Editoriali

L’era dei bei discorsi e delle buone intenzioni è finita. La Cop30 brasiliana sarà all’insegna dell’azione / COP30: Cosa aspettarsi dal vertice mondiale sui cambiamenti climatici

img_6926L’era dei bei discorsi e delle buone intenzioni è finita. La Cop30 brasiliana sarà all’insegna dell’azione

img_6925di Luiz Inácio Lula da Silva* – The Guardian

Questo è il nostro messaggio ai leader mondiali: fate di questo il “Poliziotto della verità”, prima che la gente perda la fede.

Oggi, nell’Amazzonia brasiliana, si apre il vertice di Belém, in vista della 30a Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop30). Ho convocato i leader mondiali nei giorni precedenti la conferenza affinché tutti possiamo impegnarci ad agire con l’urgenza che la crisi climatica richiede.

Se non riusciamo ad andare oltre i discorsi e a passare all’azione concreta, le nostre società perderanno fiducia, non solo nei Cops, ma nel multilateralismo e nella politica internazionale in senso più ampio. Ecco perché ho convocato i leader in Amazzonia: per far sì che questa sia la “Coppa della verità”, il momento in cui dimostreremo la serietà del nostro impegno comune per il pianeta.

L’umanità ha dimostrato la sua capacità di superare grandi sfide quando agisce unita ed è guidata dalla scienza. Abbiamo protetto lo strato di ozono. La risposta globale alla pandemia di Covid-19 ha dimostrato che il mondo può agire con decisione quando c’è coraggio e volontà politica.

Il Brasile ha ospitato il Summit della Terra nel 1992. Abbiamo approvato le convenzioni su clima, biodiversità e desertificazione e adottato principi che hanno definito un nuovo paradigma per la salvaguardia del nostro pianeta e della nostra umanità. Negli ultimi 33 anni, questi incontri hanno prodotto importanti accordi e obiettivi per la riduzione delle emissioni di gas serra, dalla fine della deforestazione entro il 2030 alla triplicazione della capacità di energia rinnovabile.

Più di trent’anni dopo, il mondo torna in Brasile per affrontare il cambiamento climatico. Non è un caso che la Cop30 si svolga nel cuore della foresta pluviale amazzonica. Questa è un’opportunità per politici, diplomatici, scienziati, attivisti e giornalisti di testimoniare la realtà dell’Amazzonia. Vogliamo che il mondo veda il vero stato delle foreste, del bacino fluviale più grande del pianeta e dei milioni di persone che vivono nella regione. Le Cop30 non possono essere semplici vetrine di buone idee o incontri annuali per negoziatori. Devono essere momenti di contatto con la realtà e di azioni efficaci per affrontare il cambiamento climatico.

Per affrontare insieme questa crisi, abbiamo bisogno di risorse. E dobbiamo riconoscere che il principio di responsabilità comuni ma differenziate rimane il fondamento non negoziabile di qualsiasi patto climatico. Ecco perché il Sud del mondo chiede un maggiore accesso alle risorse, non per carità, ma per giustizia. I paesi ricchi hanno tratto i maggiori benefici dall’economia basata sul carbonio. Ora devono assumersi le proprie responsabilità, non solo assumendo impegni, ma onorando i propri debiti.

Il Brasile sta facendo la sua parte. In soli due anni abbiamo già dimezzato la deforestazione in Amazzonia , dimostrando che è possibile intervenire concretamente sul clima.

A Belém lanceremo un’iniziativa innovativa per preservare le foreste: il Tropical Forests Forever Facility (TFFF). È innovativa perché funziona come un fondo di investimento, non come un meccanismo di donazione. Il TFFF premierà chi si impegna a preservare le proprie foreste e chi investe nel fondo. Un vero e proprio approccio win-win per affrontare il cambiamento climatico. Dando il buon esempio, il Brasile ha annunciato un investimento di 1 miliardo di dollari nel TFFF e ci aspettiamo annunci altrettanto ambiziosi da altri Paesi.

Abbiamo inoltre dato l’esempio diventando il secondo Paese a presentare un nuovo contributo determinato a livello nazionale (NDC). Il Brasile si è impegnato a ridurre le proprie emissioni dal 59% al 67%, coprendo tutti i gas serra e tutti i settori dell’economia. In questo spirito, invitiamo tutti i Paesi a presentare NDC altrettanto ambiziosi e ad attuarli in modo efficace.

La transizione energetica è fondamentale per raggiungere l’NDC (Contributo Nazionale di Consumatori) del Brasile. La nostra matrice energetica è tra le più pulite al mondo, con l’88% della nostra elettricità proveniente da fonti rinnovabili. Siamo leader nei biocarburanti e stiamo progredendo nell’energia eolica, solare e nell’idrogeno verde.

Sarà essenziale reindirizzare i ricavi derivanti dalla produzione di petrolio per finanziare una transizione energetica giusta, ordinata ed equa. Col tempo, le compagnie petrolifere di tutto il mondo, inclusa la brasiliana Petrobras, si trasformeranno in compagnie energetiche, perché un modello di crescita basato sui combustibili fossili non può durare.

Le persone devono essere al centro delle decisioni politiche sul clima e sulla transizione energetica. Dobbiamo riconoscere che i settori più vulnerabili della nostra società sono i più colpiti dagli impatti del cambiamento climatico, motivo per cui i piani di transizione e adattamento devono mirare a combattere le disuguaglianze.

Non possiamo dimenticare che 2 miliardi di persone non hanno accesso a tecnologie pulite e combustibili per cucinare, e 673 milioni di persone soffrono ancora la fame . In risposta, lanceremo a Belém una dichiarazione su fame, povertà e clima. Il nostro impegno nella lotta al riscaldamento globale deve essere direttamente collegato alla lotta contro la fame.

È inoltre fondamentale promuovere la riforma della governance globale. Oggi, il multilateralismo soffre della paralisi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Creato per preservare la pace, non è riuscito a prevenire le guerre. È quindi nostro dovere lottare per la riforma di questa istituzione. Alla Cop30, sosterremo la creazione di un Consiglio delle Nazioni Unite per i cambiamenti climatici, collegato all’Assemblea Generale. Si tratterebbe di una nuova struttura di governance dotata della forza e della legittimità necessarie per garantire che i Paesi mantengano le loro promesse, e di un passo efficace verso l’inversione dell’attuale paralisi del sistema multilaterale.

A ogni conferenza sul clima sentiamo molte promesse ma vediamo troppo pochi impegni concreti. L’era delle dichiarazioni di buone intenzioni è finita: è arrivato il momento dei piani d’azione. Ecco perché oggi diamo inizio al “Piccolo della verità”.

*Luiz Inácio Lula da Silva è il presidente del Brasile.

Leggi anche: https://www.theguardian.com/environment/2025/nov/05/still-a-chance-to-return-to-1-point-5c-climate-goal-researchers-say

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COP30: Cosa aspettarsi dal vertice mondiale sui cambiamenti climatici
di Amanda Magnani* – Dialogue Earth

Con il ritiro degli Stati Uniti e la cautela della Cina, la conferenza in Brasile metterà alla prova la capacità del mondo di rispettare l’accordo di Parigi e gli obiettivi finanziari.

A partire dal 10 novembre, rappresentanti di oltre 100 Paesi si riuniranno a Belém, in Brasile, la città amazzonica che ospiterà il vertice sul clima COP30. Questa edizione della conferenza è stata descritta dalle Nazioni Unite come una tappa fondamentale per i Paesi nell’aggiornamento dei loro piani d’azione per il clima e nell’attuazione di misure contro il riscaldamento globale.

In qualità di Paese ospitante, il Brasile intende che questo vertice sia caratterizzato da risultati concreti. “È giunto il momento di agire”, ha dichiarato il presidente della conferenza, André Corrêa do Lago, durante un evento preparatorio tenutosi ad agosto. “La COP30 sarà l’occasione per perfezionare gli strumenti e accelerare l’attuazione”.

Ma le aspettative per la COP30 sono elevate quanto le sfide che la circondano. La conferenza coincide con il decimo anniversario dell’Accordo di Parigi, una pietra miliare globale nella lotta contro la crisi climatica. Questo trattato storico ha stimolato l’ espansione delle politiche nazionali volte a raggiungere economie a basse emissioni di carbonio, ma i progressi verso i suoi obiettivi rimangono insufficienti: nel 2024, la temperatura media del pianeta ha superato per la prima volta l’obiettivo concordato di 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, una soglia definita dagli scienziati come il massimo per evitare gli effetti peggiori di eventi meteorologici sempre più gravi.

All’inizio di quest’anno, gli esperti avevano lanciato l’allarme : il pianeta aveva raggiunto il suo primo “punto di non ritorno”, con diffuse estinzioni delle barriere coralline in oltre 80 paesi a causa del riscaldamento degli oceani. Gli scienziati e gli ambientalisti responsabili dell’analisi hanno anche evidenziato il rischio di collasso della foresta pluviale amazzonica, un bioma essenziale per l’equilibrio climatico globale e proprio il luogo in cui si terrà il vertice COP30.

L’accordo di Parigi messo alla prova

Con l’aggravarsi della crisi climatica, la COP30 metterà alla prova l’impegno dei Paesi a mantenere l’Accordo di Parigi come pietra angolare della governance globale. La COP28 , tenutasi a Dubai nel 2023, ha fornito il primo bilancio globale e la prima menzione nel testo finale di una COP della transizione dai combustibili fossili. Nel frattempo, la COP29 dello scorso anno in Azerbaigian ha stabilito un nuovo obiettivo di finanziamento per il clima. A Belém, l’attenzione sarà rivolta alla revisione e all’attuazione degli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni, i Contributi Determinati a Livello Nazionale (NDC), che vengono aggiornati ogni cinque anni.

Un rapporto di sintesi raccoglierà proposte per orientare l’azione per il clima fino al 2030 e valuterà i progressi dei Paesi verso i rispettivi Contributi Determinati a Livello Nazionale (NDC). Tuttavia, ad oggi, meno di 70 degli oltre 190 firmatari dell’Accordo di Parigi hanno aggiornato i propri obiettivi. Complessivamente, i Paesi che hanno già presentato i propri piani rappresentano oltre un terzo delle emissioni globali.

“I piani presentati non ci avvicinano affatto al percorso necessario per un futuro sicuro”, ha affermato Miriam Garcia, direttrice della politica climatica presso il World Resources Institute Brazil (WRI), un’organizzazione dedicata alla ricerca di soluzioni climatiche.

Ha osservato che, secondo stime recenti , il mondo dovrebbe ridurre le emissioni di gas serra di circa 31 gigatonnellate entro il 2030 per mantenere il riscaldamento globale entro il limite di 1,5°C. Tuttavia, anche tenendo conto degli NDC aggiornati e di altri impegni già annunciati, la riduzione prevista non supera i 2 gigatonnellate .

La conferenza si concentrerà anche sull’adattamento agli eventi meteorologici estremi, su una giusta transizione energetica e sull’attuazione della Roadmap Baku-Belem , un documento che delinea il percorso per raggiungere 1,3 trilioni di dollari in finanziamenti annuali per il clima entro il 2035, un obiettivo concordato alla COP29 di Baku, la capitale dell’Azerbaigian.

Parallelamente ai negoziati ufficiali, il governo brasiliano si è impegnato in un ampio “ Programma d’azione ”, con oltre 350 eventi che coinvolgono enti locali, aziende, ricercatori e rappresentanti della società civile.

Tuttavia, il focus di questo programma ha suscitato opinioni divergenti, secondo Karla Maass, consulente per la difesa delle politiche del Latin American Climate Action Network (CAN-LA), la divisione regionale della coalizione globale CAN, che riunisce oltre 1.900 organizzazioni ambientaliste. “Alcuni credono che sia l’arena in cui si conducono la vera politica e l’economia, ma altri la vedono come una cortina fumogena per distogliere l’attenzione dai negoziati ufficiali”, ha dichiarato a Dialogue Earth.

Per Maass, i processi di negoziazione formali e paralleli “possono essere complementari, ma l’Agenda d’azione non può monopolizzare tutta l’attenzione”.

Rafforzare il multilateralismo

Oltre alle impasse tecniche, la COP30 si svolge in un contesto geopolitico “molto delicato”, secondo García del WRI Brasile. Ha affermato che la crescente mancanza di fiducia tra i Paesi – già individuata dai leader mondiali come uno dei principali ostacoli ai negoziati sul clima – ha indebolito le alleanze e ridotto la volontà di cooperare. Il ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, che ha già portato avanti tagli ai programmi e agli aiuti climatici internazionali del Paese, insieme al riorientamento delle risorse governative verso questioni militari e di sicurezza nel contesto delle guerre in Ucraina e Gaza, ha esacerbato il declino globale dei finanziamenti per il clima.

Di fronte alle tensioni geopolitiche che potrebbero distogliere l’attenzione dai dibattiti, i leader della COP30 in Brasile, come la direttrice esecutiva del vertice, Ana Toni, hanno cercato di riaffermare il loro impegno per il multilateralismo . Questa è anche la posizione di García, che lo ha descritto come l’unica via possibile per affrontare la crisi climatica. “Non esiste altro forum in cui i Paesi più vulnerabili possano esprimere le loro richieste”, ha aggiunto.

Dopo tre edizioni del vertice in paesi i cui regimi sono considerati autoritari, ci sono grandi aspettative che la COP30 segni il ritorno di una forte partecipazione della società civile , oltre a portare in primo piano le richieste e le ambizioni del Sud del mondo.

Tuttavia, questa speranza è stata smorzata dall’esorbitante costo degli alloggi nella città ospitante, Belém, che ha limitato la partecipazione di rappresentanti dei movimenti sociali e dei paesi più poveri. Nonostante il crescente sostegno finanziario delle Nazioni Unite, il problema persiste: a fine ottobre, 49 delegazioni non sapevano ancora dove avrebbero alloggiato durante la conferenza, mentre più di 130 avevano già prenotato un alloggio.

Data questa situazione, l’Osservatorio sul clima, una delle organizzazioni brasiliane che ha seguito più da vicino le conferenze delle Nazioni Unite sul clima, ha avvertito che questa potrebbe diventare la “COP meno inclusiva della storia”.

“Senza delegazioni dei paesi in via di sviluppo, la legittimità delle decisioni sarà messa in discussione”, ha affermato Stela Herschmann, esperta di politica climatica presso il Climate Observatory.

Anche tra le delegazioni che hanno confermato la loro presenza, la tendenza è stata quella di ridurre le dimensioni dei propri team, tra cui ONU e Brasile . Secondo Herschmann, questa limitazione potrebbe influire sul ritmo e sulla qualità dei negoziati.

“I team più piccoli devono suddividersi in stanze diverse, il che sovraccarica i negoziatori. Di conseguenza, le ambizioni tendono a diminuire”, ha spiegato.

Gli Stati Uniti fuori e l’ambizione della Cina al centro dell’attenzione

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel gennaio 2025 ha portato gli Stati Uniti, il secondo maggiore emettitore di gas serra al mondo, a ritirarsi nuovamente dall’Accordo di Parigi. “Oltre agli effetti sull’obiettivo globale di riduzione delle emissioni, questo ritiro ha anche un impatto sui finanziamenti globali per il clima”, ha affermato García. Tuttavia, ha osservato che il Paese non ha mai rispettato pienamente i propri impegni finanziari e ha aggiunto che i governi statali e municipali potrebbero tentare di colmare il vuoto lasciato dall’amministrazione federale.

Con il ritiro, gli NDC presentati dagli Stati Uniti nel 2024 non sono più validi. Per quanto riguarda gli altri attori chiave in ambito climatico, l’Unione Europea ha recentemente presentato i suoi piani e la Cina ha annunciato obiettivi generalmente considerati inferiori alle aspettative .

In un discorso pronunciato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a settembre, il leader cinese Xi Jinping ha annunciato che il Paese intende ridurre le proprie emissioni di gas serra dal 7% al 10% entro il 2035, prendendo come punto di riferimento il picco registrato negli ultimi anni.

Gli esperti hanno ritenuto questo impegno vago e insufficiente , soprattutto considerando che la Cina è responsabile di circa un terzo delle emissioni globali . Tuttavia, Pechino ha una comprovata esperienza nel superare i suoi obiettivi, a volte conservativi.

Inoltre, con gli Stati Uniti e l’Unione Europea che si stanno ritirando dalla leadership climatica, la pressione sulla Cina sta aumentando affinché assuma la guida dell’agenda climatica globale. Nonostante i suoi obiettivi modesti, il Paese è considerato l’unico con sufficiente peso politico e capacità tecnologica per svolgere questo ruolo.

Pechino ha spesso respinto l’idea di posizionarsi esplicitamente come leader in materia di clima. Secondo Niklas Weins, professore presso il Dipartimento di Studi Internazionali della Xi’an Jiaotong-Liverpool University, la Cina non ritiene strategico assumere il ruolo di “leader unico” sulle questioni internazionali, tra cui l’ambiente.

“Gli Stati Uniti occupano solitamente questa posizione, e i cinesi comprendono il peso di questa immagine. Pertanto, in ambito ambientale, ciò che il Paese desidera è una leadership distribuita con una cooperazione Sud-Sud rafforzata”, ha spiegato Weins a Dialogue Earth.

Il Sud del mondo sotto i riflettori

Gli esperti sostengono inoltre un ruolo più attivo delle economie emergenti nella transizione verde. Secondo García, la leadership dei paesi a medio reddito come Cina, Indonesia, Sudafrica e Brasile è essenziale per rendere possibile un’economia globale a basse emissioni di carbonio.

“Producono circa la metà delle emissioni globali, una percentuale destinata ad aumentare. Se non riusciranno a ridurre queste emissioni e ad adattarsi agli imminenti impatti climatici, l’intera transizione verde sarà a rischio”, ha affermato.

Allo stesso tempo, molti ritengono che la transizione climatica globale stia aprendo un’opportunità di sviluppo unica per i paesi del Sud del mondo, soprattutto in America Latina. “Questi paesi hanno ancora una grande opportunità di espandere i loro mercati [energetici] e di dare alle loro popolazioni accesso a un’energia che proviene già da fonti rinnovabili”, ha affermato Herschmann. “È un’opportunità per cogliere questo momento di trasformazione e correggere disuguaglianze e ingiustizie strutturali”.

Per Corrêa do Lago, l’America Latina ha un’opportunità senza precedenti di assumere la leadership nel perseguimento della giustizia climatica. Storicamente segnata da posizioni frammentate sull’agenda climatica, la regione ha cercato un maggiore coordinamento nei forum multilaterali, con l’obiettivo di arrivare alla COP30 con un’agenda più unitaria e influente.

Sia Herschmann che Maass hanno commentato che rafforzare la posizione del Sud del mondo nel dibattito sarà essenziale, ma insufficiente senza la partecipazione delle grandi potenze. “Stiamo assistendo a un rafforzamento del Sud del mondo, ma leader come gli Stati Uniti e l’Unione Europea devono mantenere l’impegno e fissare obiettivi ambiziosi. Dopotutto, sono storicamente responsabili del cambiamento climatico”, ha affermato Herschmann.

*Amanda Magnani è una giornalista e fotografa brasiliana. Il suo lavoro si concentra sulla giustizia climatica, la transizione energetica, le comunità tradizionali e la decolonizzazione dei processi giornalistici. È stata borsista presso il Pulitzer Center, il Metcalf Institute e Climate Tracker, e ha pubblicato articoli su National Geographic, Mongabay, Al Jazeera e Folha de São Paulo.
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Chiesa, papa Francesco diceva: “Todos, todos”: i confini dell’umanità e della Chiesa coincidono

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Cari amici,

ci troviamo di fronte a due svelamenti, non veramente nuovi, ambedue con timbro americano.

Da Trump viene la rivelazione della trascendenza, ovvero del dominio del denaro come vero sovrano.

Dal papa americano viene la rivelazione della immanenza, ovvero della umanizzazione di Dio, così spinta fino all’annientamento di sé, da fargli rischiare di essere dagli uomini smarrito.

Trump lavora solo per il denaro. Va in giro per il mondo per fare soldi. Mette e toglie dazi, cioè concede o sottrae soldi. Preferisce fare affari e non la guerra, ma si serve della guerra per fare affari, e la chiama pace. Alla Russia mette il tappeto rosso, per farle fare quello che dice lui, ma poi le mette le sanzioni, il diciannovesimo pacchetto fino all’ottobre scorso, per mandarla in rovina, come se quelli già messi dalla cosiddetta Europa di Ursula von der Leyen non bastassero a far capire che non servono a niente. Perfino Gaza la vorrebbe libera dal genocidio e da Hamas, ma per riempirla di casinò e di profitti del regime, e sui suoi sudditi invece di far “piovere la giustizia” fa piovere oltraggio, nella trascrizione fatta dalla Intelligenza Artificiale della invettiva di Cambronne, e mostra tutta la violenza americana. E naturalmente fa scuola: secondo l’OXFAM un’imposta del 5% sui grandi patrimoni potrebbe affrancare dalla povertà fino a 2 miliardi di persone, mentre da una ridda di cifre si ha che l’1 per cento della popolazione più ricca nel mondo acquisisce fino all’82 per cento della ricchezza prodotta in un anno, mentre fornisce solo 4 centesimi per ogni dollaro di gettito fiscale. Sicché perfino qualche centinaio di super ricchi si sono vergognati di questo divario e nel settembre 2023 rivolsero un appello al G20 riunitosi in India per chiedere che si promuovessero misure coraggiose e lungimiranti di tassazione delle grandi ricchezze: ma la proposta è rimasta inascoltata, anzi il cavallo di battaglia dei governi per vincere le elezioni sono la detassazione, la flat tax e simili, mentre in Italia alla sola idea di tassare le banche si è scatenato l’inferno. Insomma il capitalismo allo stato puro.

Il Papa americano lavora per i poveri, e dice quali sono “le cose nuove”, per fare le quali ha preso perfino il nome. Ma le cose nuove di cui parla non sono quelle dell’altro Leone, che Charlie Chaplin ha filmato, della prima rivoluzione industriale e della nuova tecnologia che ci usa invece di essere usata, da cui Heidegger ha lasciato detto che “solo un Dio ci può salvare”; le “cose nuove” sono la terra, la casa e il lavoro, che ai poveri sono negati. Non glieli dà infatti l’attuale società dello scarto, come la chiamava papa Francesco; ma papa Leone non chiede, connivente, che vengano da Dio, bensì è ammirato dei poveri, che lottano per essi, anche se vengono dalle case occupate e quindi sono incriminati dalla signora Meloni, e dice di voler lottare con loro: “Ci sto!”, “sono con voi.”. E quasi per scusarsi con quanti pensano che questo non è il mestiere della Chiesa (ma al cardinale Burke basta la messa in latino) dice che “sono diritti sacri”: in realtà sono diritti umani universali, e proprio per questo sono sacri, cioè nel cuore di Dio. E qui sta il rovesciamento, perché vuol dire guardare a questi diritti negati non dal trono di Dio, né dal trono di tutti i potenti, ma dalla periferia, magari dalle favelas, dove non si era abituati a pensare che Dio fosse di casa. Ma se adesso lì Dio c’è, e lì il Papa con i movimenti popolari lo va a scovare, vuol dire che lì era nascosto. E la cosa nuova, forse la missione di un Papa agostiniano, è di far trovare, a un mondo che l’ha perduto, il “Deus absconditus”, che era l’assillo e il tema di sant’Agostino: “veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, salvatore”, lo proclamava, prima di lui, il profeta Isaia.

