la sfida della prosperità, e sembra chiaro che esse possano essere affrontate solo nella dimensione europea. Iniziamo con la sfida della pace. Il periodo di pace di cui abbiamo goduto in Europa è stato una fortuna incredibile, ma nessuno di noi dovrebbe sottovalutarne la fragilità. La nostra Assemblea ha una responsabilità fondamentale per mantenere la pace, che probabilmente è la risorsa più importante di tutta l’Europa. La tensione che prevale nel mondo di oggi rende questa responsabilità ancora più grave, e la legittimità conferita a questa Assemblea dall’elezione a suffragio universale, speriamo, ci aiuterà a farcene carico, e a diffondere questa nostra pace nel mondo esterno”. (Dal discorso di Simone Veil, Presidente del primo Parlamento europeo eletto a suffragio universale e diretto, 17 luglio 1979)

“Qualcuno ha detto che la federazione europea è un mito. È vero, è un mito nel senso soreliano. E se volete che un mito ci sia, ditemi un po’ quale mito dobbiamo dare alla nostra gioventù per quanto riguarda i rapporti fra Stato e Stato, l’avvenire della nostra Europa, l’avvenire del mondo, la sicurezza, la pace, se non questo sforzo verso l’unione? Volete il mito della dittatura, il mito della forza, il mito della propria bandiera, sia pure accompagnato dall’eroismo? Ma noi, allora, creeremmo di nuovo quel conflitto che porta fatalmente alla guerra. Io vi dico che questo mito è mito di pace; questa è la pace, questa è la strada che dobbiamo seguire”. (Dal discorso di Alcide De Gasperi al Senato della Repubblica, 15 novembre 1950)

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Dobbiamo ricostruire un’Europa di pace

Non basta dire “Europa, Europa…”
per evitare l’inferno

“Dobbiamo recuperare lo spirito di Ventotene e lo slancio pionieristico dei Padri Fondatori, che seppero mettere da parte le ostilità della guerra, porre fine ai guasti del nazionalismo dandoci un progetto capace di coniugare pace, democrazia, diritti, sviluppo e uguaglianza.” Discorso di insediamento del Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli (Strasburgo, 3 luglio 2019)

Cosa possiamo fare per salvare l’Unione Europea? Per promuovere l’Unione “politica”? Per colmare il gap esistente tra le ambizioni e la realtà?

Partiamo dal presupposto che siamo tutti d’accordo sul fatto che c’è bisogno di più Europa, soprattutto di più Europa “politica”. In molti lo stiamo ripetendo da diversi lustri, quanto meno dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine dell’era bipolare.

Il punto è: quale Europa “politica” vogliamo?

L’Europa che rilancia una folle corsa al riarmo o l’Europa che avvia un negoziato globale per la pace e la giustizia sociale internazionale?

L’Europa sonnambula che cammina verso il precipizio trascinando con se le popolazioni che dovrebbe servire o l’Europa determinata “a salvare le future generazioni dal flagello della guerra e a riaffermare la fede nei diritti fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana”?

L’Europa che lascia impuniti i crimini più atroci, quali i crimini di guerra e contro l’umanità o l’Europa che fa della giustizia penale internazionale una delle sue priorità?

L’Europa dei doppi standards – si alle sanzioni contro la Russia, no alle sanzioni contro Israele, si al mandato d’arresto internazionale contro Putin, no al mandato d’arresto internazionale contro Netanyahu – o l’Europa della legge uguale per tutti?

L’Europa che fa prevalere le criminali politiche neoliberiste sulla giustizia sociale, climatica e di genere o l’Europa che vuole dare piena attuazione agli obiettivi di sviluppo sostenibile entro il 2030 come previsto dall’Agenda delle Nazioni Unite?

L’Europa che alimenta la tumultuosa crescita dei partiti di estrema destra, cova nel suo seno i nazionalismi e costruisce muri ai suoi confini esterni, o l’Europa dei diritti fondamentali, dello stato sociale, della solidarietà, dell’accoglienza, dell’inclusione? E ancora.

L’Europa intergovernativa dell’unanimità e dei veti o l’Europa sopranazionale della maggioranza qualificata con un ruolo centrale del Parlamento europeo e del Comitato europeo delle Regioni e con un dialogo strutturato con le organizzazioni della società civile?

Quali sono i valori dell’Unione Europea? L’individuazione dei valori è fondamentale perché consente di capire le ragioni profonde che stanno alla radice del processo di integrazione sopranazionale europeo. Il prof. Antonio Papisca scriveva: “Il problema dei valori è il problema del perché dell’UE, della sua identità: l’Europa unita eventualmente si, ma à quoi faire?”

Qual è l’identità dell’Europa? Quella di difendere i rispettivi confini nazionali per evitare che le persone che cercano di fuggire dalle guerre e dalla fame possano arrivare da noi, o quella di spegnere gli incendi lavorando per la pace e il rispetto di tutti i diritti umani per tutti?

L’UE è sempre stata un attore civile (economico, commerciale, culturale). Un attore di soft power, a sostegno del diritto internazionale dei diritti umani, della diplomazia preventiva e del multilateralismo efficace, anche di fronte a minacce globali quali terrorismo, conflitti regionali, proliferazione di armi di distruzione di massa.

Per diventare un attore di hard power ci vogliono unità, visione, strategia, leadership, tutte caratteristiche che mancano all’UE. Ma soprattutto ci vogliono soldi, tanti soldi, che non ci sono o che bisogna togliere alla cura delle persone, della loro dignità e dei loro diritti fondamentali.

Oggi, l’UE è divisa. E’ divisa sulla politica estera, sulla politica di difesa, sullo sviluppo di una politica industriale in materia di armamenti, sulla politica di asilo e immigrazione, sulla politica della cittadinanza, sulla politica fiscale, sul green deal, ….

Ma non può esistere una politica comune di difesa senza una politica estera comune, senza una visione strategica di lungo periodo. Per esempio: quali saranno i rapporti dell’UE con la Russia quando la guerra sarà finita? Saranno rapporti fondati sul dialogo e la cooperazione o sulla deterrenza e il riarmo? La mancanza di una visione e di una volontà unitaria rimane dunque il problema centrale dell’UE.

* * *

Il futuro della pace e della sicurezza dell’Europa non può essere affidato alla follia di governanti che alimentano le guerre e una nuova spaventosa corsa al riarmo. Oggi c’è bisogno di una nuova Conferenza di Helsinki che, come nel 1975, riunisca tutti gli Stati del nostro continente e dia nuovo avvio alla costruzione in Europa di un sistema di sicurezza comune, dall’Atlantico agli Urali, basato sul disarmo, i diritti umani, il diritto all’autodeterminazione dei popoli e i diritti delle minoranze.

L’Europa deve ricominciare a lavorare per la pace, con coraggio, lungimiranza e creatività. Come fecero i Padri fondatori dell’Europa che, sulle macerie di due guerre mondiali, in un tempo di grandi sofferenze e divisioni, “osarono trasformare i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione”. Grazie a questo sforzo straordinario, l’Europa è stata un originale progetto e un grande esperimento di pace. Nessuno può permettersi di cancellare quella che è la prima ragion d’essere dell’Europa.

L’Europa che vogliamo ripudia la guerra, è fondata sulla pace e sui diritti umani, sulla dignità umana e sui diritti che le ineriscono, sui valori indivisibili e universali della libertà, della democrazia, dell’eguaglianza, della giustizia e della solidarietà.

L’Europa che vogliamo è aperta, democratica, solidale e nonviolenta. E’ l’Europa della convivialità e dell’interculturalità; un’Europa che è accoglienza di popoli, di lingue, di culture, di identità e di storie diverse; un’Europa che rifiuta il razzismo e la discriminazione in tutte le sue forme; che riconosce e rispetta i diritti dei migranti e il diritto d’asilo ai profughi e rifugiati in fuga dalla guerra, dalla violenza e dalla fame.

Abbiamo bisogno urgente di un’Europa di pace:

- decisa a riaffermare sé stessa come soggetto politico di pace, democratico e indipendente;
- determinata a costruire un ordine mondiale più giusto, pacifico e democratico centrato sulle Nazioni Unite e sul diritto internazionale dei diritti umani, sulla solidarietà e la cooperazione internazionale;
- decisa a contrastare la corsa al riarmo, a promuovere il disarmo e a combattere la fame, la sete, le malattie e la povertà promuovendo un’economia di pace e giustizia;
- impegnata a ridefinire coerentemente i suoi rapporti di amicizia e cooperazione con tutti i popoli e i paesi, a partire dai suoi vicini, con il mondo arabo e con il resto del mondo.

Abbiamo bisogno di un’Europa che sappia agire non in base alla legge della forza ma con la forza della legge. In questa prospettiva, l’Onu, istituzione multilaterale per antonomasia, è indispensabile per gestire l’ordine mondiale nel rispetto di “tutti i diritti umani per tutti” e per costruire un’economia di giustizia. C’è bisogno di una istituzione mondiale in cui tutti gli stati, grandi e piccoli, siano rappresentati e tutti i popoli, anche i più lontani e diseredati, possano far sentire la loro voce. Se l’UE è sincera nel proclamare oggi la centralità delle Nazioni Unite, occorre senza indugio che persegua il duplice obiettivo del potenziamento e della democratizzazione della massima organizzazione mondiale.

La via giuridica e istituzionale alla pace, con al centro l’architettura multilaterale e il diritto internazionale dei diritti umani generato all’indomani della Seconda guerra mondiale, è la bussola che l’Unione Europea deve seguire se vuole continuare ad esistere.

Marco Mascia, Presidente Centro Diritti Umani “Antonio Papisca” – Università di Padova

Flavio Lotti, Presidente Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace

3 marzo 2025
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Disimparare la guerra
ReArm Europe: un suicidio per l’Europa

10/03/2025 su Costituente Terra
Con l’approvazione del “ReArm Europe”: il Consiglio europeo, cioè i 27 capi di stato e di governo, accettando la proposta sconsiderata della Von Der Leyen, aprono la strada al suicidio dell’Europa.
Mimmo Rizzuti
Scrive Effrey Sachs a conclusione di un suo articolo di giovedì 6 marzo [ripubblicato da Aladinews]:
“È arrivato il momento per una diplomazia che garantisca la sicurezza collettiva in Europa, Ucraina e Russia. L’Europa dovrebbe aprire negoziati diretti con Mosca e spingere Russia e Ucraina a firmare un accordo basato sul comunicato di Istanbul del 29 marzo e sulla bozza di accordo del 15 aprile 2022. La pace in Ucraina deve essere seguita dalla creazione di un nuovo sistema di sicurezza collettiva per tutta l’Europa, da Londra agli urali e oltre.”
E questo può avvenire solo se si imbocca, anche con la mobilitazione e la presenza in tutte le piazze che rivendichino il ritorno ai principi e ai valori fondativi dell’Unione Europea, la strada, non già del riarmo dei singoli stati, che porterebbe a un’Europa fatalmente e tragicamente devastata da guerre – le ultime in ordine di tempo e le prime per distruzione e morte, dopo la prima e la seconda guerra mondiale del secolo scorso – ma quella di un nuovo patto tra popoli e stati, attraverso una costituzione della terra che riformi ONU e gli organismi internazionali e, soprattutto, introduca le garanzie e le istituzioni di garanzia che rendano effettive le enunciazioni di principio sulla pace, i diritti, la dignità e l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, i diritti dei lavoratori, l’accoglienza e l’inclusione dei migranti, la tutela della natura.
Una costituzione sovrannazionale, condivisa e garantita da tutti, in grado di porre limiti e controlli ai poteri selvaggi dei nuovi padroni del mondo, giacché una possibile apocalisse mondiale segnerebbe anche la loro fine. La storia insegna che la deterrenza non ha mai evitato tragedie immani.
“Se vuoi la pace prepara la pace e non la guerra.”
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Per un’iniziativa di pace dell’Europa

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di Luigi Ferrajoli

Non con i progetti ribaditi nel vertice di Londra: un aumento del potenziale militare europeo. Al contrario, dalla proposta di un progressivo disarmo dell’Europa e della Russia. Sarebbe una doverosa riparazione del fallimentare e insensato bellicismo dell’Ue di questi tre anni; e un contributo contro la prepotenza trumpiana.

L’incontro di Londra dei capi di governo europei ha confermato la sostanziale subalternità dell’Unione agli Stati Uniti e la sua opzione per ulteriori armamenti. Eppure l’Unione Europea avrebbe un mezzo sicuro per difendere l’Ucraina, dopo l’agguato teso da Trump a Zelensky, che è stato anche un’umiliazione inflitta all’Europa intera: promuovere nei confronti della Russia, unitamente all’Ucraina, una seria ed autonoma proposta di pace.

Certamente le condizioni odierne di una trattativa sono assai peggiori, per l’Ucraina, di quanto non fossero tre anni fa, allorquando naufragò, in Turchia, un accordo russo-ucraino sulla fine dell’aggressione in cambio della rinuncia dell’Ucraina a entrare nella Nato e della sua accettazione di uno stato di neutralità.

Ma è altrettanto chiaro che una pace proposta dall’Ucraina con il sostegno di tutti gli Stati europei sarebbe sicuramente più giusta, più onorevole e più vantaggiosa di quella che proverrebbe dalla resa incondizionata e dall’estorsione di terre rare e di altri minerali pretese da Trump e concordate con la Russia di Putin, con la sprezzante esclusione dalla partecipazione al negoziato dell’Unione Europea e della stessa Ucraina.

Naturalmente una simile iniziativa di pace, per essere accolta, dovrebbe essere accompagnata non certo, secondo i progetti ribaditi nell’incontro di Londra, da un aumento del potenziale militare europeo, bensì, esattamente al contrario, dalla proposta di un progressivo disarmo sia dell’Europa che della Russia, sul modello dei negoziati tra Reagan e Gorbaciov negli anni Ottanta, da un annullamento delle sanzioni e, soprattutto, da reciproche garanzie di sicurezza. Si tratterebbe di una svolta, che avrebbe anche il valore di una doverosa riparazione della fallimentare e insensata politica bellicista dell’Unione di questi tre anni. Sarebbe inoltre un contributo alla pace diametralmente opposto alla prepotenza trumpiana, che si manifesta nell’incredibile pretesa che l’Ucraina, dopo essere stata incoraggiata e finanziata anche dagli Usa nella sua resistenza all’aggressione, debba oggi restituire tali finanziamenti nei suoi minerali preziosi solo perché il governo statunitense ha cambiato politica alleandosi di fatto con la Russia di Putin.

Infine si tratterebbe, da parte dell’Unione Europea, della ripresa della sua opzione per la pace e del suo ruolo di pacificazione che, non dimentichiamo, rappresentano il principale fondamento della sua stessa istituzione. Questa opzione e questo ruolo sarebbero invece contraddetti dalla follia di un aumento, fino al raddoppio – addirittura fino al 5% del Pil, come pretende Trump, rispetto al nostro già elevatissimo 1,5% – delle spese miliari, con conseguente crollo delle spese sociali.

Una simile follia, in un mondo già pieno di armi micidiali, tra cui oltre 12.000 testate nucleari enormemente più potenti di quelle su Hiroshima e Nagasaki e in grado di distruggere centinaia di volte l’intera umanità, ha una sola spiegazione: la pressione sui nostri governi, e soprattutto su Trump, delle grandi imprese produttrici di armi, in gran parte statunitensi.

È proprio sul disarmo che sta svolgendosi in questi giorni, a New York, dal 3 al 7 marzo, la terza conferenza dei 122 Stati che hanno stipulato, il 17 luglio 2017, il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. A questa conferenza partecipa, a nome di Costituente Terra, la nostra Paola Paesano, che ad essa porterà le nostre tesi e le nostre proposte.

La proposta che avanzeremo è che i 122 Stati che hanno sottoscritto il trattato contro le armi nucleari, integrino tale trattato, oppure ne promuovano un altro sulla messa al bando di tutte le armi: non solo di quelle nucleari, ma anche di tutte le armi da fuoco.

Sarebbe questa la sola, effettiva garanzia della pace ed anche della sicurezza dalla criminalità armata. Solo la messa al bando globale e totale di tutte le armi, tramite un patto che, come stabilisce l’art. 53 del nostro progetto di Costituzione della Terra, preveda e punisca come crimini la loro produzioneedllimg_2148, il loro commercio e la loro detenzione può infatti rendere impossibili le guerre.

L’abolizione delle armi produrrebbe il passaggio della società internazionale dallo stato di natura allo stato di diritto, una generale civilizzazione del costume e delle relazioni sociali e la crescita della maturità intellettuale e morale dell’intera umanità. Il clima di pace che ne seguirebbe favorirebbe una rifondazione costituzionale dell’Onu, in grado di far fronte a tutte le altre sfide globali – il riscaldamento climatico e le crescenti disuguaglianze – dalla risposta alle quali dipende il futuro del genere umano.

I soli ostacoli sono quelli opposti dai giganteschi interessi delle industrie e del commercio delle armi e dai miserabili poteri politici ad essi asserviti o che di essi si servono a fini di potenza.

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Articolo pubblicato anche da Sbilanciamoci e da il manifesto del 5 marzo 2025
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Approfondimenti: https://retepacedisarmo.org/disarmo-nucleare/2025/le-organizzazioni-europee-di-ican-leuropa-sta-aprendo-le-porte-alla-proliferazione-nucleare/

Fermate il Mondo!

prima-loroUn discorso al Parlamento europeo
Geopolitica della pace
Marzo 4, 2025
Una severa analisi della politica americana dalla fine della guerra fredda fino a Trump. Sette guerre in cinque anni dopo le due Torri. La complicità con Netanyahu. Il progetto dell’espansione della NATO ad Est nonostante gli impegni formali di Stati Uniti e Germania. Le vere cause della guerra d’Ucraina.
schermata-2025-03-06-alle-20-16-12Jeffrey Sachs (1)

Pubblichiamo, con la presentazione che lo precede, il discorso tenuto a Strasburgo il 19 febbraio dall’americano prof. Jeffrey Sachs su invito del Parlamento europeo e il dialogo che ne è seguito

Invitato dal parlamentare europeo Michael von der Schulenberg a parlare nel quadro dell’incontro “The Geopolitics of Peace”, Jerry Sachs, economista e analista politico, già consigliere di Gorbaciov e di molti leader dell’Europa dell’Est, Special Advisor all’Onu dai tempi di Khofi Annan e attualmente di Antonio Guterres, autore fra l’altro del recente A New Foreign Policy – Beyond American Exceptionalism (2020), già direttore dello Earth Institute alla Columbia University dove ancora insegna, ha tenuto il 19 febbraio 2025 una relazione memorabile per lucidità e chiarezza, sviluppando la storia della politica USA dal crollo dell’Unione Sovietica fino all’elezione di Trump 2. Trentasei anni e più di esperienza diretta degli eventi (da interlocutore dei massimi leader di Russia, Ucraina, Polonia, Estonia, Jugoslavia, Repubblica Ceca – di nazionalità Ceca sono la moglie Sonia e i figli) si srotolano davanti a noi – increduli di fronte a questa testimonianza in prima persona dell’”oceano di ferocia e idiozia” (copyright Altiero Spinelli) che ha sommerso il lume acceso da Michail Gorbaciov (“il più grande statista del secolo”) in Europa. La sua preghiera la rivolge ai Parlamentari europei: riaccendete quel lume, è possibile. Confondere l’Unione europea con la Nato sarà letale, proprio ai fini della sicurezza europea. Diventate adulti. Dismettete la russofobia, datevi una vostra politica estera e una vostra sicurezza. Ma soprattutto, una Costituzione, e la memoria di ciò per cui l’Unione era nata. Grandi cose sono ancora possibili. L’ascolterà qualcuno, in Europa? (Roberta da Monticelli, da Phenomeny Lab).

Questo il discorso:

Viviamo in un momento complicato, in rapida evoluzione e molto pericoloso. Quindi, abbiamo davvero bisogno di chiarezza di pensiero. Io ho osservato molto da vicino gli eventi nell’Europa dell’Est, nell’ex Unione Sovietica, in Russia e in Ucraina, negli ultimi 36 anni. Sono stato consigliere del governo polacco nel 1989, del team economico del presidente Gorbaciov nel 1990 e 1991, del team economico del presidente Eltsin dal 1991 al 1993 e del team economico del presidente Kuchma in Ucraina dal 1993 al 1994. Ho contribuito a introdurre la valuta estone. Ho aiutato diversi Paesi dell’ex Jugoslavia, in particolare la Slovenia. Dopo Maidan (la piazza centrale di Kiev, luogo della rivolta del 2013), il nuovo governo mi ha chiesto di andare a Kiev, sono stato portato a Maidan, e ho imparato molte cose in prima persona. Sono in contatto con i leader russi da più di 30 anni. Conosco anche da vicino la leadership politica americana. La nostra ex Segretaria al Tesoro, Janet Yellen, è stata la mia meravigliosa insegnante di macroeconomia 52 anni fa. Siamo amici da mezzo secolo. Conosco queste persone. Dico questo perché quello che voglio spiegare dal mio punto di vista non è di seconda mano. Non è ideologia. È quello che ho visto con i miei occhi e sperimentato in questo periodo. Voglio condividere con voi la mia comprensione degli eventi che hanno colpito l’Europa in molti contesti, e includerò non solo la crisi dell’Ucraina, ma anche la Serbia del 1999, le guerre in Medio Oriente, tra cui l’Iraq, la Siria, le guerre in Africa, tra cui il Sudan, la Somalia, la Libia. Questi sono in misura molto significativa il risultato di politiche statunitensi profondamente sbagliate. Ciò che dirò potrebbe sorprendervi, ma parlo per esperienza e conoscenza di questi eventi.

La politica estera degli Stati Uniti
Queste sono guerre che gli Stati Uniti hanno condotto e causato. E questo è vero da più di 30 anni. Gli Stati Uniti sono giunti alla convinzione, soprattutto durante il 1990-91, e poi con la fine dell’Unione Sovietica, che gli Stati Uniti ora governano il mondo, e che gli Stati Uniti non devono prestare attenzione alle opinioni di nessuno, alle “linee rosse”, alle preoccupazioni, ai punti di vista sulla sicurezza, agli obblighi internazionali o al quadro delle Nazioni Unite. Mi dispiace dirlo così chiaramente, ma voglio che voi capiate.

Nel 1991 ho cercato in tutti i modi di ottenere un aiuto finanziario per Gorbaciov, che penso sia stato il più grande statista dei nostri tempi. Di recente ho letto il documento archiviato della discussione del Consiglio di Sicurezza Nazionale sulla mia proposta del 3 giugno 1991, e ho visto per la prima volta come la Casa Bianca abbia completamente respinto la mia richiesta che gli Stati Uniti aiutassero è l’Unione Sovietica con la stabilizzazione finanziaria e con aiuti finanziari per fare le sue riforme. Il documento attesta che il governo degli Stati Uniti ha deciso di fare il minimo per prevenire il disastro, ma solo il minimo (2). Hanno deciso che non è compito degli Stati Uniti aiutare. Al contrario (3).

Quando l’Unione Sovietica finì nel 1991, la visione divenne ancora più esagerata. E posso nominare capitoli e frasi, ma il punto di vista era che noi [gli Stati Uniti] conducevamo lo spettacolo. Cheney, Wolfowitz e molti altri nomi che avrete imparato a conoscere hanno letteralmente creduto che questo fosse ora un mondo degli Stati Uniti, e che noi avremmo fatto quello che vogliamo. Ripuliremo l’ex Unione Sovietica. Elimineremo tutti gli alleati rimasti dell’era sovietica. Paesi come l’Iraq, la Siria e così via se ne andranno. E stiamo vivendo questa politica estera da ormai essenzialmente 33 anni. L’Europa ha pagato un prezzo pesante per questo, perché in questo periodo non ha avuto alcuna politica estera che io possa capire. Nessuna voce, nessuna unità, nessuna chiarezza, nessun interesse europeo, solo lealtà americana.