Ma se Dio è nascosto, va cercato nel suo nascondiglio, e questo è nella carne dell’uomo: “mi hai preparato un corpo”, dice la lettera agli Ebrei; questo è detto del Figlio, con cui i membri della Chiesa fanno un unico corpo; ma il Padre raccoglie in sé tutti i figli, per cui fa corpo con l’umanità tutta intera, si “svuota” scambiandosi con loro, ne assume il dolore, e in forza di questo gli uomini sono una cosa sola. Nel Talmud c’è una curiosa esegesi rabbinica sul fratricidio di Caino: dice il Rabbi Nathan che «chi fa perire un solo uomo è come se facesse perire il mondo intero. Ciò vale anche riguardo a Caino che uccise Abele, secondo quanto è scritto: “La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo”». Secondo il rabbino Nathan benché fosse versato il sangue di uno solo, l’ebraico usa questa parola al plurale (damaym), ciò che vorrebbe dire che “il sangue dei figli di Abele, quello dei suoi nipoti e di tutti i discendenti che sarebbero nati da lui sino alla fine dei tempi, gridavano” davanti a Dio.

Dal canto suo papa Leone non ammette alcuna esclusione, e ha detto ai Movimenti popolari che l’umanità “non è riuscita ad invertire la rotta sulla drammatica esclusione di milioni di persone che rimangono ai margini. Questo è un punto centrale nel dibattito sulle ‘cose nuove’”; e nell’Enciclica sui poveri, “Dilexit te”, ha scritto che “anche teologicamente si può parlare di un’opzione preferenziale per i poveri da parte di Dio, un’espressione nata nel contesto del continente latino-americano e in particolare nell’Assemblea di Puebla, ma che è stata ben integrata nel successivo magistero della Chiesa”. Lo svelamento è che non c’è alcuno che può essere considerato escluso, nemmeno dal seno della Chiesa (papa Francesco diceva: “Todos, todos”): i confini dell’umanità e della Chiesa coincidono. Se la Chiesa, da Francesco a papa Leone, denuncia che c’è una “drammatica esclusione di milioni di persone che rimangono ai margini”, come si può pensare che la maggior parte siano esclusi proprio dalla Chiesa, fuori della quale “non c’è salvezza” e nella Chiesa non si entra se non “per il battesimo come per una porta”, come ancora diceva il Concilio Vaticano II? Infatti non lo pensano più, né papa Francesco che lavava i piedi ai musulmani, né papa Leone che dice questa cosa nuova. Sarebbe paradossale che Dio preferisca i poveri su tutti, ma solo a patto che siano entrati nella Chiesa visibile, quando poi, in un modo o nell’altro nella “società dello scarto” tutti sono e siamo poveri, tutti esclusi, tutti alienati, tutti deprivati come soggetti, dominati dalle cose, e gli uni agli altri nemici, gli Ucraini che perseguitano i Russi e i Russi che invadono l’Ucraina, gli Israeliani che occupano una terra che consideravano come una “res nullius”, e i Palestinesi che la rivendicano come loro. Il mondo accetta queste esclusioni, e le lascia in balia delle guerre, annoverando gli esclusi come nemici; la Chiesa invece rigetta queste esclusioni, sostiene che i nemici sono fratelli, che la guerra non finisce mai in vittoria, ma sempre in sconfitta, che la terra è una, e che tutti sono una cosa sola, e che perciò devono riconciliarsi, abrogando il passato di odio e di lotta (“per eliminarne dalla terra il ricordo”, come dice il salmo di David, che poi sarebbe il perdono, nella visione di Panikkar). Il mondo come nascondiglio e insieme come manifestazione di Dio. Solo se così si fa umano, e nel suo abbassamento prende domicilio nell’umanità tutta intera, “solo un Dio ci può salvare”.

Nel sito pubblichiamo il discorso di Leone XIV ai Movimenti Popolari [anche su Aladinpensiero] e un articolo sulla possibile pace in Ucraina del prof Jeffrey Sachs, reduce da una vera aggressione verbale da parte di Carlo Calenda in una recente trasmissione de La 7.

Con i più cordiali saluti,

da “Prima Loro” (Raniero La Valle).
Prima Loro
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La Cina o il ritorno dell’Impero di Mezzo attraverso il multilateralismo / L’ascesa del Sud del mondo

La Cina o il ritorno dell’Impero di Mezzo attraverso il multilateralismo
Di Cristina Buhigas* – Diario Red

Xi Jinping consolida la sua leadership internazionale al vertice dell’APEC, mentre Trump riesce solo a ottenere una moratoria commerciale e si rifugia nel bellicismo per fini interni.

“Le tempeste possono destabilizzare un piccolo stagno, ma non l’oceano. Dopo innumerevoli tempeste, l’oceano è ancora lì! Dopo oltre 5.000 anni di difficoltà, la Cina è ancora qui! Guardando al futuro, la Cina sarà sempre qui!” Con queste parole, il presidente cinese Xi Jinping rispose nel 2018, durante il primo mandato di Donald Trump, alle minacce commerciali della sua controparte americana. Sette anni dopo, il percorso del Regno di Mezzo verso la leadership economica globale si sta consolidando. Ciò è stato evidente al vertice APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation Forum), dove una ventina di paesi hanno aderito al multilateralismo sostenuto dalla Cina sabato. La delegazione statunitense ha lasciato la Cina in anticipo, dopo aver ottenuto una moratoria di un solo anno sui dazi e sulle forniture di terre rare. Trump, nel tentativo di minimizzare l’esito di un incontro con Xi che aveva descritto come un “incontro incredibile”, ha fatto ricorso ancora una volta a una retorica bellicosa a uso interno, annunciando che gli Stati Uniti avrebbero ripreso i test nucleari, sospesi dal 1992.

I capitoli successivi dello stallo commerciale tra Washington e Pechino si svolgono in modo pressoché identico: la provocazione di Trump, una risposta cinese misurata, i negoziati, un accordo che lascia le cose come erano prima della provocazione e la corsa precipitosa del presidente degli Stati Uniti, armi in pugno. Ricordiamo che prima dell’estate, dopo l’assurda escalation dei dazi reciproci, la Cina è rimasta ferma, ma ha continuato ad aprirsi a nuovi mercati; c’è stata una moratoria sull’applicazione dei dazi e il presidente in arancione ha lasciato prima il vertice del G7 in Canada per concentrarsi sull’attacco di Israele all’Iran, proprio come ha fatto questa volta quando ha lasciato la Corea. La mossa del leader repubblicano si basa sulla certezza che la sua base interna sostenga sempre l’aggressione belligerante.

Durante le proteste di giugno, la popolarità di Trump era ai minimi storici, con i dimostranti in piazza e le aziende in perdita. Le cose non sono migliorate nelle ultime proteste; anzi, la reazione dell’opinione pubblica sta crescendo e ben quattro senatori repubblicani hanno votato con i democratici pochi giorni fa nel tentativo di revocare i dazi su oltre cento paesi. La misura non passerà senza l’approvazione della Camera dei Rappresentanti, ma rivela il crescente malcontento nei confronti delle politiche di Trump. Lui lo sa, ed è per questo che si è recato in Corea per ingraziarsi il suo avversario. “Il presidente Xi è un grande leader di un grande paese e penso che avremo un rapporto fantastico per molto tempo”, ha affermato. Per lui, era urgente placare le aziende tecnologiche, che non potevano produrre nulla (dai cellulari alle auto elettriche) senza la fornitura di terre rare di cui la Cina controlla il 90%, e gli agricoltori, disperati nel vendere la loro soia.

Il suo problema era che anche i cinesi lo sapevano. Ecco perché l’accordo si è concluso in parità: una nuova moratoria tariffaria bilaterale, questa volta per un anno, e la sospensione per lo stesso periodo delle restrizioni sulle esportazioni di terre rare che Pechino aveva appena imposto in risposta all’ampliamento da parte di Washington dell’elenco delle aziende legate alla Cina soggette a controlli sulle esportazioni. Trump si è gonfiato il petto mentre l’Air Force One decollava, sottolineando l’impegno della Cina nell’acquistare soia americana e nel collaborare alla lotta contro la droga. Quest’ultima, in realtà, si riferisce alla vendita di sostanze chimiche necessarie per produrre il fentanil, la bestia nera domestica che cerca di attribuire ad altri Paesi, quando invece era originata, tra le altre ragioni, dalla mancanza di un sistema sanitario pubblico nel suo Paese.

I negoziatori statunitensi devono aver chiarito al presidente di essere riusciti a lasciare le cose come stavano solo prima della sua ultima provocazione, perché il suo ricorso alla bellicosità è arrivato poco prima di entrare in quello che sarebbe stato “un incontro incredibile”. Sul suo account social, Truth ha scritto: “Dato che altri paesi hanno programmi di test, ho dato istruzioni al Dipartimento della Guerra [Pentagono] di iniziare a condurre test sulle nostre armi nucleari come fanno loro. Questo processo inizierà immediatamente”. In teoria, si è trattato di una risposta al test russo di un super siluro in grado di trasportare una testata nucleare, sebbene in quell’occasione non ne avesse una; ma è anche una manovra per spostare l’attenzione dalla guerra commerciale con la Cina, dove la vittoria è ben lungi dall’essere raggiunta, all’orgoglio militare della principale potenza mondiale.

Questo è il nocciolo della questione!, come diceva il comico messicano Cantinflas, nel determinare quale sia la potenza leader mondiale. È chiaro che tutti i grandi imperi della storia umana, quando sono caduti, si sono mantenuti per un bel po’ di tempo come se fossero ancora egemoni, ingannando se stessi e milioni di abitanti del pianeta. Questo è successo con l’Impero Romano, poi con quello spagnolo e, più tardi, con quello britannico, sostituito nel XX secolo da quello americano. Ora, l’autoproclamato “leader del mondo libero” viene progressivamente sostituito da una potenza emergente che non basa la sua crescita commerciale ed economica sul disprezzo per i suoi presunti partner nel resto del mondo, ma piuttosto sul multilateralismo. E il resto del mondo – Africa, America Latina e il resto dell’Asia – sta aderendo a questa formula.

Al 25° vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) di fine estate, era già chiaro che un gran numero di paesi, tra cui Russia, India e Iran, stavano unendo le forze con la Cina per coordinare le politiche di sicurezza, difesa, energia e commercio per promuovere l’integrazione regionale. Xi Jinping dichiarò all’epoca che si trattava di abbandonare la “mentalità da Guerra Fredda” e il “comportamento prepotente”, presumibilmente da parte degli Stati Uniti. L’ascesa dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) dimostra il consolidamento di questo sistema internazionale multipolare. Alla riunione dell’APEC, dove il presidente cinese ha concordato con il primo ministro canadese Mark Carney e il primo ministro giapponese Sanae Takaichi di “ripristinare le relazioni”, l’avanzata della Cina verso l’assunzione di una leadership internazionale era evidente, mentre Trump tornava a Washington ignaro di quanto stava accadendo.

Chi sembra essere fuori dal mondo sono i leader dell’Unione Europea. La Presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha recentemente attaccato il gigante asiatico, accusandolo di aver sostituito “l’ordine mondiale cooperativo di 25 anni fa” con “un’economia globale conflittuale”, dimenticando opportunamente il ruolo cruciale degli Stati Uniti nel conflitto. Ha anche accusato la Cina di furto di tecnologia, investimenti ostili, controlli sulle esportazioni e sussidi come “strumenti di coercizione e concorrenza”. Vale la pena ricordare che l’UE, nel corso della sua storia, ha controllato le esportazioni e sovvenzionato la sua agricoltura e industria, in contrasto con la libera concorrenza che afferma di difendere. Von der Leyen ha concluso minacciando: “Siamo pronti a usare tutti i nostri strumenti per rispondere, se necessario”. Ma nessuno crede più alle sue minacce dopo che non ha fatto nulla per contrastare gli aumenti dei dazi statunitensi, andando invece, prima da sola e poi con diversi capi di Stato e di governo dell’UE, a rendere omaggio all’uomo vestito d’arancio e a sottomettersi ai suoi dettami.

Dopo aver appreso dell’accordo tra Cina e Stati Uniti, Bruxelles si è subito schierata a favore, basandosi sulle parole di Trump dopo l’incontro con Xi: “L’intera questione delle terre rare è stata risolta […] E questo vale per il mondo”. Pertanto, il Commissario per il Commercio Maroš Šefčovič ha organizzato incontri tecnici con la sua controparte cinese, Wang Wentao, che sembrano essersi conclusi con un esito simile, almeno per quanto riguarda le terre rare, all’accordo raggiunto in Corea dai due leader mondiali. Indipendentemente da chi detenga l’egemonia, entrambi sono chiaramente al di sopra dell’UE, che ha perso la sua indipendenza geopolitica, economica e commerciale. Ha perso anche la sua indipendenza difensiva, che ora è nelle mani della NATO, controllata da Washington, ma questa è un’altra storia.

Mentre tutto questo accade lontano dai suoi confini, Pechino sta consolidando la sua espansione commerciale e perseguendo la crescita interna, con un fermo impegno verso quella che chiama “economia reale”, che non è altro che il mantenimento dell’economia produttiva, dell’industria nazionale in tutti i settori, per creare posti di lavoro, aumentare il potere d’acquisto dei cittadini e stimolare i consumi come motore della crescita. Ignari di questo processo, l’Europa, convinta che sia un letto di rose, e gli Stati Uniti rimangono immersi nella finanziarizzazione dell’economia e negli investimenti immobiliari, che non possono che generare ulteriore precarietà nella società, nuove bolle e crisi. Che Confucio abbia pietà di noi!

*Cristina Buhigas è una giornalista specializzata in economia spagnola e internazionale. Nel corso della sua lunga carriera, dall’ex quotidiano Pueblo alla moderna edizione cartacea di Público, ha lavorato per innumerevoli pubblicazioni, tra cui La Economía 16, Cambio 16, La Gaceta de los Negocios, La Clave e l’agenzia di stampa Europa Press, di cui è stata caporedattrice. Dopo il pensionamento, si è dedicata alla letteratura e ha scritto sei romanzi che esplorano l’erotismo femminile da una prospettiva femminista.

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L’ascesa del Sud del mondo
Di Leon Hadar* – Global Zetgeist Substack

Riequilibrare il potere in un mondo multipolare.

Melissa: Il ruggito del cambiamento climatico / La ripresa dei test nucleari di Trump è un errore presentato come un punto di forza. Difesa, l’Europa guida il rally in Borsa: da inizio anno balzo del 63%

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Melissa: Il ruggito del cambiamento climatico
Di Andrés Hernández Alende* – Mundiario

La devastazione lasciata dall’uragano Melissa in Giamaica e nella parte orientale di Cuba non è stata frutto del caso o di un capriccio meteorologico eccezionale.

L’uragano Melissa ha devastato la Giamaica con la furia di un mostro marino. Ha colpito l’isola caraibica dopo aver raggiunto la categoria 5, con venti di quasi 300 chilometri orari, e poi si è abbattuto sulla parte orientale di Cuba con una categoria 3, lasciando dietro di sé distruzione, interruzioni di corrente e migliaia di vittime.

I meteorologi hanno notato la rapidità con cui l’uragano si è intensificato prima di toccare terra. Il fenomeno della rapida intensificazione dei cicloni sta diventando sempre più comune nei Caraibi, e c’è una spiegazione.

L’effetto del riscaldamento globale

Le acque oceaniche erano di oltre 1,5 gradi Celsius al di sopra della loro temperatura abituale. Questa differenza può sembrare piccola, ma è sufficiente a intensificare rapidamente un uragano trasformandolo in una minaccia immensa. Secondo l’organizzazione scientifica Climate Central , questo aumento della temperatura del mare era “da 600 a 700 volte più probabile” a causa del cambiamento climatico, un cambiamento causato dall’attività umana. Si può affermare che senza il riscaldamento globale, Melissa potrebbe non aver raggiunto una potenza così devastante.

Gli scienziati hanno ripetutamente lanciato l’allarme: gli oceani, che assorbono oltre il 90% del calore in eccesso generato dalle emissioni di gas serra, stanno raggiungendo temperature record anno dopo anno. E questo calore accumulato diventa il carburante perfetto per uragani come Melissa.

C’è un altro aspetto delle conseguenze di questi fenomeni meteorologici distruttivi che non dobbiamo ignorare. Giamaica, Cuba e altre nazioni caraibiche sono in prima linea contro gli uragani. Tuttavia, questi paesi producono solo una minima parte delle emissioni che stanno riscaldando il pianeta. Pertanto, stanno pagando il prezzo di una crisi climatica che non hanno causato. Mentre i paesi industrializzati discutono obiettivi e misure per arrestare o mitigare il cambiamento climatico, con scarsi progressi finora, nelle nazioni caraibiche povere le persone possono perdere case, raccolti e mezzi di sussistenza nel giro di poche ore sotto l’assalto di un ciclone.

La disuguaglianza climatica è, ovviamente, ingiusta. Le comunità povere hanno meno risorse per proteggersi, evacuare le persone in pericolo e ricostruire dopo un uragano. Il costo umano è enorme: vite spezzate, sfollati senza casa e una ripresa dolorosamente lenta. La devastazione di Melissa rivela – come in tanti altri episodi di distruzione – la fragilità di un modello economico che ha causato profonde e intollerabili disuguaglianze sociali e, per di più, sta distruggendo il pianeta – l’unico che abbiamo – nella sua incessante ricerca di combustibili fossili. È un modello che favorisce l’ambizione insaziabile di pochi, immensamente ricchi, a scapito delle vite precarie della maggioranza. L’assalto di Melissa dovrebbe essere un campanello d’allarme, non solo per le isole colpite, ma per il mondo intero.

La crisi climatica è già qui

Il cambiamento climatico non è un incubo futuro: è già qui, visibile nelle onde che hanno inondato la costa giamaicana e la costa meridionale di Cuba orientale, nelle case distrutte e nei tetti divelti a Kingston e Santiago. E non c’è dubbio: se il riscaldamento globale non si ferma, i prossimi decenni porteranno uragani più potenti, piogge più torrenziali e danni maggiori se non riduciamo drasticamente le emissioni che stanno riscaldando l’atmosfera.

Melissa dovrebbe fungere da monito per noi sui cambiamenti climatici causati dall’attività umana. Se non prestiamo attenzione al fragore di questo fenomeno e non adottiamo finalmente misure urgenti, efficaci e salvavita, non ci sarà alcun rifugio sicuro dalla furia del mare e dei venti sulla costa caraibica e in molti altri luoghi del mondo.

*Andrés Hernández Alende, giornalista ed editorialista di Mundiario, è nato a Cuba e vive a Miami, in Florida, dove collabora anche con il quotidiano El Nuevo Herald e la rivista Suburbano. Mantiene anche un blog intitolato El Blog de Alende. Ha pubblicato cinque romanzi: El paraíso tenía un precio (Il paradiso aveva un prezzo), El Ocaso (Il tramonto) – finalista per il Latino Contest Novel Prize 2013 –, De un solo tajo (In un colpo), Bajo el ciclón (Sotto il ciclone) e La espada macedonia (La spada macedone). Al suo libro Trump, ¡estás despedir!: El ascenso y la caída de un tycoon en la Casa Blanca (Mundiediciones) è seguito Biden y el legado de Trump (Biden e l’eredità di Trump), anch’esso pubblicato da questo giornale.

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La ripresa dei test nucleari di Trump è un errore presentato come un punto di forza
Di Leon Hadar* – Asia Times*

L’approccio di Trump alla politica sulle armi nucleari privilegia sistematicamente e pericolosamente i gesti drammatici rispetto a una strategia ponderata.

L’annuncio del presidente Trump secondo cui gli Stati Uniti riprenderanno i test sulle armi nucleari dopo una moratoria di 33 anni rappresenta esattamente il tipo di risposta istintiva e di dimostrazione di forza che sostituisce la strategia nell’establishment della politica estera di Washington.

Presa poche ore prima dell’incontro con il presidente cinese Xi Jinping, questa decisione riesce a minare gli interessi americani, fornendo al contempo a Pechino e Mosca proprio le munizioni diplomatiche che cercavano da tempo.

La giustificazione del presidente – secondo cui dobbiamo effettuare test “su base di parità” con gli altri Paesi – si basa su affermazioni dubbie. Il recente test russo del missile da crociera a propulsione nucleare Burevestnik ha coinvolto il sistema di lancio, non una detonazione nucleare.

L’ultimo test nucleare noto della Cina è avvenuto nel 1996. La Corea del Nord, l’unica nazione ad aver condotto veri e propri test nucleari negli ultimi anni, non è certo lo standard in base al quale l’America dovrebbe calibrare la propria posizione strategica.

Ciò che Trump ha fatto, intenzionalmente o meno, è stato consegnare una vittoria propagandistica a Pechino e Mosca, accelerando potenzialmente la stessa competizione nucleare a cui lui stesso afferma di voler rispondere.

Gli Stati Uniti mantengono la superiorità nucleare non attraverso test esplosivi, ma attraverso sofisticati modelli computerizzati ed esperimenti subcritici, tecnologie in cui possediamo un vantaggio schiacciante. Riprendendo i test, invitiamo i nostri rivali a colmare le lacune nelle loro capacità, sprecando al contempo la superiorità morale che deriva dalla moderazione.

La tempistica tradisce la vacuità di questa decisione. Annunciare la ripresa dei test nucleari poche ore prima di incontrarsi con il presidente cinese Xi Jinping suggerisce che si trattasse meno di una reale necessità strategica e più di una messa in scena teatrale, il tipo di messaggio a buon mercato che funziona bene sui social media ma complica la diplomazia vera e propria.

Ci si chiede come il presidente possa pensare di negoziare seriamente sul commercio, su Taiwan o sulla stabilità regionale, mentre contemporaneamente si intensificano le tensioni sul nucleare. Inoltre, questa mossa mina decenni di sforzi americani per rafforzare il regime globale di non proliferazione.

Sebbene sia vero che il Senato non ha mai ratificato il Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari, le successive amministrazioni di entrambi i partiti hanno riconosciuto che la moderazione volontaria degli Stati Uniti serviva i nostri interessi, scoraggiando i test da parte di altri. Quel consenso bipartisan, forgiato attraverso un’attenta valutazione delle realtà strategiche, è stato ora scartato con noncuranza.

Il quadro generale è preoccupante. L’approccio di Trump alla politica nucleare – che si tratti di minacciare “fuoco e furia” contro la Corea del Nord, di ritirarsi dall’accordo sul nucleare iraniano o di riprendere i test sulle armi – privilegia costantemente gesti drammatici rispetto a strategie pazienti. Il problema della politica estera basata su fuochi d’artificio è che altre nazioni rispondono a tono, creando dinamiche di escalation che non servono a nessuno.