Ci sono stati momenti in cui ci sono stati disaccordi e, credo, disaccordi molto belli. L’ultima volta che ciò è stato significativo è stato nel 2003, nel periodo precedente la guerra in Iraq, quando Francia e Germania hanno detto di non approvare che gli Stati Uniti aggirassero il Consiglio di Sicurezza dell’ONU per questa guerra. Quella guerra è stata direttamente inventata da Netanyahu e dai suoi colleghi del Pentagono degli Stati Uniti (4). Non sto dicendo che fosse un legame o una reciprocità. Sto dicendo che è stata una guerra condotta per Israele. È stata una guerra che Paul Wolfowitz e il sottosegretario agli Esteri Douglas Feith hanno coordinato con Netanyahu. E quella è stata l’ultima volta che l’Europa ha avuto una voce. Ho parlato con i leader europei allora, e sono stati molto chiari, ed è stato davvero meraviglioso sentire la loro opposizione a una guerra inaccettabile. L’Europa ha perso completamente la sua voce da allora, ma soprattutto nel 2008. Quello che è successo dopo il 1991, per arrivare al 2008, è che gli Stati Uniti hanno deciso che l’unipolarismo significava che la NATO si sarebbe allargata da Bruxelles a Vladivostok, passo dopo passo.

L‘espansione della Nato
Non ci sarebbe stata fine all’allargamento ad Est della NATO. Questo sarebbe il mondo unipolare degli Stati Uniti. Se da bambini giocate al gioco del Risiko come facevo io, questa è l’idea degli Stati Uniti: avere un pezzo su ogni parte della scacchiera. Qualsiasi luogo senza una base militare statunitense è fondamentalmente un nemico. Neutralità è una parolaccia nel lessico politico degli Stati Uniti, forse la parola più sporca secondo la mentalità degli Stati Uniti. Se sei un nemico, sappiamo che sei un nemico. Se sei neutrale, sei un sovversivo, perché sei contro di noi, ma semplicemente non ce lo dici. Stai solo fingendo di essere neutrale. Questa era davvero la mentalità, e la decisione fu presa formalmente nel 1994 quando il presidente Clinton firmò l’allargamento della NATO ad Est.

Ricorderete che il 7 febbraio 1990, il tedesco Hans-Dietrich Genscher e James Baker III parlarono con Gorbaciov. Genscher tenne una conferenza stampa in cui spiegò che la NATO non si sarebbe mossa verso Est. La Germania e gli Stati Uniti non avrebbero tratto vantaggio dalla dissoluzione del Patto di Varsavia. Capite, per favore, che questo impegno è stato preso in un contesto giuridico e diplomatico, non casuale. Questi impegni furono al centro dei negoziati per porre fine alla Seconda guerra mondiale e aprirono la strada alla riunificazione tedesca.

E’ stato raggiunto un accordo sul fatto che la NATO non si sarebbe mossa di un centimetro verso Est. Ed era esplicito, ed è in innumerevoli documenti. Basta cercare l’Archivio della Sicurezza Nazionale della George Washington University, e si possono ottenere dozzine di documenti (5). È un sito web chiamato “Cosa ha sentito Gorbaciov sulla NATO”. Date un’occhiata, per favore, perché tutto ciò che vi viene detto dagli Stati Uniti su questa promessa è una bugia, ma gli archivi sono perfettamente chiari.

Così, nel 1994 Clinton prese la decisione di espandere la NATO fino all’Ucraina. Si tratta di un progetto statunitense a lungo termine. Ciò non è dovuto a un’amministrazione o a un’altra. Questo è un progetto del governo degli Stati Uniti iniziato più di 30 anni fa. Nel 1997, Zbigniew Brzezinski scrisse La Grande Scacchiera, in cui ha descritto l’allargamento della NATO verso Est.

Quel libro non è solo le riflessioni del signor Brzezinski. È la sua presentazione al pubblico di decisioni già prese dal governo degli Stati Uniti, che è il modo in cui funziona un libro come questo. Il libro descrive l’allargamento ad Est dell’Europa e della NATO come eventi simultanei e congiunti. E c’è un buon capitolo in quel libro che chiede: cosa farà la Russia quando l’Europa e la NATO si espanderanno verso Est? Conoscevo personalmente Zbig Brzezinski. È stato molto gentile con me. Stavo consigliando la Polonia e lui è stato di grande aiuto. Era anche un uomo intelligente, eppure nel 1997 ha sbagliato tutto. Nel 1997, spiegò dettagliatamente perché la Russia non poteva fare altro che aderire all’espansione verso Est della NATO e dell’Europa (6). In realtà, egli dice l’espansione verso est dell’Europa e non solo dell’Europa, ma della NATO. Questo era un piano degli Stati Uniti, un progetto. E Brzezinski spiega come la Russia non si allineerà mai con la Cina. Impensabile. La Russia non si allineerà mai con l’Iran.

Secondo Brzezinski, la Russia non ha altra vocazione se non quella europea. Quindi, mentre l’Europa si sposta verso Est, non c’è nulla che la Russia possa fare al riguardo. Così dice l’ennesimo stratega americano. C’è qualche domanda sul perché siamo sempre in guerra? Perché una cosa dell’America è che “sappiamo” sempre cosa faranno i nostri omologhi, e sbagliamo sempre! E una delle ragioni per cui sbagliamo sempre è che nella teoria dei giochi non cooperativi che gli strateghi americani giocano, in realtà non si parla con l’altra parte. Sai solo qual è la strategia dell’altra parte. È meraviglioso. Risparmi così tanto tempo. Semplicemente non hai bisogno di alcuna diplomazia.

La strategia del Mar Nero
Quindi, questo progetto è iniziato sul serio nel 1994, e abbiamo avuto una continuità della politica governativa per 30 anni fino forse a ieri, forse7. Un progetto trentennale. L’Ucraina e la Georgia sono state le chiavi del progetto. Perché? Perché l’America ha imparato tutto ciò che sa dagli inglesi.

Siamo l’aspirante impero britannico. E quello che l’Impero Britannico capì nel 1853, con Lord Palmerston [insieme a Napoleone III], è che si circonda la Russia nel Mar Nero, e si nega alla Russia l’accesso al Mediterraneo orientale. Questo è un progetto dell’America che farà lo stesso nel 21° secolo. L’idea degli Stati Uniti era che ci fossero Ucraina, Romania, Bulgaria, Turchia e Georgia tutti nella NATO, che avrebbero privato la Russia di qualsiasi status internazionale bloccandola sul Mar Nero e sostanzialmente neutralizzando la Russia come poco più di una potenza locale. Brzezinski ha le idee chiare su questa geografia.

Dopo Palmerston e prima di Brzezinski, ci fu naturalmente Halford Mackinder nel 1904: “Chi governa l’Europa dell’Est comanda l’Heartland, il cuore della Terra; chi governa l’Heartland comanda l’Isola-Mondo; chi governa l’Isola-Mondo comanda il mondo (8).

Ho conosciuto i presidenti e/o le loro squadre. Nulla è cambiato molto da Clinton a Bush Jr. a Obama a Trump a Biden. Forse sono peggiorati passo dopo passo. Biden è stato il peggiore a mio avviso. Forse questo è anche dovuto al fatto che non è stato compos mentis negli ultimi due anni. Lo dico seriamente, non come un’osservazione sarcastica. Il sistema politico americano è un sistema di immagini. È un sistema di manipolazione dei media ogni giorno. È un sistema di pubbliche relazioni. Si potrebbe avere un presidente che fondamentalmente non funziona e avere quella persona al potere per due anni che anche si candidi per la rielezione. Poi è successo che ha dovuto stare su un palco per 90 minuti da solo, e quella è stata la fine. Se non fosse stato per quel problema specifico, avrebbe continuato ad avere la sua candidatura, indipendentemente dal fatto che dormisse dopo le 4 del pomeriggio o giù di lì. Questa è la realtà. Tutti sono d’accordo. È scortese dire quello che sto dicendo, perché non diciamo la verità su quasi nulla in questo mondo in questo momento.

Dunque, questo progetto è andato avanti dagli anni ’90. Il bombardamento di Belgrado per 78 giorni consecutivi nel 1999 faceva parte di questo progetto. Dividere quel Paese quando i confini sono “sacrosanti”, non è vero? Tranne che per il Kosovo, ovviamente. I confini sono sacrosanti, tranne quando l’America li cambia. La divisione del Sudan era un altro progetto degli Stati Uniti. Consideriamo la ribellione del Sud Sudan. È successo solo perché i sud-sudanesi si sono ribellati? O devo darvi il copione della CIA?

Cerchiamo di capire da adulti di cosa si tratta. Le campagne militari sono costose. Richiedono attrezzature, addestramento, campi base, intelligence, finanze. Questo sostegno viene dalle grandi Potenze. Non viene da insurrezioni locali. Il Sud Sudan non ha sconfitto il Sudan in una battaglia tribale. ”Breaking Sudan” è stato un progetto degli Stati Uniti. Andavo spesso a Nairobi e incontravo militari o senatori statunitensi o altri con un “profondo interesse” per la politica interna del Sudan. Quella guerra faceva parte del gioco dell’unipolarismo degli Stati Uniti.

La politica estera degli Stati Uniti e l’espansione della NATO
L’allargamento della NATO, come sapete, è iniziato nel 1999 con l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca. La Russia era estremamente scontenta per questo, ma questi erano Paesi ancora lontani dal confine russo. La Russia ha protestato, ma, ovviamente, senza successo. Poi George Bush Jr. è entrato in carica. Quando si è verificato l’11 settembre, il presidente Putin ha promesso tutto il sostegno agli Stati Uniti. E gli Stati Uniti decisero, intorno al 20 settembre 2001, che avrebbero scatenato sette guerre in cinque anni!

Potete ascoltare il generale Wesley Clark in video che parla di questo (9). È stato Comandante Supremo della NATO nel 1999. È andato al Pentagono intorno al 20 settembre 2001. Gli fu consegnato un pezzo di carta che spiegava la prospettiva di sette guerre a scelta degli Stati Uniti. Queste erano, in realtà, le guerre di Netanyahu. Il piano del governo degli Stati Uniti era in parte quello di rimuovere i vecchi alleati sovietici e in parte di eliminare i sostenitori di Hamas e Hezbollah. L’idea di Netanyahu era ed è che ci essere uno Stato in tutta la Palestina pre-1948. Sì, solo uno Stato. Sarà Israele. Israele controllerà tutto il territorio dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. E se qualcuno si oppone, lo rovesceremo. Beh, non Israele, esattamente, ma più specificamente il nostro amico, gli Stati Uniti. Questa è stata la politica degli Stati Uniti fino a questa mattina. Non sappiamo se cambierà. Ora l’unico problema è che forse gli Stati Uniti “possederanno Gaza” [secondo il presidente Trump] invece che sia Israele a possedere Gaza.

L’idea di Netanyahu è in circolazione da almeno 25 anni. Risale a un documento chiamato “Clean Break” che Netanyahu e la sua squadra politica americana hanno messo insieme nel 1996 per porre fine all’idea della soluzione dei due Stati. Potete anche trovare quel documento online (10).

Questi sono progetti statunitensi a lungo termine. È sbagliato chiedersi: “È la Clinton? È Bush? È Obama?” Questo è il modo corrente di guardare alla politica americana, come a un gioco quotidiano o annuale. Ma non è questo che è la politica americana.

Dopo il 1999, il successivo allargamento della NATO è arrivato nel 2004 con altri sette Paesi: i tre Stati baltici, Romania, Bulgaria, Slovenia e Slovacchia. A questo punto, la Russia era piuttosto sconvolta. Questa seconda ondata di allargamento della NATO è stata una completa violazione dell’ordine postbellico concordato al momento della riunificazione tedesca. Essenzialmente, si è trattato di un trucco fondamentale, o di una defezione, degli Stati Uniti da un accordo di cooperazione con la Russia.

Come tutti ricordano, poiché la scorsa settimana abbiamo appena avuto la Conferenza sulla sicurezza di Monaco, il presidente Putin si è recato lì nel 2007 per dire: “Stop, quando è troppo è troppo”. Naturalmente, gli Stati Uniti non hanno ascoltato (11).

Nel 2008, gli Stati Uniti hanno rifilato all’Europa il loro progetto di lunga data di allargare la NATO all’Ucraina e alla Georgia. Si tratta di un progetto a lungo termine. Ho ascoltato Saakashvili, il Capo del Comitato esecutivo del Consiglio nazionale delle riforme ucraino, a New York nella primavera del 2008, quando ha parlato al Council on Foreign Relations. Ci ha detto che la Georgia è nel cuore dell’Europa e come tale avrebbe aderito alla NATO. Uscii, chiamai mia moglie e le dissi: “Quest’uomo è pazzo; sta per far saltare in aria il suo Paese”. Un mese dopo, scoppiò la guerra tra Russia e Georgia, in cui la Georgia fu sconfitta. Gli eventi più recenti a Tbilisi non sono utili per la Georgia, con i vostri eurodeputati che si recano lì per incitare le proteste. Questo non salva la Georgia; questo porta la Georgia a essere distrutta, completamente distrutta.

Nel 2008, come tutti sanno, il nostro ex direttore della CIA William Burns, che all’epoca era ambasciatore degli Stati Uniti in Russia, inviò un lungo cablogramma diplomatico alla Segretaria di Stato Condoleezza Rice, che era significativamente intitolato “Nyet significa Nyet”. Il messaggio di Burns era che l’allargamento della NATO era osteggiato dall’intera classe politica russa, non solo dal presidente Putin.

Sappiamo del cablo solo da Julian Assange. Credetemi, non una parola viene detta al popolo americano su nulla di tutto questo dal nostro governo o dai nostri principali giornali in questi giorni. Quindi, dobbiamo ringraziare Julian Assange per il documento, che possiamo leggere in dettaglio.

Come sapete, Viktor Yanukovych è stato eletto presidente dell’Ucraina nel 2010 sulla base della neutralità dell’Ucraina. La Russia non aveva alcun interesse territoriale o progetto in Ucraina. Lo so. Ci sono stato di tanto in tanto in quegli anni. Quello che la Russia stava negoziando nel 2010 era un contratto di locazione di 25 anni fino al 2042 per la base navale di Sebastopoli. Questo è tutto. Non c’erano richieste russe per la Crimea o per il Donbass. Niente del genere. L’idea che Putin stia ricostruendo l’impero russo è propaganda infantile. Scusatemi.

Per chi conosce la storia quotidiana e di anno in anno, questa è roba infantile. Eppure, le cose infantili sembrano funzionare meglio di quelle per adulti. Non c’erano rivendicazioni territoriali prima del colpo di stato del 2014. Tuttavia gli Stati Uniti decisero che Yanukovich doveva essere rovesciato perché era a favore della neutralità e si opponeva all’allargamento della NATO. Questa si chiama operazione di cambio di regime.

Ci sono state circa un centinaio di operazioni di cambio di regime da parte degli Stati Uniti dal 1947, molte nei vostri Paesi [parlando con gli eurodeputati] e molte in tutto il mondo (12). Questo è ciò che la CIA fa per vivere. Per favore, sappiatelo. È un tipo di politica estera molto insolito. Nel governo americano, se non ti piace l’altra parte, non negozi con loro, cerchi di rovesciarli, preferibilmente di nascosto. Se non funziona di nascosto, lo fai apertamente. Dici sempre che non è colpa nostra. Sono loro l’aggressore. Sono l’altra parte.

Sono “Hitler”. Questo si verifica ogni due o tre anni. Che si tratti di Saddam Hussein, di Assad, di Putin, è molto conveniente. Questa è l’unica spiegazione di politica estera che il popolo americano abbia mai ricevuto. Bene, siamo di fronte a Monaco del 1938. Non possiamo parlare con l’altra parte. Sono nemici malvagi e implacabili. Questo è l’unico modello di politica estera che abbiamo sentito dal nostro governo e dai mass media. I mass media lo ripetono perché sono completamente sottomessi dal governo degli Stati Uniti.

La rivoluzione di Maidan e le sue conseguenze
Ora, nel 2014, gli Stati Uniti hanno lavorato attivamente per rovesciare Yanukovich. Tutti conoscono la telefonata intercettata dalla mia collega della Columbia University, Victoria Nuland, e dall’ambasciatore degli Stati Uniti, Peter Pyatt. Non si ottengono prove migliori. I russi hanno intercettato la sua chiamata e l’hanno messa su Internet. Ascoltatelo (13).

È affascinante. In questo modo, sono stati tutti promossi nell’amministrazione Biden. Questo è il lavoro. Quando si è verificato il Maidan, sono stato chiamato poco dopo. “Professor Sachs, il nuovo primo ministro ucraino vorrebbe vederla per parlare della crisi economica”. Così, sono volato a Kiev e sono stato portato in giro per Maidan. E mi è stato detto come gli Stati Uniti hanno pagato i soldi per tutte le persone intorno a Maidan, la rivoluzione “spontanea” della dignità.

Onorevoli colleghi, per favore, come sono apparsi all’improvviso tutti quei media ucraini al momento del Maidan? Da dove viene tutta questa organizzazione? Da dove vengono tutti questi autobus? Da dove viene tutta quella gente? Stai scherzando? Questo è uno sforzo organizzato. E non è un segreto, tranne forse per i cittadini europei e statunitensi. Tutti gli altri lo capiscono abbastanza chiaramente. Poi, dopo il colpo di Stato, arrivarono gli accordi di Minsk, in particolare Minsk II, che, tra l’altro, fu modellato sull’autonomia sudtirolese per i tedeschi etnici in Italia. Anche i belgi si relazionano molto bene con Minsk II, in quanto ha chiesto l’autonomia e i diritti linguistici dei russofoni dell’Ucraina orientale. Minsk II è stato sostenuto all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (14). Eppure Stati Uniti e Ucraina decisero che non sarebbe stato applicato. Anche la Germania e la Francia hanno permesso che fosse ignorato. Il fallimento di Minsk II è stata un’altra azione unipolare diretta degli Stati Uniti, con l’Europa che, come al solito, ha svolto un ruolo sussidiario del tutto inutile, anche se era garante dell’accordo.

Trump ha vinto le elezioni del 2016 e poi ha aumentato le spedizioni di armi in Ucraina. Ci sono state molte migliaia di morti nei bombardamenti dell’Ucraina nel Donbass. Non c’è stata alcuna attuazione dell’accordo di Minsk II. Poi Biden è entrato in carica nel 2021. Speravo in qualcosa di meglio, ma sono rimasto profondamente deluso ancora una volta. Ero un membro del Partito Democratico. Ora non sono membro di nessun partito perché entrambi sono comunque gli stessi. I democratici sono diventati completi guerrafondai nel corso del tempo, e non c’era una sola voce nel partito che chiedeva la pace. Proprio come la maggior parte dei vostri parlamentari, allo stesso modo.

Alla fine del 2021, Putin ha messo sul tavolo un ultimo sforzo per raggiungere un modus operandi con gli Stati Uniti, in due bozze di accordo di sicurezza, una con l’Europa e una con gli Stati Uniti. Ha messo sul tavolo la bozza di accordo Russia-Stati Uniti il 15 dicembre 2021.

In seguito, ho avuto una telefonata di un’ora con [il consigliere per la sicurezza nazionale] Jake Sullivan alla Casa Bianca, implorando: “Jake, evita la guerra. Puoi evitare la guerra. Tutto quello che gli Stati Uniti devono fare è dire: ‘La NATO non si allargherà all’Ucraina’”. E lui mi ha detto: “Oh, la NATO non si allargherà all’Ucraina. Non preoccuparti”.

Gli dissi: “Jake, dillo pubblicamente”. «No. No. No. Non possiamo dirlo pubblicamente”. Gli dissi: “Jake, farai una guerra per qualcosa che non accadrà nemmeno?” Disse: “Non preoccuparti, Jeff. Non ci sarà nessuna guerra”. Queste non sono persone molto intelligenti. Vi sto dicendo, se posso darvi il mio punto di vista onesto, che non sono persone molto intelligenti. Parlano da soli. Non parlano con nessun altro. Giocano alla teoria dei giochi. Nella teoria dei giochi non cooperativi, non si parla con l’altra parte. Tu fai solo la tua strategia. Questa è l’essenza della teoria dei giochi non cooperativi. Non è una teoria della negoziazione. Non è una teoria pacificatrice. È una teoria unilaterale, non cooperativa, se si conosce la teoria dei giochi.

Questo è quello che giocano. Questo tipo di teoria dei giochi è iniziata come un’applicazione alla RAND Corporation, la think tank statunitense. Questo è quello che giocano ancora. Nel 2019, c’è stato un articolo della RAND, “Competere con la Russia da un terreno vantaggioso” (15). Incredibilmente, il documento, di pubblico dominio, si chiede in che modo gli Stati Uniti dovrebbero infastidire, inimicarsi e indebolire la Russia. Questa è letteralmente la strategia. Stiamo cercando di provocare la Russia, di fare in modo che la Russia si disgreghi, forse con un cambio di regime, forse con disordini, forse con una crisi economica.

Questo è ciò che voi in Europa chiamate il vostro alleato. Così, eccomi lì con la mia frustrante telefonata con Sullivan, in piedi nel freddo gelido. Era una giornata in cui stavo sciando. «Oh, non ci sarà nessuna guerra, Jeff.» Sappiamo cosa è successo dopo: l’amministrazione Biden si è rifiutata di negoziare sull’allargamento della NATO. L’idea più stupida della NATO è la cosiddetta politica della porta aperta, basata sull’articolo dieci del Trattato NATO del 1949. La NATO si riserva il diritto di andare dove vuole, a condizione che il governo ospitante sia d’accordo, senza che nessun vicino – come la Russia – abbia alcuna voce in capitolo.

Beh, dico ai messicani e ai canadesi: “Non provateci”. Sapete, Trump potrebbe voler prendere il controllo del Canada. Così, il governo canadese potrebbe dire alla Cina: “Perché non costruite una base militare in Ontario?” Non lo consiglierei. Gli Stati Uniti non direbbero: “Beh, è una porta aperta. Sono affari del Canada e della Cina, non nostri”. Gli Stati Uniti invaderebbero il Canada.

Eppure gli adulti, anche in Europa, in questo Parlamento, nella NATO, nella Commissione europea, ripetono l’assurdo mantra secondo cui la Russia non ha voce in capitolo sull’allargamento della NATO. Questa è roba senza senso. Questa non è nemmeno una geopolitica infantile. Questo è semplicemente non pensare affatto. Così, la guerra in Ucraina si è intensificata nel febbraio 2022, quando l’amministrazione Biden ha rifiutato qualsiasi negoziato serio.

La guerra in Ucraina e il controllo degli armamenti nucleari
Qual era l’intenzione di Putin nella guerra? Posso dirvi qual era la sua intenzione. Era di costringere Zelensky a negoziare la neutralità. Questo accadde pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione. Dovreste capire questo punto fondamentale, non la propaganda che viene scritta sull’invasione che sostiene che l’obiettivo della Russia era quello di conquistare l’Ucraina con poche decine di migliaia di soldati.

Andiamo, signore e signori. L’idea dell’invasione russa era quella di tenere la NATO fuori dall’Ucraina. E cos’è davvero la NATO? È l’esercito americano, con i suoi missili, i suoi dispiegamenti della CIA e tutto il resto. L’obiettivo della Russia era quello di tenere gli Stati Uniti lontano dai suoi confini. Perché la Russia è così interessata a questo? Considerate se la Cina o la Russia decidessero di avere una base militare sul Rio Grande o al confine canadese, non solo gli Stati Uniti andrebbero fuori di testa; avremmo avuto la guerra nel giro di una decina di minuti. Quando l’Unione Sovietica tentò di farlo a Cuba nel 1962, il mondo quasi finì nell’Armageddon nucleare.

Tutto questo è gravemente amplificato dal fatto che gli Stati Uniti hanno abbandonato unilateralmente il Trattato sui missili antibalistici nel 2002 e così facendo hanno posto fine a un quadro di controllo delle armi nucleari di relativa stabilità. Questo è estremamente importante da capire. Il quadro di controllo delle armi nucleari si basa, in gran parte, sul tentativo di scoraggiare un primo attacco. Il Trattato ABM è stato una componente fondamentale di tale stabilità. Gli Stati Uniti sono usciti unilateralmente dal Trattato ABM nel 2002. Quindi, tutto ciò che ho descritto sull’allargamento della NATO è avvenuto nel contesto della distruzione della struttura nucleare da parte degli Stati Uniti. A partire dal 2010, gli Stati Uniti hanno iniziato a installare sistemi missilistici antibalistici Aegis in Polonia e poi in Romania. Alla Russia non piace.

Una delle questioni sul tavolo nel dicembre 2021, nel gennaio 2022, era se gli Stati Uniti rivendicassero il diritto di installare sistemi missilistici in Ucraina. Secondo l’ex analista della CIA Ray McGovern, Blinken ha detto a Lavrov nel gennaio 2022 che gli Stati Uniti si riservavano il diritto di installare sistemi missilistici in Ucraina.

Questo, miei cari amici, è il vostro presunto alleato. E ora gli Stati Uniti vogliono mettere sistemi missilistici intermedi in Germania. Ricordiamo che gli Stati Uniti sono usciti dal trattato INF nel 2019. Al momento non esiste un quadro normativo per le armi nucleari (16). Essenzialmente, nessuno.

Quando Zelensky ha detto pochi giorni dopo l’invasione della Russia che l’Ucraina era pronta per la neutralità, un accordo di pace era a portata di mano. Conosco i dettagli di questo perché ho parlato in dettaglio con i principali negoziatori e mediatori e ho imparato molto dalle dichiarazioni pubbliche di altri. Poco dopo l’inizio dei negoziati nel marzo 2022, tra le parti è stato scambiato un documento che il presidente Putin aveva approvato e che Lavrov aveva presentato. Questo è stato gestito dai mediatori turchi. Sono volato ad Ankara nella primavera del 2022 per ascoltare in prima persona e in dettaglio cosa è successo durante la mediazione. La linea di fondo è questa: l’Ucraina si è allontanata, unilateralmente, da un accordo vicino.

La fine della guerra in Ucraina
Perché l’Ucraina si è ritirata dai negoziati? Perché gli Stati Uniti glielo hanno detto e perché il Regno Unito ha aggiunto la ciliegina sulla torta facendo andare Boris Johnson a Kiev all’inizio di aprile per fare lo stesso. L’attuale primo ministro, Keir Starmer si rivela ancora peggiore, ancora più guerrafondaio. È inimmaginabile, ma è vero. Boris Johnson ha spiegato, e lo trovate sul web, che qui in gioco c’era niente di meno che l’egemonia occidentale! Non l’Ucraina, ma l’egemonia occidentale. Michael von der Schulenberg, ex Segretario Generale Aggiunto delle Nazioni Unite, e io ci siamo incontrati in Vaticano con un gruppo di esperti nella primavera del 2022 e abbiamo scritto un documento in cui spiegavamo che non poteva venire nulla di buono dalla continuazione della guerra (17). Il nostro gruppo ha sostenuto strenuamente, ma senza successo, che l’Ucraina dovesse negoziare immediatamente, perché i ritardi avrebbero significato morti di massa, rischio di escalation nucleare e forse una vera e propria sconfitta.

Non vorrei cambiare una parola di quello che abbiamo scritto allora. Non c’era nulla di sbagliato in quel documento. Da quando gli Stati Uniti hanno fatto uscire l’Ucraina dai negoziati, forse un milione di ucraini sono morti o sono stati gravemente feriti. E i senatori americani, che sono cattivi e cinici come si può immaginare, dicono che questo è una meravigliosa spesa di denaro degli Stati Uniti, dato che nessun americano sta morendo. È la pura guerra per procura. Uno dei nostri senatori vicino allo Stato di New York, Richard Blumenthal del Connecticut, lo ha detto ad alta voce. Mitt Romney lo ha detto ad alta voce. È il miglior denaro che l’America possa spendere. Nessun americano sta morendo. È irreale. Ora, solo per riportarci a ieri, il progetto USA-Ucraina è fallito. L’idea centrale del progetto è sempre stata che la Russia avrebbe incrociato le braccia. L’idea centrale fin dall’inizio è stata che la Russia non potesse resistere, proprio come sosteneva Zbigniew Brzezinski nel 1997. Gli americani pensavano che gli Stati Uniti avrebbero avuto sicuramente il sopravvento.

Gli Stati Uniti vinceranno, dicevano, perché bluffiamo con loro. I russi non hanno davvero intenzione di combattere. Noi metteremo in campo l’”opzione nucleare” economica di tagliare fuori la Russia dal sistema di pagamenti SWIFT. Questo distruggerà la sua economia. Le nostre sanzioni metteranno in ginocchio la Russia. Il lanciarazzi americano HIMARS li farà ritirare. Gli ATACMS, gli F-16, li metteranno in scacco. Onestamente, ho ascoltato questo tipo di discorsi per più di 50 anni. I nostri leader della sicurezza nazionale hanno detto sciocchezze per decenni.

Ho implorato gli ucraini: rimanete neutrali. Non ascoltate gli americani. Ho ripetuto loro il famoso adagio di Henry Kissinger, che essere un nemico degli Stati Uniti è pericoloso, ma essere un amico è fatale. Permettetemi di ripeterlo per l’Europa: essere un nemico degli Stati Uniti è pericoloso, ma essere un amico è fatale.

L’amministrazione Trump
Permettetemi di concludere con alcune parole sul presidente Donald Trump. Trump non vuole perdere la guerra di Biden. Questo è il motivo per cui è probabile che Trump e il presidente Putin accettino di porre fine alla guerra. Anche se l’Europa continua con la sua linea guerrafondaia, non importa. La guerra sta finendo. Per favore, ditelo ai vostri colleghi. “È finita”. È finita perché Trump non vuole aggrapparsi a un perdente. La prima che sarà salvata dai negoziati in corso in questo momento è l’Ucraina. La seconda è l’Europa.

Il vostro mercato azionario è in rialzo negli ultimi giorni a causa delle “orribili notizie” dei negoziati e della potenziale pace. So che la prospettiva di una pace negoziata è stata accolta con orrore in queste camere, ma questa è la migliore notizia che si possa ricevere. Ho cercato di contattare alcuni dei leader europei. Ho detto, non andate a Kiev, andate a Mosca. Negoziate con le vostre controparti. Voi siete l’Unione Europea. Ci sono 450 milioni di persone e un’economia da 20 trilioni di dollari. Comportatevi come tali.

L’Unione Europea dovrebbe essere il principale partner commerciale della Russia. L’Europa e la Russia hanno economie complementari. La capacità di un commercio reciprocamente vantaggioso è molto forte. A proposito, se qualcuno volesse discutere di come gli Stati Uniti hanno fatto saltare in aria il Nord Stream, sarei felice di parlare anche di questo. L’amministrazione Trump è imperialista nel cuore. Trump ovviamente crede che le grandi potenze dominino il mondo. Gli Stati Uniti saranno spietati e cinici, e sì, anche nei confronti dell’Europa. Non andate a chiedere l’elemosina a Washington. Questo non aiuterà. Probabilmente stimolerebbe la spietatezza. Invece, dovete avere una vera politica estera europea.

Quindi, non sto dicendo che siamo nella nuova era della pace, ma siamo in un tipo di politica molto diverso in questo momento, un ritorno alla politica delle grandi Potenze. L’Europa ha bisogno di una propria politica estera, e non solo di una politica estera russofoba. L’Europa ha bisogno di una politica estera che sia realistica, che comprenda la situazione della Russia, che capisca la situazione dell’Europa, che capisca cos’è l’America e cosa rappresenta, e che cerchi di evitare che l’Europa venga invasa dagli Stati Uniti. Non è certo impossibile che l’America di Trump sbarchi truppe in Groenlandia. Non sto scherzando, e non credo che Trump stia scherzando. L’Europa ha bisogno di una politica estera, una vera politica. L’Europa ha bisogno di qualcosa di diverso dal dire: “Sì, negozieremo con il signor Trump e lo incontreremo a metà strada”. Sapete cosa dirà? Chiamami dopo.

Vi prego di avere una politica estera europea. Vivrete con la Russia per molto tempo, quindi per favore negoziate con la Russia. Ci sono reali questioni di sicurezza sul tavolo sia per l’Europa che per la Russia, ma la pomposità e la russofobia non servono affatto alla vostra sicurezza. Non servono affatto alla sicurezza dell’Ucraina. Questa avventura americana a cui avete aderito e della quale ora siete i principali supporter ha contribuito a circa 1 milione di vittime ucraine.

Sul Medio Oriente e la Cina
Sul Medio Oriente, per inciso, gli Stati Uniti hanno completamente consegnato la politica estera a Netanyahu 30 anni fa. La lobby israeliana domina la politica americana. Per favore, non abbiate dubbi al riguardo. Potrei spiegare per ore come funziona. È molto pericoloso. Spero che Trump non distrugga la sua amministrazione e, peggio ancora, il popolo palestinese, a causa di Netanyahu, che considero un criminale di guerra correttamente incriminato dalla Corte Penale Internazionale (18).

L’unico modo per l’Europa di avere la pace ai confini con il Medio Oriente è la soluzione dei due Stati. C’è solo un ostacolo, ed è il veto degli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per volere della lobby israeliana. Quindi, se volete che l’UE abbia una certa influenza, dite agli Stati Uniti di abbandonare il veto. In questo l’Unione Europea starebbe, insieme a circa 160 altri Paesi del mondo. Gli unici che si oppongono a uno Stato palestinese sono fondamentalmente gli Stati Uniti, Israele, la Micronesia, Nauru, Palau, Papua Nuova Guinea, Argentina e Paraguay (19).

Il Medio Oriente è un luogo in cui l’Unione Europea potrebbe avere una grande influenza geopolitica. Eppure, l’Europa è rimasta in silenzio sull’Accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) e sull’Iran e circa la metà dell’Europa è rimasta in silenzio sui crimini di guerra di Israele e sul blocco della soluzione dei due Stati. Il più grande sogno della vita di Netanyahu è la guerra tra gli Stati Uniti e l’Iran. E non si è arreso. Non è impossibile che si arrivi anche a una guerra USA-Iran. Ma l’Europa potrebbe fermarla, se l’Europa avesse una sua politica estera. Spero che Trump ponga fine alla stretta di Netanyahu sulla politica americana. Anche in caso contrario, l’UE può collaborare con il resto del mondo per portare la pace in Medio Oriente.

Infine, lasciatemi dire per quanto riguarda la Cina, che la Cina non è un nemico. La Cina ha semplicemente una grande storia di successo. Ecco perché è vista dagli Stati Uniti come un nemico, perché la Cina ha un’economia più grande degli Stati Uniti (misurata in prezzi internazionali). Gli Stati Uniti resistono alla realtà. L’Europa non dovrebbe farlo. Lasciatemi ripetere, la Cina non è un nemico e non è una minaccia. È un partner naturale dell’Europa nel commercio e nella salvaguardia dell’ambiente globale.
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Domanda del pubblico: L’Europa dovrebbe aumentare le sue spese militari?
Risposta:
Non sarei contrario a un approccio per cui l’Europa spendesse il due o tre per cento del PIL per una struttura di sicurezza europea unificata e investisse in Europa e nella tecnologia europea, non lasciando che siano gli Stati Uniti a dettare l’uso della tecnologia europea. I Paesi Bassi producono le uniche macchine di semiconduttori avanzati che utilizzano la litografia ultravioletta estrema. La società è la ASML olandese. Ma l’America determina ogni politica dell’ASML. Se fossi in voi, non consegnerei tutta la sicurezza e la tecnologia agli Stati Uniti.

Suggerirei di avere un proprio quadro di sicurezza in modo da poter avere anche un proprio quadro di politica estera. L’Europa rappresenta molte cose che gli Stati Uniti non rappresentano. L’Europa è a favore dell’azione per il clima. Il nostro presidente è completamente al di fuori di questo. E l’Europa è per la socialdemocrazia, come ethos. L’Europa è sinonimo di multilateralismo. L’Europa sostiene la Carta delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti non rappresentano nessuna di queste cose. Il nostro Segretario di Stato Marco Rubio ha recentemente annullato il suo viaggio in Sudafrica visto che l’uguaglianza e la sostenibilità erano all’ordine del giorno. Questo è un vivido, anche se cupo, riflesso del libertarismo anglosassone. Egualitarismo non è una parola del lessico americano. E nemmeno la sostenibilità.

Forse sapete che dei 193 Stati membri dell’ONU, 191 hanno presentato i piani SDG (Sustainable Development Goal) all’ONU nel Forum politico di alto livello (HLPF). Solo tre Paesi non lo hanno fatto: Haiti, Myanmar e Stati Uniti d’America. Al Tesoro di Biden non è stato nemmeno permesso di usare l’espressione Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Dico tutto questo perché avete bisogno della vostra politica estera.

Ci sono due rapporti all’anno. Uno è il World Happiness Report. Nel rapporto 2024, 8 dei primi 10 Paesi sono europei. L’Europa ha la più alta qualità di vita di tutto il mondo. Gli Stati Uniti si sono classificati al 23° posto. L’altro rapporto annuale è il Rapporto sullo sviluppo sostenibile. Nel rapporto 2024, 19 dei primi 20 Paesi per lo sviluppo sostenibile si trovano in Europa. Gli Stati Uniti si sono classificati al 46° posto. Avete bisogno della vostra politica estera per proteggere la qualità della vita! Ero e resto un grande sostenitore dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) e continuo a credere che l’OSCE sia il quadro adeguato per la sicurezza europea. Potrebbe davvero funzionare.

Domanda: In che modo l’Europa dovrebbe impegnarsi diplomaticamente con la Russia?
Risposta:
Ritengo che l’Europa debba negoziare direttamente con la Russia questioni estremamente importanti. E quindi vorrei esortare il Presidente Costa e la leadership dell’Europa ad aprire un dialogo diretto con il Presidente Putin, perché la sicurezza europea è sul tavolo. Conosco abbastanza bene i leader russi, molti di loro. Sono buoni negoziatori, e si dovrebbe negoziare con loro, e si dovrebbe negoziare bene con loro. Farei alcune domande alle controparti russe. Chiederei loro: quali sono le garanzie di sicurezza che possono funzionare affinché questa guerra finisca definitivamente? Quali sono le garanzie di sicurezza per gli Stati baltici? Parte del processo di negoziazione consiste nel chiedere all’altra parte quali sono le sue preoccupazioni. Conosco il ministro degli Esteri Lavrov da 30 anni. Lo considero un brillante ministro degli Esteri. Parlate con lui. Negoziate con lui. Prendete le sue idee. Mettete le vostre idee sul tavolo. La cosa più importante è smettere di urlare, smettere di essere guerrafondai e inveire contro le controparti russe. E non implorate di essere al tavolo con gli Stati Uniti. Non c’è bisogno di essere nella stanza con gli Stati Uniti. Tu sei l’Europa. Dovrebbero esserci nella stanza l’Europa e la Russia. Non consegnate la vostra politica estera a nessuno, né agli Stati Uniti, né all’Ucraina, né a Israele. Mantenete una politica estera europea. Questa è l’idea di base.

Domanda: Paesi come la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca volevano aderire alla NATO. Lo stesso vale per l’Ucraina. Perché non dovrebbe essere permesso loro di farlo?
Risposta:
La NATO non è una scelta tra Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca o Ucraina. La NATO è un’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti. La questione che l’Europa si è posta nel 1991 è come garantire la pace. Se avessi preso decisioni nel 1991, avrei posto fine alla NATO quando il Patto di Varsavia fu sciolto, e certamente quando la stessa Unione Sovietica finì. Quando vari Paesi hanno chiesto l’adesione alla NATO, avrei spiegato loro ciò che il nostro segretario alla Difesa William Perry, il principale statista George Kennan, l’ultimo ambasciatore degli Stati Uniti in Unione Sovietica, Jack Matlock, hanno detto negli anni ’90. Tutti hanno detto, in effetti: “Comprendiamo i vostri sentimenti, ma allargare la NATO non è una buona idea perché potrebbe facilmente provocare una nuova guerra fredda con la Russia”. C’è un nuovo libro molto buono di Jonathan Haslam, pubblicato dalla Harvard University Press, intitolato Hybris. Offre una dettagliata documentazione storica dell’allargamento della NATO. Spiega come gli Stati Uniti siano stati troppo arroganti nel discutere, negoziare e tener conto delle linee rosse della Russia, anche dopo aver promesso che la NATO non si sarebbe allargata.

Domanda: Quali sono le conseguenze a lungo termine di questa guerra persa?
Risposta:
Siamo nel più grande progresso tecnologico della storia dell’umanità. È davvero incredibile quello che si può fare in questo momento. Mi meraviglio del fatto che qualcuno che conosce poca chimica abbia vinto il Premio Nobel per la Pace per la chimica perché è superbo nell’intelligenza artificiale e nelle reti neurali profonde, anzi un genio, Demis Hassabis. Lui e il suo team di DeepMind hanno capito come utilizzare l’intelligenza artificiale per risolvere il problema del ripiegamento delle proteine, un problema che aveva occupato generazioni di biochimici. Quindi, se dedichiamo le nostre menti, le nostre risorse e le nostre energie ad esso, possiamo trasformare il sistema energetico mondiale per la sicurezza climatica. Possiamo proteggere la biodiversità. Possiamo garantire che ogni bambino riceva un’istruzione di qualità. Possiamo fare così tante cose meravigliose in questo momento. Di cosa abbiamo bisogno per avere successo? A mio avviso, la cosa più importante è che abbiamo bisogno di pace. E il mio punto fondamentale è che non ci sono ragioni profonde per il conflitto da nessuna parte, perché ogni conflitto che studio è solo un errore. Non stiamo lottando per lo spazio vitale. . Quell’idea, che essenzialmente proveniva da Malthus e in seguito divenne un’idea nazista, era del tutto sbagliata, un errore intellettuale fondamentale. Abbiamo avuto guerre razziali, guerre nazionali per la sopravvivenza, per paura di non avere abbastanza per tutti su questo pianeta, così che siamo in una lotta per la sopravvivenza. Come economista, posso dirvi che abbiamo abbondanza sul pianeta per lo sviluppo sostenibile di tutti. Abbondanza. Non siamo in conflitto con la Cina. Non siamo in conflitto con la Russia. Se ci calmiamo, se ci interroghiamo sul lungo termine, il lungo termine è molto buono, se non ci facciamo esplodere prima. Quindi, questo è il mio punto. Le prospettive sono molto positive se costruiamo la pace.

Domanda: Pensa che la via d’uscita da questo conflitto sia una finlandizzazione dell’Ucraina?
Risposta: Ottima domanda. Consentitemi di segnalare solo un aspetto della finlandizzazione. La finlandizzazione ha portato la Finlandia al primo posto nel World Happiness Report anno dopo anno. La Finlandia è ricca, di successo, felice e sicura. Sto discutendo della Finlandia pre-NATO. Quindi la “finlandizzazione” è stata una cosa meravigliosa per la Finlandia. Quando la Svezia, la Finlandia e l’Austria erano neutrali, erano brave, Intelligenti. Quando l’Ucraina era neutrale, era intelligente. Se hai due superpoteri, tienili un po’ separati. Se gli Stati Uniti avessero avuto un po’ di buon senso, avrebbero lasciato questi Paesi come spazio neutrale tra l’esercito americano e la Russia, ma gli Stati Uniti hanno troppo poco buonsenso.

Note

Emilio Lussu

A cinquant’anni dalla morte di Emilio Lussu, ripubblichiamo il servizio giornalistico che gli dedicammo il 5 marzo 2015 nella ricorrenza dei quarant’anni. Sono riflessioni, in particolare quelle di Francesco Casula, tuttora valide, anzi di più: maggiormente utili nella fase storica che ci tocca vivere.
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(Armungia, 4 dicembre 1890 – Roma, 5 marzo 1975)
Federalismo e pacifismo: il messaggio di Lussu a 40 anni dalla sua morte
Emilio Lussu dip Foiso Fois
di Francesco Casula
[Aladinpensiero 5 marzo 2015]
Oggi 5 marzo ricorre il quarantesimo anniversario della morte di Emilio Lussu. Ebbene in Sardegna, la sua terra, nessuna pubblica istituzione né partito pare che intenda ricordarlo. Gli è che i politici – ma anche le istituzioni culturali, le Università per esempio – sono impegnati in ben altri riti. Lussu rimane ancora un personaggio “scomodo” e disadatto ad ogni incorporazione storica dei vincitori, anche post mortem. Così, anche quando lo si celebra e lo si ricorda, si cerca di sterilizzare il suo pensiero, la sua eredità morale, politica e persino letteraria. E’ successo così negli ultimi decenni, in cui dopo anni di colpevole silenzio, molti, troppi in Sardegna si sono scoperti e riconosciuti “sua figliolanza” (l’espressione è della moglie Joyce). Magari quelli stessi che in vita hanno combattuto Lussu e le sue idee. Ed hanno cercato, tutti, di tirare Lussu per la giacchetta, cercando di “convertirlo”, di purgare le parti più scomode del suo pensiero, per mitizzarlo e imbalsamarlo. Una volta sterilizzato e ridotto a “santino”, innocuo e rassicurante, si può anche “mettere nella nicchia” (anche quest’espressione è di Joyce) per diventare dio protettore dei sardi e della Sardegna.
Si dimenticano costoro chi era Lussu, uomo di parte. Sempre dalla parte del popolo lavoratore sardo, pacifista e federalista, nemico giurato dello Stato burocratico e accentratore, degli ascari e mediatori locali e delle clientele, della politica ridotta a mera gestione del potere. Nel 1945, quando era Ministro del Governo Parri, Vittorio Foa suo compagno di partito, una volta andò a chiedergli di mettere una firma sotto un’autorizzazione per aiutare finanziariamente il suo Partito. Lussu rispose: “puoi chiedermi di montare a cavallo ed andare in via Nazionale a rapinare l’oro della Banca d’Italia e io, per il Partito, lo faccio subito. Ma mettere una firma sotto una cartaccia mai!” Questo era Lussu, sempre e non solo nel 1945. Rientrato nel 1919 dal fronte, viene trattenuto in servizio di punizione alla frontiera iugoslava per aver dimostrato che un generale si era arricchito vendendo cavalli e altri beni dell’esercito. Una bella lezione a molti politici di oggi, immersi nell’affarismo e nella melma della corruzione.
Scomodo è anche il suo lascito ideale, culturale e di pensiero: ad iniziare dalla sua teoria federalista che si coniuga in modo inscindibile con i valori forti della libertà e dei diritti, della democrazia diretta e dell’autogoverno, della partecipazione e del controllo popolare. Scrive in un saggio del 1933, pubblicato nel n. 6 di «Giustizia e Libertà»: ”Frequentemente accade di parlare con uno che riteniamo federalista perché si professa autonomista e scopriamo invece, che è unitario con tendenze al decentramento”.
E precisa: ”Ora la differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che per il primo la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato ed è delegata quando è esercitata dalla periferia; per l’altro è invece divisa fra Stato federale e Stati particolari e ognuno la esercita di pieno diritto”. Quando Lussu parla di sovranità “divisa” fra Stato federale e Stati particolari – o meglio federati, aggiungo io – di “frazionamento della sovranità”, pensa quindi alla rottura e alla disarticolazione dello stato unitario “nazionale” che deve dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui “per Stati non si intendono più gli Stati nazionali degradati da Enti sovrani a parti di uno stato più grande, ma parte o territori dello stato grande elevati al rango di stati membri”: l’intera frase virgolettata è tratta da «Federalismo» di Norberto Bobbio, «Introduzione a Silvio Trentin».
In questo modo il potere sovrano originario e non derivato spetta a più Enti, a più Stati e perciò scompare la sovranità di un unico centro, dello stato come veniva concepito nell’Ottocento – che Lussu critica in quanto “unica e assorbente” – di un unico potere e soggetto singolare per fare capo a più soggetti e poteri plurali. Con questa impostazione Lussu supera il concetto di unipolarità con cui si indica la dottrina ottocentesca in cui libertà e diritto fondano la loro legittimità solo in quanto riconducibili alla fonte statale. Quella su Federalismo è un’altra lezione a chi oggi, lungi da imboccare la strada della riforma dello Stato in senso federalista, attacca le Autonomie locali e, delirando, pensa all’abolizione delle Regioni, per ritornare a uno Stato centralista e centralizzatore.
Infine il suo Pacifismo. Interventista convinto e “chiassoso”, parteciperà alla Prima Guerra con entusiasmo, giustificandola “moralmente e politicamente”. Al fronte però sperimenta sulla propria pelle, l’assurdità e l’insensatezza della guerra: con la protervia e stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i pidocchi, i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili. Ma soprattutto con l’olocausto degli uomini sfracellati e le foreste di crani nei cimiteri militari; con i 13.602 sardi morti su 100 mila pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio per intenderci o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati..
Scriverà a questo proposito Camillo Bellieni, compagno d’armi prima e di Partito poi, di Lussu:”Chi accennasse a selvagge passioni brulicanti nel nostro sangue nel tragico istante della mischia non avrebbe altra scusa per il suo errore che l’immensa ignoranza delle nostre cose. Giudizi simili possono essere dati solamente da coloro che non hanno visto l’infinita tristezza dei nostri soldati nell’ora precedente all’azione”.
La retorica patriottarda e nazionalista, vieta e bolsa, sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. “Abbasso la guerra”, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere allo stesso Lussu – in «Un anno sull’altopiano»“Il piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita”. Anche perché, in cambio dei 13.602 sardi morti in guerra, (1386 morti ogni diecimila chiamati alle armi, la percentuale più alta d’Italia, la media nazionale infatti è di 1049 morti) – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta- Raspi – “non sfamava la Sardegna”.
Nascerà dalla sua esperienza sul fronte l’opposizione netta, radicale, decisa di Lussu alla guerra:” Di guerre non ne vogliamo più – scriverà – e vogliamo collaborare e allontanare la guerra vita natural durante nostra e dei nostri figli e a renderla impossibile per sempre, disarmandola”. Chi vuole la guerra, secondo Lussu, è chi non la conosce, parafrasando in qualche modo il seguente apoftegma:”Chi ama la guerra non l’ha mai vista in faccia” (Erasmo da Rotterdam, «Adagia, Sei Saggi politici in forma di proverbi», Einaudi, Torino 1980).
Una lezione pacifista, quanto mai attuale e opportuna, specie in un momento in cui nuove inquietanti fosche e minacciose avvisaglie di guerra sembrano apparire nell’orizzonte.
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Emilio Lussu Ed 5 3 15
Emilio Lussu
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Vittorio Foa
Il mio ricordo di Lussu
Ciao Lussu, poeta in armi

Scritto da Vittorio Foa nel marzo 1975 per il Manifesto

Emilio Lussu ha avuto il singolare destino di convivere con la sua leggenda. E questo non solo per essere morto in età tarda, dopo essersi chiuso per anni in un silenzioso ritiro carico di dignità pari alla dignità che segnò tutta la sua vita. La leggenda di Emilio Lussu è nata nella sua giovinezza, nei suoi anni trenta e lo ha accompagnato fino alla morte: l’organizzatore di pastori, pescatori, minatori e contadini, il politico eminente, lo studioso, lo scrittore di successo, il parlamentare ascoltato, l’uomo pratico e concreto legato alle normali vicende della vita di ogni giorno, appariva contemporaneamente, nella luce della sua leggenda, come un solitario guerriero, come un paladino capace di affrontare e di mettere in fuga torme di infedeli.