Ciò che rende la situazione particolarmente frustrante è che gli Stati Uniti si trovano ad affrontare sfide concrete nella gestione della competizione strategica con Cina e Russia. La rapida espansione del proprio arsenale nucleare da parte di Pechino merita seria attenzione e risposta.

Ma questa risposta dovrebbe prevedere il rafforzamento della deterrenza attraverso capacità convenzionali, il consolidamento delle alleanze e il mantenimento del vantaggio tecnologico che rende l’arsenale nucleare americano credibile senza test esplosivi. Invece, gli Stati Uniti stanno scegliendo una strada che probabilmente accelererà lo sviluppo nucleare cinese, fornendo al contempo una copertura alle violazioni russe delle norme sul controllo degli armamenti.

L’ironia è forte: un presidente che ha fatto campagna contro guerre infinite e un interventismo sconsiderato ha appena preso una decisione che rende la proliferazione nucleare più probabile e la stabilità strategica meno certa. Questa non è “pace attraverso la forza”, ma instabilità attraverso l’impulsività.

Se il Congresso dovesse mantenere un ruolo significativo in materia di guerra e pace, dovrebbe esigere risposte sulla logica strategica di questa decisione, sulle sue potenziali conseguenze e sulla se siano stati seriamente presi in considerazione approcci alternativi. Il potere di riprendere i test nucleari dopo tre decenni di moderazione non dovrebbe basarsi su un singolo post impulsivo su Truth Social.

La domanda non è se l’America possieda sufficienti armi nucleari: le possiede. La domanda è se gli Stati Uniti abbiano sufficiente saggezza strategica per esercitare tale potere in modo responsabile. Da questo punto di vista, l’annuncio di Trump di questa settimana offre una risposta scoraggiante.

*Leon Hadar è un analista di politica estera e autore di “Sandstorm: Policy Failure in the Middle East”.

*Pubblicato originariamente su Global Zeitgeist Substack.

OtherNews
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Difesa, l’Europa guida il rally in Borsa: da inizio anno balzo del 63%

Non si arresta la corsa dei produttori di armi con la spesa globale al record: dall’avvio del conflitto in Ucraina il settore sale del 127%
l Servizio di Vittorio Carlini su Other News
26 ottobre 2025

I PUNTI CHIAVE

1 Le dinamiche macro

2 L’innovazione tecnologica

3 La tassonomia

La Borsa è cinica. Non si fa alcun scrupolo di investire in comparti e dinamiche che, da un lato, possono – direttamente o indirettamente – essere legate a tragedie umane come la guerra; ma che, dall’altro, permettono di portare a casa la plusvalenze. È questo il caso del settore cosiddetto della difesa. Cioè: il comparto cui appartengono molte aziende che producono armi. Sia “tradizionali” che più avveniristiche quali, ad esempio, cani robot in grado di sparare. Ebbene: negli ultimi anni il comparto in oggetto ha corso parecchio. La riprova? La offrono gli indici di settore. Il Msci Acwj Aero Defense (Msci AD) – a detta del terminale Bloomberg – dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia (24/2/2022) guadagna il 126,7%. Più in particolare, poi, il mondo spazio/militare europeo sale del 235,2% e quello di Wall Street dell’82,8%. Il tutto con S&P 500 e Stoxx Europe 600 che si accontentano rispettivamente dell’espansione del 59,4 e 30,8%. Può obiettarsi: i panieri (Msci AD, Stoxx Europe Aero Defense e S&P 500 Aero Defense) contengono anche società attive nel settore civile. Vero! E, tuttavia, lo scenario di fondo non cambia. Per rendersene conto basta guardare al Market Vector global defense industry (Mvgdi). Cioè, un indicatore che considera solo le aziende che generano almeno il 50% dei ricavi nella difesa. Ebbene: questo, negli ultimi tre anni, è balzato del 269%. Nel medesimo arco temporale l’S&p 500 è aumentato del 79,5% e lo stesso Nasdaq è cresciuto del 111,2%. Non solo. La dinamica è confermata in tempi più recenti. Sempre il Mvgdi, nel 2025, è in nero per il 76,6% mentre la difesa europea e quella Usa salgono ciascuno del 62,9 e 40,7% (a fronte dell’incremento del 14,5% dell’S&P 500 e del 18,8% del Nasdaq).

Le dinamiche macro

Insomma: le differenze di performance sono evidenti. Una diversità che suggerisce l’esistenza di market mover specifici, anche strutturali. Il primo è – giocoforza- di natura geopolitica. L’intensificarsi delle tensioni internazionali – e, in taluni casi, la loro traduzione in conflitti aperti – ha determinato un significativo incremento dei bilanci della difesa a livello globale. Stando alle elaborazioni di Statista, nel 2024 la spesa militare mondiale ha raggiunto il massimo storico di 2.720 miliardi di dollari, con una crescita del 9,4% rispetto al 2023. Le proiezioni disponibili indicano, poi, un percorso ancora espansivo: secondo Spherical Insights, tra il 2025 e il 2026 è probabile il superamento della soglia dei 3.000 miliardi, con il tasso medio annuo atteso sull’orizzonte decennale nell’ordine dell’8,1%. Tali grandezze – inevitabilmente – si riflettono sulle aspettative di ricavi e marginalità delle aziende del settore, alimentando flussi in acquisto sui listini. Detto diversamente: programmi di riarmo pluriennali, sostituzione e ammodernamento degli arsenali, rinnovo delle scorte e nuove capacità d’armamento dovrebbero tradursi in portafogli ordini maggiormente visibili e in un profilo di crescita più robusto.

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L’innovazione tecnologica

Accanto al fattore geopolitico opera, poi, un secondo driver: la tecnologia. La digitalizzazione dei sistemi d’arma, unita alla diffusione dell’Intelligenza artificiale (Ia), sta rimodellando le dottrine operative. L’impiego di droni guidati dall’ Ia è divenuto – orribilmente – ricorrente sui teatri dei conflitti; a ciò deve aggiungersi l’adozione di veicoli autonomi – aerei, terrestri e navali – integrati con le unità tradizionali. In parallelo, lo sviluppo di missili ipersonici – caratterizzati da profili di volo manovrabili e velocità superiori a Mach 5 – pone sfide inedite alle strutture di difesa. Dal che aumentano le spese in sistemi di scoperta, tracciamento e intercetto. Un ulteriore fronte riguarda, poi, la sicurezza informatica e la guerra elettronica. La protezione delle reti, dei dati e delle infrastrutture critiche è entrata stabilmente tra le priorità di spesa. Anche perché la superficie d’attacco si è ampliata e i requisiti di resistenza hanno alzato l’asticella tecnologica. Infine: lo spazio. Questo – seppure non da oggi – è un dominio operativo. Costellazioni satellitari dedicate ad intelligence e posizionamento (basta pensare a Starlink e l’Ucraina) sono divenute asset strategici. Il tutto con potenze quali Stati Uniti, Russia e Cina che, accelerando programmi di difesa e deterrenza in orbita, spingono investimenti in sensoristica, rafforzamento delle reti e capacità anti-interferenza.

La tassonomia

A fronte di un simile contesto, ben si capisce perché – al fine di entrare più in profondità nel tema – sia corretto distinguere tra i vari segmenti del comparto. In particolare, con riferimento all’ambito di azione. Vero! Spesso le diverse aree d’attività si confondono. E, tuttavia, una tassonomia è utile per meglio comprendere il settore. Cosi, un primo riferimento è ai cosiddetti conglomerati. Vale a dire: contractor che operano su più fronti: dalla produzione di armi o mezzi aerei/terrestri/navali alla cybersecurity fino allo spazio. Tra questi ci sono Bae Systems (+63% da inizio anno), Rtx corporation (+55,1%), Safran, Leonardo (+98%), Northrop Grumman e Rheinmentall (+187%). Proprio quest’ultima – a ben guardare – è stata sostenuta nelle quotazioni dal fatto di essere tedesca e – quindi- dall’aspettativa di avvantaggiarsi del piano di riarmo programmato da Berlino (l’attesa è che gli investimenti arrivino al 3,5% del Pil nel 2029). Un’altra area, invece, è quella della sicurezza informatica. Qui, tra le varie imprese focalizzate, possono ricordarsi: Mercury Systems (+84,7% nel 2025) e ZScaler. Quest’ultima, ad esempio, è appaltatore del Dipartimento Usa della difesa. Senza dimenticare, peraltro, Palantir technologies (+138,6%). La società, oltre anch’essa ad avere molteplici contratti nella defense, è stata cofondata da Peter Thiel. Vale a dire: uno dei sostenitori della prima ora del presidente Usa Donald Trump. Vero! Il ceo del gruppo, Alex Karp, si è schierato – durante la campagna elettorale di un anno fa – in favore dei democratici. E, tuttavia, la vicinanza alla Casa Bianca dell’azienda è un fatto innegabile (e utile al gruppo). Così come è innegabile che Kratos Defense sia tra i leader in un altro ambito: quello dei droni militari autonomi e dei veicoli aerei senza pilota. Infine: lo spazio. Qui – inevitabilmente – i nomi che ricorrono sono soprattutto dei conglomerati. Così possono ulteriormente ricordarsi Loockhed Martin (piatta nel 2025), Thales (+88%) o Boeing che ha una divisione militare ad hoc.

Già, divisione militare ad hoc. Ma qual’è – visto il rally del settore – la situazione in merito ai multipli dei segmenti in Borsa? Con riferimento all’Europa, l’attuale rapporto tra prezzo ed utili del comparto è di 35,8 volte. A Wall Street, invece, il settore “gira” a quota 54,7. Cioè, ipotizzando lo stesso utile per azione in futuro, ci vorrebbero 54,7 anni per “restituire” il prezzo pagato. Un conto salato. Di certo, in nessun modo equiparabile a ciò che devono sopportare i civili che – in troppe parti del pianeta – convivono con la tragedia della guerra.

PER SAPERNE DI PIÙ
Vittorio Carlini Redattore

Il documento conclusivo del tavolo Tierra dell’incontro mondiale dei movimenti popolari. Il discorso di Papa Leone XIV.

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Udienza ai partecipanti all’Incontro mondiale dei Movimenti Popolari, 23.10.2025

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Il pomeriggio di giovedì 23 ottobre 2025 nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre ha ricevuto in Udienza i partecipanti al V Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari che si svolge a Roma dal 21 al 24 ottobre 2025.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha rivolto ai presenti:
[ IT ]

Cari fratelli e sorelle,

è la prima volta che ho la gioia di incontrarvi, proseguendo nel cammino iniziato da Papa Francesco che, in questi anni, ha dialogato spesso con la vostra realtà, mettendone in luce l’importanza profetica nel contesto di un mondo segnato da problematiche di vario genere.

Uno dei motivi per cui ho scelto il nome “Leone XIV” è l’Enciclica Rerum novarum, scritta da Leone XIII durante la rivoluzione industriale. Il titolo Rerum novarum significa “cose nuove”. Ci sono certamente “cose nuove” nel mondo, ma quando diciamo questo, in genere adottiamo uno “sguardo dal centro” e ci riferiamo a cose come l’intelligenza artificiale o la robotica. Tuttavia, oggi vorrei guardare alle “cose nuove” con voi, partendo dalla periferia.

Vedere le “cose nuove” dalla periferia

Più di dieci anni fa, qui in Vaticano, Papa Francesco vi ha detto che eravate venuti per piantare una bandiera. Cosa c’era scritto? “Terra, casa e lavoro”. [1] “Tierra, techo, trabajo”, come ci ha detto Guadalupe poco fa. Era una “cosa nuova” per la Chiesa, ed era una cosa buona! Facendo eco alle richieste di Francesco, oggi dico: la terra, la casa e il lavoro sono diritti sacri, vale la pena lottare per essi, e voglio che mi sentiate dire “Ci sto!”, “sono con voi”!

Chiedere terra, casa e lavoro per gli esclusi è una “cosa nuova”? Visto dai centri del potere mondiale, certamente no; chi ha sicurezza finanziaria e una casa confortevole può considerare queste richieste in qualche modo superate. Le cose veramente “nuove” sembrano essere i veicoli autonomi, oggetti o vestiti all’ultima moda, i telefoni cellulari di fascia alta, le criptovalute e altre cose di questo genere.

Dalle periferie, però, le cose appaiono diverse; lo striscione che sventolate è così attuale che merita un intero capitolo nel pensiero sociale cristiano sugli esclusi nel mondo di oggi.

Questa è la prospettiva che desidero trasmettere: le cose nuove viste dalla periferia e il vostro impegno che non si limita alla protesta, ma cerca soluzioni. Le periferie spesso invocano giustizia e voi gridate non “per disperazione”, ma “per desiderio”: il vostro è un grido per cercare soluzioni in una società dominata da sistemi ingiusti. E non lo fate con microprocessori o biotecnologie, ma dal livello più elementare, con la bellezza dell’artigianato. E questa è poesia: voi siete “poeti sociali”. [2]

Oggi portate di nuovo lo stendardo della terra, della casa e del lavoro, camminando insieme da un centro sociale – Spin Time – al Vaticano. Questo camminare insieme testimonia la vitalità dei movimenti popolari come costruttori di solidarietà nella diversità. La Chiesa deve essere con voi: una Chiesa povera per i poveri, una Chiesa che si protende, una Chiesa che corre dei rischi, una Chiesa coraggiosa, profetica e gioiosa!

Ciò che ritengo più importante è che il vostro servizio sia animato dall’amore. Conosco realtà ed esperienze simili presenti in altri Paesi, veri e propri spazi comunitari pieni di fede, speranza e soprattutto di amore, che rimane la virtù più grande di tutte (cfr 1Cor 13,13). Infatti quando si formano cooperative e gruppi di lavoro per sfamare gli affamati, dare riparo ai senzatetto, soccorrere i naufraghi, prendersi cura dei bambini, creare posti di lavoro, accedere alla terra e costruire case, dobbiamo ricordarci che non si sta facendo ideologia, ma stiamo davvero vivendo il Vangelo.

Al centro del Vangelo, infatti, c’è il comandamento dell’amore, e Gesù ci ha detto che nel volto e nelle ferite dei poveri è nascosto il suo stesso volto (cfr Mt 25,34-40). È bello vedere che i movimenti popolari, prima ancora che dall’esigenza della giustizia, sono mossi dal desiderio dell’amore, contro ogni individualismo e pregiudizio.

Come Vescovo in Perù, sono felice di aver sperimentato una Chiesa che accompagna le persone nei loro dolori, nelle loro gioie, nelle loro lotte e nelle loro speranze. Questo è un antidoto contro un’indifferenza strutturale che si va diffondendo e che non prende sul serio il dramma di popoli spogliati, derubati, saccheggiati e costretti alla povertà. Spesso ci sentiamo impotenti dinanzi a tutto questo, eppure, a questa che ho definito «globalizzazione dell’impotenza», dobbiamo iniziare ad opporre una «cultura della riconciliazione e dell’impegno». [3] I movimenti popolari colmano questo vuoto generato dalla mancanza di amore con il grande miracolo della solidarietà, fondata sulla cura del prossimo e sulla riconciliazione.

Come dicevo, il normale discorso sulle “cose nuove” – con le loro potenzialità e i loro pericoli – omette ciò che accade alla periferia. Dal centro c’è poca consapevolezza dei problemi che colpiscono gli esclusi, e quando se ne parla nelle discussioni politiche ed economiche, si ha l’impressione che si tratti di «una questione aggiunta quasi per dovere o in modo tangenziale, se non trattata semplicemente come un danno collaterale. In effetti, alla fine dei conti, spesso rimangono in fondo alla lista delle priorità». [4] Al contrario, i poveri sono al centro del Vangelo. Perciò, le comunità emarginate dovrebbero essere coinvolte in un impegno collettivo e solidale volto a invertire la tendenza disumanizzante delle ingiustizie sociali e a promuovere uno sviluppo umano integrale.

Infatti, «finché i problemi dei poveri non saranno risolti in modo radicale, rifiutando l’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e affrontando le cause strutturali della disuguaglianza, non si troverà alcuna soluzione ai problemi del mondo o, per meglio dire, a nessun problema. La disuguaglianza è la radice dei mali sociali». [5]

Vecchie ingiustizie nel nuovo mondo

Il vostro impegno si fa tanto più necessario in un mondo che, come sappiamo, è sempre più globalizzato; come affermava Benedetto XVI «i processi di globalizzazione, se adeguatamente compresi e orientati, aprono possibilità senza precedenti di ridistribuzione su vasta scala della ricchezza a livello mondiale; se invece sono mal orientati, possono portare ad un aumento della povertà e delle disuguaglianze e potrebbero persino innescare una crisi globale». [6]

Questo significa che i dinamismi del progresso vanno sempre gestiti attraverso un’etica della responsabilità, superando il rischio dell’idolatria del profitto e mettendo sempre l’uomo e il suo sviluppo integrale al centro. L’“umano” è al centro della visione di sant’Agostino di un’etica della responsabilità. Egli ci insegna come la responsabilità, specialmente nei confronti dei poveri e di coloro che hanno bisogni materiali, nasce dall’essere umani con i propri simili e, quindi, dal riconoscimento della nostra “comune umanità”. [7]

Poiché condividiamo tutti la stessa umanità, dobbiamo assicurarci che le “novità” siano gestite in modo adeguato. La questione non dovrebbe rimanere nelle mani delle élite politiche, scientifiche o accademiche, ma dovrebbe invece riguardare tutti noi. La creatività di cui Dio ha dotato gli esseri umani e che ha generato grandi progressi in molti ambiti, non è riuscita ancora ad affrontare al meglio le sfide della povertà e, perciò, non è riuscita a invertire la rotta sulla drammatica esclusione di milioni di persone che rimangono ai margini. Questo è un punto centrale nel dibattito sulle “cose nuove”.

Quando il mio predecessore Leone XIII scrisse la Rerum novarum alla fine del XIX secolo, non si concentrò sulla tecnologia industriale o sulle nuove fonti di energia, ma piuttosto sulla situazione dei lavoratori. È qui che risiede la forza evangelica del suo messaggio: l’attenzione principale era rivolta alla situazione dei poveri e degli oppressi di quel tempo. E, per la prima volta e con assoluta chiarezza, un Papa disse che le lotte quotidiane per la sopravvivenza e per la giustizia sociale erano di fondamentale importanza per la Chiesa. Leone XIII denunciò la sottomissione della maggioranza al potere «di pochi; così che un piccolo numero di uomini molto ricchi ha potuto imporre alle masse brulicanti dei poveri lavoratori un giogo poco migliore della schiavitù stessa». [8] Questa era la grande disuguaglianza dell’epoca.

Nell’Enciclica di Leone XIII non troviamo le parole “disoccupazione” o “esclusione”, perché all’epoca i problemi riguardavano piuttosto il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, lo sfruttamento, l’urgenza di una nuova armonia sociale e di un nuovo equilibrio politico, obiettivi che gradualmente sono stati raggiunti grazie a tante leggi sul lavoro e alle istituzioni di sicurezza sociale. Oggi, invece, l’esclusione è il nuovo volto dell’ingiustizia sociale. Il divario tra una “piccola minoranza” – l’1% della popolazione – e la stragrande maggioranza si è ampliato in modo drammatico.

Tale esclusione è una “novità” che Papa Francesco ha denunciato come “cultura dello scarto”, affermando con veemenza: «Gli esclusi non sono “sfruttati”, ma emarginati, “scarti”». [9]

Quando parliamo di esclusione, ci troviamo anche di fronte a un paradosso. La mancanza di terra, cibo, alloggio e lavoro dignitoso coesiste con l’accesso alle nuove tecnologie che si diffondono ovunque attraverso i mercati globalizzati. I telefoni cellulari, i social network e persino l’intelligenza artificiale sono alla portata di milioni di persone, compresi i poveri. Tuttavia, mentre sempre più persone hanno accesso a Internet, i bisogni primari rimangono insoddisfatti. Assicuriamoci che, quando vengono soddisfatti bisogni più sofisticati, quelli fondamentali non vengano trascurati.

Tale arbitrarietà sistemica fa sì che le persone siano private di ciò che è necessario e sommerse da ciò che è accessorio. In breve, la cattiva gestione genera e aumenta le disuguaglianze con il pretesto del progresso. E non avendo al centro la dignità umana, il sistema fallisce anche nella giustizia.

L’impatto delle “novità” sugli esclusi

Oggi non descriverò in modo esaustivo quali siano le “novità” prodotte in particolare dai centri di sviluppo tecnologico, ma sappiamo che esse hanno un impatto su tutti i principali ambiti della vita sociale: sanità, istruzione, lavoro, trasporti, urbanizzazione, comunicazione, sicurezza, difesa, ecc. Molti di questi impatti sono ambivalenti: sono positivi per alcuni Paesi e settori sociali, ma altri, invece, subiscono “danni collaterali”. Ancora una volta, questo è il risultato della cattiva gestione del progresso tecnologico.

La crisi climatica è forse l’esempio più evidente. Lo vediamo in ogni evento meteorologico estremo, che si tratti di inondazioni, siccità, tsunami, terremoti: chi ne soffre di più? Sono sempre i più poveri. Perdono quel poco che hanno quando l’acqua spazza via le loro case e spesso sono costretti ad abbandonarle senza avere un’alternativa adeguata per riprendere la loro vita. La stessa cosa accade quando, ad esempio, contadini, agricoltori e popolazioni indigene perdono le loro terre, la loro identità culturale e la produzione locale sostenibile a causa della desertificazione del loro territorio.

Un altro aspetto delle “novità” che colpisce in modo particolare gli emarginati ha a che fare con le angosce e le speranze dei più poveri in riferimento ai modelli di vita che oggi vengono costantemente promossi. Per esempio: come può un giovane povero vivere con speranza e senza ansia quando i social media esaltano costantemente un consumo sfrenato e un successo economico totalmente irraggiungibile?

E, ancora, un altro problema di non poco conto è rappresentato dalla diffusione della dipendenza dal gioco d’azzardo digitale. Le piattaforme sono progettate per creare dipendenza compulsiva e generare abitudini che creano assuefazione.

Non vorrei tacere poi sulla “novità” dell’industria farmaceutica, che certamente rappresenta per certi versi un grande progresso, ma non è priva di ambiguità; nella cultura attuale, non senza l’ausilio di certe campagne pubblicitarie, si propina una sorta di culto del benessere fisico, quasi un’idolatria del corpo e, in questa visione, il mistero del dolore è interpretato in modo riduttivo; ciò può portare anche alla dipendenza dall’assunzione di antidolorifici, la cui vendita va ovviamente a incrementare i guadagni delle stesse case di produzione. Ciò ha portato anche alla dipendenza dagli oppioidi, che sta devastando in particolare gli Stati Uniti; si pensi per esempio al fentanil, la droga della morte, la seconda causa di morte tra i poveri in quel Paese. Il dilagare di nuove droghe sintetiche, sempre più letali, non è solo un crimine dei trafficanti di droga, ma è una realtà che ha a che fare con la produzione dei farmaci e con il suo guadagno, privi di un’etica globale.