E’ forse possibile, sia pure in modo sommario, cercare le origini della leggenda di Lussu e scoprire che essa non contraddice minimamente la figura di Lussu uomo del suo tempo. La prima radice della leggenda sta indubbiamente nello scontro fisico coi fascisti che egli, consapevolmente volle affrontare da solo nella sua casa di Cagliari. Lussu sapeva, per informazioni sicure, che gli squadristi avrebbero assalito la sua casa di notte, con intenzioni omicide. Nella calma più perfetta si preparò. Rifiutò, con una saggezza da vecchio patriarca, lui che aveva solo trentacinque anni, di chiedere aiuto alla polizia che sapeva complice dei fascisti, congedò la vecchia governante, si armò e attese da solo gli aggressori. Quando essi arrivarono e trovando sprangato il portone entrarono dalle finestre con delle scale, Lussu uccise freddamente il primo che si affacciò mettendo in fuga la torma. Si tratta di un singolo episodio, in mezzo a molti altri di indomito coraggio nella lotta contro il fascismo avanzante.

Perché allora esso ha segnato così profondamente la coscienza dei giovani antifascisti militanti? In realtà non si tratta di un dato caratteriologico, di un semplice esempio di coraggio. Si tratta di un dato più profondo che attinge alla sfera ideologica. Lussu ha deciso di affrontare lo scontro fisico, e probabilmente mortale, da solo. Egli negava in un sol colpo tutta la realtà che lo circondava fatta di compromessi e capitolazioni e rinunce, una realtà di ripieghi e pretesti per non battersi, per giustificare prima l’inerzia e poi la subordinazione al nemico. Egli illustrava quella sera, meglio che con un trattato di etica politica, che quando il destino ti mette di fronte al nemico per agguerrito che esso sia non puoi voltare le spalle. Vivere questo imperativo da solo, in una condizione limite, è solo un modo, peraltro molto efficace, di proporla al livello di massa.

La leggenda di Lussu ha anche un’altra radice. Il giovane capitano della brigata Sassari, che torna alla sua isola dopo una sanguinosa esperienza di trincea, raccontata in un libro di sconvolgente bellezza «Un anno sull’altipiano», si fa organizzatore di pastori e pescatori, di contadini poveri e di minatori, si fa assertore di giustizia e di autonomia in una società oppressa dall’ingiustizia e dal centralismo statale. Che importa se la sua dottrina non è il marxismo, ma un radicalismo piccolo borghese? Il marxismo del suo tempo era intriso di determinismo delle forze produttive, per cui solo una classe operaia industriale sviluppata può agire in modo rivoluzionario, e anche di massimalismo pure esso operaistico. Solo Gramsci, pure lui sardo apriva allora un discorso nuovo, Salvemini aveva da tempo rinunciato al socialismo.

Lussu era dunque un socialista «diverso»; per lui la rivoluzione non nasceva solo dalla concentrazione capitalistica e dalle grandi fabbriche, ma anche dalla condizione contadina del mezzogiorno e delle isole. In questo senso Lussu si ricollegava all’epopea dei fasci siciliani, che il partito socialista aveva ripudiato, abbandonandoli alla reazione borghese e scegliendo l’alleanza con la borghesia industriale avanzata. Il fondatore del Partito sardo di azione poté poi, nel lungo corso della sua vita, rivendicare il suo socialismo, pur diverso perché sostanziato di autonomia e di iniziativa contadina. La continuità militare-contadina e la «diversità» della sua organizzazione politica di massa contribuirono certo alla leggenda di Lussu, così come la potente immaginazione di cui caricò sempre il suo linguaggio e la sua azione politica. Proprio perché diverso, perché autonomista e contadino, Lussu era impermeabile a qualsiasi infiltrazione riformistica, assai più dei suoi giovani compagni di sinistra operaisti e industrialisti. Proprio per quello Lussu ruppe col Partito socialista al tempo del centrosinistra, ma nella sinistra socialista come poi nel Psiup mantenne una notevole indipendenza di giudizio. Ancora una volta leggenda e vita normale sono due facce di una unica esperienza.

L’immaginazione di Emilio Lussu! Anche questa non era un semplice dato di carattere. Anche quando il suo discorso sembrava echeggiare toni e ritmi guerrieri e feudali, o persino tribali, comunque sempre legati alla storia e ai costumi precapitalistici della sua terra, l’immaginazione di Emilio Lussu era una forza moderna, era il rifiuto dei canoni banali e sterili delle istituzioni burocratiche della democrazia borghese, era l’invito a non separare la politica come tecnica dalla poesia come ricerca e creazione di nuovi modi di lavoro e di vivere. Dopo il 18 aprile 1948 il poeta Lussu poteva, in un famoso discorso al Senato, raccontare la storia di quella vittoria democristiana come la vittoria della cristianità a Lepanto nel 1571 con De Gasperi nei panni dell’ammiraglio Don Giovanni d’Austria e Togliatti in quelli di Alì Pascià. Non era un semplice scherzo, era il tentativo, pur in veste poetica, di smascherare un imbroglio ideologico.

Vorremmo ricordarne altre, fra le numerose «immagini» politiche create da Lussu per caratterizzare un giudizio oppure una iniziativa. Anche quando erano dure, la carica di ironia contribuiva ad addolcirle, a trasformare la polemica in un insegnamento. Basta qui un solo episodio. Nel settembre 1945, quando Lussu era ministro nel governo Parri, chi scrive andò a chiedergli, per aiutare finanziariamente il partito di cui entrambi facevano parte, di mettere una firma sotto una autorizzazione, cosa consueta nel sottobosco politico del tempo. Lussu rispose: «Compagno, puoi chiedermi di montare a cavallo e andare in via Nazionale a rapinare l’oro della Banca d’Italia e io – per il partito – lo faccio subito. Ma mettere una firma sotto una cartaccia, giammai». Nell’irrealismo dell’immagine il poeta riusciva a cogliere e giudicare la squallida realtà del mondo in cui ci avvolgevamo e ad avanzare, almeno come ipotesi, un mondo diverso.
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Vittorio Foa ed 5 3 15
Vittorio Foa
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[Foto 1. Archivio Corriere della Sera, 2. Archivio Rai, riprese dal blog del Circolo Giustizia e Libertà di Sassari]
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- Emilio Lussu su Aladinews
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Relazione di Luigi Ferrajoli all’Assemblea di Costituente Terra

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La relazione del Presidente di Costituente Terra, Luigi Ferrajoli, che ha tenuto in occasione dell’Assemblea Generale delle socie e dei soci il 26 febbraio 2025

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C.T.
1. L’anno che abbiamo alle spalle ben possiamo considerarlo un annus horribilis. E ancor più orribile possiamo considerare quest’ultimo mese, nel quale è iniziata la presidenza Trump.
In quest’ultimo anno si sono aggravate tutte le catastrofi globali che minacciano il futuro dell’umanità. Innanzitutto la guerra, anzi le due guerre. quella in Ucraina e quella in Palestina, dapprima alimentate dal clima bellicista sviluppatosi in Europa e oggi avviate a un esito penoso – penoso ovviamente per le parti più deboli dei due conflitti, il popolo ucraino e il popolo palestinese – dagli interventi cinici di Trump: in Ucraina l’abbandono di Zelensky, l’umiliazione dell’Europa, e un accordo direttamente con il suo simile Putin, sulla testa degli ucraini, di fatto una resa, in termini enormemente più svantaggiosi per l’Ucraina di quelli dell’accordo che poteva concludersi fin dal marzo 2022, con un milione di vittime in meno; a Gaza la proposta ancor più cinica e volgare di una gigantesca pulizia etnica diretta a evacuare più di due milioni di palestinesi dalla loro terra per far posto a ville e a lussuosi stabilimenti balneari in quella che diverrebbe “la Riviera del Medio Oriente”.
In secondo luogo la catastrofe ecologica. L’impatto umano sulla Terra sta diventando insostenibile. Secondo i calcoli della scienza occorrerebbe, per scongiurare la catastrofe climatica, azzerare tutte le emissioni di anidride carbonica entro il 2050. Stiamo invece andando in direzione opposta. Le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera sono giunte ormai all’enorme cifra di 51 miliardi di tonnellate l’anno. Secondo il rapporto GHG Emissions of All World Countries. 2023, esse sono aumentate, dal 1990 ad oggi, di oltre il 70%, e non cessano di aumentare. A causa del riscaldamento climatico, larghe fasce di coste a livello del mare sono destinate ad essere sommerse. Entro la fine del secolo si giungerà fin quasi all’estinzione della biodiversità. Deforestazioni e cementificazione stanno crescendo annualmente, contribuendo massicciamente al riscaldamento climatico. È stato inoltre calcolato che ogni giorno vengono tagliati, nel mondo, 15 milioni di alberi; che gli alberi abbattuti ad opera dell’uomo, nell’ultimo secolo, sono stati 3.000 miliardi, circa la metà di quelli esistenti sulla terra; che al tempo stesso vengono gettato nei mari miliardi di tonnellate di rifiuti plastici ed è stata provocata l’estinzione di migliaia di specie di pesci. Sta crescendo l’impatto sull’ambiente dell’agricoltura industriale e degli allevamenti intensivi, che sono tra le principali fonti di emissione di anidride carbonica e di consumo dell’acqua potabile e stanno logorando la fertilità dei suoli, distruggendo la biodiversità e sottoponendo miliardi di animali domestici a torture spaventose. Si stanno così minando le condizioni di vita sul nostro pianeta, le cui capacità produttive consentirebbero la sopravvivenza e il benessere di tutti se solo fossero accompagnate dalla cura della natura e da un’equa distribuzione della ricchezza.
Al tempo stesso sono cresciute la ricchezza dei ricchi – i cinque miliardari più ricchi del mondo hanno raddoppiato negli ultimi 4 anni la loro ricchezza, e la raddoppieranno nei prossimi 4 anni – e la povertà dei poveri, fino alla morte per fame e per malattie curabili e non curate di milioni di persone. E poi la condizione sempre più drammatica dei migranti: in Italia sono state varate norme dirette a ostacolare con mille intralci burocratici i salvataggi dei migranti in mare; il governo insiste in quella pratica dei sequestri di persona che sono le deportazioni in Albania di migranti catturati in mare mentre stanno esercitando il loro diritto di emigrare; da ultimo il penoso affare Almarsi, sottratto con un aereo di Stato all’ordine di arresto della Corte penale internazionale, che ci ha rivelato, oltre al disprezzo per il diritto del nostro governo, la sua sostanziale complicità con le torture, gli stupri e gli assassinii che si commettono nei lager libici dove vengono illegittimamente trattenuti i migranti onde impedire loro di venire in Italia.
2. Ma quest’anno, in quest’ultimo mese si è prodotta, con gli incredibili interventi di Donald Trump, anche una crisi dell’ordine mondiale e una sorprendente involuzione autocratica della democrazia statunitense.
Ciò che ho trovato più impressionante in questi interventi di Trump è stata l’ostentazione compiaciuta sia della crudeltà, sia del disprezzo per il diritto. Sono stati impressionanti le decine di decreti esecutivi, molti dei quali in contrasto con la Costituzione americana, firmati e poi sbandierati da Trump davanti alle telecamere come segno dei suoi pieni poteri; la gogna di decine di migranti in catene mentre vengono espulsi dal paese dove vivevano da anni perfettamente integrati; il progetto cinico della cacciata di più di due milioni di palestinesi dalla loro terra devastata per far posto, a Gaza, a una lussuosa località balneare. Altrettanto ostentato è il disprezzo di Trump per il diritto, che chiaramente è per lui inesistente: dalla stigmatizzazione sprezzante come “farsa” del processo con cui è stato condannato per 34 capi d’imputazione poco prima del suo insediamento, alla grazia concessa ai suoi 1.500 seguaci che quattro anni fa dettero l’assalto a Capitol Hill; dalla cacciata di quanti su quell’assalto avevano indagato all’incredibile decreto che vieta l’ingresso negli Stati Uniti di tutto il personale della Corte penale internazionale e ne congela i beni presenti in territorio statunitense, a causa delle imputazioni sgradite, prima tra tutte quella contro il suo amico Netanyahu. È una concezione che, insieme alle pratiche crudeli da essa legittimate, gode del consenso popolare. Non è una novità. È esattamente ciò che successe con il fascismo e con il nazismo, che ottennero un consenso di massa alle loro politiche immorali e disumane fascistizzando il senso civico e così producendo, a livello di massa, il crollo della morale e del senso di umanità. Sono questo crollo del senso morale e questa diffusione dell’odio razzista contro i migranti, attestati dalla popolarità di Trump nelle destre estreme di tutto il mondo, la vera minaccia al cuore della democrazia, che risiede precisamente nel principio di uguaglianza e in quello dignità di tutti gli esseri umani.
Ebbene, questo disprezzo per il diritto e per la giurisdizione e, insieme, per la morale e per il senso di umanità è il prodotto di una concezione primitiva e anti-costituzionale della democrazia che si sta diffondendo in tutti i regimi populisti, in crescita costante in tutto l’Occidente. La democrazia consisterebbe unicamente nel potere della maggioranza uscita vincente dalle elezioni: un potere che si vuole accreditato come espressione della volontà popolare e che perciò non tollera né limiti, né vincoli, né controlli, a cominciare da quello giudiziario che si vuole neutralizzare. Un potere, dunque, virtualmente totalitario.
3. C’è poi un secondo aspetto allarmante di questa degenerazione della democrazia. Fino alla svolta trumpiana, negli anni del trionfo delle politiche liberiste, l’asimmetria tra il carattere globale dell’economia e della finanza e il carattere ancora prevalentemente locale della politica e del diritto aveva provocato una crescente subalternità dei pubblici poteri ai poteri privati delle grandi imprese economiche e finanziarie, in grado di trasferire i loro investimenti dove massima era la possibilità di sfruttare il lavoro, di devastare impunemente l’ambiente, di non pagare le imposte e di corrompere i governi. Veniva però mantenuta la separazione tra sfera pubblica e sfera privata. Oggi si sta compiendo un’ulteriore regressione: l’aperta volontà di questi poteri privati, a cominciare da Elon Musk e dagli altri multi-miliardari immediatamente accorsi alla corte del nuovo autocrate Donald Trump, anch’egli miliardario, di liberarsi di qualunque condizionamento giuridico e politico e la loro aspirazione a dominare direttamente il mondo. Si sta prospettando, in breve, il dominio di pochi padroni del mondo, accomunati dalla volontà di fare interamente a meno della sfera pubblica, dall’intolleranza di qualunque condizionamento giuridico o politico, dal sostegno prestato a tutte le forze reazionarie dell’Occidente e dal negazionismo dei problemi globali.
È una mutazione che rischia di contagiare l’intero mondo occidentale e che è intrinsecamente distruttiva. Nel momento in cui, più che in qualunque altro momento della storia, sarebbe necessario lo sviluppo, a livello globale, di un sistema più complesso e articolato di garanzie della pace, dell’uguaglianza e dell’ambiente naturale, il diritto sembra scomparso dall’orizzonte della politica mondiale: diritti fondamentali e principio di legalità, separazione dei poteri e controlli giudiziari sono diventati estranei al linguaggio del potere politico e di quello economico, tra loro sempre più alleati e talora confusi. Inutile dire che a questa crisi della democrazia ha contribuito potentemente, in Occidente, il crollo delle sinistre, provocato dal loro vuoto programmatico, dal loro sradicamento sociale e dalla loro sostanziale subalternità al pensiero liberista.
La manifestazione più vistosa di questa mutazione è la privatizzazione dei beni comuni e della sfera pubblica. Emblematico è il fenomeno impersonato da Elon Musk, che possiede la grande maggioranza dei satelliti che girano intorno alla Terra – 7.000, che diverranno presto 12.000 – e tramite loro gestisce, controlla e trae profitto da gran parte delle nostre comunicazioni e informazioni, in palese contrasto con il Trattato sulle attività nello spazio extra-atmosferico stipulato a Washington il 27 gennaio 1967. L’articolo 1 di questo trattato stabilisce infatti che “l’esplorazione e l’utilizzazione dello spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, saranno svolte a beneficio e nell’interesse di tutti i paesi, quale che sia il grado del loro sviluppo economico o scientifico, e saranno appannaggio dell’intera umanità”. È una norma chiaramente violata dal quasi monopolio dello spazio di cui Musk si impossessato. Si tratta, ripeto, di un mutamento di regime. Fino a ieri il capitalismo neoliberista ha devastato la sfera pubblica e sottomesso la politica all’economia, mantenendo tuttavia la separazione formale tra le due sfere. Il fenomeno Musk segnala una svolta di sistema: l’appropriazione e il diretto governo privato di settori fondamentali della vita civile e della vita pubblica globale, tramite una soppressione della mediazione pubblica e perciò una regressione pre-moderna allo stato patrimoniale dell’età feudale, quando la politica non si era separata dall’economia quale sfera pubblica ad essa sopraordinata.
Di qui un ultimo aspetto della crisi in atto delle democrazie. Un corollario di questa personalizzazione e privatizzazione della politica è la logica schmittiana del nemico, sviluppatasi sia nelle politiche estere che nelle politiche interne.
Anzitutto nelle politiche estere. Gli Stati Uniti, rimasti orfani del nemico dopo il crollo dell’URSS, hanno immediatamente trovato il loro nuovo nemico nel terrorismo e poi di nuovo nella Russia, nella Cina e, tendenzialmente, in tutto il non-occidente. Le due guerre in atto sono entrambe conflitti identitari, anche se tra russi e ucraini e tra ebrei e islamici non esiste nessuna ragione razionale di ostilità: l’Ucraina ha fatto a lungo parte della Russia e gli ebrei, dopo la loro cacciata nel 1492 dalla cattolica Spagna trovarono rifugio a Salonicco e in Turchia e convissero pacificamente a lungo nell’impero ottomano che certamente non ha mai conosciuto l’antisemitismo sviluppatosi invece nell’Europa cristiana.
In secondo luogo nelle politiche interne, dove la logica del nemico è diventata la logica della politica, secondo un altro perverso insegnamento di Carl Schmitt. L’odio identitario è il grande dramma della politica odierna, che sta minando le nostre democrazie e promuovendo fondamentalismi, razzismi e fascio-liberismi. Il linguaggio della politica è diventato un linguaggio perentorio, aggressivo, urlato, mai problematico, mai aperto al dubbio, mai interessato alle ragioni e ai punti di vista diversi. I partiti, soprattutto i partiti populisti, colmano il loro vuoto culturale e programmatico inventando nemici: i precedenti governi, le forze di opposizione, la libera stampa, i magistrati, i migranti, i tossicodipendenti, i piccoli devianti. Questa logica del nemico ha contagiato la società, nella quale i conflitti e gli odi sono diventati tanto più aggressivi e violenti quanto maggiori sono le condizioni di miseria e di abbandono nelle quali vivono le persone. Se non vogliamo precipitare nel baratro delle guerre e degli odi, questa logica deve essere abbandonata, nella politica interna e più ancora nella politica estera, e sostituita dalla logica opposta della non violenza, del dialogo, del confronto razionale, del compromesso, della solidarietà, della tolleranza reciproca e del reciproco rispetto.
4. Ebbene, tutto questo rende più attuale e necessario che mai il nostro progetto di una Costituzione della Terra. Contro questa degenerazione della politica e della democrazia non basta richiamarsi ai sacri principi: all’uguaglianza e alla dignità di tutti gli esseri umani, ai loro diritti, alla separazione dei poteri, al valore della legalità e simili. In assenza di garanzie, questi principi sono solo parole, ignorate o peggio sbeffeggiate dai nuovi padroni del mondo. Ciò che occorre – la sola possibilità di salvare le nostre democrazie e con esse la pace, la sicurezza del genere umano e la nostra stessa dignità – è l’allargamento, a livello dei nuovi poteri selvaggi, del paradigma costituzionale e garantista. Solo portando il costituzionalismo, le garanzie dei diritti e dei beni vitali all’altezza degli attuali poteri globali e delle loro aggressioni, è possibile civilizzare questi poteri e funzionalizzarli all’attuazione di quei sacri principi, oggi ridotti a vuota retorica e sicuramente scomparsi dall’orizzonte della politica e dell’economia.
È questo il tratto specifico e originale del nostro progetto di una Costituzione della Terra, che lo differenzia da tutte le carte internazionali dei diritti: l’introduzione delle garanzie, cioè dei divieti e degli obblighi senza i quali la pace e l’uguaglianza sono mere enunciazioni di principio, pura retorica, promesse non mantenute ma sistematicamente violate. È la centralità delle garanzie e delle istituzioni di garanzia che rende attuabile il nostro federalismo garantista: la messa al bando delle armi tramite la previsione della loro produzione e del loro commercio come gravi crimini contro l’umanità, giacché senza armi le guerre sarebbero impossibili; l’istituzione di un demanio planetario dei beni comuni vitali, come l’acqua potabile, l’aria, le grandi foreste e i grandi ghiacciai, dalla cui tutela dipende la continuazione della vita sul nostro pianeta; l’istituzione di una sanità e di un’istruzione pubbliche – di ospedali e di scuole – in tutto il mondo a garanzia dei diritti alla salute e all’istruzione; un fisco globale progressivo in grado di finanziare le istituzioni globali di garanzia, ma anche di impedire le gigantesche accumulazioni di ricchezze, inevitabilmente destinate ad impieghi illeciti.
È solo con l’introduzione di queste garanzie e perciò con l’espansione del paradigma costituzionale oltre lo Stato nazionale, che possiamo non solo fronteggiare le catastrofi che incombono sul nostro futuro, ma anche rifondare le nostre democrazie nazionali e promuovere lo sviluppo di una democrazia cosmopolita. È questo il progetto di una Costituzione della Terra, a sostegno del quale la nostra associazione “Costituente Terra” ha promosso un movimento d’opinione internazionale. È la sola alternativa a un futuro di disastri e poi alla fine del nostro stesso futuro. Di fronte alla gravità di questa minaccia e poi alla prospettiva del venir meno del nostro stesso futuro, c’è una sola risposta realistica e razionale: rifondare la democrazia, onde assicurare un futuro all’umanità; ripensare la geografia democratica dei poteri, identificandome e stabilendone i limiti e le separazioni, garantire le forme della partecipazione popolare e della rappresentanza politica e costruire un sistema efficiente di funzioni e di istituzioni globali di garanzia della pace, dei diritti e dei beni fondamentali.
Naturalmente non possiamo essere ottimisti. La direzione nella quale stiamo andando è addirittura il tramonto dell’idea stessa di democrazia, che rischia di trasformatasi nell’illusione di una breve stagione del passato. E tuttavia, come spesso ripetiamo, non dobbiamo confondere ciò che è improbabile da ciò che è impossibile. Non dobbiamo identificare ciò che i poteri economici e politici non vogliono fare con ciò che è impossibile fare. Né dobbiamo confondere, se non vogliamo nascondere le responsabilità della politica e i potenti interessi che la condizionano, tra conservazione e reali­smo, squali­ficando come irreali­stico o utopistico ciò che sempli­cemente contrasta con gli interessi e con la volontà dei più forti. Contro questa fallacia pseudo-realistica, che offre una legittimazione teorica allo stato di cose esistenti, dobbiamo mostrare che la vera mancanza di realismo consiste nell’idea che l’umanità possa continuare nella sua corsa incontrollata e spensierata verso lo sviluppo insostenibile, la crescita delle disuguaglianze e la produzione di armi sempre più micidiali, senza andare incontro al disastro. L’assenza di realismo consiste nel non vedere la realtà dell’odierno caos globale e nell’ignorare le politiche – o l’assenza di politiche – che la determinano. Di questa realtà facciamo tutti parte, e contribuiamo a consolidarla o a modificarla con le nostre scelte, con le nostre teorie, con le nostre politiche e soprattutto con la nostra inerzia. E tutti ne portiamo, per come essa è e per come sarà, la responsabilità.
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La guerra e le vie della Pace