Vorrei anche sottolineare che lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni dipende dai minerali che spesso si trovano nel sottosuolo dei Paesi poveri. Senza il coltan della Repubblica Democratica del Congo, ad esempio, molti dei dispositivi tecnologici che utilizziamo oggi non esisterebbero. Tuttavia, la sua estrazione dipende dalla violenza paramilitare, dal lavoro minorile e dallo sfollamento delle popolazioni. Il litio è un altro esempio: la competizione tra le grandi potenze e le grandi aziende per la sua estrazione rappresenta una grave minaccia alla sovranità e alla stabilità degli Stati poveri, al punto che alcuni imprenditori e politici si vantano di promuovere colpi di Stato e altre forme di destabilizzazione politica, proprio per mettere le mani sull’“oro bianco” del litio.

E, infine, vorrei accennare al tema della sicurezza. Gli Stati hanno il diritto e il dovere di proteggere i propri confini, ma ciò dovrebbe essere bilanciato dall’obbligo morale di fornire rifugio. Con l’abuso dei migranti vulnerabili, non assistiamo al legittimo esercizio della sovranità nazionale, ma piuttosto a gravi crimini commessi o tollerati dallo Stato. Si stanno adottando misure sempre più disumane – persino politicamente celebrate – per trattare questi “indesiderabili” come se fossero spazzatura e non esseri umani. Il cristianesimo, invece, si riferisce al Dio amore, che ci rende fratelli tutti e ci chiede di vivere da fratelli e sorelle.

Allo stesso tempo, mi incoraggia vedere come i movimenti popolari, le organizzazioni della società civile e la Chiesa stiano affrontando queste nuove forme di disumanizzazione, testimoniando costantemente che chi si trova nel bisogno è nostro prossimo, nostro fratello e nostra sorella. Questo vi rende campioni dell’umanità, testimoni della giustizia, poeti della solidarietà.

La giusta lotta dei movimenti popolari

Nella Rerum novarum, Leone XIII osservava che «le antiche corporazioni dei lavoratori sono state abolite nel secolo scorso, e nessun’altra organizzazione protettiva ha preso il loro posto». [10] I poveri sono diventati più vulnerabili e meno protetti. Oggi sta accadendo qualcosa di simile, perché i sindacati tipici del XX secolo rappresentano ormai una percentuale sempre più esigua dei lavoratori e i sistemi di sicurezza sociale sono in crisi in molti Paesi; perciò, né i sindacati né le associazioni dei datori di lavoro, né gli Stati né le organizzazioni internazionali sembrano in grado di affrontare questi problemi. Ma «uno Stato senza giustizia non è uno Stato», ci ricorda sant’Agostino. [11] La giustizia esige che le istituzioni di ogni Stato siano al servizio di ogni classe sociale e di tutti i residenti, armonizzando le diverse esigenze e gli interessi.

Ancora una volta, ci troviamo di fronte a un vuoto etico, in cui il male entra facilmente. Mi viene in mente una parabola, la parabola dello spirito immondo che viene scacciato via ma, ritornando, trova la sua antica dimora pulita, in ordine e allora organizza una lotta ancora peggiore (cfr Mt 12,43-45). Nel vuoto ordinato lo spirito maligno è libero di agire. Le istituzioni sociali del passato non erano perfette, ma spazzando via gran parte di esse e adornando ciò che rimane con leggi inefficaci e trattati non applicati, il sistema rende gli esseri umani più vulnerabili di prima.

Perciò, i movimenti popolari, insieme alle persone di buona volontà, i cristiani, i credenti, i governi sono chiamati con urgenza a colmare quel vuoto, avviando processi di giustizia e solidarietà che si diffondano in tutta la società, perché, come ho già avuto modo di affermare, «le illusioni ci distraggono, i preparativi ci guidano. Le illusioni cercano un risultato, i preparativi rendono possibile un incontro». [12]

Nell’Esortazione apostolica Dilexi te ho voluto ricordare che «vari movimenti popolari, composti da laici e guidati da leader popolari, [...] sono stati spesso guardati con sospetto e persino perseguitati». [13] Eppure le vostre lotte sotto la bandiera della terra, della casa e del lavoro per un mondo migliore meritano incoraggiamento. E come la Chiesa ha accompagnato la formazione dei sindacati in passato, oggi dobbiamo accompagnare i movimenti popolari. Questo significa accompagnare l’umanità, camminare insieme nel rispetto condiviso della dignità umana e nel desiderio comune di giustizia, amore e pace.

La Chiesa sostiene le vostre giuste lotte per la terra, la casa e il lavoro. Come il mio predecessore Francesco, credo che le vie giuste partano dal basso e dalla periferia verso il centro. Le vostre numerose e creative iniziative possono trasformarsi in nuove politiche pubbliche e diritti sociali. La vostra è una ricerca legittima e necessaria. Chissà se i semi dell’amore, che voi seminate, piccoli come semi di senape (cfr Mt 13,31-32, Mc 4,30-32, Lc 13,18-19) potranno crescere in un mondo più umano per tutti e aiutare a gestire meglio le «cose nuove».

La Chiesa e io vogliamo esservi vicini in questo cammino. Continuiamo a elevare le nostre preghiere a Dio Onnipotente. Con voi, nella preghiera, imploriamo il Padre di ogni misericordia perché vi protegga e vi riempia del suo amore inesauribile. Che Egli, nella sua infinita bontà, vi dia il coraggio di una profezia evangelica, la perseveranza nella lotta, la speranza nel cuore, la creatività poetica. Vi affido alla guida materna di Maria Santissima. E dal profondo del cuore vi benedico.

Grazie, grazie a tutti voi! E andate avanti nel cammino, con gioia e speranza! Grazie. Entonces oremos juntos como Jesús nos ha enseñado.

[Recita del Padre Nostro in spagnolo. Benedizione]

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[1] “ Tierra, techo, trabajo”, le tre “T” in spagnolo.

[2] Francesco, Videomessaggio, 16 ottobre 2021.

[3] Videomessaggio in occasione della presentazione a Lampedusa della candidatura del progetto “Gesti dell’accoglienza” alla lista del Patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO, 12 settembre 2025.

[4] Francesco, Lett. enc. Laudato si’, 49.

[5] Id., Esort. ap. Evangelii gaudium, 202.

[6] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 42.

[7] Cfr Agostino, Discorso 259, 3.

[8] Leone XIII, Lett. enc. Rerum novarum, 3.

[9] Francesco, Esort. ap. Evangelii gaudium, 53.

[10] Leone XIII, Lett. enc. Rerum novarum, 3.

[11] Agostino, De civitate Dei, XIX, 21, 1.

[12] Leone XIV, Udienza generale, 6 agosto 2025.

[13] Leone XIV, Esort. ap. Dilexi te, 80.

[01400-IT.01] [Testo originale: Italiano]

[B0788-XX.02]
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Foto e titoli da: https://www.pressenza.com/it/2025/10/leone-xiv-ai-movimenti-popolari-terra-casa-e-lavoro-sono-diritti-sacri-sono-con-voi/
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Il documento conclusivo del tavolo Tierra dell’incontro mondiale dei movimenti popolari [all'ultimo punto, tra i prossimi incontri c'è quello con Costituente Terra].

A 80 anni dalla Carta dell’ONU: Multilateralismo – Democrazia – Diritto Internazionale in crisi profonda. Una Costituzione della Terra come orizzonte e via maestra per uscirne

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24 OTTOBRE – ore 9.00 / 14.30 – UN CONVEGNO PROMOSSO DA
UNIVERSITÀ DELLA PACE
Costituente Terra – Othernews
Con: Fondazione Basso, Fondazione Di Vittorio, Movimento Europeo Italia, Festival del Cinema dei Diritti Napoli, The Last Twenty, Comunità di base di S. Paolo Roma, Scuola di Pace Mario Paciolla (NA), Ultima Generazione, Extinction Rebellion, Movimento Techo, Tierra, Trabajo, Rappresentanza Incontro Mondiale dei Movimenti.
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Sarà possibile seguire l’evento anche in diretta Zoom:
https://us02web.zoom.us/j/83636656795?pwd=tSTyub30WdYyq726h0sv6NV0v8tzLx.1
ID riunione: 836 3665 6795
Codice d’accesso: 351547
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A 80 anni dalla Carta dell’ONU: Multilateralismo – Democrazia – Diritto Internazionale in crisi profonda.
Una Costituzione della Terra come orizzonte e via maestra per uscirne. I possibili percorsi.
Viviamo un tempo di transizione drammatico:
Le democrazie liberali sono in crisi profonda
Le autocrazie avanzano
Ritornano imperi, armi e logiche di potenza
La tecno-finanza sovrasta la politica
L’ordine internazionale nato 80 anni fa si sta sgretolando
È il “chiaroscuro” di cui parlava Gramsci:
“Il vecchio ordine muore”. Quello nuovo sta nascendo da quel “chiaroscuro”, con i tratti sempre più marcati della volontà di dominio con la forza, le armi, la guerra, la tecno-finanza e la prospettiva di un ritorno a un assetto sociale tecno-feudale.
Il nostro convegno del prossimo 24 ottobre, che incrocia il Giubileo dei Movimenti (21-24 ottobre) e con esso interagisce, capita in un momento di transizione tra:
la crisi profonda delle democrazie liberali,
l’affermarsi delle autocrazie,
il ritorno degli imperi e della forza delle armi,
lo stagliarsi prepotente della tecno-finanza,
la demolizione dell’assetto internazionale nato 80 anni fa.
Siamo nel pieno di quel chiaroscuro di transizione, tra la disgregazione del potere, della cultura e della coscienza collettiva, che si verifica quando – come scriveva Gramsci – un ordine dominante non è più in grado di farsi riconoscere come tale, e un nuovo ordine non è ancora in grado di affermarsi pienamente.
“Il vecchio ordine sta morendo e quello nuovo tarda a comparire. È in questo chiaroscuro che nascono i mostri.”
Ma, nel nostro caso, i mostri sono all’opera da tempo, in varie forme: populismi, sovranismi, nazionalismi,imperialismi.
In questa fase, il loro dominio va assumendo, in maniera che appare sempre più inarrestabile, i tratti delle autocrazie imperialistiche, della forza bruta, della guerra permanente, del riarmo. E tutto spingerebbe verso un paralizzante pessimismo.
Ma nella storia c’è sempre un fattore che opera senza che nessuno se ne accorga. È l’imprevisto.
L’imprevisto generazionale.
E gli esempi nella storia passata e recente non mancano.
L’imprevisto che compare oggi si chiama:
Generazione Zeta
Generazione Gaza
Un imprevisto esploso sulla spinta dell’indignazione per l’orrore del terribile ed inumano genocidio di Gaza e della violenza efferata dei coloni e dell’esercito israeliano occupante in Cisgiordania, ma che evidentemente covava da tempo sotto la cenere.
L’indignazione dà vita a risposte emotive corali, forti, com’è avvenuto nei giorni scorsi, che possono spingere, condizionare o accelerare processi. E si è visto…
“Ma indignarsi non basta.”
Ci diceva un altro grande della storia italiana, Pietro Ingrao, commentando nel 2011 il pamphlet “Indignatevi!” di Stéphane Hessel.
Per inserirsi nei processi di transizione bisogna andare oltre l’indignazione.
“Bisogna costruire una relazione condivisa, attiva”, perché “il rischio forte è che i sentimenti dell’indignazione e della speranza restino, come tali, inefficaci, in mancanza di una lettura del mondo e di una adeguata pratica politica che dia loro corpo.
Che l’indignazione possa supplire alla politica e, in primo luogo, alla creazione delle sue forme efficaci è illusorio.”
Certo, molto è cambiato oggi rispetto allo scenario del 2011 in cui Ingrao rispondeva ad Hessel.
Ma questo suo insegnamento mantiene, a mio parere, tutta la sua forza e attualità anche oggi, di fronte:
al crollo della democrazia liberale,
del diritto,
del diritto internazionale,
al risorgere degli imperi,
all’affermarsi di quello che è stato definito tecno-feudalesimo, in un mondo di disuguaglianze smisurate e crescenti, e di un riarmo mostruoso e progressivo.
Di fronte all’affermazione della logica amico/nemico, e della forza dei più potenti anche nel determinare tregue che amano chiamare “albe di pace”, nei conflitti armati – compresi quelli più efferati e distruttivi.
“Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”
“Dove fanno il deserto, lo chiamano Pace.”
(La famosa espressione che Tacito attribuisce a un passaggio del discorso di Calgaco, re dei Caledoni, parlando della Pax Romana).
È la logica degli imperi, dove non c’è traccia di relazioni condivise: devastano, distruggono, spianano, annettono… e la chiamano Pace.
Ma quella logica imperiale e autocratica, nella realtà di oggi – e nello specifico della tragedia di Gaza – pur restando nell’ottica della tutela dei propri interessi, ha dovuto fare i conti con l’imprevisto: l’indignazione di milioni di persone nel mondo, e la sua esondazione nelle strade e nelle piazze di tutti i Paesi dove, ancorché acciaccata, sotto continuo e pressante attacco e non più egemone, la democrazia liberale sopravvive ancora.
In questo scenario, il nostro progetto di Costituzione della Terra offre il terreno per mettere in essere una trama di:
“relazioni condivise attive”, dentro una lettura del mondo in cui diventa possibile costruire un’adeguata pratica politica in grado di darle corpo.
Per evitare “il rischio che i sentimenti dell’indignazione e della speranza restino, come tali, inefficaci”, allo stesso modo delle dichiarazioni di principio sancite in tante carte solenni… rimaste inapplicate perché prive delle garanzie necessarie a renderle cogenti.
Offre il percorso e le garanzie necessarie per la profonda riforma dell’ONU, rivendicata da più parti.
E incrocia sulla sua strada – a Roma – anche questo, possiamo considerarlo un felice imprevisto, il Giubileo dei Movimenti: l’Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari.
Questi temi saranno tutti autorevolmente ripresi nel convegno del 24 ottobre, al quale invitiamo a partecipare tutti coloro che sono interessati.
Mimmo Rizzuti
Esecutivo Costituente Terra
[info@costituenteterra.com]
[www.costituenteterra.it]
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Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell’ottantesima Giornata delle Nazioni Unite, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

«L’ottantesimo anniversario dalla istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite consente di riaffermare il fermo sostegno dell’Italia al multilateralismo, di cui l’ONU, organizzazione internazionale a vocazione universale, costituisce il pilastro fondamentale.

A ottanta anni dalla sua entrata in vigore, è irrinunciabile sottolineare i valori portanti della Carta delle Nazioni Unite – articolati nei tre pilastri della pace, dello sviluppo e della tutela dei diritti umani – e riaffermare il dovere di promuoverli giorno dopo giorno, a sostegno della dignità di ogni popolo e di ogni persona.

L’impegno italiano nelle Nazioni Unite è asse portante della politica estera del nostro Paese, in attuazione di quanto sancito dall’art. 11 della Costituzione. Credere e investire nelle Nazioni Unite implica agire per trasformare in azioni concrete il principio della solidarietà internazionale e di un ordine mondiale basato sul rispetto delle regole. Significa promuovere una logica di collaborazione e rispetto fra gli Stati, alternativa a quella della sopraffazione. Convincimenti che appaiono oggi tanto più fondati e decisivi a fronte di impellenti sfide globali e dell’allarmante diffusione di conflitti armati.

L’ONU non è un superfluo orpello diplomatico o foro di dibattito fine a sé stesso: da esso dipendono le sorti di una Comunità degli Stati pacificata e cooperativa, realizzando i nobili ideali di quanti ne concepirono l’istituzione dopo le immani tragedie dei due conflitti mondiali nel secolo scorso.

In questa prospettiva, la Repubblica Italiana rimane fortemente determinata a impegnarsi affinché l’ONU evolva in un’organizzazione sempre più capace di rispondere alle crisi e alle sfide della nostra epoca, sostenendo l’iniziativa “UN80” avviata dal Segretario Generale e auspicando una riforma del Consiglio di Sicurezza che lo renda più rappresentativo, responsabile ed efficace».

Roma, 24/10/2025 (II mandato)

Prima Loro news online

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Cari amici,

il simulacro di pace imposto da Trump a Gaza tra gli osanna dei suoi cortigiani, tutti uomini e una donna, è già stato infranto due volte: la prima da Netanyahu che ha dato ordine di chiudere tutti i valichi attraverso cui avrebbero dovuto passare centinaia di camion con i soccorsi alimentari e sanitari, allo scopo di continuare il genocidio con altri mezzi, e questa volta con l’approvazione della piazza di Tel Aviv: la seconda volta la pace è stata infranta dall’IDF che ha ripreso i bombardamenti per rispondere a una inesistente rottura del cessate il fuoco da parte di Hamas, provocata invece da bande armate dallo stesso Israele.
Si direbbe che Netanyahu non riesca ad abbandonare la preda che aveva così accanitamente perseguito e che voglia portare a termine la sua guerra fino alla fine, fino a sera; e ciò sembra corrispondere a una sua cattiva lettura della Bibbia, in un suo passaggio critico purtroppo proclamato anche nella liturgia della Messa cattolica proprio di domenica scorsa: narra il capitolo 17 del libro dell’Esodo, come prova dell’efficacia della preghiera, che nell’epica guerra contro il nemico storico di Israele, gli Amaleciti, Mosè si sedette su una roccia alzando le mani, che Aronne e Cur gli tenevano sollevate verso il cielo, uno da una parte e l’altro dall’altra, fino al tramonto del sole: e quando Mosè era con le mani alzate Israele vinceva, e quando le abbassava perdeva. Così Giosuè, che comandava l’esercito, passò il popolo di Amalek a fil di spada.
Questo passo della Bibbia sarebbe solo edificante, come incautamente lo prende la Chiesa, se non fosse che Netanyahu si è presentato identificandosi con Mosè alla conquista della Terra promessa, di fronte a tutte le Nazioni riunite nell’Assemblea dell’ONU del 27 settembre dell’anno scorso. Fortuna che forse quella guerra e lo stesso Mosè non sono storicamente esistiti quali sono stati raccontati dallo scrittore sacro sette secoli dopo i fatti narrati, e che per fondare la fede nell’unico Dio di Israele e dei cristiani sono sufficienti la fede e la benedizione di Abramo, e in lui di tutte le Genti, che sono di “430 anni prima” di Mosè, come dice san Paolo nella lettera ai Galati (Gal. 3, 17) e ha ripetuto papa Francesco nella sua catechesi dell’11 agosto 2021 suscitando le proteste di due rabbini che a Gerusalemme e a New York presiedono al dialogo interreligioso, peraltro tranquillizzati dal Vaticano sul riconoscimento cristiano della Torah come via di salvezza per gli Ebrei.
Ciò dimostra il pericolo di una lettura fondamentalista della Scrittura che se interpretata come un’epopea nazionale, porta a una politica fatta di assoluti, a Netanyahu che benedice e maledice con i ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich che gli alzano le mani, e ai Palestinesi come nemici metafisici da trattare come gli Amaleciti.
Trump, sia pure in ritardo, si è accorto dell’errore di Netanyahu che gli metteva tutto il mondo contro, e ha cercato di trattenerlo, mentre sull’altro fronte cerca di imporre a Zelensky la stessa obbedienza chiesta al primo ministro israeliano, ma Zelensky non ci sta perché ancora proteso ad obbedire a Europa e NATO che gli hanno fatto credere di fargli vincere la guerra contro la Russia.
Ma anche Trump è a rischio, con milioni di americani che riempiono strade e piazze in 2700 luoghi diversi contro di lui, accusandolo di farsi re, e ricevendone in cambio un bombardamento di letame, sia pure somministrato dall’Intelligenza Artificiale (più artificiale che intelligenza). Non è certo che su questa china possa sussistere la democrazia in America, ma c’è da sperare in ogni caso che resti l’idea di Trump che la guerra è “stupida” e “ingloriosa” e l’idea che se non si può giungere a pensare che “fare l’amore invece che la guerra”, sia già qualcosa fare gli affari invece della guerra.
Nel sito pubblichiamo un lungo articolo del sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos, noto per gli studi postcoloniali e tra i fondatori del Forum sociale mondiale, che si chiede se gli assassinii politici che hanno cambiato la storia; un articolo da conservare per il lungo elenco di “leader profetici” uccisi in tutto il mondo [anche su aladinpensiero]; nella lista mancano gli italiani come Aldo Moro o Giacomo Matteotti: di quest’ultimo peraltro sono stati ora pubblicati i discorsi politici “Contro la guerra contro la violenza” nella collana “La pace sovrana” delle Edizioni Edimedia di Fabio Filippi; infine pubblichiamo un articolo sulla frenesia bellica della Germania che cerca di portarsi dietro tutta l’Europa.
Con i più cordiali saluti,

da “Prima Loro” (Raniero La Valle).

Quo Vadis UN @80? / La Generazione Z è il nuovo fantasma che s’aggira per il mondo

img_6731img_6724La generazione Z:
l’imprevisto che compare oggi, come sempre avvenuto nella storia, sulla spinta dell’indignazione, per l’orrore del massacro di una intera popolazione, del genocidio a Gaza e della violenza efferata dei coloni e dell’esercito israeliano occupante in Cisgiordania.

“Ma Indignarsi non basta.” Ci dice Pietro Ingrao commentando “Indignatevi”, di Stéphane Hessel.
“Bisogna costruire una relazione condivisa, attiva” dice, e aggiunge: “Valuto molto più forte il rischio che i sentimenti dell’indignazione e della speranza restino, come tali, inefficaci, in mancanza di una lettura del mondo e di una adeguata pratica politica che dia loro corpo.
Che l’indignazione possa supplire alla politica e, in primo luogo, alla creazione delle sue forme efficaci è illusorio”.
Ed oggi questo insegnamento appare ancora più vero difronte al crollo della democrazia liberale, del diritto, del diritto internazionale. Al risorgere degli imperi, all’affermarsi di quello che è stato definito tecno feudalesimo in un mondo di disuguaglianze smisurate crescenti, di un riarmo mostruoso progressivo, all’affermazione della logica amico/nemico e della forza dei più potenti anche nel determinare tregue che amano chiamare albe di pace, nei conflitti armati. Anche in quelli più efferati e distruttivi.
Eppure l’indignazione di milioni di persone nel mondo e la sua esondazione nelle strade e nelle piazze di tutti i Paesi dove, ancorché acciaccata e sotto continuo, pressante attacco, la democrazia liberale sopravvive ancora, ha spinto le vecchie e nuove Autocrazie che governano il mondo, a fermare il massacro di Gaza, in aggiunta, non irrilevante, con i loro interessi.