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Il progetto costituente
La guerra e le vie della Pace

26/05/2024
Il 23 maggio 2024 si è tenuto, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’università Roma Tre, un convegno indetto da Costituente Terra sui temi della guerra e delle vie per contrastarla, sull’impossibilità di una democrazia bellica, e sul ruolo di una Costituzione della Terra per il disarmo globale. L’articolo di Luigi Ferrajoli

1. La guerra come negazione della ragione, della morale, della politica e del diritto – Muoverò da una tesi di fondo. Esiste un’antitesi concettuale tra guerra e ragione, tra guerra e morale, tra guerra e diritto, tra guerra e democrazia, tra guerra e politica, in breve tra guerra e civiltà. La guerra è il massimo crimine contro l’umanità, un “assassinio di massa” come scrisse Hans Kelsen, la forma più disumana e selvaggia delle relazioni tra i popoli, la violazione, diretta o indiretta, di tutti i diritti fondamentali. Esiste, in particolare, un’antinomia insuperabile tra diritto e guerra: non solo perché la guerra è proibita dalla Carta dell’Onu, è qualificata come un crimine dallo statuto della Corte penale internazionale ed è ripudiata dalla Costituzione italiana e da tutte le costituzioni avanzate, ma, prima ancora, per la contraddizione concettuale che fa della guerra – oggi più che mai – la negazione del diritto e del diritto la negazione della guerra: la guerra è la condizione pre-giuridica dei rapporti interpersonali, il cui superamento produce il passaggio dallo stato di natura allo stato civile.
Oggi più che mai, dato che mai come oggi la guerra – la guerra nucleare, in grado di sterminare il genere umano, ma anche la guerra convenzionale, che fa uso di missili e bombardamenti che colpiscono soprattutto le popolazioni civili – è un orrore insensato, intrinsecamente anti-giuridico, che può degenerare nella devastazione illimitata. Fino a un ormai lontano passato esisteva un senso, sia pure discutibile, della nozione di “guerra giusta”, che equivaleva a un limite di diritto naturale al diritto, altrimenti illimitato, di muovere guerra. Oggi parlare di limiti non ha più senso. I suoi potentissimi mezzi distruttivi della guerra hanno infatti travolto tutti i vecchi limiti naturali, essendo divenuti sproporzionati rispetto a tutte le vecchie cause della guerra giusta – come le tres iusti belli conditiones: iusta causa, auctoritas principis, intentio recta – formulate da San Tommaso. Oggi la guerra, ha scritto Norberto Bobbio, “è incondizionatamente un male assoluto” rispetto al quale “siamo, almeno in potenza, tutti quanti obiettori”[1]. E “guerra giusta” è oggi una contraddizione in termini, essendo qualunque guerra, che non sia di difesa da un attacco in atto, una guerra intrinsecamente ingiusta, oltre che giuridicamente illecita.

2. L’ineffettività del principio della pace – Il nostro convegno reca il titolo di un bel libro di Bobbio del 1979, Il problema della guerra e le vie della pace. Ed è alle vie della pace che esso è soprattutto dedicato.

Ebbene, dobbiamo subito riconoscere che le vie della pace non sono state tracciate, né tanto meno percorse dal nostro diritto internazionale. Il principio della pace è solennemente proclamato nella carta dell’Onu. Ma è rimasto totalmente ineffettivo. Addirittura è contraddetto dalla conservazione, nell’art. 2 della carta, del principio della sovranità degli Stati, che con il divieto della guerra è in evidente contraddizione. La stessa cosa, del resto, vale per i tanti principi – l’uguaglianza, la dignità di ciascun essere umano, i diritti fondamentali – stipulati nelle tante carte dei diritti che affollano il nostro diritto internazionale. Pace, uguaglianza e diritti umani sono dunque soltanto enunciazioni di principio, promesse non mantenute.

Quali sono le ragioni di questa ineffettività della pace, di questo sostanziale fallimento dell’Onu e delle sue tante carte dei diritti? E quali sono le vie della pace e dei diritti umani che renderebbero effettivi l’una e gli altri? Penso che le ragioni di questo fallimento siano essenzialmente due. La prima è che queste carte non sono costituzioni rigide, sopraordinate a tutte le altre fonti, statali e internazionali, del diritto, come sono invece le costituzioni delle odierne democrazie avanzate, a cominciare dalla Costituzione italiana. La seconda, ancor più grave, è che in esse non è prevista nessuna garanzia primaria, cioè nessun divieto o obbligo, né tanto meno le relative istituzioni di garanzia, correlative a quelle aspettative negative o positive nelle quali consistono pace, uguaglianza e diritti umani, in assenza delle quali i principi stabiliti sono destinati a rimanere sulla carta. Come ha scritto Papa Francesco nel suo bellissimo messaggio al nostro convegno, è necessario che le dichiarazioni di principio contenute nella carta dell’Onu e nelle tante carte internazionali dei diritti umani siano integrate da effettive garanzie a loro sostegno, e in particolare della pace, in grado di trasformare la realtà.

Sono questi i limiti della carta dell’Onu e delle tante carte dei diritti umani che ne spiegano il fallimento e il cui superamento abbiamo proposto nel nostro progetto di una Costituzione della Terra. Non serve a nulla proclamare la pace se non si introducono le garanzie del disarmo degli Stati e dell’abolizione degli eserciti nazionali. Così come non basta stabilire il diritto alla salute o all’istruzione o il principio della tutela dell’ambiente perché nascano ospedali o scuole o si produca l’intangibilità dei beni vitali della natura. E’ necessario prevedere e istituire un servizio sanitario e un servizio scolastico globali e gratuiti per tutti, un demanio planetario che sottragga alla privatizzazione, alla mercificazione e alla dissipazione i beni comuni della natura, una giurisdizione penale obbligatoria per i crimini contro l’umanità, la messa al bando delle armi onde rendere impossibili le guerre e una Corte costituzionale mondiale che annulli le misure liberticide dei regimi dispotici. Sono necessarie, in breve, le garanzie e le istituzioni di garanzia primaria che abbiamo indicato nel nostro progetto di Costituzione e che possono essere introdotte, nell’interesse di tutti, solo da un patto di rifondazione dell’Onu rigidamente vincolante quale è, appunto, una Costituzione della Terra.

Le vicende del principio della pace sono sotto questo aspetto esemplari. Nonostante la sua solenne proclamazione nella carta dell’Onu, le guerre, dopo la nascita delle Nazioni Unite, non sono mai cessate. Il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 avrebbe potuto inaugurare una nuova era di pace. Segnò invece la fine dell’equilibrio del terrore e fu vissuto dall’Occidente come una vittoria. Da allora alla guerra fredda si sono sostituite le guerre calde quali strumenti ordinari di soluzione delle controversie internazionali: in Iraq nel 1991, nella ex Jugoslavia nel 1999, in Cecenia nel 2000, in Afghanistan nel 2001, di nuovo in l’Iraq nel 2003, in Libia e in Siria nel 2011 ed oggi in Ucraina e a Gaza.

L’Onu, frattanto, è stata totalmente emarginata. Conta sempre meno. Non è riuscita a far nulla per impedire e poi per far cessare la guerra, con le sue centinaia di migliaia di morti, scatenata dall’aggressione criminale della Russia all’Ucraina. E a nulla è valso il voto a schiacciante maggioranza dell’Assemblea generale dell’Onu sulla cessazione del fuoco e del massacro nella disgraziata striscia di Gaza: uno sterminio disumano provocato dalle bombe, ma anche dalla fame, dalla sete, dalla mancanza di cure per malati e feriti, cui sono sottoposti due milioni di palestinesi che sopravvivono tra le macerie di un paese devastato.

Una qualche vitalità stanno invece mostrando, non a caso, le istituzioni giurisdizionali di garanzia secondaria. Su ricorso del Sud Africa, la Corte internazionale di giustizia, con l’ordinanza n. 192 del 26.1.2024, ha imposto a Israele di “prendere tutte le misure in suo potere per impedire al suo esercito di commettere atti di genocidio nella Striscia di Gaza” e di “presentare una relazione scritta su tutte le misure adottate per dare attuazione a tale ordine”. Inoltre, con una successiva ordinanza del 24 maggio, ha imposto al governo israeliano di “fermare immediatamente l’offensiva militare a Rafah” e ai capi di Hamas “il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi israeliani”. A sua volta, la Procura penale internazionale, che nel marzo 2023 aveva chiesto l’incriminazione e l’arresto di Vladimir Putin, ha chiesto l’arresto, per crimini di guerra e contro l’umanità, di Benyamin Netanyahu e del suo ministro della difesa Yoav Gallant, oltre che dei capi di Hamas. Per la prima volta, con l’incriminazione dei governanti di un paese dell’Occidente, la giustizia internazionale acquista credibilità, dando un segno di imparzialità e di indipendenza e, soprattutto, di una concezione egualitaria del diritto penale internazionale quale diritto del fatto e non dell’autore, chiunque egli sia.

Le istituzioni politiche di governo, statali e sovrastatali, sono tutte, invece, penosamente ottuse e irresponsabili. Nel Consiglio europeo del 21 marzo, i governanti europei hanno parlato, con incredibile leggerezza e irresponsabilità, di una possibile scontro tra la Nato e la Russia sul suolo europeo, e quindi della necessità di un’ulteriore corsa al riarmo; come se uno scontro tra potenze nucleari potesse svolgersi senza il rischio di una sua deflagrazione atomica, che provocherebbe la devastazione dell’intero continente europeo, e come se gli armamenti di cui dispongono la Nato e la Russia non fossero sufficienti a distruggere centinaia di volte l’intero genere umano. Si sta parlando, in breve, della possibilità di una terza guerra mondiale. Non dimentichiamo che le guerre assai spesso avvengono per un incidente, o un equivoco o un errore. E nel clima bellico sviluppatosi in Europa, incidenti, equivoci ed errori sono altamente probabili. Il tabù della guerra atomica, che ci ha protetto negli anni della guerra fredda, sembra oggi scomparso.

3. Le possibili garanzie costituzionali della pace. Rendere impossibili le guerre: l’abolizione degli eserciti e la messa al bando delle armi – A sostegno di questa follia si dice, come sempre, che non ci sono alternative. L’alternativa invece esiste. C’è l’alternativa immediata di una conferenza internazionale di pace su entrambi i conflitti, quello in Ucraina e quello a Gaza, che in base all’art. 20 della Carta dell’Onu potrebbe essere convocata su richiesta della maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite e rimanere riunita in permanenza finché non si pervenga alla pace: una conferenza di pace nella quale i paesi della Nato, ben più che con l’invio di armi, potrebbero aiutare e affiancare l’Ucraina con tutto il peso della loro potenza.

Ma la vera alternativa è più di fondo. Domandiamoci infatti: quali sono le garanzie che renderebbero impossibili le guerre e che sarebbero in grado di assicurare la pace perpetua auspicata più di due secoli fa da Emanuele Kant? Io credo che non bastino, anche se ovviamente vanno difesi e incoraggiati, i vari trattati di non proliferazione o anche di divieto delle armi nucleari. Penso che le uniche, vere garanzie, che abbiamo indicato nel nostro progetto di una Costituzione della Terra e alle quali ho già accennato, siano essenzialmente due.

La prima garanzia, auspicata da Kant in Per la pace perpetua del 1795, è l’abolizione degli eserciti nazionali[2], i quali servono solo a fare le guerre o anche, come troppe volte è accaduto, colpi di stato contro i loro popoli e i loro legittimi governi. La seconda garanzia, ancor più importante, è quella, teorizzata da Thomas Hobbes, del disarmo dei consociati[3], che nella società internazionale sono gli Stati, e perciò la messa al bando come beni illeciti non solo di tutte le armi nucleari e delle altre armi di distruzione di massa, ma anche di tutte le armi da guerra. In qualunque società, scrive Hobbes, il passaggio dalla guerra propria dello stato di natura allo stato civile avviene con il patto sociale consistente nel disarmo dei consociati e nella stipulazione del monopolio pubblico della forza.

Le armi – tutte le armi, quelle da guerra e quelle da sparo – servono per uccidere. La loro produzione, il loro commercio e la loro detenzione dovrebbero perciò essere configurate come delitti gravissimi sia nel diritto statale che nel diritto internazionale, dove ben potrebbero essere inclusi tra i crimini di competenza della Corte penale internazionale indicati nell’art. 5 del suo statuto. Non solo. Ogni assassinio, ogni aggressione terroristica o criminale, ogni guerra dovrebbero essere configurati come crimini non solo dei loro autori ma anche di coloro che li hanno armati, nell’ovvia consapevolezza del loro possibile uso criminoso. Solo la previsione come crimini gravissimi e adeguatamente puniti di questi produttori di morte può rendere impossibile la guerra. Continueranno, certo, ad essere occultate molte delle armi da sparo esistenti. Ma non sarà facile, come avviene con le droghe, la loro ulteriore produzione clandestina. Certamente si continuerà ad uccidere: con i veleni e con altri mezzi. Ma è inconcepibile una guerra con i veleni o con i coltelli da cucina.

Ma al di là del diritto – e anche al fine di raggiungere l’effettiva penalizzazione giuridica delle armi – io credo che sia compito di qualunque movimento pacifista, e lo sarà certamente di Costituente Terra, far crescere nel senso comune e nell’opinione pubblica la stigmatizzazione di questi venditori di morte, cioè delle grandi imprese produttrici e venditrici di armi, come moralmente corresponsabili delle guerre, dei terrorismi e di tutte le organizzazioni criminali che fanno uso degli armamenti da essi prodotti. Sono imprese in prevalenza statunitense, ma tra di esse ci sono anche le nostre Leonardo e Fincantieri, che fanno dell’Italia il quarto paese esportatore di armi al mondo, dopo gli Stati Uniti, la Russia e la Francia. Ebbene, un’efficace campagna diretta a raggiungere il disarmo globale e totale dovrebbe far crescere, nel senso comune e nella pubblica opinione, il banale riconoscimento di una corresponsabilità morale, in ogni guerra e in ogni assassinio, dei produttori e dei venditori di armi. Giacché è da questi produttori di morte che sono armati eserciti, associazioni criminali, bande terroristiche e assassini.

E’ chiaro che in assenza di queste due garanzie – lo scioglimento degli eserciti e il divieto della produzione e del commercio delle armi – le guerre sono avvenute, impunemente e costantemente, non potevano non avvenire e continueranno ad avvenire, non meno dei terrorismi e della criminalità sovranazionale. E’ anche chiaro che queste garanzie possono essere stipulate soltanto sulla base di una rifondazione dell’Onu, cioè della sua costituzionalizzazione quale proverrebbe dalla trasformazione della sua carta statutaria in una vera Costituzione della Terra. E’ questo, aggiungo per inciso, lo “scopo” imposto dall’art. 11 della nostra Costituzione, secondo cui l’Italia “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali” “necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”: pace e giustizia che possono essere raggiunte, ripeto, solo dall’introduzione costituzionale delle loro garanzie e delle relative funzioni e istituzioni di garanzia.

Dunque, la principale garanzia della pace e della vita consiste nella rigida messa al bando di tutte le armi come beni illeciti. Vanno messi al bando, anzitutto, gli armamenti nucleari, che pesano come una permanente minaccia sul futuro dell’umanità. Attualmente – sono i dati del 2021 – le testate nucleari nel mondo sono 13.133, in possesso di nove paesi: 6.257 in Russia, 5.550 negli Stati Uniti, 350 in Cina, 290 in Francia, 225 nel Regno Unito, 165 in Pakistan, 156 in India, 90 in Israele e 50 nella Corea del Nord. E’ stato un miracolo che esse fino ad oggi non siano state usate – per un incidente, per la loro caduta nelle mani di un’organizzazione terroristica o per la conquista del potere da parte di un pazzo in qualcuno degli Stati che ne sono in possesso[4]. Ma non possiamo affidarci ai miracoli e pensare che essi possano ripetersi indefinitamente.

Ma una Costituzione della Terra dovrebbe mettere al bando tutte le armi da sparo, anche quelle non da guerra, la cui diffusione provoca ogni anno milioni di morti. Nel solo 2017 si sono consumati, nel mondo, 464.000 omicidi, per la maggior parte con armi da fuoco, e sono morte centinaia di migliaia di persone nelle tante guerre – 58 solo nel 2023, quasi tutte civili – che infestano il pianeta. Si aggiungano i numeri altissimi dei suicidi e degli infortuni causati dall’uso delle armi. E’ un assurdo massacro, dovuto in gran parte alla diffusione delle armi e massimo, non a caso, nel continente americano dove è più facile acquistarle. Ne è prova la differenza abissale tra il numero degli omicidi ogni anno in paesi nei quali il possesso di armi da fuoco è generalizzato e tutti si armano per paura e quello nei quali quasi nessuno va in giro armato. Sempre nel 2017 ci sono stati 63.000 omicidi in Brasile, 29.168 in Messico, 17.284 negli Stati Uniti e 357, di cui 123 femminicidi (scesi a 298 nel 2023, di cui 119 femminicidi) in Italia, dove quasi nessuno è in possesso di armi.

Una campagna contro le armi dovrebbe essere insomma il primo obiettivo di ogni forza politica di progresso. Essa deve muovere dal riconoscimento di un fatto elementare: la diffusione delle armi mostra che non si è compiuto, neppure all’interno degli Stati nazionali – non, certamente, in quelli nei quali chiunque può acquistare un’arma micidiale – e meno che mai nella società internazionale, il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, che avviene appunto con il disarmo dei consociati e il monopolio pubblico della forza. La produzione, il commercio e la detenzione delle armi sono il segno di una non compiuta civilizzazione delle nostre società e il principale fattore dello sviluppo della criminalità, dei terrorismi e delle guerre. L’abolizione delle armi, soprattutto nei paesi nei quali è più alto il numero degli omicidi, come gli Stati dell’America, del nord e del sud, avrebbe inoltre un enorme effetto di carattere pedagogico: la riduzione della violenza nel costume e nelle relazioni sociali e perciò una crescita, a livello di massa, della maturità civile, intellettuale e morale.

4. Due visioni opposte del futuro del mondo – Non si tratta di una proposta utopistica. Si tratta dell’unica alternativa realistica a un futuro di catastrofi. Dobbiamo essere consapevoli che oggi l’umanità sta attraversando il momento più drammatico della sua storia. Si trova infatti di fronte a un’alternativa mortale: la guerra infinita, se non ci sarà un risveglio della ragione, o la pace perpetua, fondata sulla rifondazione del costituzionalismo a livello globale; l’accettazione della guerra – non diversamente dalle altre catastrofi globali, dal riscaldamento climatico alla crescita delle disuguaglianze e alle devastazioni prodotte dall’assenza di limiti e vincoli agli odierni poteri selvaggi degli Stati e dei mercati – oppure l’alternativa del diritto e della ragione, cioè la via della pace attraverso le garanzie del disarmo globale e totale.

4.1. La guerra infinita – La prima alternativa, la più miope, è anche, purtroppo, la più probabile. La sua maggiore probabilità, quale guerra infinita perché alimentata senza fini dagli opposti fondamentalismi e dalla logica dell’odio e del nemico, è determinata da tre fenomeni, tanto minacciosi quanto insensati, tutti in vario modo espressioni del trionfo della demagogia e dell’irresponsabilità delle politiche dei nostri governanti.

Il primo fenomeno è l’aumento degli armamenti. Le spese in armamenti sono in questi ultimi 20 anni costantemente aumentate fino a raggiungere, nel 2023, la somma di 2.240 miliardi di dollari. La spesa maggiore, pari al 40%, è stata spesa dagli Stati Uniti. Ma anche l’Italia, nonostante la disastrosa situazione economica, si è impegnata ad elevare la spesa militare fino al 2% del suo Pil. La Nato spende oggi il 56% della spesa militare globale. Si è anche interrotto il processo di riduzione degli armamenti nucleari, avviato nel 1968 dal Trattato di non proliferazione nucleare, ripreso poi nel 1987 da un altro trattato fra Ronald Reagan e Michail Gorbačёv, grazie al quale il numero delle testate nucleari nel mondo è sceso da 69.440 a 13.133, e annullato nel 2018 da Donald Trump, che ha ritirato gli Stati Uniti dal trattato, così riaprendo la corsa agli armamenti, a dispetto del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW) votato due anni prima, il 7 luglio 2017, da ben 122 paesi, cioè dai due terzi dei membri dell’Onu.

Il secondo fenomeno che rende più probabile un futuro di guerre è la mutazione della natura e del ruolo della Nato. Il trattato di Washington del 4 aprile 1949, con cui la Nato fu istituita, finalizzava l’Alleanza a scopi puramente difensivi. Il suo famoso art. 5 prevedeva il suo intervento solo in caso di “attacco armato” contro uno dei suoi membri “in Europa o nell’America settentrionale”. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda la Nato, anziché sciogliersi per il venir meno del suo principale nemico, si è sviluppata con l’inclusione di tutti i paesi del vecchio patto di Varsavia e si è rafforzata sulla base di ben quattro nuovi “concetti strategici”, che hanno allargato il suo raggio d’azione al Nord Africa, al Medio Oriente e all’Afghanistan e i presupposti dei suoi interventi – la lotta al terrorismo, le operazioni di peace-keeping, le guerre di difesa preventiva, i cosiddetti interventi umanitari e, in generale, le azioni in difesa della “sicurezza degli alleati” – ben oltre il limite stabilito dall’art. 5 del suo statuto. Nessuna di queste modifiche apportate da questi “concetti strategici”, che hanno trasformato la Nato da alleanza puramente difensiva in un’alleanza finalizzata a risolvere con interventi militari le crisi e le controversie internazionali, è mai stata sottoposta alla ratifica del Parlamento italiano e di gran parte dei Parlamenti degli altri paesi membri. Siamo di fronte a violazioni clamorose dell’art. 11 della nostra Costituzione sul ripudio della guerra e anche dell’art. 53 della carta dell’Onu, secondo cui “nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali o da parte di organizzazioni regionali senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza”.

Il terzo fenomeno è il clima di guerra alimentato dai governi e dai media nell’opinione pubblica e una sorta di militarizzazione delle nostre democrazie. E’ un clima che si manifesta nell’intolleranza per qualunque proposta di soluzione pacifica dei conflitti e nella gara di insulti nei confronti della Russia di Putin, il cui solo effetto è minare la possibilità stessa dei negoziati. Esso segnala un intento inquietante: la volontà che la guerra prosegua per ottenere la sconfitta della Russia, o quanto meno la sua umiliazione nel pantano di una guerra fallita, e anche per consolidare la subordinazione dell’Europa alla politica di potenza degli Stati Uniti. Lo stesso clima si è creato intorno alla guerra contro Gaza, nella quale si è elevato al rango di uno Stato in guerra l’organizzazione criminale di Hamas – il massimo regalo che poteva farsi al terrorismo – così coinvolgendo nella rappresaglia e nello sterminio la popolazione palestinese.

Si sta così rilanciando, in entrambe le guerre, lo scontro identitario di civiltà tra democrazie e autocrazie, tra mondo libero e mondo incivile, anche a costo del rischio di un disastro nucleare. E’ chiaro che nei tempi lunghi questa strada può portare solo alla catastrofe. Gli odi tra gli opposti schieramenti non possono che determinare lo sviluppo degli opposti nazionalismi, che come i fondamentalismi hanno la perversa tendenza ad alimentarsi a vicenda, quali potenti veicoli della logica del nemico.

4.2. La pace perpetua – Ben più improbabile risulta quindi la nostra seconda alternativa, quella pacifista di un negoziato di pace che fermi le due guerre in atto a qualunque, ragionevole costo: come l’assicurazione che l’Ucraina non entrerà nella Nato e magari l’autodeterminazione delle sue regioni russofone sulla base di un voto popolare, ovviamente sotto il controllo dell’Onu; oppure come, nel conflitto israelo-palestinese, la creazione dei due Stati, la Palestina accanto a Israele, oppure la pacifica convivenza di ebrei e islamici in un unico Stato fondato sull’uguaglianza e sulla laicità.

E’ in direzione di questa seconda ipotesi che l’art. 11 della nostra Costituzione obbliga l’Italia a impegnarsi. Tale articolo, ho già ricordato, non contiene soltanto il ripudio della guerra, ma anche il progetto della promozione, da parte dell’Italia, delle “organizzazioni internazionali rivolte” allo scopo di sviluppare “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. In attuazione di questi doveri costituzionali oltre che dello spirito della Carta delle Nazione Unite, l’Italia dovrebbe non solo svolgere un ruolo di mediazione al fine del raggiungimento della pace, ma anche proporre il superamento progressivo di tutti gli armamenti del pianeta quale condizione elementare della sicurezza collettiva e della pacifica convivenza.

E invece, ripeto, nell’attuale clima di guerra proseguono la corsa al riarmo e la crescita delle spese militari. Come si spiega questa corsa insensata ad accumulare ulteriori, inutili armamenti? Si spiega, certamente, con la volontà di potenza che sempre alimenta tutti gli imperialismi. Ma ci sono soprattutto due fattori che spiegano questo clima bellicista e questa corsa al riarmo.

Il primo è la pressione del mercato delle armi. La presenza degli armamenti e degli eserciti nazionali è una causa non secondaria, forse la principale, delle guerre. E’ la tesi sostenuta, più di due secoli fa, da Immanuel Kant nel passo già ricordato: “gli eserciti permanenti”, egli scrisse, “devono col tempo interamente scomparire”, dato che “diventano essi stessi la causa di guerre aggressive”. Ma è anche ciò che sostenne, alla fine del suo mandato, Dwight Eisenhower, che certamente s’intendeva di armi e di politica essendo stato il vincitore della seconda guerra mondiale e il presidente per otto anni degli Stati Uniti. Egli parlò apertamente della minaccia, per la pace e per le democrazie, proveniente dalla potenza dell’apparato militar-industriale. Anche per questo la battaglia per il disarmo è il primo obiettivo di qualunque politica pacifista.

Il secondo fattore è di carattere culturale. E’ la logica del nemico che alimenta il conflitto tra Occidente ed Oriente, tra democrazie e autocrazie e serve a costruire, nel vuoto intellettuale e morale di contenuti programmatici, le identità delle forze politiche. E’ questa logica che informa non soltanto le politiche estere ma anche le politiche interne. Essa si riflette nel clima avvelenato nel quale si è svolto in questi quattro anni il dibattito sulla guerra in Ucraina. Non è stato un dibattito basato sul dialogo, sul confronto razionale e sul rispetto delle opinioni altrui, ma uno scontro radicale fondato sulla logica del nemico, sulle ossessioni identitarie, sull’intolleranza per le opinioni dissenzienti, sul costante sospetto della malafede degli interlocutori e sulla loro stigmatizzazione morale. Del tutto assenti sono stati l’atteggiamento problematico, l’incertezza, il dubbio, l’interesse per i punti di vista diversi dai propri e la consapevolezza della complessità dei problemi che sempre dovrebbero informare la discussione pubblica.

Contro questo clima di contrapposizioni è necessaria una battaglia culturale diretta a creare una nuova antropologia dell’uguaglianza e della solidarietà, che escluda ogni forma di imperialismo o di nazionalismo aggressivo, di razzismo o di suprematismo, di maschilismo o di classismo, di antisemitismo o di islamofobia e, in generale, la logica del nemico e i conseguenti conflitti identitari. L’idea del nemico, infatti, contraddice radicalmente i principi di uguaglianza, di dignità della persona e di solidarietà. Comporta sempre la contrapposizione tra “noi” e “loro”, dove “noi” equivale al bene e “loro” al male e “noi” abbiamo ragione e “loro” torto, quali che siano i “noi” e i “loro”. Contrariamente alle tesi di Carl Schmitt, l’idea del nemico, nella teoria della democrazia, tanto più se cosmopolita, non è la forma, bensì la negazione della politica, oltre che del diritto. Purtroppo nel nostro paese, e in generale in Europa, si è sviluppato un orientamento esattamente opposto. Si è creato, sulla guerra, un clima velenoso che si manifesta nella consueta tesi che non esistono alternative al riarmo e nell’intolleranza settaria, a-critica e a-problematica nei confronti di qualunque opzione pacifista.

5. La pace quale condizione per affrontare tutte le altre catastrofi globali – Infine, un’ultima considerazione sulla pace come obiettivo prioritario rispetto a qualunque altro. Il pericolo delle guerre e l’incubo nucleare sono soltanto uno dei tanti pericoli che incombono sul nostro futuro. Ma è la pace la condizione che rende possibile la soluzione di tutti gli altri problemi globali, dal riscaldamento climatico alle crescenti disuguaglianze, dallo sfruttamento del lavoro al dramma di centinaia di migliaia di migranti ciascuno dei quali fugge da uno di questi crimini di sistema. La pace, infatti, non è solo fine a se stessa. E’ anche il presupposto necessario per generare un rinnovato dialogo tra le grandi potenze in ordine a tutte queste altre sfide globali che minacciano l’intera umanità. E’ infatti chiaro che solo in un clima di pace può maturare la consapevolezza dell’esistenza di sfide a tutti comuni, che richiedono l’accordo su risposte comuni e perciò il dialogo, il confronto e la solidarietà nella loro progettazione e, soprattutto, nella loro realizzazione.

La pace è perciò la condizione pregiudiziale del costituzionalismo globale, cioè di una rifondazione costituzionale dell’Onu e dello sviluppo a suo sostegno di un movimento d’opinione planetario. Purtroppo, la rassegnazione generale di fronte alle guerre si avvale di una diffusa antropologia reazionaria, razionalmente e moralmente insostenibile: il luogo comune dell’inevitabilità della guerra, sostenuto talora con argomenti storicistici, come la tesi che la guerra c’è sempre stata, o peggio antropologici, come l’idea di un’intrinseca natura violenta dell’essere umano.

La messa al bando della guerra, al contrario, sarebbe, tecnicamente, l’obiettivo più semplice e facile rispetto a tutti quelli proposti dalle altre grandi sfide – come il riscaldamento globale, la crescita delle disuguaglianze e delle violazioni dei diritti umani, lo sfruttamento selvaggio del lavoro il dramma dei migranti – che minacciano l’umanità. Si tratta semplicemente di mettere al bando tutte le armi e di sciogliere gli eserciti nazionali. Le difficoltà sono solo quelle rappresentate dai giganteschi interessi delle industrie e del commercio delle armi e dai miseri poteri politici ad essi asserviti o che di essi si servono a fini di potenza.

Questa facilità tecnica e questa difficoltà politica della soluzione del problema della guerra sono il segno più clamoroso del contrasto tra società e potere, tra ragione e miopia politica, tra popoli e sistemi di governo, tra gli interessi di tutti gli esseri umani e gli interessi dell’apparato politico ed economico. E’ la potenza di questi interessi, unita al fatto che nessuno Stato disarmerà unilateralmente se non disarmeranno tutti gli altri, e non certo la natura umana o una qualche filosofia della storia, che sono alla base delle difficoltà che si oppongono alla pace. Ma allora è evidente come la pace potrà essere raggiunta dagli Stati solo se questi la decideranno tutti insieme, simultaneamente al disarmo generale, attraverso la rifondazione costituzionale e garantista della carta dell’Onu.

[1] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1979, p. 10. “Di fronte alle armi atomiche”, aveva già affermato Bobbio nelle Lezioni sulla guerra e sulla pace (1965), rist. a cura di T. Greco, Laterza, Roma-Bari 2024, § 48, p. 211, “nessuna delle giustificazioni razionali, che finora sono state date alla guerra, ha più alcun valore”.

[2] I. Kant, Per la pace perpetua cit., sezione prima, § 3, in Id., Scritti politici e di filosofia della sto­ria e del diritto, tr. it. di G. Solari e G. Vidari, ediz. postuma a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Utet, Torino 1965, p. 285.

[3] T. Hobbes, Leviatano, ossia la mate­ria, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, con testo inglese del 1651 a fronte, tr. it. a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, cap. XVII, § 13, pp. 281 e 283, dove Hobbes afferma che se gli uomini vogliono la pace e la sicurezza, “l’unica maniera è quella di conferire tutto il loro potere e la loro forza a un solo uomo o a un’assemblea di uomini… Fatto questo, la moltitudine così unita si chiama Stato, in latino civitas… a cui dobbiamo la nostra pace e la nostra difesa”

[4] Chomsky ricorda che per ben tre volte fu evitata per miracolo una guerra nucleare grazie al coraggio di tre militari – il russo Vasilij Archipov nel 1962, il russo Stanislav Petrov nel 1983 e lo statunitense Leonard Perroots nel 1989 – che decisero autonomamente di non rispettare le procedure prescritte, cioè di non far nulla di fronte all’allarme di un attacco nemico (Insieme per salvare il pianeta, [2020], tr. it. di V. Nicolì, Ponte alle Grazie, Milano 2023, pp. 33-34).

La Rete di Trieste

img_1415 https://www.avvenire.it/attualita/pagine/il-servizio-alla-politica-731769
14 febbraio 2024
INTRODUZIONE RETE DI TRIESTE
img_1416STARE NEL MEZZO:
TRA LE PERSONE, NELLE COMUNITA’, NEI LUOGHI

di Elena Granata, vicepresidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali.

“La politica deve essere presbite non miope”
Calamandrei, 1947

Grazie, grazie, grazie di questa introduzione,
grazie di avermi accolto anche se a distanza, cari amici e care amiche. Una premessa e un’introduzione breve al mio intervento, un po’ spiazzante. In questi giorni parleremo soprattutto di “valori non notiziabili”, quelli che non fanno clamore, ma sono fondamentali per il bene comune. Lo diciamo subito così che non perdano tempo quelli che si aspettano il nome del leader di un partito o attendono di sapere quanto stiamo al centro quanto stiamo a sinistra, a destra?
No, noi parleremo di “valori non notiziabili”, di cose assolutamente irrilevanti per la politica e per i media: sono irrilevanti i poveri, gli anziani senza casa, i giovani emigrati, i migranti, i carcerati. Ma sono irrilevanti anche i nostri figli e il loro desiderio di stare magari in questa Italia che non dà loro spazio.
Forse perché davvero, come ci ricorda Riccardo Staglianò, “Hanno vinto i ricchi” (Einaudi, 2024) e questo ce lo conferma la situazione planetaria. Che sembra dirci che forse possiamo fare a meno della politica perché ci sono già i ricchi e i potenti del digitale che possono scegliere per noi. Ecco che allora parleremo di valori non notiziabili, perché vogliamo lasciarci alle spalle i valori non negoziabili, quelli che per tanto tempo ci hanno divisi anche dentro il mondo cattolico perché – come diceva il cardinale Carlo Maria Martini – essere ancorati ai valori non vuol dire rinunciare all’esercizio della mediazione, della traduzione dei valori in prassi.
Ecco che allora parleremo di cose che forse a qualcuno che ci ascolterà sembreranno fuori dal tempo e fuori dalla moda. Inattuali, eppure per noi urgenti e necessari.

Siamo nel percorso di un processo un processo che è iniziato in maniera assolutamente spontanea e inattesa. A Trieste lo ricordiamo sempre che non era prevista questa uscita a un certo punto delle settimane sociali di un gruppo auto convocato di politici che ci hanno ricordato che esiste una generazione di sindaci giovani o più anziani che sta nei luoghi dove le persone soffrono e agiscono.
Ecco che allora ci siamo resi conto ancora una volta che il nuovo accade, che qualcosa succede quando siamo impegnati a fare dell’altro. Così è stato per noi. Abbiamo accolto questa autoconvocazione dei politici, soprattutto degli amministratori di questo Paese, mettendoci in ascolto come Comitato.
E allora qualche cenno per ricostruire da dove veniamo una piccola storia non ha neanche un anno è una questione di mesi ma che cos’è successo a Trieste che ha cambiato il nostro modo di pensare alla politica?
1. Cosa abbiamo imparato a Trieste sulla partecipazione e sulla politica?

Un primo punto: la partecipazione non si racconta, la partecipazione si fa, la democrazia si pratica. Non è parola, non è contenuto teorico o non è solo logos, comprensione della realtà, ma è messo in campo di energie, del corpo e della mente.
E se siamo capaci di ascoltare in questo nostro tempo alcuni accadimenti è quello che ci ha spiegato in maniera luminosa, esemplare Bianca Balti l’altro giorno sul palcoscenico di Sanremo, quando non ha parlato della sua malattia, non ha fatto annuncio di che cos’è il tumore, ma si è esposta con il suo corpo, con un gesto, con quella sua luminosità straordinaria, dicendo a tutti che lei non è la sua malattia. Rinunciare alla parola per lasciare che prevalga la vita e la concretezza dei nostri corpi e delle nostre relazioni.

Certo, abbiamo capito a Trieste quante difficile la partecipazione, perché “la partecipazione accade” diceva Giancarlo De Carlo tanti anni fa nel suo lavoro di generazione dell’università di Urbino insieme a Carlo Bo.
La partecipazione accade ma talvolta è faticosa e difficile. I processi partecipativi e i processi democratici sono oggi faticosi, prevale l’idea che tanto non valga la pena partecipare.

Ci siamo abituati che sia normale, perfettamente normale, che alcuni dominino la scena, possano prendere la parola, persino rubarla, quando vogliono e altri debbano stare nell’ombra, passivi e subalterni, come se il loro pensiero contasse meno. Abbiamo organizzato istituzioni che si fondano su un’ineguale ripartizione della partecipazione: tutti possono partecipare – in teoria – ma qualcuno è incentivato più di altri a farlo.
Basti pensare a come funzionano le aule scolastiche. Chi partecipa davvero alla lezione? Certamente il docente che ha il diritto di disporre del tempo e delle modalità con cui gli studenti intervengono in aula ma che spesso si abitua ad una “conversazione” che privilegia i più spavaldi, i meno timidi, i più preparati, chi conosce meglio la lingua, i ragazzi sulle ragazze o le ragazze sui ragazzi a seconda dei contesti. Amartya Sen parlerebbe di capabilities, che sono le competenze in atto e non solo in potenza. È ovvio che in un’aula tutti abbiano lo stesso diritto di intervenire, nessuno potrebbe mettere in discussione il principio astratto, ma ovviamente non tutti hanno le stesse capacità (padronanza, sicurezza, senso di sé, accettazione, consenso del gruppo, riconoscimento da parte del docente o dei pari) e questa disparità di capacità di traduce in diseguaglianza.

Nelle piccole e grandi arene di confronto (dal consiglio comunale al talk televisivo), prende più facilmente la parola il più anziano ed esperto rispetto al giovane, l’uomo rispetto alla donna, quello che ha un ruolo più alto (il prete, il vescovo, il presidente, il docente) all’ultimo arrivato, chi urla di più, e questo accade anche quando non dovrebbero contare ruoli e meriti culturali ma l’espressione delle proprie idee e dei propri pensieri.
E allora possiamo domandarci quali siano i contesti in cui imparare la parità, la reciprocità, l’ascolto. Dove mettersi alla prova in un esercizio di discernimento collettivo che presuppone che riconoscimento del valore di tutti e di ciascuno. Una mancanza di “luoghi del pensiero” che impoverisce la società tutta e la rende più sterile e incapace di confronto.
Siamo diventati tutti un pò scettici, temiamo una finta partecipazione (tanto sono altri che decidono, tanto non serve a nulla).

Partecipare non può significare solo prendere parte – come spiega la filosofa francese Joëlle Zask nel suo libro Participer: Essai sur les formes démocratiques de la participation, 2011- come si prende parte a una cena o a un convegno ma deve poter essere sempre occasione per portare il proprio contributo (pensiamo alla sistematica esclusione delle donne che ci sono fisicamente ma non sempre portano il loro specifico), o possibilità di partecipare ai benefici derivanti dall’azione collettiva, così come avviene in un’impresa dove gli individui partecipano ai benefici della società di cui fanno parte.

Beh, insomma, siamo un po’ arrugginiti perché non sappiamo più praticarla e quindi a Trieste ci siamo dato un metodo molto semplice, molto pragmatico. Ha prevalso il pragmatismo dei numeri. La rivoluzione a Trieste è stata data da un una regola aritmetica che ci siamo dati i delegati dovevano essere un terzo donne un terzo giovani E in tutti i panel che abbiamo fatto a Trieste innumerevoli metà delle relatrici sono state donne metà gli uomini.
Non è questione di quote rosa è questione di rendere possibile la partecipazione il contributo al pensiero all’intelligenza dei giovani e delle donne insieme all’elemento del maschile. E questo è stato rivoluzionario. Questo è stato rivoluzionario perché la rivoluzione ogni tanto non la fare lo Spirito Santo, ma la fa la metrica, la possibilità di dare parola a chi di solito non la prende.
E poi a Trieste abbiamo imparato uno stile, uno stile che l’amico Giorgio Vittadini ha definito – mi piace ricordare questa espressione perché la trovo persino simpatica – una una cordialità trasversale. C’è l’idea che nelle arene politiche possa passare anche uno stile cordiale non solo conflittuale non solo di chi si prende la parola l’un con l’altro non soltanto di chi emette qualche verso per poter togliere la parola agli altri.
E questa animosità ha attraversato anche i nostri mondi. Per quanto tempo ci siamo guardati in cagnesco pensando che ciascuno avesse la verità? Ma la verità è qualcosa di leggero e come il vento dello spirito è qualcosa che bisogna ascoltare insieme con tanta profondità.

2. Fine del prepolitico: tutto è politica

A Trieste abbiamo poi, concordemente sancito la fine del prepolitico. Ce lo siamo detti tante volte rimarcare, e sembra banale dirlo. È questo l’appello che emerge dal magistero di Papa Francesco. Oggi che la politica ha perso credibilità e consenso, dobbiamo riscoprire insieme la nostra comune vocazione verso le cose pubbliche e civili e, in forme diverse, tornare tutti a impegnarci in prima persona. Tornare a pensare la “cosa pubblica” come cosa di tutti e di nessuno, che sopravvive solo se sappiamo rigenerarla e reinventarla.

Francesco è politico quando parla di clima, ambiente e della natura sfruttata dalle attività umane. È politico quando promuove la fraternità universale. È politico quando difende il diritto alla casa, alla terra e a un lavoro dignitoso. È politico quando affronta i temi della pace, dell’intelligenza artificiale, della bellezza e dell’arte. Essere cristiani oggi significa riconoscere una vocazione universale, personale e collettiva alla politica. La politica, infatti, è lo strumento fondamentale per servire le persone, specialmente i più deboli e gli emarginati. È attraverso la politica che si possono trovare soluzioni concrete per rispondere al grido dei poveri e della Terra, entrambi minacciati da guerre e dalla crisi climatica.
Nessuno di noi può stare in panchina, delegare, evitare di sporcarsi le mani o rifugiarsi in una dimensione (solo) associativa, di volontariato, di animazione sociale. Non ci è chiesto di parteggiare, ma di partecipare attivamente e con più slancio personale e collettivo alla vita pubblica. Il clima, le pandemie, il mercato comune, le povertà, le guerre, ci chiedono di collaborare concretamente e attivamente.

3. Rispondere e sentire (con la mente e il corpo) la crisi della sfera pubblica e collettiva

E oggi, non possiamo negarlo, la politica non gode di buona fama.
In nome della politica si praticano a tutti i livelli forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone, l’uso indebito della forza, la xenofobia e il razzismo, il rifiuto di prendersi cura della Terra, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali in ragione del profitto immediato, il disprezzo di coloro che sono stati costretti all’esilio, la fiducia in una tecnocrazia salvifica che si affida ciecamente alle tecnologie e al digitale.
Nella narrazione pubblica prevalgono altre dimensioni, più legate all’individuo e al suo benessere personale. È il trionfo dell’intimità e delle discipline che scrutano l’animo umano e le sue paure e contraddizioni, è il tempo della psicoanalisi da bar, dei guru che ci parlano della nostra anima, dei coach che ci aiutano a superare le piccole e grandi crisi.

Io. Io sento. Io penso. Io faccio. Io decido. Io comunico. Io mi sdegno. Io. Io. Abbiamo a cuore la salute ma non ci mobilitiamo per la sanità pubblica. Abbiamo a cuore l’educazione ma non ci mobilitiamo per la scuola. Abbiamo a cuore il benessere personale ma non ci mobilitiamo per la difesa dell’ambiente. Il mondo della comunicazione e dei social va radicalmente in questa direzione, perché ha capito che lo storytelling paga in termini di attenzione più dell’approfondimento e della profondità delle notizie. Da tempo i partiti hanno spostato la loro attenzione dai diritti sociali e collettivi a quelli individuali.

Tutto pare iniziare e finire con la persona, priva di reti, di relazioni, di contesto, di appartenenze. È davvero un tempo complicato, quindi, per chi si occupa di azione e pensiero collettivo, di dinamiche che coinvolgano comunità e territori, di capacità di allargare la rosa della partecipazione, del coinvolgimento delle persone. A parole, termini come collaborazione, cooperazione, partecipazione, animazione, fare rete, fare squadra, tanto cari al mondo cooperativo e all’economia civile, sono ancora vivi, ma in fondo – dobbiamo essere lucidi – sono davvero fuori moda. E così le scienze che lavorano sulla dimensione collettiva, come la politica, l’urbanistica, l’economia, sembrano più in affanno e meno popolari. È la sfera pubblica e la politica che si stanno impoverendo e svuotando di senso.

“Ogni generazione, ogni epoca è chiamata a misurarsi con la prova dell’alfabetizzazione, con la realizzazione concreta della vita democratica.” Così affermava, lo scorso luglio 2024 a Trieste, il Presidente Sergio Mattarella nel suo discorso in occasione della cinquantesima Settimana sociale dei cattolici in Italia. Impegnarsi affinché non vi siano più “analfabeti di democrazia” è un obiettivo che riguarda tutti, non solo chi detiene responsabilità politiche, ma anche la società civile nelle sue molteplici forme. La democrazia, infatti, è un processo che va esercitato, coltivato, reinventato e rigenerato dal basso, partendo dalle dinamiche e dalla vita delle comunità. Altrimenti muore.