Il nostro progetto di Costituzione della Terra offre “una lettura del mondo e di una adeguata pratica politica che le dia loro corpo” per evitare “il rischio che “i sentimenti dell’indignazione e della speranza restino, come tali, inefficaci.”
Offre il percorso e le garanzie necessarie per la profonda riforma dell’ONU riproposta da questi articolo.
Un articolo, muove nella stessa direzione del nostro progetto e può essere molto utile ai fini del nostro convegno del 24 a Roma.
A tutti/e voi ricordo la necessità di garantire la partecipazione a questa nostra iniziativa costruita con UNIPACE, Othernews e tanti altri soggetti associativi e fondazioni.
Iniziativa che chiude un intenso percorso di attività in atto da 8 mesi e che può farci fare un importante passo in avanti sul terreno culturale, politico ed organizzativo.
Mettiamocela tutta!
(Mimmo Rizzuti, Direttivo Nazionale Costituente Terra)
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Quo Vadis UN @80?
Di Kul Chandra Gautam* – Inter Press Service (IPS)

KATHMANDU, Nepal, 13 ottobre 2025 (IPS) – Le Nazioni Unite hanno compiuto 80 anni quest’anno. Quello che avrebbe dovuto essere un momento di orgoglio e celebrazione durante la sessione di alto livello dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel settembre 2025 si è invece trasformato in un’occasione di amara ironia.
Al Quartier Generale dell’ONU a New York—appropriatamente situato nel Paese che un tempo contribuì a fondare e promuovere l’organizzazione—i fuochi d’artificio più fragorosi non sono arrivati dalla commemorazione, ma dalla condanna.
Il Presidente degli Stati Uniti, vantandosi di aver “posto fine a sette guerre in sette mesi mentre l’ONU non faceva nulla”, ha deriso lo scopo stesso dell’istituzione. Ha definito il cambiamento climatico una farsa, rinnegato gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e schernito il multilateralismo come una burocrazia obsoleta.
Quello sfogo è stato scioccante, ma non sorprendente. L’ONU è da tempo un facile bersaglio per i politici populisti. Eppure, anche mentre resiste al ridicolo e alla negligenza, la verità resta: se l’ONU non esistesse, il mondo dovrebbe inventarla di nuovo.
Un’istituzione imperfetta ma indispensabile
I fallimenti dell’ONU sono evidenti e spesso strazianti. Mentre le guerre in Ucraina e a Gaza continuano—entrambe alimentate e sostenute da due Membri Permanenti del Consiglio di Sicurezza—l’organizzazione appare impotente, capace solo di lanciare appelli e fornire modesti aiuti umanitari.
La sua impotenza è visibile anche nella guerra tra bande ad Haiti, nelle atrocità militari in Myanmar e Sudan, nell’apartheid di genere in Afghanistan e nelle minacce della Corea del Nord, solo per citarne alcuni esempi.
È facile incolpare “l’ONU”, ma i veri responsabili sono i suoi Stati Membri—soprattutto le cinque potenze con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, che troppo spesso antepongono interessi nazionali ristretti alla sicurezza globale.
Molti altri soffocano l’ONU con grandi risoluzioni e mandati altisonanti, ma poi non li finanziano.
Nascondendosi dietro la sovranità, molti governi opprimono i propri cittadini, alimentano la corruzione e trascurano i loro impegni globali. Nel frattempo, le nazioni più ricche, capaci di sollevare milioni di persone dalla povertà, spendono trilioni di dollari nei loro eserciti.
Eppure, nonostante difetti e frustrazioni, l’umanità non può permettersi di abbandonare le Nazioni Unite.
Le sfide del nostro tempo—povertà, cambiamento climatico, pandemie, terrorismo, cybercriminalità e migrazioni di massa—sono “problemi senza passaporto”. Nessuna nazione, per quanto potente, può affrontarli da sola. Solo l’azione collettiva attraverso un sistema multilaterale può affrontare le crisi interconnesse che definiscono il XXI secolo.
Per i Paesi più piccoli o più poveri, l’ONU è un amplificatore di voce e influenza. Agendo insieme, possono negoziare in modo più equo con i potenti.
Per le nazioni grandi e potenti, l’ONU fornisce legittimità e un quadro per la cooperazione che l’azione unilaterale non potrà mai ottenere.
L’ONU, con tutte le sue imperfezioni, resta uno specchio del nostro mondo: riflette tanto le nostre aspirazioni quanto le nostre divisioni. La sua ipocrisia è la nostra ipocrisia; i suoi fallimenti sono i nostri fallimenti. Risoluzioni senza determinazione e promesse senza azione sono le vere ragioni della sua inefficacia.
Eppure, in mezzo al cinismo, vale la pena ricordare che l’ONU e le sue agenzie hanno ricevuto 14 Premi Nobel per la Pace—più di qualsiasi altra istituzione nella storia. Non è un riconoscimento da poco per i suoi contributi al peacekeeping, ai soccorsi umanitari, ai diritti umani e allo sviluppo.
Ma non può vivere di rendita. Se l’ONU vuole restare rilevante, deve trasformarsi per rispondere alle esigenze di un mondo in rapida evoluzione.
Tempo di riforme vere e “tough love”
Il Segretario Generale António Guterres ha lanciato l’iniziativa UN@80 per rendere il sistema più incisivo e riaffermarne lo scopo.
Un recente Mandate Implementation Review condotto a livello di sistema ha rivelato una realtà sconcertante: oltre il 30% dei mandati creati dal 1990 è ancora attivo e l’86% non ha una clausola di scadenza. Molti impongono al Segretariato e alle agenzie specializzate di attuarli “con risorse esistenti”, un compito impossibile.
Centinaia di risoluzioni e rapporti sovrapposti intasano la macchina dell’ONU, sostenuta dall’inerzia burocratica e dall’appetito degli Stati Membri per una burocrazia infinita. Troppe riunioni producono troppa poca azione.
La tecnologia oggi offre una via d’uscita. L’intelligenza artificiale può consolidare e semplificare i rapporti, liberando risorse per il lavoro reale. Allo stesso modo, la frequenza delle riunioni dei consigli direttivi—tre volte l’anno per agenzie come UNDP, UNICEF, UNFPA, UN Women e WFP—potrebbe essere ridotta senza compromettere la responsabilità.
Di fronte a una crisi finanziaria, all’ostilità politica dei grandi donatori e alla proliferazione di mandati non finanziati, l’ONU non ha altra scelta che razionalizzare la propria struttura. Alcune agenzie dovranno fondersi o trasferire le operazioni da costose sedi a New York e in Europa verso località meno onerose in Africa, Asia e Medio Oriente.
UNICEF ha già preso l’iniziativa con il suo programma “Future Focus Initiative”, che prevede di ridurre i budget della sede centrale del 25% e di trasferire il 70% del personale in hub più economici come Bangkok, Nairobi o Istanbul. Tali mosse possono ridurre i costi, avvicinare l’organizzazione al campo e allinearla meglio alle realtà del mondo odierno.
Allo stesso tempo, l’ONU deve sfruttare la crescita straordinaria delle competenze professionali nei Paesi in via di sviluppo. Molti di questi producono oggi esperti altamente qualificati, capaci di servire efficacemente—e a costi inferiori—rispetto agli espatriati del Nord Globale.
UNICEF ha fatto da pioniere in questo decenni fa, assumendo professionisti locali nei suoi uffici sul campo. Estendere questa pratica a tutto il sistema non solo farebbe risparmiare denaro, ma rafforzerebbe anche la proprietà locale e la credibilità.
Queste sono misure sensate a breve termine. Ma graffiano solo la superficie. La vera prova di leadership sta nell’affrontare le riforme strutturali profonde che sfuggono all’ONU da decenni.
Le riforme difficili: potere, responsabilità e denaro
1. Democratizzare l’ONU
La missione dell’ONU è promuovere pace, democrazia, sviluppo e diritti umani—ma la sua struttura rimane profondamente antidemocratica.
I cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza detengono il diritto di veto, che può paralizzare l’azione anche di fronte a genocidi o aggressioni.
Quella clausola poteva avere senso nel 1945, ma è indifendibile nel 2025. Tuttavia, cambiarla richiede il consenso di quelle stesse cinque potenze. Solo una leadership illuminata in quei Paesi e una pressione pubblica sostenuta a livello globale potranno portare alla riforma.
La democratizzazione deve estendersi anche alla selezione dei vertici dell’ONU. Il Segretario Generale e i capi delle principali agenzie sono ancora scelti attraverso accordi opachi tra le potenze.
Queste posizioni sono spesso “riservate” a determinate nazionalità piuttosto che assegnate per merito. L’ONU deve muoversi verso un sistema trasparente e meritocratico se vuole riconquistare credibilità.
2. Rilanciare la “Responsibility to Protect”
Troppi regimi si nascondono dietro lo scudo della sovranità per opprimere il proprio popolo. I leader mondiali concordarono al Millennium Summit del 2005 che, quando un governo non protegge i suoi cittadini—o peggio, ne diventa il carnefice—la comunità internazionale ha una Responsibility to Protect (R2P).
Il Pact for the Future del 2024 ha riaffermato questo principio.
Ma l’R2P è stata raramente applicata, perché le potenze la invocano in modo selettivo—proteggendo i propri alleati e condannando i rivali. La vera leadership significherebbe applicarla universalmente, senza doppi standard.
3. Riequilibrare le priorità: disarmo e sviluppo
L’ONU è nata per prevenire la guerra. Eppure, la spesa militare mondiale supera oggi i 2,7 trilioni di dollari all’anno—quasi 7,5 miliardi al giorno. I Paesi della NATO stanno ampliando i loro bilanci per la difesa, mentre si riducono le spese sociali e gli impegni verso i poveri.
È una follia morale. L’umanità ha bisogno di meno armi e di più investimenti nello sviluppo sostenibile. Reindirizzare anche solo una frazione della spesa militare globale verso gli SDGs farebbe più per la pace di tutte le bombe del mondo.
4. Sistemare le finanze dell’ONU
All’ONU, denaro e potere spesso parlano più forte dell’autorità morale. Gli Stati Uniti contribuiscono con circa un quarto del bilancio regolare dell’ONU—e usano questa leva per esercitare un’influenza sproporzionata. Altri grandi donatori fanno lo stesso.
Nel 1985, il Primo Ministro svedese Olof Palme propose un rimedio semplice: nessun Paese dovrebbe pagare—o poter pagare—più del 10% del bilancio dell’ONU. Ciò ridurrebbe la dipendenza da un singolo donatore e richiederebbe aumenti modesti agli altri. Ironia della sorte, Washington si oppose, temendo di perdere influenza.
Rilanciare oggi quella proposta potrebbe contribuire a depoliticizzare il finanziamento dell’ONU e renderlo più sostenibile.
L’ONU dovrebbe inoltre ampliare le partnership con la filantropia privata, le fondazioni e fonti innovative come tasse sulle transazioni finanziarie globali o sull’uso dei beni comuni mondiali. Tali meccanismi potrebbero liberare l’organizzazione dal ricorrente dramma dei bilanci ostaggio e delle quote non versate.
Un orizzonte di speranza
La storia raramente procede in linea retta. Il progresso avanza spesso con due passi avanti e uno indietro.
Oggi, l’ordine internazionale del dopoguerra si sta logorando e il nazionalismo populista è in ripresa. Ma, nel lungo arco della storia umana, il movimento verso la cooperazione globale è irreversibile.
Stiamo evolvendo lentamente—ma inesorabilmente—dal tribalismo primitivo al nazionalismo moderno e, infine, verso una solidarietà globale condivisa. Il multilateralismo può essere sotto assedio, ma risorgerà, reinventato e rinnovato, perché la nostra interdipendenza non lascia alternative.
Trovo speranza nell’energia e nel coraggio della Generazione Z in tutto il mondo—dal Nepal e dal Bangladesh al Kenya, all’Indonesia, al Marocco e oltre.
I giovani stanno sfidando corruzione, disuguaglianza e autoritarismo, e si vedono sempre più come cittadini globali, connessi dalla tecnologia e uniti da aspirazioni comuni piuttosto che divisi da confini o dogmi.
Se riusciremo a offrire a questi giovani cittadini opportunità e giustizia invece che disuguaglianza e disperazione, vedremo l’alba di un mondo più cooperativo, umano ed equo.
Questo, a sua volta, darà nuova vita alle Nazioni Unite—ancora imperfette, ancora indispensabili, e ancora la migliore speranza dell’umanità per promuovere pace e prosperità.
Kul Chandra Gautam, già Vice Direttore Esecutivo dell’UNICEF e Assistente Segretario Generale delle Nazioni Unite, è autore di “Global Citizen from Gulmi: My Journey from the Hills of Nepal to the Halls of United Nations”.
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La Generazione Z è il nuovo fantasma che percorre il mondo
Di Ociel Alí López* – El Salto

Le proteste della Gen Z si stanno diffondendo in tutto il mondo, dal Nepal al Perù, passando per Paraguay, Marocco, Indonesia e Filippine: cosa cambia e cosa resta delle tipiche manifestazioni della sinistra?
Quando un’ondata di proteste, convocata da una autoproclamata Gen Z che utilizza i simboli di un manga giapponese, ha rovesciato il 9 settembre il primo ministro del Nepal, Khadga Prasad Sharma Oli, abbiamo pensato che si trattasse di un evento isolato, in quell’unico Paese al mondo con una bandiera non rettangolare.
Quando abbiamo saputo che convocazioni simili si stavano sviluppando in Indonesia, Filippine e in altri Paesi dell’Asia, gli analisti hanno pensato che si trattasse di una moda propria di quel continente e del suo esasperato consumo di cultura pop. Poi, quando l’ondata è arrivata in Perù e successivamente in Paraguay, abbiamo scoperto che le proteste avevano trovato eco in un altro continente, sempre indisciplinato, che ama “surfare” quando si tratta di conflitti. Ma quando sono arrivate anche in Africa, attraverso i sollevamenti in Marocco e Madagascar—dopo che a luglio era già accaduto qualcosa di simile in Kenya—è apparso chiaro che ci trovavamo di fronte a un fenomeno globale.
Per la sinistra, una sfida di comprensione
Per le sinistre, questo tipo di manifestazioni è sempre difficile da comprendere e catalogare. Innanzitutto, perché non usano la simbologia né il discorso tradizionale, e abbondano sempre le versioni complottiste che vedono la CIA dietro qualsiasi cosa che non sventoli “bandiere rosse”.
La confusione è ancora maggiore quando le mobilitazioni sono convocate da giovani con estetica animé.
Alcuni settori della sinistra cercano di paragonare queste rivolte a esperienze precedenti, definendole “nuove rivoluzioni colorate”. Le destre, altrettanto disorientate, le paragonano ad altre ondate popolari, come quella degli indignados europei o agli scoppi sociali dell’America Latina.
La verità è che queste manifestazioni hanno caratteristiche proprie, e comprenderle è vitale non solo per capire il momento presente, ma anche per rinnovare cornici concettuali ormai inadeguate—soprattutto in un’epoca in cui i giovani di tutto il mondo sono anche protagonisti della crescita dell’estrema destra.
Dunque, dove collocare questa nuova marea di ribellione giovanile del 2025?
Caratteristiche della ribellione
Queste manifestazioni hanno diverse motivazioni socio-economiche, senza un’unica causa globale, la maggior parte tipiche dei movimenti sociali tradizionali.
In Marocco, la scintilla è scaturita dalla morte di otto donne incinte nello stesso ospedale di Agadir, in un contesto di critiche alla costruzione di stadi per il Mondiale di Calcio 2030 e la Coppa d’Africa 2026.
In Paraguay, il detonatore sono stati gli scandali di corruzione.
In Madagascar, la protesta riguardava i tagli alla fornitura di elettricità e la mancanza d’acqua.
In Perù, la causa scatenante è stata una riforma della legge sulle pensioni che penalizzava principalmente i minori di 40 anni.
In Indonesia, la protesta è esplosa dopo l’investimento di un fattorino da parte di un’auto della polizia.
In tutte queste proteste, l’elemento digitale è preponderante, sia nella costruzione dell’identità sia negli esiti.
Va ricordato che il primo ministro del Nepal è stato rovesciato dopo aver proibito numerosi social network, e che le misure di repressione digitale adottate da diversi governi per contenere le proteste sono state seguite da ulteriori azioni e mobilitazioni, come accaduto anche in Paraguay e Indonesia.
Organizzazione digitale e nuova estetica
L’organizzazione digitale e la diffusione in rete rappresentano un elemento distintivo di questa ondata, poiché è la prima generazione che ha estirpato dall’immaginario la necessità di una diffusione massmediatica e l’onnipotenza dei media tradizionali: si autogestiscono.
Hanno cancellato dal lessico l’idea che “se non appare sui media, non esiste”.
Usano Discord—una piattaforma nata per gamer—per organizzarsi politicamente, e poi TikTok per diffondere contenuti su larga scala.
Ciò che distingue queste mobilitazioni non è tanto il tipo di azione. In tutti i Paesi coinvolti, le proteste di piazza potrebbero essere paragonate a qualsiasi movimento precedente. Non c’è grande innovazione tattica.
La differenza fondamentale è estetica: non tanto perché siano giovani a scendere in piazza—come è accaduto in quasi tutti i movimenti studenteschi degli ultimi sessant’anni—, ma perché possiedono un’estetica e un’epica non più legate all’ideologia. È qui che risiede la loro maggiore originalità.
Il simbolo: One Piece come bandiera
Per questo, lo spirito della rivolta è rappresentato dall’anime giapponese One Piece, capolavoro dell’insurrezione cominciato nel 1997.
Queste nuove manifestazioni non sventolano più le bandiere rosse del comunismo, né i loro attivisti indossano magliette del Ché Guevara.
Preferiscono portare cappelli di paglia, simbolo di umiltà, nobiltà d’animo ma anche di lotta e speranza; oppure magliette con l’immagine di Monkey D. Luffy, protagonista di One Piece, un adolescente in sandali e pantaloncini che si autoproclama re dei pirati.
La bandiera sventolata in diversi continenti è quella con il teschio del manga, che invita a un’utopia concreta, fatta di azioni reali per contrastare ciò che chiamano il “governo mondiale”.
Non seguono leader storici o contemporanei noti, né si schierano nei conflitti geopolitici esistenti.
Né sinistra né destra
È probabile che dietro alcune di queste proteste vi siano ONG, attivismi o persino servizi segreti. Tuttavia, in molti dei Paesi dove emergono, i governi sono chiaramente di destra. In altri, gli avversari sono comunisti, come in Nepal, dove le forze di sinistra hanno perso la spinta trasformativa e si sono comodamente adattate allo status quo.
Bisogna comprendere le motivazioni, le sofferenze e ciò che accade ai nati tra il 1997 e il 2010, principali promotori delle mobilitazioni.
Non si tratta solo di una generazione di studenti: si sono uniti anche enormi masse di giovani lavoratori, informali e disoccupati, precari, con un’idea di futuro in agonia.
Non riconoscono il concetto di “successo” della ideologia neoliberale.
Non partecipano a strutture mediatrici come sindacati o partiti, non aderiscono a movimenti politici o attivismi noti e non mirano a diventare sindaci o deputati.
Non vogliono schierarsi né da una parte né dall’altra del conflitto geopolitico.
Se la sinistra e la destra non sanno ancora come reagire, in attesa di etichette ideologiche per decidere se appoggiare o respingere quest’ondata, sembra chiaro che la Generazione Z non vede differenze tra sinistra e destra.
Percepisce la sinistra come “più dello stesso”, parte dell’establishment politico e non come una forza di rottura.
Si distanzia dalla generazione precedente, che ha rapidamente trasformato la sua ribellione in carriere burocratiche o presenze nei talk show, con discorsi ideologici levigati.
Questa Gen Z, osservata nel pieno delle proteste, appare più epica: non cerca il potere politico, ma l’avventura, come in ogni episodio di One Piece.
È una generazione utopica, ma non puramente sognatrice: cerca ostacoli da superare e, quindi, vittorie concrete.
Risultati e impatto globale
E i risultati non si sono fatti attendere.
Settembre 2025 è stato il mese dell’irruzione di queste proteste, ancora in corso, che non solo hanno rovesciato il premier del Nepal e il presidente del Senato e altri alti funzionari in Indonesia, ma hanno anche costretto l’allora presidente del Perù, Dina Boluarte—abituata alla repressione e a non cedere—, a ritirare la riforma delle pensioni e, poche settimane dopo, a perdere il suo incarico.
Hanno spinto la monarchia del Marocco a riconoscere problemi di sanità pubblica e messo in discussione l’organizzazione dei tornei calcistici internazionali.
In tutti i Paesi dove emergono, queste proteste hanno generato scosse sociali e simpatia tra gli esclusi, ma anche repressione nelle strade e nel cyberspazio.
L’establishment mondiale le vede come una minaccia—sia che si tratti del Partito Comunista del Nepal che delle nuove destre latinoamericane.
Un nuovo soggetto politico
Per anni abbiamo visto la Gen Z erroneamente come un soggetto apatico e apolitico, soprattutto se paragonato alla ribellione dei boomer e dei loro riflessi.
Un gruppo sempre incollato al telefono e ai scroll infiniti.
Una generazione senza rivendicazioni, capace di subire i peggiori colpi dell’economia neoliberale o dell’arbitrarietà politica senza reagire, chiusa nella propria bolla di cristallo.
Finora non sembrava dotata di sensibilità sociale.
Ma da ora in poi bisognerà farci attenzione: questa generazione vuole lottare, attraversa momenti di radicalizzazione, formula rivendicazioni nate dalla solidarietà verso gli altri, si stanca, denuncia le ingiustizie, l’arbitrarietà e la disuguaglianza, e scende in piazza proprio quando sembrava che non ci fossero più spazi per la protesta in Paesi dove la “stabilità” era ormai parte della natura sociale.
Come in un anime, la testardaggine verso l’impossibile esplode oltre la loro estetica quasi infantile, che passa inosservata a qualsiasi scanner ideologico.
Questa generazione, che appena ora irrompe nella politica, è quella che segnerà i prossimi anni e influenzerà anche le generazioni future.
Sarà indispensabile imparare a comprenderla al di fuori delle griglie ideologiche che imprigionano lo sguardo delle generazioni precedenti.
Conclusione
La Gen Z è il nuovo fantasma che percorre il mondo e ci pone di fronte a una grande sfida, soprattutto per le sinistre, che si trovano in una situazione inedita: stanno perdendo la battaglia culturale nel campo giovanile contro le destre estreme.
Ci lancia un ultimatum più che definitivo: o cambiamo il modo di comprendere la realtà, o saremo travolti dalle nuove ondate che arriveranno da ogni altra parte, tranne che dalla nostra.
Gli ostinati non potremo più essere noi: ora ci sono nuovi protagonisti.
*Ociel Alí López è sociologo, analista politico e professore presso l’Universidad Central de Venezuela.

Leggi anche: https://www.nodal.am/2025/10/quienes-son-los-jovenes-de-la-generacion-z-que-estan-tomando-las-calles-por-diego-lorca/
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“… non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!”

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Nel momento in cui prendiamo la parola davanti a questo consesso unico al mondo, sentiamo il bisogno anzitutto di esprimere la Nostra profonda gratitudine al Signor Thant, vostro Segretario Generale, per l’invito ch’egli Ci ha rivolto di visitare le Nazioni Unite, in occasione del ventesimo anniversario della fondazione di questa Istituzione mondiale per la pace e per la collaborazione fra i popoli di tutta la terra. Noi ringraziamo altresì il Signor Presidente dell’Assemblea, On. Amintore Fanfani, il quale, dal giorno del suo insediamento, ha avuto per Noi parole tanto cortesi.

Grazie anche a voi tutti, qui presenti, per la vostra buona accoglienza.

A ciascuno di voi il Nostro riverente e cordiale saluto. La vostra amicizia Ci ha invitati e Ci ammette ora a questa riunione: e come amici Noi qui a voi Ci presentiamo.

Vi esprimiamo il Nostro cordiale omaggio personale e vi offriamo quello dell’intero Concilio Ecumenico Vaticano II, riunito in Roma, e qui rappresentato dai Signori Cardinali che a questo scopo Ci accompagnano. A loro nome, come da parte Nostra, rendiamo a voi tutti onore e vi salutiamo!

Questo incontro, voi tutti lo comprendete, segna un momento semplice e grande. Semplice, perché voi avete davanti un uomo come voi; egli è vostro fratello, e fra voi, rappresentanti di Stati sovrani, uno dei più piccoli, rivestito lui pure, se così vi piace considerarci, d’una minuscola, quasi simbolica sovranità temporale, quanta gli basta per essere libero di esercitare la sua missione spirituale, e per assicurare chiunque tratta con lui, che egli è indipendente da ogni sovranità di questo mondo. Egli non ha alcuna potenza temporale, né alcuna ambizione di competere con voi; non abbiamo infatti alcuna cosa da chiedere, nessuna questione da sollevare; se mai un desiderio da esprimere e un permesso da chiedere, quello di potervi servire in ciò che a Noi è dato di fare, con disinteresse, con umiltà e amore.

DA VENTI SECOLI UN VOTO DEL CUORE

Questa è la Nostra prima dichiarazione; e, come voi vedete, essa è così semplice, che sembra irrilevante per questa Assemblea, che tratta sempre cose importantissime e difficilissime. Ma Noi dicevamo, e tutti lo avvertite, che questo momento è anche grande. Grande per Noi, grande per voi.

Per Noi, anzitutto. Oh! voi sapete chi siamo; e, qualunque sia l’opinione che voi avete sul Pontefice di Roma, voi conoscete la Nostra missione; siamo portatori d’un messaggio per tutta l’umanità; e lo siamo non solo a Nostro nome personale e dell’intera famiglia cattolica, ma lo siamo pure di quei Fratelli cristiani, che condividono i sentimenti da Noi qui espressi, e specialmente di quelli da cui abbiamo avuto esplicito incarico d’essere anche loro interpreti. Noi siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata; così Noi avvertiamo la fortuna di questo, sia pur breve, momento, in cui si adempie un voto, che Noi portiamo nel cuore da quasi venti secoli. Sì, voi ricordate: è da molto tempo che siamo in cammino, e portiamo con Noi una lunga storia; Noi celebriamo qui l’epilogo d’un faticoso pellegrinaggio in cerca d’un colloquio con il mondo intero, da quando Ci è stato comandato: “Andate e portate la buona novella a tutte le genti”.

Ora siete voi, che rappresentate tutte le genti. Noi abbiamo per voi tutti un messaggio, sì, un messaggio felice, da consegnare a ciascuno di voi.

IN NOME DEI MORTI DEI POVERI DEI SOFFERENTI

1. Il Nostro messaggio vuol essere, in primo luogo, una ratifica morale e solenne di questa altissima Istituzione. Questo messaggio viene dalla Nostra esperienza storica; Noi, quali “esperti in umanità”, rechiamo a questa Organizzazione il suffragio dei Nostri ultimi Predecessori, quello di tutto l’Episcopato cattolico, e Nostro, convinti come siamo che essa rappresenta la via obbligata della civiltà moderna e della pace mondiale.

Dicendo questo, Noi sentiamo di fare Nostra la voce dei morti e dei vivi; dei morti, caduti nelle tremende guerre passate sognando la concordia e la pace del mondo; dei vivi, che a quelle hanno sopravvissuto portando nei cuori la condanna per coloro che tentassero rinnovarle; e di altri vivi ancora, che avanzano nuovi e fidenti, i giovani delle presenti generazioni, che sognano a buon diritto una migliore umanità. E facciamo Nostra la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso. I popoli considerano le Nazioni Unite come il palladio della concordia e della pace; Noi osiamo, col Nostro, portare qua il loro tributo di onore e di speranza. Ecco perché questo momento è grande anche per voi.

GIUSTIZIA DIRITTO TRATTATIVA NELLE RELAZIONI TRA I POPOLI

2. Noi sappiamo che ne avete piena coscienza. Ascoltate allora la continuazione del Nostro messaggio. Esso è rivolto completamente verso l’avvenire: l’edificio, che avete costruito, non deve mai più decadere, ma deve essere perfezionato e adeguato alle esigenze che la storia del mondo presenterà. Voi segnate una tappa nello sviluppo dell’umanità, dalla quale non si dovrà più retrocedere, ma avanzare.

Al pluralismo degli Stati, che non possono più ignorarsi, voi offrite una formola di convivenza, estremamente semplice e feconda. Ecco: voi dapprima vi riconoscete e distinguete gli uni dagli altri. Voi non conferite certamente l’esistenza agli Stati; ma qualificate come idonea a sedere nel consesso ordinato dei Popoli ogni singola Nazione; date cioè un riconoscimento di altissimo valore etico e giuridico ad ogni singola comunità nazionale sovrana, e le garantite onorata cittadinanza internazionale. È già un grande servizio alla causa dell’umanità quello di ben definire e di onorare i soggetti nazionali della comunità mondiale, e di classificarli in una condizione di diritto, meritevole d’essere da tutti riconosciuta e rispettata, dalla quale può derivare un sistema ordinato e stabile di vita internazionale. Voi sancite il grande principio che i rapporti fra i popoli devono essere regolati dalla ragione, dalla giustizia, dal diritto, dalla trattativa, non dalla forza, non dalla violenza, non dalla guerra, e nemmeno dalla paura, né dall’inganno.

Così ha da essere. Lasciate che Noi Ci congratuliamo con voi, che avete avuto la saggezza di aprire l’accesso a questa aula ai Popoli giovani, agli Stati giunti da poco alla indipendenza e alla libertà nazionale; la loro presenza è la prova dell’universalità e della magnanimità che ispirano i principii di questa Istituzione.

Così ha da essere; questo è il Nostro elogio e il Nostro augurio, e, come vedete, Noi non li attribuiamo dal di fuori; ma li caviamo dal di dentro, dal genio stesso del vostro Statuto.

GENEROSA FIDUCIA GIAMMAI INSIDIATA O TRADITA

3. Il vostro Statuto va oltre; e con esso procede il Nostro augurio.

Voi esistete ed operate per unire le Nazioni, per collegare gli Stati; diciamo questa seconda formola: per mettere insieme gli uni con gli altri. Siete una Associazione. Siete un ponte fra i Popoli. Siete una rete di rapporti fra gli Stati. Staremmo per dire che la vostra caratteristica riflette in qualche modo nel campo temporale ciò che la Nostra Chiesa cattolica vuol essere nel campo spirituale: unica ed universale. Non v’è nulla di superiore sul piano naturale nella costruzione ideologica dell’umanità. La vostra vocazione è quella di affratellare non solo alcuni, ma tutti i Popoli. Difficile impresa? Senza dubbio. Ma questa è l’impresa; questa la vostra nobilissima impresa. Chi non vede il bisogno di giungere così, progressivamente, a instaurare un’autorità mondiale, capace di agire con efficacia sul piano giuridico e politico?

Anche a questo riguardo ripetiamo il Nostro voto: perseverate. Diremo di più: procurate di richiamare fra voi chi da voi si fosse staccato, e studiate il modo per chiamare, con onore e con lealtà, al vostro patto di fratellanza chi ancora non lo condivide. Fate che chi ancora è rimasto fuori desideri e meriti la comune fiducia; e poi siate generosi nell’accordarla. E voi, che avete la fortuna e l’onore di sedere in questo consesso della pacifica convivenza, ascoltateci: fate che non mai la reciproca fiducia, che qui vi unisce e vi consente di operare cose buone e grandi. sia insidiata o tradita.

L’ORGOGLIO IL GRANDE ANTAGONISTA DELLE NECESSARIE ARMONIE

4. La logica di questo voto, che si può dire costituzionale per la vostra Organizzazione, Ci porta a integrarlo con altre formole. Ecco: che nessuno, in quanto membro della vostra unione, sia superiore agli altri. Non l’uno sopra l’altro. È la formola della eguaglianza. Sappiamo di certo come essa debba essere integrata dalla valutazione di altri fattori, che non sia la semplice appartenenza a questa Istituzione; ma anch’essa è costituzionale. Voi non siete eguali, ma qui vi fate eguali. Può essere per parecchi di voi atto di grande virtù; consentite che ve lo dica Colui che vi parla, il Rappresentante d’una Religione, la quale opera la salvezza mediante l’umiltà del suo Fondatore Divino. Non si può essere fratelli, se non si è umili. Ed è l’orgoglio, per inevitabile che possa sembrare. che provoca le tensioni e le lotte del prestigio, del predominio, del colonialismo dell’egoismo; rompe cioè la fratellanza.

CADANO LE ARMI, SI COSTRUISCA LA PACE TOTALE

5. E allora il Nostro messaggio raggiunge il suo vertice; il vertice negativo. Voi attendete da Noi questa parola, che non può svestirsi di gravità e di solennità: non gli uni contro gli altri, non più, non mai! A questo scopo principalmente è sorta l’Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace ! Ascoltate le chiare parole d’un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”. Non occorrono molte parole per proclamare questo sommo fine di questa istituzione. Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!

Grazie a voi, gloria a voi, che da vent’anni per la pace lavorate, e che avete perfino dato illustri vittime a questa santa causa. Grazie a voi, e gloria a voi, per i conflitti che avete prevenuti e composti. I risultati dei vostri sforzi, conseguiti in questi ultimi giorni in favore della pace, benché, non siano ancora definitivi, meritano che Noi, osando farci interpreti del mondo intero, vi esprimiamo plauso e gratitudine.

Signori, voi avete compiuto e state compiendo un’opera grande: l’educazione dell’umanità alla pace. L’ONU è la grande scuola per questa educazione. Siamo nell’aula magna di tale scuola; chi siede in questa aula diventa alunno e diventa maestro nell’arte di costruire la pace. Quando voi uscite da questa aula il mondo guarda a voi come agli architetti, ai costruttori della pace.

E voi sapete che la pace non si costruisce soltanto con la politica e con l’equilibrio delle forze e degli interessi, ma con lo spirito, con le idee, con le opere della pace. Voi già lavorate in questo senso. Ma voi siete ancora in principio: arriverà mai il mondo a cambiare la mentalità particolaristica e bellicosa, che finora ha tessuto tanta parte della sua storia? È difficile prevedere; ma è facile affermare che alla nuova storia, quella pacifica, quella veramente e pienamente umana, quella che Dio ha promesso agli uomini di buona volontà, bisogna risolutamente incamminarsi; e le vie sono già segnate davanti a voi; e la prima è quella del disarmo.

Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con armi offensive in pugno. Le armi, quelle terribili. specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli. Finché l’uomo rimane l’essere debole e volubile e anche cattivo, quale spesso si dimostra, le armi della difesa saranno necessarie, purtroppo; ma voi, coraggiosi e valenti quali siete, state studiando come garantire la sicurezza della vita internazionale senza ricorso alle armi: questo è nobilissimo scopo, questo i Popoli attendono da voi, questo si deve ottenere! Cresca la fiducia unanime in questa Istituzione, cresca la sua autorità; e lo scopo, è sperabile, sarà raggiunto. Ve ne saranno riconoscenti le popolazioni, sollevate dalle pesanti spese degli armamenti, e liberate dall’incubo della guerra sempre imminente, il quale deforma la loro psicologia. Noi godiamo di sapere che molti di voi hanno considerato con favore il Nostro invito, lanciato a tutti gli Stati per la causa della pace, a Bombay, nello scorso dicembre, di devolvere a beneficio dei Paesi in via di sviluppo una parte almeno delle economie, che si possono realizzare con la riduzione degli armamenti. Noi rinnoviamo qui tale invito, fidando nel vostro sentimento di umanità e di generosità.

OLTRE LA COESISTENZA: LA COLLABORAZIONE FRATERNA

6. Dicendo queste parole Ci accorgiamo di far eco ad un altro principio costitutivo di questo Organismo, cioè il suo vertice positivo: non solo qui si lavora per scongiurare i conflitti fra gli Stati, ma si lavora altresì con fratellanza per renderli capaci di lavorare gli uni per gli altri. Voi non vi contentate di facilitare la coesistenza e la convivenza fra le varie Nazioni; ma fate un passo molto più avanti, al quale Noi diamo la Nostra lode e il Nostro appoggio: voi promovete la collaborazione fraterna dei Popoli. Qui si instaura un sistema di solidarietà, per cui finalità civili altissime ottengono l’appoggio concorde e ordinato di tutta la famiglia dei Popoli per il bene comune, e per il bene dei singoli. Questo aspetto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è il più bello: è il suo volto umano più autentico; è l’ideale dell’umanità pellegrina nel tempo; è la speranza migliore del mondo; è il riflesso, osiamo dire, del disegno trascendente e amoroso di Dio circa il progresso del consorzio umano sulla terra; un riflesso, dove scorgiamo il messaggio evangelico da celeste farsi terrestre. Qui, infatti, Noi ascoltiamo un’eco della voce dei Nostri Predecessori, di quella specialmente di Papa Giovanni XXIII, il cui messaggio della Pacem in terris ha avuto anche nelle vostre sfere una risonanza tanto onorifica e significativa.

Perché voi qui proclamate i diritti e i doveri fondamentali dell’uomo, la sua dignità, la sua libertà e, per prima, la libertà religiosa. Ancora, Noi sentiamo interpretata la sfera superiore della sapienza umana, e aggiungiamo: la sua sacralità. Perché si tratta anzitutto della vita dell’uomo: e la vita dell’uomo è sacra: nessuno può osare di offenderla. Il rispetto alla vita, anche per ciò che riguarda il grande problema della natalità, deve avere qui la sua più alta professione e la sua più ragionevole difesa: voi dovete procurare di far abbondare quanto basti il pane per la mensa dell’umanità; non già favorire un artificiale controllo delle nascite, che sarebbe irrazionale, per diminuire il numero dei commensali al banchetto della vita.

Ma non si tratta soltanto di nutrire gli affamati: bisogna inoltre assicurare a ciascun uomo una vita conforme alla sua dignità. Ed è questo che voi vi sforzate di fare. E non si adempie del resto sotto i Nostri occhi e anche per opera vostra l’annuncio profetico che ben si addice a questa Istituzione: “Fonderanno le spade in vomeri; le lance in falci”? (Is. 2, 4). Non state voi impiegando le prodigiose energie della terra e le invenzioni magnifiche della scienza, non più in strumenti di morte, ma in strumenti di vita per la nuova era dell’umanità?

Noi sappiamo con quale crescente intensità ed efficacia l’Organizzazione delle Nazioni Unite, e gli organismi mondiali che ne dipendono, lavorino per fornire aiuto ai Governi, che ne abbiano bisogno, al fine di accelerare il loro progresso economico e sociale.

Noi sappiamo con quale ardore voi vi impegniate a vincere l’analfabetismo e a diffondere la cultura nel mondo; a dare agli uomini una adeguata e moderna assistenza sanitaria, a mettere a servizio dell’uomo le meravigliose risorse della scienza, della tecnica, dell’organizzazione: tutto questo è magnifico, e merita l’encomio e l’appoggio di tutti, anche il Nostro. Vorremmo anche Noi dare l’esempio, sebbene l’esiguità dei Nostri mezzi ci impedisca di farne apprezzare la rilevanza pratica e quantitativa: Noi vogliamo dare alle Nostre istituzioni caritative un nuovo sviluppo in favore della fame e dei bisogni del mondo: è in questo modo, e non altrimenti, che si costruisce la pace.

PER SALVARE LA CIVILTÀ PROFONDO RINNOVAMENTO IN DIO

7. Una parola ancora, Signori, un’ultima parola: questo edificio, che state costruendo, si regge non già solo su basi materiali e terrene: sarebbe un edificio costruito sulla sabbia; ma esso si regge, innanzitutto, sopra le nostre coscienze. È venuto il momento della “metanoia”, della trasformazione personale, del rinnovamento interiore. Dobbiamo abituarci a pensare in maniera nuova l’uomo; in maniera nuova la convivenza dell’umanità, in maniera nuova le vie della storia e i destini del mondo, secondo le parole di S. Paolo: “Rivestire l’uomo nuovo, creato a immagine di Dio nella giustizia e santità della verità” (Eph. 4, 23). È l’ora in cui si impone una sosta, un momento di raccoglimento, di ripensamento, quasi di preghiera: ripensare, cioè, alla nostra comune origine, alla nostra storia, al nostro destino comune. Mai come oggi, in un’epoca di tanto progresso umano, si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo!

Il pericolo non viene né dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi risolvere molti dei gravi problemi che assillano l’umanità. Il pericolo vero sta nell’uomo, padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina ed alle più alte conquiste!

In una parola, l’edificio della moderna civiltà deve reggersi su principii spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo. E perché tali siano questi indispensabili principii di superiore sapienza, essi non possono non fondarsi sulla fede in Dio. Il Dio ignoto, di cui discorreva nell’areopago S. Paolo agli Ateniesi? Ignoto a loro, che pur senza avvedersene lo cercavano e lo avevano vicino, come capita a tanti uomini del nostro secolo?… Per noi, in ogni caso, e per quanti accolgono la Rivelazione ineffabile, che Cristo di Lui ci ha fatta, è il Dio vivente, il Padre di tutti gli uomini.

*Insegnamenti di Paolo VI, vol. III, p.516-523.

L’Osservatore Romano 6.10.1965 p.4.

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Documentazione
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https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2025/10/09/0722/01290.html

Importante. Uno sguardo al Mondo sconvolto da guerre e conflitti.

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Signora Presidente,

Sono lieto di trasmettere i cordiali saluti e le benedizioni di Papa Leone XIV a lei e ai rappresentanti delle Nazioni qui riuniti, e mi congratulo per la sua elezione a guidare questa assemblea.

Per cominciare, vorrei ringraziare questa Assemblea Generale per l’omaggio reso a Papa Francesco dopo il suo decesso lo scorso aprile.

Come forse tutti sapete, quando Papa Leone XIV è stato eletto, le sue prime parole al mondo sono state: «La pace sia con tutti voi! [...] una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante» (1). In un mondo lacerato da guerre e conflitti, ha fatto della pace il suo primo messaggio.

Signora Presidente,

Il tema scelto per il Dibattito Generale di quest’anno: «Meglio insieme: ottant’anni e oltre per la pace, lo sviluppo e i diritti umani», sottolinea l’importanza che continua ad avere la cooperazione multilaterale nell’affrontare le questioni globali. Ciò è particolarmente pertinente quest’anno, poiché la comunità internazionale commemora l’istituzione delle Nazioni Unite nel 1945. È un momento opportuno per riaffermare i valori centrali dell’Organizzazione per la promozione della pace internazionale, lo sviluppo e i diritti umani universali, valori ancora più importanti in un mondo sempre più frammentato.

È essenziale che la comunità internazionale intraprenda azioni collettive per prevenire e porre fine a conflitti, combattere la povertà e promuovere i diritti umani, solennemente dichiarati nella Dichiarazione Universale del 1948, e uno dei risultati più rilevanti di questa Organizzazione. È importante ricordare che l’isolazionismo porta a un’imprevedibile instabilità, mentre l’unità favorisce la resilienza responsabile e il progresso comune. Ciò è molto evidente nelle circostanze attuali, dove l’aggravarsi delle tensioni geopolitiche, la dilagante crisi climatica e l’aumento delle disuguaglianze e la crescente povertà esigono una rinnovata solidarietà globale. Le Nazioni Unite devono adattarsi a un mondo cambiato e mantenere la propria efficacia dinanzi a sfide emergenti come il degrado ambientale e gli sconvolgimenti tecnologici, che nessun Paese può affrontare da solo.

Come rappresentanti di tutte le nazioni del mondo, siamo uniti dalla nostra comune umanità, creati a immagine e somiglianza di Dio, chiamati a vivere in fraternità, solidarietà e rispetto reciproco. La Santa Sede, guidata dagli insegnamenti senza tempo della Chiesa cattolica, intende continuare a essere una voce di chi non ha voce, impegnandosi per un mondo in cui la pace prevalga sul conflitto, la giustizia trionfi sulla disuguaglianza, lo Stato di diritto sostituisca il potere e la verità illumini il cammino verso la prosperità umana autentica.

In un mondo alle prese con sfide sempre più grandi, è necessario impegnarsi nuovamente per i pilastri fondanti di pace, giustizia e verità (2). È fondamentale esplorare e costruire su questi pilastri, imparando dalla storia e forgiando un futuro più equo.

Pace

Signora Presidente,

la pace è sia universale sia fondamentale per una società ben ordinata, basata sui valori. La pace non è la mera assenza di guerra o conflitto. Non può essere ridotta esclusivamente al mantenimento di un equilibrio di poteri tra avversari. Piuttosto, è radicata nel rispetto reciproco e in una giusta comprensione della persona umana, il che richiede l’istituzione di un ordine basato sulla giustizia e la carità. Papa Leone XIV descrive la pace come «un dono attivo, coinvolgente, che interessa e impegna ciascuno di noi, indipendentemente dalla provenienza culturale e dall’appartenenza religiosa, e che esige anzitutto un lavoro su sé stessi. La pace si costruisce nel cuore e a partire dal cuore, sradicando l’orgoglio e le rivendicazioni, e misurando il linguaggio, poiché si può ferire e uccidere anche con le parole, non solo con le armi» (3).

È possibile costruire una società pacifica e prospera attraverso l’impegno quotidiano costante per ripristinare l’ordine voluto da Dio, che cresce quando ogni persona riconosce e assume il proprio ruolo nel promuoverlo. Per evitare conflitti e violenza, la pace deve essere profondamente radicata nel cuore di ogni individuo, affinché possa diffondersi attraverso le famiglie e le diverse associazione nella società, fino a quando sarà coinvolta l’intera comunità politica. Solo in un contesto caratterizzato dal rispetto della giustizia diventa possibile sviluppare una cultura di pace autentica in grado di influenzare l’intera comunità internazionale. Di fatto, la «pace non si può ottenere sulla terra se non è tutelato il bene delle persone e se gli uomini non possono scambiarsi con fiducia e liberamente le ricchezze del loro animo e del loro ingegno» (4).

Fare pace esige che si rifiutino odio e vendetta a favore del dialogo e della riconciliazione. «Che diventiamo artigiani di pace, lavorando in tal senso per il bene comune, non è mai stato così improrogabile come ora, poiché favorisce tutti e non solo pochi» (5). La Santa Sede loda coloro che costruiscono ponti che superano le divisioni con mezzi non violenti. I loro atti coraggiosi illuminano il cammino verso la fraternità, attraverso la quale tutti sono chiamati ad essere artigiani di pace in una cultura d’incontro.