Si tratta, piuttosto, di un’incapacità di comprendere e di vivere i valori fondanti della democrazia, come la partecipazione civica, il pluralismo, la separazione dei poteri, i diritti umani, la libertà di espressione, il diritto di emigrare, la pace. Ha la forma di un’apatia diffusa verso le questioni politiche, una crescente confusione tra parteggiare e partecipare, come se ogni discussione fosse una battaglia da combattere in una perenne arena televisiva, dove rischiamo di essere vittime di manipolazioni e disinformazione.
In questo clima di passiva rassegnazione, siamo tutti coinvolti. Ci preoccupiamo per la salute, ma non ci mobilitiamo per la sanità pubblica. Ci preoccupiamo per l’educazione, ma non ci impegniamo per la scuola. Ci preoccupiamo del nostro benessere, ma non facciamo sentire la nostra voce per la difesa dell’ambiente. Il mondo della comunicazione e dei social media sembra andare sempre più in questa direzione, consapevole che lo storytelling cattura più attenzione rispetto all’approfondimento o alla riflessione critica sulle notizie.
La mancanza della dimensione collettiva appare particolarmente problematica proprio perché tutte le grandi sfide che abbiamo davanti – da quella energetica (produrre e consumare diversamente energia) a quella climatica (dotarsi di strumenti per mitigare gli impatti climatici), a quella sanitaria (mantenere il nostro sistema di welfare e salute e rendere il diritto alla salute un diritto davvero universale), alla crisi della scuola – richiederebbero invece una nuova motivazione alla cooperazione, nuove capacità di convergere insieme verso obiettivi comuni, lasciandosi alle spalle il particolare e il singolo interesse.

4. Superare la distinzione tra politica “alta” e “politica minore”, tra stare al centro e stare nel mezzo.

Un punto che ci sta a cuore, che sarà il cuore della relazione di questi giorni, lo dirà meglio di me Francesco Russo nell’intervento che seguirà. Dobbiamo superare – e qui è davvero odiosa la distinzione – tra una politica alta la politica delle strategie, dei posizionamenti, delle alleanze la politica internazionale e la politica minore del grembiule, dell’amministrare il bene comune e la cosa pubblica nei contesti locali: non esiste una politica minore una politica alta, non esiste una politica per gli intellettuali e una politica per la manovalanza, esiste LA politica.

E sempre Giancarlo De Carlo negli anni Sessanta diceva che è necessario “rovesciare la piramide”, quello che sta in basso deve irrorare quello che sta in alto. È in corso una grande crisi della politica, delle cinghie di trasmissione tra l’alto e il basso e vorrei dirlo anche agli amici che hanno iniziato con noi questo cammino.
Quante dispute sulla questione sulla necessità di “stare al centro” e quante poche parole spendiamo per dire la necessità di “stare nel mezzo”, di stare dove ci sono le persone, di stare nelle corsie degli ospedali, di stare in mezzo ai lavoratori che perdono il posto di lavoro.
La differenza tra stare al centro e stare nel mezzo ce lo spiegava benissimo anni fa il cardinal Martini.
E ce lo ha spiegato con la sua vita e il suo impegno un grande compagno di viaggio che è stato il sindaco santo di Firenze, Giorgio La Pira.

“L’attesa della povera gente” e “La difesa della povera gente” (entrambi del 1950) sono testi fondamentali per comprendere l’orizzonte ultimo dell’impegno sociale e politico di Giorgio La Pira. Il suo uso delle parole non è mai casuale: colpisce, ad esempio, la scelta di scrivere “povera gente” anziché “gente povera”. In questa inversione si coglie tutta la sua capacità empatica: il sindaco di Firenze si sente coinvolto nel destino dei suoi concittadini, riconoscendoli poveri non solo per la loro condizione materiale, ma come vittime di un sistema ingiusto ed escludente.
I poveri non possono aspettare, hanno bisogno della nostra sollecitudine. È a loro che La Pira sente di dover rispondere. Il sindaco conosce le statistiche, ma sa dare un volto ai numeri. È consapevole della quantità di famiglie senza casa, dei lavoratori a rischio licenziamento: questi sono i veri protagonisti del suo impegno etico e politico.

La politica cristiana è sollecitudine e capacità di intervento. Bruno Bignami, nel suo libro Dare un’anima alla politica (Edizioni Paoline, 2024), definisce La Pira un “sindaco interventista”. Un termine significativo, oggi forse dimenticato. Il suo interventismo era pragmatico: riconoscere i bisogni, assumersene la responsabilità, trovare soluzioni e agire come se quei problemi fossero propri. Significava osare, rischiare, mettersi in gioco. Il suo impegno si rivolse ai disoccupati, ai senzatetto, ai giovani, ai carcerati e agli ammalati. Per La Pira, la città era il luogo della trasformazione concreta, radicata nella vita delle persone.

Estote parati!

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L’attacco alla Corte Penale Internazionale in corso è un atto eversivo pari ad un colpo di stato. Un colpo di stato internazionale contro la giustizia, la legalità democratica e il diritto internazionale. E dunque la libertà e la pace.
L’obiettivo dei golpisti è chiaro: distruggere tutte le regole per poter dettare le proprie, distruggere la “Costituzione mondiale” (la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale penale e dei L diritti umani) per imporre la propria, distruggere quel che resta dell’Onu e del sistema di Agenzie specializzate per non dover più rendere conto a nessuno.
Siamo ad un passo dalla cancellazione di tutte le più importanti conquiste democratiche dell’umanità degli ultimi 80 anni. Attenzione! Oggi tocca all’Onu, domani toccherà a noi!
L’adozione di misure sanzionatorie contro la Corte Penale Internazionale (CPI), i suoi funzionari e il suo personale, e contro coloro che cooperano con essa in conformità con lo Statuto di Roma (1998) da parte del Presidente degli Stati Uniti Trump, rappresenta un attentato gravissimo allo stato di diritto internazionale e all’architettura multilaterale con al centro il sistema delle Nazioni Unite, fondamentale per promuovere la pace e la sicurezza globale.
Le stesse autorità russe hanno avviato un processo di delegittimazione della CPI e hanno emesso mandati di arresto contro i giudici e il procuratore della Corte quale ritorsione per il mandato d’arresto contro il presidente Vladimir Putin.
Tali misure mettono gli Stati Uniti, la Russia e i paesi che le difendono, come l’Italia, dalla parte degli eversori e dei criminali.
La Corte Penale Internazionale è uno strumento di giustizia internazionale che trova il suo fondamento giuridico nella Carta delle Nazioni Unite e nelle Convenzioni internazionali sui diritti umani. La sua legittimità e capacità d’azione va difesa, costi quel che costi, insieme al diritto internazionale dei diritti umani: un diritto per la sicurezza umana che ha come soggetto primario la persona e i gruppi umani, non più lo Stato. Un diritto che impone agli Stati il dovere di promuovere e salvaguardare la vita e la pace. Prendersi cura della CPI significa prendersi cura delle vittime e dei sopravvissuti alle violazioni dei diritti umani che hanno il sacrosanto diritto alla giustizia.
Oggi, la responsabilità di indagare e punire i crimini è un obbligo giuridico per gli Stati. Né la ragione politica né la ragion di Stato possono essere invocati per non rispettare questo obbligo. Nessuno può essere al di sopra della legge.
Bene hanno fatto, dunque, i 79 paesi che hanno sottoscritto la “Dichiarazione congiunta a sostegno della Corte Penale Internazionale”. Il governo italiano ha scelto di non firmare compiendo una gravissima scelta di campo contraria agli
articoli 10 e 11 della Costituzione, all’orientamento del Presidente della Repubblica e alla volontà della quasi totalità dei paesi dell’Unione Europea (come l’Italia si sono comportati solo l’Ungheria e la Repubblica Ceca).
* * *
Con coraggio e amore
Dobbiamo reagire!

L’impunità è l’ostacolo più grande alla giustizia e alla riparazione dei torti subiti delle vittime e dai sopravvissuti alle violazioni dei diritti umani e ai crimini di guerra e contro l’umanità. L’impunità mina la fiducia nelle istituzioni politiche e nei principi di
democrazia e stato di diritto a livello nazionale e internazionale.
L’alternativa alla Corte Penale Internazionale, all’Onu e al sistema
multilaterale democratico è la legge del più forte, il dominio dell’illegalità, dell’arbitrio e dell’impunità, la violazione sistematica dei fondamentali diritti umani, delle libertà e della democrazia.
Facciamo appello a tutte le donne, gli uomini, le associazioni e le istituzionindemocratiche che hanno a cuore i principi di libertà, uguaglianza, dignità, diritti umani, giustizia, democrazia e pace. Uniamo le nostre voci e i nostri sforzi per:
1. difendere e potenziare la Corte Penale Internazionale e la lotta contro l’impunità, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra (vedi il doc. “Difendi la Corte”, 27 novembre 2024);
2. salvare, democratizzare e rilanciare l’Onu, presidio indispensabile
dell’impegno dell’umanità per la pace, la libertà, la giustizia e la
promozione di tutti i diritti umani per tutti (vedi il doc. “Salviamo l’Onu” 24 ottobre 2024).
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Aderisci anche tu al Comitato nazionale per la difesa della Corte Penale Internazionale e dell’Onu. Continuiamo a lottare per costruire un mondo più giusto e pacifico.
Il Comitato nazionale per la difesa della Corte Penale Internazionale e dell’Onu è aperto al contributo di persone, associazioni, organizzazioni, enti locali, scuole, università e istituzioni. Il Comitato si impegna a sostenere la Campagna per il rafforzamento e la democratizzazione dell’Onu promossa in occasione dell’80° anniversario delle Nazioni Unite (1945-2025) che culminerà con l’Assemblea dell’Onu dei Popoli (6-12 ottobre 2025) e la Marcia PerugiAssisi
della pace e della fraternità “Imagine All The People” del 12 ottobre 2025.

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Marco Mascia, Presidente Centro Diritti Umani “Antonio Papisca” –
Università di Padova
Flavio Lotti, Presidente Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace
10 febbraio 2025
Per aderire clicca qui https://forms.gle/CMUVj6RohAQYadGc9
Chiedi al tuo Comune di approvare l’Ordine del Giorno per difendere i diritti e il diritto
Per info: Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace, via della viola 1 (06122) Perugia – Tel. 335.1401733 – email adesioni@perlapace.it – www.perlapace.it – www.perugiassisi.org
* * *
Dichiarazione congiunta
Sanzioni alla Corte Penale Internazionale (CPI)
7 febbraio 2025
Noi, gli Stati Parte dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI), ribadiamo il nostro continuo e incrollabile sostegno all’indipendenza, imparzialità e integrità della CPI. La Corte funge da pilastro vitale del sistema di giustizia internazionale garantendo la responsabilità per i crimini internazionali più gravi e giustizia per le vittime.
Oggi la Corte sta affrontando sfide senza precedenti. Sono state adottate misure sanzionatorie contro la Corte, i suoi funzionari e il suo personale, e contro coloro che cooperano con essa in risposta al fatto che la Corte sta svolgendo il suo mandato in conformità con lo Statuto di Roma.
Tali misure aumentano il rischio di impunità per i crimini più gravi e minacciano di erodere lo stato di diritto internazionale, cruciale per promuovere l’ordine e la sicurezza globali. Inoltre, le sanzioni potrebbero compromettere la riservatezza di informazioni sensibili e la sicurezza di coloro che sono coinvolti, compresi vittime, testimoni e funzionari della Corte, molti dei quali sono nostri connazionali.
Le sanzioni minerebbero gravemente tutte le situazioni attualmente oggetto di indagine poiché la Corte potrebbe dover chiudere i suoi uffici sul campo.
Promuovere il lavoro vitale della CPI serve il nostro interesse comune nel promuovere la responsabilità, come dimostrato dal sostegno fornito alla Corte sia dagli Stati Parte che dai non Stati Parte.
In qualità di forti sostenitori della CPI, deploriamo qualsiasi tentativo di minare l’indipendenza, l’integrità e l’imparzialità della Corte. Siamo impegnati a garantire la continuità operativa della CPI in modo che possa continuare ansvolgere le sue funzioni in modo efficace e indipendente.
Mentre ci sforziamo collettivamente di sostenere la giustizia internazionale, sottolineiamo il ruolo indispensabile della CPI nel porre fine all’impunità, promuovere lo stato di diritto e favorire il rispetto duraturo del diritto internazionale e dei diritti umani.

Afghanistan, Albania, Andorra, Antigua and Barbuda, Austria, Bangladesh, Belgium, Belize, Bolivia, Bosnia and Herzegovina, Brazil, Bulgaria, Cabo Verde, Canada, Chile, Colombia, Comoros, Costa Rica, Croatia, Cyprus, Democratic Republic of the Congo, Denmark, Dominican Republic, Estonia, Finland, France, Gabon, Gambia, Germany, Ghana, Greece, Grenada, Guatemala, Honduras, Iceland, Ireland, Jordan, Latvia, Lesotho, Liechtenstein, Lithuania, Luxembourg, Maldives, Malta, Mexico, Mongolia, Montenegro, Namibia, Netherlands,
Nigeria, North Macedonia, Norway, Panama, Peru, Poland, Portugal, Republic of Moldova, Romania, Saint Kitts and Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent and the Grenadines, San Marino, Senegal, Seychelles, Sierra Leone, Slovakia, Slovenia, South Africa, Spain, State of Palestine, Sweden, Switzerland, Timor-Leste, Trinidad and Tobago, Tunisia, Uganda, United Kingdom, Uruguay, Vanuatu.
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CARITAS ROMA INVITA A FIRMARE QUESTA PETIZIONE: La discussione sulla trasparenza nel finanziamento all’export di armi torna al centro del dibattito politico. Dal 6 febbraio, infatti, il Parlamento ha ripreso l’iter di modifica della Legge 185/90, suscitando forti preoccupazioni tra molte organizzazioni della società civile. Le proposte in discussione rischiano di compromettere seriamente i principi di trasparenza e controllo che questa normativa garantisce da oltre trent’anni.

Insieme a Caritas Italiana, aderiamo alla Campagna della Rete Pace Disarmo e sosteniamo la seguente dichiarazione, anche in quanto membri della rete dei Soci di Riferimento di Banca Etica:

“La proposta di modifica della Legge 185/90 mette in discussione un importante risultato della società civile italiana: l’obbligo di trasparenza da parte delle banche rispetto al finanziamento alla produzione ed export di armi. Riteniamo grave questo passo indietro, una rinuncia a un diritto di informazione ottenuto dopo lunghi e importanti confronti e contrattazioni. Chiediamo al Parlamento di aprire un dibattito onesto e aperto. Ricordiamo che il mercato delle armi è uno dei più corrotti al mondo e strumenti di controllo sono necessari per continuare a costruire la pace e non la guerra. Crediamo in una finanza che costruisce e sostiene la pace.”
Per opporsi a questi cambiamenti, è stata lanciata la petizione “Basta favori ai mercanti di armi! Fermiamo lo svuotamento della Legge 185/90”. Se lo ritieni puoi firmare a questo link: https://retepacedisarmo.org/petizione-basta-favori-ai-mercanti-di-armi-fermiamo-lo-svuotamento-della-legge-185-90/
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https://www.cittanuova.it/export-di-armi-attacco-finale-alla-legge-185-del-90/?ms=003&se=020
A proposito di questa petizione… qua trovate un articolo che spiega bene l’evoluzione di questa legge.

Editoriale datato e pur sempre valido*

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*Editoriale di Cittàquartiere n.6/7 luglio/novembre 1986
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E’ online Rocca 4/2025

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Progetto Sardegna e altre Organizzazioni rilanciano la mobilitazione popolare unitaria per una nuova legge elettorale sarda. Al riguardo emerge un nuovo protagonismo dei Cattolici.

Cando si tenet su bentu
Est prezisu bentulare

Fortza paris! Nel suo duplice significato: forza insieme e forza uguali!
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.
Il documento-appello che di seguito pubblichiamo, redatto dai rappresentanti delle formazioni che avevano espresso la candidatura di Renato Soru alle elezioni regionali, a cui per l’occasione se ne sono aggiunte altre come Sinistra Futura e la Confederazione Sindacale Sarda, non è definitivo, in quanto ancora al vaglio delle stesse aggregazioni per la formulazione finale. Attendibilmente il documento finale non se ne discosterà sostanzialmente. Eppoi si tratta pur sempre di un documento di principi, suscettibile di interventi tesi ad ampliare in partenza la platea dei consensi.
E allora, perché non aspettare alcuni giorni o magari una settimana? Semplicemente: 1) intanto perché anche in questa versione sostanzialmente lo condividiamo, 2) perché con questa piccola forzatura vogliamo simbolicamente sottolineare l’urgenza che si crei una pressione popolare che costringa il Consiglio regionale della Sardegna a discutere ed approvare una nuova legge elettorale, profondamente innovata rispetto alla pessima in vigore. Pensiamo che sia arrivato il momento buono per raggiungere questo scopo. Lo sosteniamo anche in relazione all’interessante dibattito che su dette tematiche si sta sviluppando in ambito cattolico, a cui anche noi stiamo contribuendo. Citiamo al riguardo il tour di incontri in tutta l’Isola (Sassari, Cagliari, Oristano, Tempio) sulla tematica “diamo un’anima alla politica” che ha avuto come filo conduttore i contenuti del libro, di uguale titolo, di don Bruno Bignami. Sta scritto che la politica senza la partecipazione attiva dei cittadini non è democratica; e la partecipazione dei cittadini si esprime in modo importante, anche se non esaurientemente, con il voto in libere elezioni. Dunque sono necessarie leggi elettorali che la consentano nella misura più ampia possibile. Cosa decisamente impensabile con le attuali leggi, sia al livello nazionale, sia al livello regionale. Occorrono nuove leggi elettorali che appunto favoriscano la partecipazione e nella rivendicazione di queste constatiamo, con soddisfazione, si stanno muovendo importanti movimenti cattolici, come il MEIC (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale), che coinvolgono numerose altre associazioni laicali.
E, allora, in questa battaglia, a cui partecipiamo con convinzione, vorremo che si rafforzasse un ampio schieramento di forze democratiche, senza distinzioni di carattere partitico o ideologico.
Custa est s’ora: “Cando si tenet su bentu Est prezisu bentulare” (*).

RICOSTRUIAMO LA DEMOCRAZIA SARDA.
Appello per una grande assemblea di forze politiche, sociali e di cittadini per il cambiamento della legge elettorale.
(
In Sardegna, dal 2013, ad ogni tornata elettorale assistiamo ad una lesione dei diritti dei cittadini ad essere realmente rappresentati.
La legge elettorale sarda, di impostazione maggioritaria, ha avuto e ha tuttora un ruolo nel produrre la crescita abnorme
dell’astensionismo, la sfiducia nel ruolo dei partiti e delle istituzioni, la tendenza al leaderismo e al personalismo nella politica, l’emarginazione delle iniziative dal basso.
Tale sistema elettorale, accompagnato dall’elezione diretta del capo dell’esecutivo (che sia Sindaco, Presidente di Regione o – come nel progetto di premierato, da contrastare con forza – Presidente del Consiglio dei Ministri), intendeva assegnare all’elettore il potere di scegliere da chi essere governato, ma si è rivelato un fallimento. Da un lato ha prodotto effetti distorcenti nella formazione della rappresentanza istituzionale, dall’altro è stato nettamente rifiutato dagli elettori stessi, che hanno riconosciuto l’inganno sotteso dietro la maschera di una presunta democrazia diretta.
Di fatto, il sistema maggioritario ha minato il sistema rappresentativo disegnato dalla Costituzione, a cominciare dalla decadenza della funzione dei partiti politici, che hanno perso la capacità di favorire la partecipazione dei cittadini nella elaborazione delle proposte politiche e programmatiche e si sono ridotti, nella grande maggioranza dei casi, a comitati elettorali funzionali alla riproduzione del potere di ristrette élites.
Anche l’obiettivo di garantire un adeguato livello di governabilità e di continuità nell’azione di governo delle istituzioni si è rivelato illusorio; se pure si è raggiunta una certa stabilità nella durata degli esecutivi, l’effetto dovuto al bipolarismo forzato e alla frequente alternanza delle coalizioni è stato quello di assistere a una continua e devastante successione di riforme e controriforme che hanno gettato nel caos la già debole macchina burocratica delle varie
amministrazioni senza mai affrontare le grandi questioni politiche, sociali ed economiche.
Occorre, altresì, tenere conto dei chiari indirizzi manifestati in materia elettorale dal Consiglio d’Europa e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non solo con riguardo all’esigenza della riduzione delle soglie di sbarramento e della piena trasparenza dei processi elettorali (art. 3 del primo protocollo CEDU), ma anche in relazione alle indicazioni di cui al punto 82 della risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa n° 1547 del 2007, che fa carico ai partiti politici della responsabilità di “assicurare un’equa rappresentanza delle minoranze nelle istituzioni elettive, tenuto conto della proporzionalità”.
Se si vuole invertire la tendenza e ricostruire processi democratici, è giunto il momento di cambiare i meccanismi elettorali, al fine di rilanciare la centralità degli organi elettivi, che rappresentano tutti i cittadini e tutti gli orientamenti politici presenti nel panorama sardo.
Risulta necessario elaborare una legge elettorale democratica che garantisca la costruzione di un Consiglio Regionale realmente rappresentativo del variegato tessuto politico sardo, dei
territori e dei generi. Quello che possiamo constatare senza possibilità di smentita è che l’attuale legge per l’elezione del Consiglio regionale e del Presidente della Giunta contraddice questi tre obiettivi, impedendo la rappresentanza a gruppi che pure hanno ottenuto non trascurabili consensi, privilegia i territori delle circoscrizioni più grandi ed elegge un numero di donne del tutto sproporzionato rispetto al loro peso nella vita sociale.
Desideriamo, perciò, porre all’attenzione dei cittadini, singoli o associati, e alle forze politiche, alcuni punti di principio sui quali crediamo che debba essere costruita la nuova legge elettorale. A partire da questi punti, chiediamo alla Giunta e al Consiglio Regionale di avviare una consultazione con le forze politiche, sociali e cittadinanza, per elaborare in maniera partecipata la nuova legge. A fronte di una crisi sempre più evidente della democrazia rappresentativa, pensiamo sia decisivo l’utilizzo di un metodo innovativo e realmente democratico, capace di far dialogare eletti ed elettori per la riscrittura delle regole del gioco.
Proponiamo i seguenti principi sui quali convocare una grande assemblea sarda per la ricostruzione della democrazia:
1. Sistema proporzionale ed elezione in Consiglio Regionale del Presidente, con eventuali correttivi necessari, quale ad esempio la cosiddetta “sfiducia costruttiva”, per rispettare quei principi di governabilità e stabilità richiesti dalla Corte Costituzionale italiana.
2. Eliminazione della possibilità del voto disgiunto che favorisce il clientelismo e la personalizzazione della politica.
3. Un abbassamento delle soglie di sbarramento per le singole liste e le coalizioni.
4. Una maggiore rappresentanza politica dei territori marginali, attraverso l’aumento delle circoscrizioni territoriali e la suddivisione delle circoscrizioni maggiori, bilanciata dalla costituzione di una circoscrizione regionale in grado di valorizzare il voto di opinione e le forze politiche minori, alla quale riferirsi anche per la quantità di firme da raccogliere per la presentazione delle liste. Per favorire questi obiettivi si potrebbe aumentare il numero dei consiglieri regionali, a parità del costo totale dell’organo legislativo e dunque a condizione di un taglio delle remunerazione degli eletti.
5. Una norma coraggiosa, costituzionalmente orientata, di vera “discriminazione positiva”, che porti ad avere obbligatoriamente una composizione del consiglio regionale almeno a 60/40% rispetto alla non perfetta suddivisione binaria tra generi.
Il maschilismo e la predominanza maschile della politica istituzionale sarda non sono più tollerabili.
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(*) Da “Procurade ‘e moderare”

P.S. Lunedì 3 luglio è previsto un incontro online del gruppo di redazione del documento pubblicato, al fine di definirne la formulazione finale. Contiamo di poter partecipare da “osservatori” a detta riunione sostanzialmente per appoggiare questo movimento riformatore, dando informazione dell’impegno nella stessa direzione di tanti cattolici singoli e organizzati. Ovviamente daremo comunicazione delle novità del dibattito in corso nel proseguo del tempo.
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————Evento imperdibile——
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Documentazione
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Nel giorno della Memoria

Martedì 28 gennaio 2025

Carissimi,
ieri abbiamo scritto questa lettera agli Ebrei nel “Giorno della Memoria” che qui vi inviamo per conoscenza, con cordiali saluti

Raniero La Valle

DA: “PRIMA LORO”: LETTERA AGLI EBREI NEL GIORNO DELLA MEMORIA

MAI PIU’

Cari Amici delle Comunità Ebraiche di Israele e della Diaspora,
al giungere del “Giorno della Memoria”, riteniamo di potervi esprimere anche a nome di innumerevoli nostri contemporanei e a nome dei 310 illustri mittenti che hanno voluto scrivervi la lettera del 27 novembre scorso (e se qualcuno non si riconoscesse in questo ulteriore dialogo può non mantenervi la sua firma) l’affetto e la solidarietà commossa che tale celebrazione rinnova verso di voi. La Shoà non sarà mai cancellata dal martirologio della storia umana. Noi abbiamo compreso la vostra vibrante reazione a sentire parlare di genocidio in relazione alla guerra di Gaza; infatti benché di analoghi eventi sia stata purtroppo costellata la storia anche prima della Shoà, il genocidio perpetrato dai nazisti contro gli Ebrei è inassimilabile a qualsiasi altro per crudeltà, numero e diabolica pretesa di scientificità, ultimità e finalismo. Da questa aberrazione è scaturito l’irretrattabile “mai più” che tutti ci accomuna.
Perché allora la parola è tornata? Perché, ad onta della Convenzione per la prevenzione e la repressione di tale orribile delitto, che fu la prima delle grandi decisioni postbelliche, la pratica di tale crimine associata al livello estremo cui è giunta la guerra moderna, è stata implicitamente ammessa nei media e ostentata agli occhi di tutti, se non addirittura legittimata come giustificata e non sanzionabile. Secondo il criterio più specifico adottato dalla Convenzione dell’ONU, che è l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte (anche in parte), un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale, genocidi sono stati in passato quelli degli Indiani d’America o degli Armeni, prima dell’abisso della Shoà volta a distruggere gli Ebrei in quanto Ebrei; c’è stata poi l’intenzione di distruggere i Giapponesi in quanto Giapponesi a Hiroshima e Nagasaki, i Cambogiani in quanto Cambogiani per nascita e cultura a Phnom Penh, gli Israeliani in quanto Israeliani in Palestina, i Palestinesi in quanto Hamas a Gaza e, da ultimo, ai nostri giorni, l’eccidio dei Congolesi a milioni per la sfortuna di vivere in un Congo ricco di stagno, tungsteno, tantalio, oro e altri metalli necessari all’elettronica del mondo intero, nel silenzio dei più. La guerra stessa oggi, con le testate nucleari sulle punte dei fucili, si può assimilare al genocidio. È dunque contro questo nuovo flagello dell’umanità, contro questa normalizzazione di guerre genocide, che tutti insieme, Ebrei e Gentili, dovremmo levarci e combattere, risolvendo intanto il contenzioso aperto tra noi.
Di questo fa parte senza dubbio la questione palestinese, a cui per molto tempo si è creduto (da qualcuno anche in Israele) si potesse dare risposta con la soluzione dei due Stati. Oggi, salvo eventi straordinari, si è fatto evidente che questa soluzione è stata resa impossibile. Anche gli avvenimenti di Jenin lo dimostrano. Non si apre allora qui la strada maestra della riconciliazione e condivisione, di Terra e di mensa, cioè di vita, dei due popoli in lotta?
È stato emozionante vedere al momento del rilascio delle quattro donne soldato israeliane a Gaza, l’intreccio dei colori israeliani e palestinesi, lo scambio di gesti, fossero pure artefatti, come se l’odio fosse finito; così come lo è stato il vedere i fiumi di palestinesi uscire dalle carceri israeliane, come se un unico Stato, per Ebrei e Palestinesi, fosse già esistente, anche se troppi Palestinesi aventi casa in prigione.
Perché non dovrebbe essere possibile in Palestina, o se volete in Giudea, Samaria, Galilea, uno Stato giusto e accogliente, casa di tutti? Potrebbe e forse dovrebbe non essere uno Stato laico, secolare e autoidolatrico, quale è nelle ideologie della modernità occidentale; potrebbe essere uno Stato confederale, né secolare né teocratico, né religioso né aconfessionale, né integralista né agnostico, ma potrebbe essere uno Stato abramico o “abramitico” come, secondo la Promessa, dovrebbero essere tutti gli Stati e i territori atti ad accogliere e a far vivere insieme tutte le famiglie della terra. Esso potrebbe essere dotato di ordinamenti innovativi, riconosciuti e tutelati dalla comunità internazionale; e se l’intreccio di Ebrei e Palestinesi, anche al di là del territorio dello Stato, si realizzasse altresì in una convivenza più diffusa nel vasto mondo esterno, si potrebbero adottare misure atte a mantenere una giusta proporzione tra popolazione arabo-palestinese ed ebrea-israeliana in Palestina. O non si può fare nient’altro che quello che è stato già fatto?
Ciò vorrebbe dire una riconciliazione e una pace anche al di là di quella tra Israeliani e Palestinesi. Qualcuno potrebbe chiedere, come ha fatto la comunità ebraica di Bologna rispondendo alla nostra precedente lettera, perché proprio un piccolo Paese come Israele dovrebbe farsi carico di una risposta al problema di 5-6 milioni di profughi gettati nel mondo che nessun Paese finora è riuscito a risolvere. La risposta ci pare sia che non c’è un altro popolo che ha avuto il mandato di tessere l’unità umana. Non tocca a noi ricordare i testi della vostra grande tradizione protesa alla pace e all’universalità dell’intera famiglia delle nazioni.
Oggi, dopo la tregua di Gaza, voi siete stati esposti a una gravissima provocazione, proveniente dal neoeletto Capo della più grande potenza militare della Terra, che vi esorta a estirpare l’intera popolazione di Gaza da quella terra tormentata, e nello stesso tempo vi invia le armi e i dollari per farlo. Purtroppo anche qualcuno dotato di autorità nel governo di Israele ha detto che si tratta di un’idea “meravigliosa”. Si tratterebbe di un orrore deciso e programmato a freddo, quale non si è dato nemmeno nella pulizia etnica del Sudafrica prima della sua conversione all’umano. E non comprendiamo come i costruttori di amene villette sulla costa deliziosa di Gaza, potrebbero non essere inquietati dalla percezione che quel risultato felice sarebbe stato conseguito in seguito e per effetto di un doppio flagello, il genocidio, subito ieri dagli Ebrei in Europa e l’estirpazione violenta oggi dei due milioni di superstiti a Gaza. Ci sembra che in questo momento il passaggio cruciale nel rapporto tra Israele e la comunità internazionale stia nel respingere senza ambiguità questa proposta presentata come la soluzione definitiva della questione palestinese, e paradossalmente frutto della tregua di Gaza. E ci sembra che anche l’Italia, pur nel rapporto ambiguo stabilito tra il presidente Trump e la presidente del Consiglio Meloni, dovrebbe respingere questo aberrante progetto politico, che griderebbe vendetta alla luce della nostra Costituzione e della nostra identità nazionale.
Infine un accenno a un problema interno alle Chiese. Papa Francesco ha detto, celebrando la settimana per l’unità dei cristiani, che la Chiesa cattolica è disposta ad adottare qualsiasi data per la Pasqua, superando le “diatribe” del passato, pur di celebrarla nello stesso giorno nelle diverse confessioni cristiane. La data della Pasqua degli Ebrei non si discute: ma non potrebbe aprirsi un dialogo anche su questo, in vista della futura unità? Dopo tutto è celebrando la “Pasqua dei Giudei” che Gesù è stato consegnato alla morte dal brutale e pilatesco potere romano.
Rinnovando la nostra condivisione con Voi nel Giorno della Memoria, vi inviamo i più cordiali saluti

Lo Scriba per “Prima loro”
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Documentazione
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Il discorso di insediamento di Trump è andato oltre ogni peggiore aspettativa. Quello che si è profilato davanti agli occhi è stato il fantasma di un cripto-fascismo planetario con cui dovremo fare i conti nei prossimi anni

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Ai Mittenti e Interlocutori della Lettera agli ebrei e delle Notizie da Chiesa di tutti Chiesa dei poveri
Giovedì 23 gennaio 2025

CRIPTOFASCISMO PLANETARIO

Cari Amici,
l’Occidente che non è andato a Washington per l’inaugurazione di Trump ha passato lunedì, 20 gennaio, una giornata di sgomento e di incubo. Il discorso di insediamento di Trump è andato oltre ogni peggiore aspettativa. Quello che si è profilato davanti agli occhi è stato il fantasma di un cripto-fascismo planetario con cui dovremo fare i conti nei prossimi anni. La democrazia, come sacro valore dell’Occidente, è in crisi, e addirittura, come hanno detto i primi sconsolati commenti seguiti alla festa di Capitol Hill, sarebbe finita. Non però per un destino, bensì per responsabilità e scelta di coloro stessi che oggi la rimpiangono. Quella che è finita è in realtà la democrazia ridotta a puro esercizio elettorale, non a caso disertato dai più, senza tutto quello che ci avevamo messo dentro noi nella nostra Costituzione, ciò per cui l’Italia dovrebbe essere un modello, altro che Salvini.
L’America paga il conto, e lo fa pagare a noi, delle scelte sbagliate che ha fatto dopo la caduta del muro di Berlino e l’attacco alle due Torri di New York. Inseguendo, come del resto fa da sempre, il mito dell’“America first”, – prima l’America – ha creduto che la sua sicurezza e la sua fortuna stessero nel dominio del mondo, nell’avere un’Armata quale non si era mai vista prima sulla Terra, e perfino nel disporsi alla guerra preventiva, perché “la migliore difesa è una buona offesa”. Questo era il diafano Biden, non a caso bersaglio del rigetto elettorale. Dava per ormai finita la Russia, e per questo le ha lanciato contro la povera Ucraina, e proclamava urbi et orbi (nei documenti sulla strategia nazionale americana) la competizione strategica e la sfida finale con la Cina, il solo avversario che avesse “sia l’intento di rimodellare l’ordine internazionale, sia il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”. Sicché Casa Bianca e Pentagono hanno messo nella spesa militare 800 miliardi di dollari all’anno, mentre la Russia ce ne mette 80, togliendo centinaia di miliardi di dollari all’anno al benessere del popolo americano. Dobbiamo a questo, come ha detto Bernie Sanders, l’eterno candidato alla Presidenza della sinistra americana, se “non c’è una ragione razionale per cui abbiamo una disuguaglianza enorme e crescente di reddito e ricchezza, non c’è una ragione razionale per cui siamo l’unico grande Paese a non garantire l’assistenza sanitaria per tutti, non c’è una ragione razionale per cui 800.000 americani sono senza casa e milioni di altri spendono più della metà del loro reddito per mettere un tetto sopra la testa, non c’è una ragione razionale per cui il 25% degli anziani in America cerca di sopravvivere con 15.000 dollari all’anno o meno, per cui abbiamo il più alto tasso di povertà infantile di quasi tutte le nazioni ricche, per cui i giovani lasciano l’università profondamente indebitati o per cui l’assistenza all’infanzia è inaccessibile per milioni di famiglie”.
Ciò spiega gli eventi di oggi, come si sia passati dall’Occidente “allargato” fino all’Indo-Pacifico, al Giappone e all’Australia di Biden al cripto-fascismo globale di Trump, con tanto di autarchia (i dazi), le sanzioni, gli ordini esecutivi a pioggia, la confusione dei poteri, la giustizia di regime, la pena di morte, l’immunità fiscale dei super-ricchi, e la pretesa di decidere quando cominciare o finire queste “ridicole” ma sempre tragiche guerre.
Tuttavia, il peggio che si è materializzato in America in questo lunedì nero del 20 gennaio, potrebbe non essere tale da contagiare il mondo intero. Potrà fare grandissimi danni, e fare scuola soprattutto nelle maggioranze silenziose, ma potrebbe restare circoscritto a ciò che si è visto tra il Campidoglio e la Capital One Arena, un bagno di folla osannante e soggiogata, chiuso però in una bolla che è l’America e non è il mondo. Non c’è un solo globo terracqueo, il mondo non è pronto per un fascismo planetario, ha altri pensieri, un’altra vocazione. Certo, dipende da noi, ma ora è chiara l’alternativa: o la resa a questa caduta della storia, o la resistenza e la costruzione di una vera comunità internazionale di diritto con un’umanità indivisa.
Del resto non tutto quello che Trump ha annunciato e minacciato col suo sguardo torvo si realizzerà veramente, sembra più un bluff da miles gloriosus che un vero annuncio. Non ci sarà nessun approdo e insediamento su Marte entro la fine di questo mandato presidenziale. La scienza è stata tassativa: a questo punto dell’evoluzione della specie, l’umanità non è in grado, fisicamente e antropologicamente, di affrontare un viaggio in quel pianeta lontano. Non foss’altro che per la durata del viaggio, due anni per l’andata e il ritorno esposti alle radiazioni cosmiche, soggetti all’indebolimento muscolare e scheletrico che il corpo umano subirebbe in una lunga permanenza nello Spazio, con i connessi scompensi del tono muscolare cardiaco. Occorrerebbe costruire enormi astronavi ruotanti, in grado di generare al proprio interno una forza simile alla gravità terrestre, ciò che si potrebbe fare solo direttamente nello Spazio, sfruttando ipotetiche materie prime raccolte anch’esse lassù (da asteroidi o dalla Luna); per non parlare della vita su Marte, fino a 126 gradi sottozero.
Ciò vuol dire che il mito dell’accoppiata Trump-Musk è già caduto, e se l’obiettivo politico più simbolico di tutte le promesse presidenziali si mostra come impossibile e falso, vuol dire che anche il resto non è troppo sicuro, a cominciare dalla deportazione, o espulsione, di milioni di migranti, dati per criminali internazionali e invasori: si dovrebbe fare con l’esercito schierato sul confine meridionale col Messico, lasciando “i nostri guerrieri liberi di sconfiggere i nostri nemici”, come dice Trump; ma con questo finisce il mito della fortezza americana, l’idea che mai nessuno potrà varcare in modo offensivo la frontiera degli Stati Uniti; ecco che secondo Trump questo sarebbe già avvenuto ad opera dei migranti, essendo mancata la difesa dei confini, neanche l’America fosse Lampedusa come è nell’immaginazione ossessiva di Salvini.
E per quanto riguarda il ritorno incondizionato al petrolio, al carbone, così da irradiarlo a suon di dollari in tutto il mondo, in che consiste l’”America first”? Consiste nel fatto che l’America sarà la prima a risentirne, insieme alle isole che saranno sommerse dal mare, e ne avrà cicloni e tornado sempre più devastanti, e bruceranno le città, come ieri l’incendio di Chicago e oggi quello di Los Angeles, dove perfino i ricchi “hanno perso le loro case”.
E che dire di questo presentarsi di Trump come il Messia che Dio stesso avrebbe protetto col suo scudo perché compisse la sua missione in America e nel mondo? Per l’America non si tratta di una novità, c’era il giovane Bush che andando a distruggere l’Iraq diceva di “piangere appoggiato alla spalla di Dio”. E ora Trump tira fuori la religione come sgabello ai suoi piedi, e mette Dio sopra di sé, a garante del suo potere. Solo che il Dio della tradizione ebraico-cristiana a cui si rifà il messianismo giunto in America attraverso la Ginevra di Calvino, non è un Dio che si può chiamare in servizio a fare da scudiero ai potenti, ma è il Dio che rovescia i potenti dai troni ed esalta gli umili, il Dio tutto misericordia e niente vendetta di papa Francesco. E dunque se religione deve essere e si giunge a giurare su due Bibbie al Campidoglio, come se una non bastasse, quella di Lincoln del 1861 e quella donata a Trump dalla madre nel 1955, bisogna ricominciare a chiedersi chi è questo Dio a cui si fa così plateale appello.
Forse, di fronte a queste sfide, bisognerebbe ripensare alla cattiva qualità della secolarizzazione quale l’abbiamo acriticamente fatta in Occidente: anche per questo sarebbe importante che l’identità spirituale e profetica dell’ebraismo tornasse a risplendere, non trascinata negli stermini, non ristretta a una sola etnia, non tradita dalle politiche dello Stato di Israele.
Con i più cordiali saluti,

Lo Scriba per “Prima loro”
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In diffusione:

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Prima loro. La Speranza non delude

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Ai Mittenti e Interlocutori della Lettera agli ebrei e delle Notizie da Chiesa di tutti Chiesa dei poveri
Lunedì 20 gennaio 2025
PRIMI I CINESI PRIMA GLI OSTAGGI

Cari Amici,
chi l’avrebbe detto? Quando abbiamo cominciato a scrivervi dall’indirizzo mail “Prima loro”, chi avrebbe potuto pensare che primi sarebbero stati i Cinesi? Prima infatti che Trump, il pregiudicato, giurasse per la Casa Bianca, ecco che i Cinesi gli telefonano il 17 gennaio, e di certo non solo per Tik Tok. Sembrava che fossimo prossimi alla fine del mondo, con questa nave dei folli condotta da cattivi nocchieri, con genocidi, sfide, missili di profondità, droni, naufragi e muri, dall’Ucraina a Gaza, dal Mediterraneo al Messico, e invece ecco che tutto forse comincia di nuovo. Certo neanche Xi Jinping è un santarellino, come non lo era Biden, ma ora Cinesi e Americani si parlano, e dicono che risolveranno molti problemi insieme, e a partire da subito. “Il presidente ed io – ha detto Xi – faremo tutto il possibile per rendere il mondo più pacifico e sicuro”.
Il rovesciamento sarebbe radicale. Per capire da dove veniamo basta sapere che cosa c’era scritto nei vigenti documenti strategici americani, usciti il 12 ottobre 2022 dalla Casa Bianca di Biden e dal Pentagono di Lloyd Austin. C’era scritto che questo sarebbe stato un decennio decisivo di “competizione strategica” per “plasmare il futuro dell’ordine internazionale”, di cui gli Stati Uniti, nel proprio interesse, avrebbero dovuto essere i vincitori. In questa partita, scriveva Biden, “la Repubblica Popolare Cinese rappresenta la sfida geopolitica più importante per l’America. La Russia rappresenta una minaccia immediata e continua all’ordine di sicurezza regionale in Europa ed è una fonte di disturbo e instabilità a livello globale, ma non ha le capacità trasversali della Repubblica Popolare Cinese”. La Cina era considerata infatti il solo competitore che avesse “sia l’intento di rimodellare l’ordine internazionale, sia il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”.
“Pechino – continuava Biden – ha l’ambizione di creare una crescente sfera di influenza nell’Indo-Pacifico e di diventare la potenza guida del mondo, col suo modello autoritario e usando il suo potere economico in modo coercitivo verso le altre nazioni”. Né si trattava di divergenze discutibili, le accuse erano brucianti: “genocidio e crimini contro l’umanità in Xinjiang, violazioni di diritti umani in Tibet, smantellamento dell’autonomia e della libertà di Hong Kong”.
E qui Biden rimandava al documento sulla strategia militare del Pentagono, nel quale Lloyd Austin scriveva, il 27 ottobre 2022:
“La Repubblica Popolare Cinese (RPC) rimane il nostro competitore strategico più importante per i prossimi decenni. Ho raggiunto questa conclusione sulla base delle crescenti azioni di forza della Repubblica Popolare Cinese per rimodellare la regione dell’Indo Pacifico e il sistema internazionale per adattarlo alle sue preferenze autoritarie, e sulla base di una profonda consapevolezza delle intenzioni chiaramente dichiarate della RPC e della rapida modernizzazione ed espansione delle sue forze armate”.
Il Dipartimento della Difesa era impegnato pertanto a “ottenere e sostenere vantaggi militari, contrastare forme acute di coazione dei nostri avversari e complicare le più significative attività degli avversari che, se non affrontate, metterebbero in pericolo la nostra superiorità militare ora e in futuro”. Tutto ciò quando, come aveva scritto Biden, “quella militare americana è la più forte forza militare che il mondo abbia mai conosciuto”.
Già dal settembre 2002, un anno dopo l’attentato alle Due Torri, i documenti sulla sicurezza nazionale americana rivendicavano il principio di una guerra preventiva, sostenendo che “la migliore difesa è un buona offesa”; tuttavia in quei documenti il giovane Bush apprezzava gli sforzi della Cina per definire la natura del proprio ordinamento, e la metteva per così dire sotto osservazione, in attesa che facesse “fondamentali scelte” sul carattere del proprio Stato.
Ciò per quanto riguarda la Cina. Per Israele invece Bush era stato molto esplicito nel contestargli la colonizzazione della Cisgiordania e nel pretendere la soluzione della questione palestinese: “Il conflitto israelo-palestinese è critico a causa del tributo di sofferenza umana, a causa dello stretto rapporto dell’America con lo Stato di Israele e con gli Stati arabi chiave, e a causa della importanza di quella regione per le altre priorità globali degli Stati Uniti. Non ci può essere pace per nessuna delle due parti senza libertà per entrambe le parti. L’America è impegnata per una indipendente e democratica Palestina, che viva accanto a Israele in pace e sicurezza. Come tutti gli altri popoli, i palestinesi meritano un governo che serva i loro interessi e presti ascolto alle loro voci. Se i palestinesi abbracciano la democrazia e il governo della legge, affrontano la corruzione e rifiutano fermamente il terrorismo, possono contare sul sostegno americano per la creazione di uno Stato palestinese. Lo stesso Israele ha un grande interesse al successo di una Palestina democratica. L’occupazione permanente minaccia l’identità e la democrazia di Israele. Quindi gli Stati Uniti continuano a sfidare i leader israeliani affinché adottino misure concrete per sostenere l’emergere di uno Stato palestinese vitale e credibile. Man mano che ci siano progressi verso la sicurezza, le forze israeliane devono ritirarsi completamente dalle posizioni che detenevano prima del 28 settembre 2000 (il giorno della salita di Ariel Sharon sulla spianata del Tempio e l’inizio della seconda Intifada). Le attività di insediamento israeliano nei territori occupati devono finire. Man mano che la violenza si placa, la libertà di movimento dovrebbe essere ripristinata, permettendo ai palestinesi innocenti di riprendere il lavoro e la vita normale. Gli Stati Uniti possono svolgere un ruolo cruciale ma, in definitiva, una pace duratura può arrivare solo quando Israeliani e Palestinesi risolvano i problemi e pongano fine al conflitto tra loro”.
Nulla di tutto questo da allora è avvenuto: la Cina è diventata cattiva e coattiva, l’ultimo Nemico da abbattere, NATO e Russia si sono affrontate in Ucraina, 750. 000 coloni hanno invaso la Cisgiordania, è stata liquidata l’idea di uno Stato palestinese, gli Stati Uniti si sono ben guardati dal promuovere una indipendente e democratica Palestina, Hamas non ha rinunciato al terrorismo e a Gaza è stato scatenato l’inferno. E ora arriva la destra al potere in America, e le destre accorrono a Washington per l’inaugurazione di Trump. Ma perché, non erano destre al potere quelle che ci hanno governato fin qui? Trump comincerà la deportazione degli immigrati. Ma perché, in Albania che cosa si vuol fare? “A tutti i costi”!
A questo punto la prognosi è difficile. Ma grande è stata la nostra commozione nel vedere il resto degli ostaggi ancora vivi tornare a casa, il placarsi dell’indignazione nei riguardi di Netanyahu della folla e dei parenti dei sequestrati, l’attesa per la liberazione dalle carceri israeliane di centinaia di palestinesi tenuti in ostaggio e prigionieri estragiudiziali. E grande è il sollievo per il venir meno dello scandalo del nome di Israele associato alle efferatezze di Gaza, vero rovesciamento del comandamento: “non pronunziare il nome di Dio invano”.
La pace, per Israele sarebbe la salvezza, mentre la sua società è divisa, ed è in corso un esodo, una “migrazione al contrario” di molti Ebrei da quella Terra, e il mondo è attonito per ciò che è stato fatto a Gaza. fino all’ultimo, fino allo “scialo di morte” dell’ultima mezz’ora prima della tregua, che ha fatto ancora diciannove vittime.
E se le cose dovessero cambiare davvero, Ucraina compresa, l’evento della tregua di Gaza dimostrerebbe che anche un solo gesto di pace produce frutti, può contagiare il mondo, che “la speranza non delude”, come il Papa ha ripetuto ieri sera nella trasmissione di Fazio.
Con i più cordiali saluti,

Lo Scriba per “Prima loro”
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