La comunità internazionale deve pertanto dare la priorità alla diplomazia rispetto alla divisione, reindirizzando le risorse dagli strumenti di guerra verso iniziative che promuovano la giustizia, il dialogo e il miglioramento delle condizioni dei poveri e dei più bisognosi. La Santa Sede rinnova la sua proposta di un fondo globale, sostenuto da una frazione delle spese militari, per sradicare la povertà e la fame, promuovere lo sviluppo sostenibile e affrontare il cambiamento climatico (6). Si tratta di fondamenta indispensabili per una pace duratura.

Disarmo

Uno dei primi passi per ottenere la pace è costruire fiducia. Il massiccio riarmo compromette questo obiettivo, poiché crea nuove minacce ed acuisce le paure della gente. Di fatto, «Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo» (7). La continua crescita delle spese militari globali, che nel 2024 hanno raggiunto la cifra senza precedenti di 2,72 trilioni di dollari (8), perpetua cicli di violenza e di divisione, distogliendo risorse dai bisogni urgenti dei poveri e di quanti si trovano in situazioni di vulnerabilità.

Il disarmo non è solo una necessità politica o strategica, ma soprattutto un imperativo morale, radicato nel riconoscimento della sacralità della vita umana e dell’interconnessione della famiglia umana. È molto preoccupante che un certo numero di Stati si stia ritirando dall’impegno assunto nei trattati di disarmo internazionali. La Santa Sede invita con urgenza la comunità internazionale a non perdere di vista l’importanza di perseguire accordi di disarmo multilaterale e di cercare di ridurre le scorte di armi convenzionali e nucleari, come anche di adoperarsi instancabilmente per rafforzare meccanismi di non proliferazione e promuovere misure volte a rafforzare la fiducia per garantire una sicurezza comune.

La Santa Sede, pertanto, chiede la piena attuazione e il rafforzamento dei regimi giuridici stabiliti dagli Stati parte del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) e del Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBTO) e il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW). Inoltre, gli Stati in possesso di nucleare dovrebbero adottare misure concrete per ridurre le proprie scorte nucleari, arrestare la modernizzazione dei loro arsenali e promuovere un dialogo trasparente per costruire fiducia tra le nazioni. Le risorse dovrebbero essere reindirizzate verso l’educazione, l’assistenza sanitaria e lo sviluppo sostenibile, con il fine ultimo di raggiungere un mondo senza nucleare.

La produzione e lo stoccaggio di armi nucleari sono una grave offesa alla pace poiché distolgono risorse dalla promozione dello sviluppo umano integrale indirizzandole verso strumenti di distruzione. Si stima che nel mondo ci siano più di 12.000 testate, con una forza esplosiva complessiva di 1,5 gigatoni, equivalenti a più di 100.000 bombe del tipo usato su Hiroshima.

80 anni dal primo test nucleare e Hiroshima

Quest’anno ricorrono 80 anni dal primo test nucleare nel 1945, come anche dal tragico bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. Quegli eventi, che hanno sfregiato l’umanità e messo in luce la fragilità della nostra comune esistenza, sottolineano l’imperativo morale dell’urgente bisogno di disarmo nucleare e generale. La Santa Sede non ha dubbi che un mondo libero da armi nucleari sia tanto necessario quanto possibile. Il ricorso a tali armamenti è sempre sproporzionato e pertanto immorale. Inoltre, nessun motivo giusto o ragionevole può giustificare il possesso di simili armi, dato il loro potere distruttivo e i rischi associati. La Santa Sede è convinta che il loro possesso e utilizzo sia pericoloso, una minaccia per l’umanità e profondamente immorale e che pertanto «devono anche considerarsi un illegittimo strumento di guerra» (9). Intanto, la «risposta alla minaccia delle armi nucleari dev’essere collettiva e concertata, basata sull’ardua ma costante costruzione di una fiducia reciproca che spezzi la dinamica di diffidenza attualmente prevalente» (10).

Rispetto del diritto umanitario internazionale

In un mondo lacerato da guerre e conflitti, il rispetto del diritto umanitario internazionale costituisce un altro pilastro di pace, poiché salvaguarda la dignità umana in mezzo ai conflitti armati. Le violazioni — come gli attacchi a non combattenti, ospedali, scuole e chiese — sono gravi crimini di guerra. Purtroppo «oggi assistiamo desolati all’uso iniquo della fame come arma di guerra» (11).

«Per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, [non] diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto» (12). È evidente che il personale militare rimane pienamente responsabile di qualsiasi violazione dei diritti di individui e popoli o delle norme del diritto internazionale umanitario. Tali atti non si possono giustificare con il motivo dell’obbedienza agli ordini dei superiori. Da chi presta servizio nelle forze armate ci si aspetta che difenda i principi di buona fede, verità e giustizia a livello globale. Sono tanti coloro che in tali circostanze hanno sacrificato la propria vita per questi valori e per difendere vite innocenti (13).

Papa Leone XIV ha affermato che è «desolante vedere che la forza del diritto internazionale e del diritto umanitario non sembra più obbligare, sostituita dal presunto diritto di obbligare gli altri con la forza. Questo è indegno dell’uomo, è vergognoso per l’umanità e per i responsabili delle nazioni. Come si può credere, dopo secoli di storia, che le azioni belliche portino la pace e non si ritorcano contro chi le ha condotte?» (14). La Santa Sede esorta tutti gli Stati ad assicurare la piena attuazione e il rispetto delle Convenzioni di Ginevra e chiede educazione sui principi del diritto internazionale umanitario, formazione per le forze armate e punizioni per chi li viola. In questo contesto, la Santa Sede riconosce le sfide immense affrontate dagli operatori umanitari, tra cui le minacce alla loro sicurezza, l’accesso limitato ai bisognosi e risorse inadeguate.

Signora Presidente,

Libertà di religione e persecuzione dei cristiani

La libertà di pensiero, di coscienza e di religione è un’altra pietra d’angolo della pace, tuttavia la persecuzione di minoranze religiose, specialmente dei cristiani, persiste a livello globale. I cristiani nel mondo sono sottoposti a gravi persecuzioni, tra cui violenza fisica, incarcerazione, dislocamento forzato e martirio. Più di 360 milioni di cristiani vivono in aree dove subiscono alti livelli di persecuzione o discriminazione, con attacchi a chiese, case e comunità che si sono intensificati negli ultimi anni. I dati dimostrano che i cristiani sono il gruppo globalmente più perseguitato, tuttavia la comunità internazionale sembra chiudere gli occhi davanti alla loro situazione.

Ad ogni modo, la libertà di religione non è semplicemente libertà da persecuzione; è la libertà di professare la propria fede o da soli o in una comunità insieme ad altri, in pubblico o in privato, nell’insegnamento, nella pratica, nel culto e nell’osservanza. La libertà religiosa abbraccia altre libertà, tra cui la libertà di pensiero, di coscienza, di espressione, di assemblea e di associazione. Perché la libertà di religione, che è voluta da Dio e iscritta nella natura umana, possa essere esercitata, non dovrebbe trovare ostacoli sulla sua strada. Di fatto, ogni e ciascuna persona, dotata di ragione e libero arbitrio, ha il dovere morale di cercare la Verità e, una volta che la conosce, di aderire ad essa e ordinare la propria vita conformemente a ciò che essa esige (15). La dignità dell’individuo e la natura della ricerca della verità ultima esigono che tutti siano liberi da limiti riguardanti la religione. La società e lo Stato non devono costringere nessuno ad agire contro la propria coscienza, né impedire a qualcuno di agire conformemente ad essa.

Sessant’anni da «Nostra aetate»

La libertà religiosa va di pari passo con il dialogo interreligioso, e mentre la prima è responsabilità degli Stati, la seconda è responsabilità delle religioni. Ogni interferenza da parte di un’autorità nel dialogo interreligioso è una violazione della libertà di religione. Il dialogo interreligioso non è soltanto uno scambio di idee, bensì un cammino comune verso il rispetto reciproco, la giustizia e la pace. In un mondo segnato da estremismo religioso, polarizzazione culturale e conflitti spesso alimentati da fraintendimenti, tale dialogo è un imperativo morale. Occorrono umiltà, apertura e impegno all’ascolto attivo per far sì che le differenze arricchiscano invece di dividere. È inoltre necessario proteggere le religioni dallo sfruttamento e dalla strumentalizzazione.

La Santa Sede è in prima linea nel dialogo religioso, e quest’anno celebra il 60° anniversario di Nostra aetate, la storica dichiarazione del concilio Vaticano II sulle relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane. Promulgata il 28 ottobre 1965, Nostra aetate è stato un invito rivoluzionario a rifiutare i pregiudizi e ad abbracciare la dignità universale di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Ha aperto la strada a una nuova era di comprensione, specialmente nelle relazioni tra cattolici ed ebrei, e promosso il rispetto per tutte le tradizioni religiose. Negli ultimi sei decenni i principi di Nostra aetate hanno ispirato innumerevoli iniziative di dialogo, riconciliazione e cooperazione, che vanno dagli incontri interreligiosi agli sforzi congiunti per affrontare sfide globali come la povertà, la migrazione e il cambiamento climatico.

Signora Presidente,

Giustizia: salvaguardare la dignità e promuovere il bene comune

Papa Leone XIV afferma chiaramente che «perseguire la pace esige di praticare la giustizia. [...] Nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, la Santa Sede non può esimersi dal far sentire la propria voce dinanzi ai numerosi squilibri e alle ingiustizie che conducono, tra l’altro, a condizioni indegne di lavoro e a società sempre più frammentate e conflittuali. Occorre peraltro adoperarsi per porre rimedio alle disparità globali, che vedono opulenza e indigenza tracciare solchi profondi tra continenti, Paesi e anche all’interno di singole società» (16).

Dignità della persona umana

Nel nostro mondo tormentato, la dignità della persona umana deve essere posta al centro di tutti i nostri sforzi. La dignità di ogni individuo è inerente e non contingente all’utilità o alla circostanza e pertanto deve essere sostenuta in ogni politica, legge e azione. Questo principio impone il rifiuto di ogni forma di sfruttamento, discriminazione e violenza che disumanizza e spacca la nostra famiglia globale. È invece un dovere sostenere i diritti umani e le libertà fondamentali racchiusi nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

La Santa Sede esorta la comunità internazionale a rinnovare il proprio impegno a favorire di condizioni in cui la dignità umana possa prosperare. Questo include assicurare l’accesso a beni essenziali come cibo, acqua pulita, alloggio, assistenza sanitaria ed educazione, nonché proteggere i poveri e i bisognosi, tra cui i rifugiati, i migranti e quanti sono perseguitati per le loro credenze.

Significa anche difendere il diritto alla vita di ogni persona. Essendo stati testimoni degli orrori della guerra e delle conseguenze di coloro che rivendicano l’onnipotenza decidendo della vita e della morte di propri fratelli e sorelle, i fondatori delle Nazioni Unite hanno giustamente affermato che nessun potere può essere al di sopra della dignità inerente e della santità della vita umana. La Santa Sede è ed è sempre stata ferma nel sostenere e promuovere il diritto alla vita, dal concepimento fino alla sua fine naturale, come presupposto fondamentale per l’esercizio di tutti gli altri diritti e sottolinea l’illegittimità di ogni forma di aborto procurato e di eutanasia. Anziché promuovere una cultura della morte, le risorse dovrebbero essere destinate alla protezione della vita e all’aiuto di coloro che si trovano in situazioni difficili o addirittura tragiche a prendere decisioni che affermano la vita, anche consentendo a quelle madri di dare alla luce il bambino che portano in grembo. Inoltre bisognerebbe destinare delle risorse per alleviare il fardello della sofferenza umana durante la malattia attraverso cure sanitarie e palliative adeguate. Dovrebbe essere chiaro che esiste solo un diritto alla vita e che non potrà mai esistere l’opposto di questo, anche se viene falsamente etichettato come libertà.

Di fatto, quando la libertà esclude anche l’evidenza più ovvia di una verità oggettiva e universale, che è il fondamento della vita personale e sociale, la persona finisce col seguire la sua opinione o il suo interesse soggettivo e mutevole. Questa visione della libertà porta a una grave distorsione della vita nella società. A quel punto tutto diventa negoziabile e aperto alla trattativa, perfino il primo dei diritti fondamentali, il diritto alla vita (17).

Un’altra questione che mette in pericolo l’inviolabile dignità degli esseri umani riducendoli a meri prodotti è la pratica della cosiddetta maternità surrogata, che rappresenta una grave violazione della dignità della donna e del bambino. La Santa Sede rinnova il suo appello per una messa al bando internazionale di questa pratica deplorevole.

Il vero progresso non si misura in termini di potere o di ricchezza, ma in base alla capacità di sollevare i meno privilegiati nella società, salvaguardando al tempo stesso la dignità di ogni persona donata da Dio. Come ci ricorda Papa Leone XIV, «nessuno può esimersi dal favorire contesti in cui sia tutelata la dignità di ogni persona, specialmente di quelle più fragili e indifese, dal nascituro all’anziano, dal malato al disoccupato, sia esso cittadino o immigrato» (18).

Lo Stato di diritto

Dieci anni fa, da questo stesso podio, Papa Francesco ci ha ricordato che «il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale» (19).

Di fatto, per essere giusta, una società deve basarsi sul principio dello Stato di diritto, laddove a essere sovrana è la legge e non la volontà arbitraria di individui (20). Infatti, come Sant’Agostino ha osservato circa 1600 anni fa, se si toglie la giustizia, i grandi regni del mondo non sono altro che bande di ladri (21).

In termini pratici, lo Stato di diritto riguarda l’idea di limitare l’esercizio del potere. Nessun individuo o gruppo, a prescindere dal suo status, dovrebbe rivendicare l’autorità di violare la dignità e i diritti di altri o delle loro comunità. Pertanto, devono sempre essere rispettati i principi di uguaglianza dinanzi alla legge, responsabilità, equa applicazione della legge, separazione dei poteri, certezza del diritto, giusto processo, prevenzione dell’arbitrarietà nonché trasparenza in ambito sia procedurale sia giuridico.

Sradicamento della povertà e della fame

Sradicare la povertà e la fame è un obbligo morale radicato nella dignità inerente di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. La povertà non è soltanto la mancanza di risorse materiali, ma anche un attacco alla dignità umana che priva l’individuo del potenziale donato da Dio di prosperare.

Come afferma Papa Leone XIV, «la tragedia costante della fame e della malnutrizione diffuse, che oggi persiste in molti Paesi, è ancora più triste e vergognosa quando ci rendiamo conto che, sebbene la terra sia capace di produrre alimenti sufficienti per tutti gli esseri umani, e nonostante gli impegni internazionali in materia di sicurezza alimentare, purtroppo tanti poveri del mondo continuano a non avere il [...] pane quotidiano» (22). «La chiave per sconfiggere la fame sta più nel condividere che nell’accumulare avidamente. Cosa che oggi forse abbiamo dimenticato perché, sebbene siano stati compiuti passi importanti, la sicurezza alimentare mondiale non smette di deteriorarsi, il che rende sempre più improbabile il conseguimento dell’obiettivo “Fame zero” dell’agenda 2030. [...] Produrre alimenti non basta, è anche importante garantire che i sistemi alimentari siano sostenibili e forniscano regimi nutrizionali sani e accessibili a tutti. Si tratta, quindi, di ripensare e di rinnovare i nostri sistemi alimentari, in una prospettiva solidale, superando la logica dello sfruttamento selvaggio del creato e orientando meglio il nostro impegno a coltivare e a custodire l’ambiente e le sue risorse, per garantire la sicurezza alimentare e avanzare verso una nutrizione sufficiente e sana per tutti» (23).

In un mondo caratterizzato da una ricchezza e un progresso tecnologico senza precedenti, è inaccettabile che milioni di persone ancora non abbiano accesso ai beni essenziali. Il persistere della povertà estrema, specialmente in regioni colpite da conflitto, cambiamento climatico e disuguaglianza sistemica esige un’azione immediata e collettiva. La Santa Sede esorta la comunità internazionale a dare la priorità allo sviluppo umano integrale in uno spirito di solidarietà, assicurando che le politiche economiche e i programmi di sviluppo pongano al centro la persona umana e non favoriscano solo il benessere materiale, ma anche la crescita spirituale e sociale.

Nella lotta contro la povertà, il principio di solidarietà deve essere sempre accompagnato da quello di sussidiarietà. Ciò permette allo spirito d’iniziativa di prosperare, formando la base di ogni sviluppo sociale ed economico nei Paesi poveri. I poveri dovrebbero essere visti non «come [...] un problema, ma come [...] coloro che possono diventare soggetti e protagonisti di un futuro nuovo e più umano per tutto il mondo» (24).

Disparità globali e cancellazione del debito

Superare le disparità globali, che siano economiche, sociali o ambientali, è una sfida seria. La Santa Sede sottolinea che ogni individuo, creato a immagine e somiglianza di Dio, ha diritto alle risorse e alle opportunità necessarie per una vita dignitosa. Tuttavia persistono grandi disuguaglianze in ricchezza, accesso all’educazione, assistenza sanitaria, sicurezza alimentare e condizioni di vita sicura, esacerbate da ingiustizia sistemica, conflitto e degrado ambientale.

È pertanto indispensabile affrontarne le cause strutturali, tra cui sistemi commerciali iniqui, pratiche lavorative basate sullo sfruttamento e accesso impari alle risorse. Il peso del debito intrappola le nazioni nella povertà e deve essere cancellato per una questione di giustizia. Inoltre, garantire la riduzione del debito alle nazioni più povere, assicurare l’equa distribuzione dei beni globali e investire nello sviluppo sostenibile sono tutti passi fondamentali verso la giustizia.

In quest’anno giubilare che la Chiesa cattolica sta celebrando, la Santa Sede rivolge un invito «alle Nazioni più benestanti, perché riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli: C’è infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi» (25).

Cura del creato e crisi climatica

Prendere sul serio il debito ecologico è anche una questione di «giustizia ambientale», che «non può più essere considerata un concetto astratto o un obiettivo lontano. Essa rappresenta una necessità urgente, che va oltre la semplice tutela dell’ambiente. Si tratta, in realtà, di una questione di giustizia sociale, economica e antropologica» (26).

La comunità internazionale deve proseguire l’importante lavoro di prendersi cura del creato (27). La necessità di perseverare in questa missione è diventata ancor più evidente nei dieci anni da quando Papa Francesco ha pubblicato la Lettera enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune e la comunità internazionale ha adottato, il 12 dicembre 2015, l’Accordo di Parigi sul clima.

Stiamo vivendo in un contesto geopolitico caratterizzato da un lato da conflitto intenso e da una crisi di multilateralismo, e dall’altro da una crisi climatica con evidenti e importanti impatti su coloro che sono più vulnerabili al cambiamento climatico, i più poveri e le generazioni future, che sono anche i meno responsabili.

Papa Leone XIV scrive che «aumentano in intensità e frequenza fenomeni naturali estremi causati dal cambiamento climatico indotto da attività antropiche [...], senza considerare gli effetti a medio e lungo termine della devastazione umana ed ecologica portata dai conflitti armati. Sembra che manchi ancora la consapevolezza che distruggere la natura non colpisce tutti nello stesso modo: calpestare la giustizia e la pace significa colpire maggiormente i più poveri, gli emarginati, gli esclusi. È emblematica in tale ambito la sofferenza delle comunità indigene» (28).

Ciò rappresenta una chiara minaccia al benessere delle generazioni future, nonché alla pace e alla sicurezza. Esige una risposta e un impegno forti e responsabili da parte della comunità internazionale. Una risposta che non può ridurre la natura a uno «strumento di scambio, un bene da negoziare per ottenere vantaggi economici o politici» (29).

Ciò significa rafforzare l’impegno alla cooperazione internazionale per promuovere la condivisione tecnologica e implementare l’azione per il clima, nonché intensificare gli sforzi per promuovere l’educazione a una cultura della cura che proponga nuovi modi di vivere.

Migranti e rifugiati

I migranti sono tra le prime vittime delle molteplici disparità globali. Non solo viene negata loro la dignità nei loro Paesi, ma viene anche messa a rischio la loro vita poiché non hanno più i mezzi per creare una famiglia, per lavorare o per nutrirsi. La risposta alle crisi di migrazione, rifugiati e dislocati dovrebbe trascendere considerazioni puramente politiche e abbracciare un approccio etico, umanitario e basato sulla solidarietà.

La Santa Sede sottolinea che l’inerente dignità umana di migranti, rifugiati e sfollati (IDP’s) deve essere sostenuta a prescindere da status legale, nazionalità, etnicità, religione o sesso. Le politiche e le azioni devono dare la priorità alla loro sicurezza, protezione e trattamento umano, aderendo al principio di non respingimento e attuando misure volte a prevenire violenza e sfruttamento. In questo contesto, si dovrebbe dare la priorità al ricongiungimento familiare, riconoscendo il ruolo vitale della famiglia nella crescita umana, nella salute psicologica e nella stabilità sociale.

Per ridurre i pericoli associati alla migrazione irregolare, la Santa Sede esorta ad ampliare i canali di migrazione sicuri, ordinati e regolari per contrastare le attività dei trafficanti e dei contrabbandieri di esseri umani, evitando viaggi pericolosi e spesso mortali. La Santa Sede condanna con forza l’atroce crimine della tratta di esseri umani e auspica vivamente che si giunga a un consenso sulla Dichiarazione politica al prossimo Incontro di Alto livello per rivedere il Piano d’azione globale per la lotta alla tratta di esseri umani.

Inoltre, la Santa Sede spera che il Secondo Forum internazionale di revisione sulla migrazione ribadisca gli impegni assunti nel Global compact sulla migrazione. Analogamente, la revisione dei progressi compiuti dal Forum globale sui rifugiati nel dicembre 2025 dovrebbe rafforzare gli impegni esistenti per garantire che i progressi nel sostegno ai rifugiati continuino.

Intelligenza artificiale (IA)

Oltre a queste sfide c’è, come dice Papa Leone XIV, «un’altra rivoluzione industriale [...], l’intelligenza artificiale, che comporta [...] nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro» (30). Nella tradizione cristiana l’intelligenza è considerata una parte essenziale dell’umanità, creata a immagine di Dio. Mentre l’intelligenza artificiale è una conquista tecnologica straordinaria, imita l’intelligenza umana che l’ha progettata, ponendo nuovi interrogativi filosofici ed etici. A differenza di altre invenzioni, l’intelligenza artificiale viene addestrata sulla creatività umana, produce artefatti che rivaleggiano con le capacità umane o le superano, suscitando preoccupazioni sul suo potenziale impatto sull’umanità. Di fatto, questa tecnologia impara e compie scelte in autonomia, adattandosi e fornendo risultati che non erano previsti dai suoi programmatori. Ciò solleva domande fondamentali sull’etica e la sicurezza.

Esiste il rischio che l’intelligenza artificiale promuova il «paradigma tecnocratico», che considera tutti i problemi del mondo risolvibili attraverso la sola tecnologia. Questo paradigma spesso mette in secondo piano la dignità umana e la fraternità nella ricerca dell’efficienza, ignorando le dimensioni essenziali della bontà e della verità. Tuttavia, la dignità umana non deve mai essere violata in nome dell’efficienza. Piuttosto, l’intelligenza artificiale dovrebbe essere usata per promuovere e servire uno sviluppo integrale più sano, più umano, più sociale.

Nonostante l’immenso potenziale che l’intelligenza artificiale offre per promuovere il benessere umano, non potrà mai finire col soppiantare il giudizio morale ed etico umano o sminuire il valore unico della persona.

La Santa Sede sottolinea la necessità di sviluppare e attuare linee guida etiche e quadri normativi chiari per l’intelligenza artificiale, che salvaguardino la dignità umana, assicurino trasparenza, promuovano la responsabilità e favoriscano l’inclusione.

Diritti dei lavoratori

Inoltre, l’uso diffuso dell’intelligenza artificiale espone molti lavoratori al rischio di perdere l’impiego. Il lavoro non è soltanto un mezzo di sussistenza, bensì una vocazione attraverso la quale gli individui partecipano all’atto creativo di Dio, sviluppano i propri talenti e costruiscono una società giusta.

Il lavoro è un’espressione fondamentale della dignità umana. Permette alle persone di provvedere alle loro famiglie, contribuire alla società e crescere in virtù. Tutto il lavoro deve essere riconosciuto come rispettabile, che sia manuale, intellettuale o creativo, e nessun lavoratore deve essere sottoposto a condizioni che degradano la sua dignità donata da Dio.

I lavoratori hanno diritto a un salario dignitoso che garantisca un tenore di vita adeguato a loro stessi e alle loro famiglie. Ciò include l’accesso all’alloggio, all’educazione, all’assistenza sanitaria e a opportunità di riposo. I salari devono rispecchiare il valore della persona umana e non essere determinati solo dalle forze di mercato. I datori di lavoro devono rifiutare pratiche di sfruttamento che danno la priorità al profitto rispetto alla giustizia e garantire la parità di retribuzione a parità di lavoro.

La Santa Sede condanna tutte le pratiche di sfruttamento che sottopongono i lavoratori a fatiche eccessive, condizioni pericolose o trattamenti che violano la loro dignità di persone.

C’è bisogno di un sistema economico che dia la priorità alla creazione di posti di lavoro, specialmente per i disoccupati e i sottoccupati, e che promuova le opportunità imprenditoriali. Quando le economie non riescono a generare sufficiente lavoro, c’è l’obbligo morale di proteggere la dignità dei lavoratori e delle loro famiglie fornendo sostegno sociale e attuando politiche eque.

Investire nella famiglia

Salari equi e condizioni di lavoro sostenibili, specialmente per le donne, contribuiscono anche a rafforzare la famiglia. Non è la famiglia a esistere per la società o per lo Stato, ma sono la società e lo Stato a esistere per la famiglia. Pertanto, la Santa Sede chiede un rinnovato impegno a sostenere quei giovani che desiderano costruire una famiglia. In un mondo in cui prevale la divisione, il patto matrimoniale tra un uomo e una donna è un mezzo per vincere le forze che spezzano relazioni e società. La famiglia è la prima comunità in cui viene vissuta la natura sociale umana e dà un contributo unico e insostituibile alla società.

Verità: guida del multilateralismo e chiarezza nel discorso

Linguaggio non ambiguo e non divisivo

Le relazioni e i dialoghi autentici esigono un linguaggio chiaro e non ambiguo. Di fatto, laddove il linguaggio non è comunemente accettato o viene reinterpretato o diventa ambiguo, gli sforzi per il dialogo possono essere messi a repentaglio. Sono stati compiuti numerosi tentativi di reinterpretare i diritti umani fondamentali contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Purtroppo queste nuove interpretazioni non solo dividono la comunità internazionale, ma spesso distorcono anche la visione della natura umana. Nel contesto attuale, dove c’è un disperato bisogno di dialogo multilaterale tra nazioni, il rispetto e la comprensione reciproci richiedono l’uso di un linguaggio chiaro e non divisivo.

Situazioni particolari

Ucraina

Signora Presidente,

tra le molte crisi che attualmente affliggono la comunità internazionale, la guerra in Ucraina è una delle più intense e dolorose. Il suo protrarsi sta trasformando città un tempo vive in ammassi di macerie e spegnendo il sorriso di bambini che dovrebbero crescere giocando e non vivendo in mezzo al suono costante di sirene e in rifugi.

Questa guerra deve finire adesso. Non in qualche momento indefinito del futuro, ma proprio adesso. Con ogni giorno che passa, il numero delle vittime aumenta, la distruzione si allarga e l’odio diventa più profondo. Ogni giorno senza pace ruba qualcosa a tutta l’umanità.

Per questa ragione la Santa Sede rinnova l’appello di Papa Leone XIV per un cessate il fuoco immediato, che apra la strada a un dialogo sincero e coraggioso. Solo così si potrà mettere a tacere il clamore delle armi e permettere alle voci di giustizia e di pace di essere udite.

La Santa Sede invita tutte le nazioni qui riunite a rifiutare la passività e a fornire un sostegno tangibile a ogni iniziativa che possa portare a negoziati autentici e a pace duratura. È arrivato il momento di schierarsi per la pace e rifiutare la logica del dominio e della distruzione.

Medio Oriente

La Santa Sede segue con grande attenzione la situazione in Medio Oriente, nell’ottica di giungere a una pace giusta e duratura tra Israele e Palestina, basata su una soluzione a due Stati, conformemente al diritto internazionale e a tutte le risoluzioni pertinenti delle Nazioni Unite.

Papa Leone XIV esorta con forza le parti coinvolte, come anche la comunità internazionale, a porre fine «al conflitto in Terra Santa, che tanto terrore, distruzione e morte ha causato». Ha supplicato «che siano liberati tutti gli ostaggi, si raggiunga un cessate-il-fuoco permanente, si faciliti l’ingresso sicuro degli aiuti umanitari e venga integralmente rispettato il diritto umanitario, in particolare l’obbligo di tutelare i civili e i divieti di punizione collettiva, di uso indiscriminato della forza e di spostamento forzato della popolazione» (31).

Inoltre, una soluzione equa alla questione di Gerusalemme, basata su risoluzioni internazionali, è essenziale per raggiungere una pace giusta e permanente. Ogni decisione o azione unilaterale che alteri lo status speciale di Gerusalemme e lo status quo è moralmente e legalmente inaccettabile.

Siria

Per quanto riguarda la Siria, la Santa Sede sostiene l’importanza di una transizione pacifica e giusta nel Paese, come anche la tutela dei diritti dei siriani di tutte le tradizioni etniche e religiose, senza discriminazioni. L’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale della Siria devono essere pienamente rispettate, in conformità con il diritto internazionale.

Africa

La Santa Sede rileva con soddisfazione che in molti Paesi africani la democrazia sta mostrando segni di progresso: c’è un crescente impegno a favore di elezioni multipartitiche, di partecipazione civica e di riforme istituzionali. Tuttavia, permangono ostacoli importanti come autoritarismo, riforme costituzionali arbitrarie e corruzione endemica, che alimentano la diffidenza nei confronti delle istituzioni. L’instabilità che affligge molti Stati africani genera sfide profonde e interconnesse, con gravi ripercussioni sociali, economiche e umanitarie. La migrazione forzata, lo sfollamento interno e il collasso di servizi essenziali privano milioni di persone di sicurezza, salute ed educazione, mentre la disoccupazione giovanile alimenta l’economia informale e, in alcuni casi, il reclutamento in gruppi armati. Donne e bambini, in particolare, subiscono violenza e sfruttamento di ogni genere.

In questo scenario, il Sahel, Cabo Delgado e alcune parti del Corno d’Africa spiccano come zone di instabilità. Di fatto, la minaccia jihadista, la povertà endemica, il traffico illecito, la crisi climatica e i conflitti interni convergono in una spirale che mette a rischio la vita di milioni di persone, malgrado gli sforzi dei governi locali. Gli abbandoni scolastici causati dalla crisi di sicurezza espongono molti minori a gravi pericoli, compromettendo il futuro del continente e favorendo nuove forme di emarginazione.

Dinanzi a queste sfide, la resilienza delle comunità africane, specialmente dei giovani, continua a essere una risorsa essenziale che va sostenuta con investimenti mirati nell’educazione, nella sanità, nelle infrastrutture e in modelli di governo inclusivi.

Un impegno coerente e duraturo da parte della comunità internazionale, basato sulla cooperazione autentica, il rispetto dei bisogni locali e la responsabilità condivisa, è più che mai essenziale per sostenere i Paesi africani nel loro cammino verso la stabilità, la pace e lo sviluppo economico.

Repubblica Democratica del Congo

L’aggravarsi della situazione nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC) è fonte di preoccupazione per la Santa Sede. Le province di Ituri, North Kivu e South Kivu stanno vivendo tensioni etniche, violenza perpetrata da gruppi ribelli, scontri armati, gravi violazioni dei diritti umani e dispute sullo sfruttamento di risorse naturali. Il Paese affronta da anni una delle crisi multidimensionali più complesse del mondo, caratterizzata da una situazione di sicurezza instabile e da un’emergenza umanitaria sempre più grave che comporta grave malnutrizione e dislocazione di massa.

La Santa Sede apprezza la firma dell’Accordo di pace comprensivo tra la Repubblica Democratica del Congo e il gruppo armato M23, come anche l’Accordo di Pace firmato dai ministri degli esteri congolese e rwandese, volto a porre fine a decenni di combattimenti nell’Est del Paese. Tuttavia, si temono nuove ondate di violenza. Lo scorso luglio, le Forze Democratiche Alleate (ADF) hanno compiuto un brutale attacco terroristico contro una chiesa a Komanda, Ituri, che ha provocato la morte di più di 40 fedeli. Il ritiro della Missione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione della Repubblica Democratica del Congo (MONUSCO) solleva domande sulla sua capacità di compiere il suo mandato e affrontare le sfide in atto.

È essenziale rafforzare il sostegno della comunità internazionale e gli sforzi di mediazione diplomatici e politici per assicurare che le parti rispettino i loro impegni e trovino una soluzione stabile e adeguata alla situazione in corso.

Sudan

Anche il conflitto fratricida in Sudan è fonte di grande preoccupazione, poiché continua a causare morte e distruzione, infliggendo sofferenza alla popolazione civile. La Santa Sede rinnova con forza il suo appello per una cessazione immediata delle ostilità e l’avvio di veri negoziati, unico mezzo attraverso il quale tutti i sudanesi possono forgiare un futuro di pace e di riconciliazione. Le persone coinvolte devono capire che è questo il momento della responsabilità, dell’azione concreta e della solidarietà. Devono promuovere il dialogo tra le parti e adottare azioni urgenti per alleviare la crisi umanitaria in atto. Il dolore del popolo sudanese chiede a gran voce di essere ascoltato, trafiggendo il silenzio del mondo. Non c’è più posto per l’indifferenza.

Sud Sudan

La Santa Sede sta monitorando attentamente gli sviluppi in Sud Sudan e sta esortando tutti gli attori politici a impegnarsi nel cammino del dialogo e della collaborazione e ad attuare l’Accodo di pace del 2018 con sincerità e responsabilità come fondamento per la costruzione di una coesistenza pacifica e giusta. La Santa Sede invita inoltre la comunità internazionale a sostenere questa giovane nazione con generosità nel suo cammino verso la pace e la riconciliazione e a fornire l’aiuto umanitario necessario ad alleviare la sofferenza della popolazione. Ciò contribuirà alla costruzione di un futuro di speranza e dignità per tutti i sud sudanesi.

Narcotraffico

In molte parti del mondo, specialmente in America Latina, il traffico di stupefacenti sta corrodendo società e causando violenza estrema. La Santa Sede è profondamente preoccupata per questo complesso fenomeno, che è spesso legato a problemi sociali irrisolti in diversi Paesi. Include la coltivazione di coca, la produzione di sostanze allucinogene sintetiche e la loro commercializzazione. Queste attività vengono svolte da organizzazioni criminali che operano in tutto il mondo. Accanto allo sforzo congiunto degli Stati per combattere il narcotraffico, la Santa Sede sottolinea l’importanza di investire nello sviluppo umano, per esempio nell’educazione e nella creazione di posti di lavoro, per evitare che le persone vengano inconsapevolmente coinvolte.

Situazione nei Caraibi

La Santa Sede è anche preoccupata per le crescenti tensioni nel Mar dei Caraibi e invita alla moderazione per evitare qualsiasi azione che possa destabilizzare la coesistenza tra le nazioni e minare il diritto internazionale.

Haiti

Anche la situazione drammatica ad Haiti è seguita da vicino dalla Santa Sede. Il Paese è tormentato da violenza di ogni genere, traffico di esseri umani, esilio forzato e rapimenti. La Santa Sede auspica che, con il necessario e concreto sostegno della comunità internazionale, si possano creare le condizioni sociali e istituzionali necessarie perché gli haitiani possano progredire verso la pace e la sicurezza.

Nicaragua

La Santa Sede osserva con grande attenzione la situazione in Nicaragua e auspica che la libertà religiosa e altri diritti fondamentali degli individui e della società vengano adeguatamente garantiti. La Santa Sede ribadisce la necessità di un impegno sincero, rispettoso e costruttivo nel dialogo volto a trovare soluzioni che favoriscano la pace e l’armonia nel Paese.

Asia meridionale

Passando al sudest asiatico, numerose situazioni di instabilità e conflitto stanno ulteriormente aggravando preoccupazioni umanitarie di lunga data. In Myanmar, quatto anni e mezzo di conflitto interno hanno lascito la popolazione locale devastata. Nel solo stato di Rakhine più di due milioni di persone sono a rischio di fame e la popolazione Rohingya continua a subire discriminazioni sia da gruppi armati sia da autorità militari.

In questa situazione di perdurante conflitto, il crimine transnazionale è in crescita. Il traffico e l’uso di stupefacenti e la tratta di esseri umani hanno visto un’inquietante crescita nel sudest asiatico. Il fenomeno dei cosiddetti centri truffa, dove le vittime della tratta sono costrette a convincere con l’inganno le persone online a inviare denaro alle reti criminali, è particolarmente preoccupante. Indagini recenti suggeriscono che ci sono decine, se non centinaia, di migliaia di persone vittime della tratta in questi centri, che si trovano principalmente lungo i confini tra Myanmar, Thailandia, Cina, Cambogia e Laos. Questa industria multimiliardaria crea milioni di vittime, preda delle truffe perpetrate. Solo con gli sforzi concertati della comunità internazionale si può affrontare adeguatamente il crimine transnazionale.

Per assicurare il bene comune della società, è essenziale sostenere lo Stato di diritto. Mantenere la giustizia, la trasparenza e il rispetto delle libertà civili e politiche è ancor più importante in tempi di transizione politica.

In questo contesto, la solidarietà internazionale e regionale è essenziale. La Santa Sede incoraggia gli sforzi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), basati sui suoi principi di rispetto reciproco, non interferenza, ricerca del consenso e risoluzione pacifica delle controversie, per promuovere processi di costruzione della pace inclusivi e a guida locale.

Balcani

La Santa Sede segue da vicino gli sviluppi nei Balcani occidentali, specialmente in Bosnia ed Erzegovina. I Paesi balcanici sono legati ai valori europei per motivi storici, culturali e geografici e aspirano a integrarsi istituzionalmente con Stati che già fanno parte dell’Unione Europea. È essenziale che le differenze etniche, culturali e religiose non portino alla divisione, bensì diventino una fonte di arricchimento per l’Europa e il mondo intero. La Santa Sede ritiene che le questioni storiche e attuali possano essere risolte solo attraverso il dialogo e la collaborazione.

Caucaso

La Santa Sede, mentre riconosce gli accordi di pace firmati ad agosto tra Armenia e Azerbaijan, invita i due Paesi a proseguire sul cammino della riconciliazione al fine di raggiungere una pace stabile e duratura nel Caucaso meridionale.

Multilateralismo efficace basato sul dialogo

Signora Presidente,

Prima Loro.

img_6599Cari amici,

Il Novecento ci aveva lasciato questo mandato dell’ultimo Sartre, espresso poco prima della sua morte: “Fraternità senza terrore”. Ecco che ora due organizzazioni terroristiche, Hamas e l’IDF (Israel Defence Forces) hanno smesso di uccidere, l’intenzione del genocidio volto alla distruzione del popolo palestinese (la carneficina, secondo la definizione del Segretario di Stato card. Parolin) è fallita: è ora il tempo di passare alla fraternità.

Vi diamo qui di seguito il commento di Raniero La Valle uscito oggi su Il fatto quotidiano:

“Fino all’ultimo i ciecosionisti (li chiamiamo così perché il sionismo è una cosa più seria ed anche più umana di quello che si è manifestato a Gaza) hanno mantenuto il punto che in questo caso non si sia trattato di un genocidio. Ancora domenica alla trasmissione “In onda” lo ha sostenuto Francesco Giubilei abusando della sofferenza di Liliana Segre, che nell’agosto scorso si era detta “straziata” per l’ “abominio” in cui vedeva Israele “sprofondare”, ma di opporsi all’uso di questa parola per aiutare israeliani e palestinesi a non cadere “in quell’abisso”; per reazione a questo abuso Francesca Albanese si è alzata ed è uscita dallo studio televisivo. È dunque opportuno giungere a una conclusione di questa altissima controversia, che non si può liquidare col qualunquistico argomento che non sarebbe importante dare un nome alle cose; e la domanda più pertinente, ora che c’è un arresto in questa corsa verso l’abisso, chiedersi come è andata a finire a Gaza.

“Finire” è il termine sempre usato da Netanyahu per dire che non si sarebbe fermato per nessun motivo (neanche quello di non sacrificare gli ostaggi) prima di “finire il lavoro”. Ed ora invece deve fermarsi prima che “il lavoro” sia finito. Magari strapperà qualche brandello dei suoi obiettivi, ma non ciò che voleva. Dunque per lui è una micidiale sconfitta, perché per effetto dell’ordine di Trump l’abominio da lui provocato diventa inutile, e il suo costo, per lui, per Israele e per lo stesso popolo ebraico, si rivela esorbitante.

A questo punto, più che chiedersi se il genocidio c’è stato o no, è importante chiedersi come è andato a finire, cioè se è riuscito o no. Nella definizione di genocidio, formalizzata dal diritto positivo, ovvero dalla vigente Convenzione sul genocidio, ratificata da 153 Stati, si dà genocidio a due condizioni: che si distrugga in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale, e che lo si faccia avendo “l’intenzione” di distruggerlo. Ebbene, quello che è accaduto a Gaza è che Netanyahu e il governo di Israele hanno effettivamente distrutto la popolazione di Gaza, “in parte” uccidendola, “in tutto” riducendo lei e la sua terra a un “non essere”, ma sono stati battuti nell’ “intenzione” di farla finita con la “questione palestinese”, cioè di distruggere il popolo palestinese “come tale”, ossia nella sua esistenza politica come popolo, sia che ciò voglia dire uno “Stato palestinese”, sia che, essendo questo Stato reso impossibile e per sempre escluso da Netanyahu, voglia dire una esistenza statuale con pieni diritti in uno Stato multinazionale democratico e pluralista. Perciò Netanyahu e la versione teocratica del “messianismo realizzato” sono stati sconfitti, mentre il popolo palestinese può di nuovo contare di vivere e di potere, sia pure con ulteriori patimenti e lotte, realizzare le sue speranze e acquisire i suoi diritti.

E chi ha vinto? Secondo la cronaca ha vinto Trump dettando la sua legge a Israele e minacciando i palestinesi. Ma secondo la grande storia hanno vinto la Flottiglia, quanti si sono idealmente domiciliati a Gaza, a cominciare da papa Francesco che lo faceva ogni sera abbracciandone per telefono il parroco, hanno vinto le folle che sono insorte in tutto il mondo per difendere la causa dei palestinesi e dell’umanità, hanno vinto i tre milioni di giovani e meno giovani che in Italia, in cento città, si sono “alzati dai divani” e “hanno gettato il corpo nella lotta”, come ha scritto Simonetta Sciandivasci l’altro giorno sulla “Stampa”. Ma si è rivista anche l’America che ci era consueta, che non poteva perdersi nel mostrare di sposare l’intenzione di distruggere “in tutto” un popolo negato ed oppresso, lei che pretende di essere la luce dei popoli e il modello normativo della democrazia e dell’umanesimo universale.

Per tutto questo il genocidio non è riuscito”.

Nel sito [anche qui sotto] pubblichiamo l’intervista all’ “Osservatore Romano del cardinale Parolin.

Con i più cordiali saluti,

“Prima Loro”.
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SANTA SEDE E GAZA
Disumani l’attacco e la guerra che ne è seguita
Ottobre 9, 2025
Il cardinale Parolin in occasione dell’”anniversario” dell’attentato terroristico del 7 ottobre e sulla “carneficina” di Gaza: uscire dalla logica cieca dell’odio e della vendetta. ll piano di pace da accogliere e sostenere. Per uno Stato di Palestina fianco a fianco con i suoi vicini
Andrea Tornielli e Roberto Paglialonga

[Prima Loro] Pubblichiamo, dall’ “Osservatore Romano”, l’intervista di Andrea Tornielli e Roberto Paglialonga al Segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Pietro Parolin, in occasione dell’attentato terroristico del 7 ottobre 2023 a Gaza.

Eminenza, stiamo entrando nel terzo anno dal tragico attacco del 7 ottobre. Come ricorda quel momento e cosa ha significato, a suo avviso, per lo Stato di Israele e le comunità ebraiche nel mondo?
Ripeto ciò che ho avuto modo di dire in quei giorni: l’attacco terroristico compiuto da Hamas e da altre milizie contro migliaia di israeliani e di migranti residenti, molti dei quali civili, che stavano per celebrare il giorno della Simchat Torah, a conclusione della settimana della festa di Sukkot, è stato disumano ed è ingiustificabile. La brutale violenza perpetrata nei confronti di bambini, donne, giovani, anziani, non può avere alcuna giustificazione. È stato un massacro indegno e – ripeto – disumano. La Santa Sede ha espresso immediatamente la sua totale e ferma condanna, chiedendo subito la liberazione degli ostaggi e manifestando vicinanza alle famiglie colpite durante l’attacco terroristico. Abbiamo pregato e continuiamo a farlo, così come continuiamo a chiedere di porre fine a questa spirale perversa di odio e di violenza che rischia di trascinarci in un abisso senza ritorno.
Che cosa si sente di dire alle famiglie degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas?
Sono purtroppo passati già due anni, alcuni di loro sono morti, altri sono stati rilasciati dopo lunghe trattative. Mi colpiscono profondamente e mi addolorano le immagini di queste persone tenute prigioniere nei tunnel e ridotte alla fame. Non possiamo né dobbiamo dimenticarci di loro. Ricordo che Papa Francesco nell’ultimo anno e mezzo della sua vita ha rivolto ben 21 appelli pubblici chiedendo il rilascio degli ostaggi e ha incontrato alcune delle loro famiglie. Il suo successore, Papa Leone XIV, ha continuato a rivolgere questi appelli. Esprimo loro tutta la mia vicinanza, nella preghiera quotidiana per le loro sofferenze, continuando ad assicurare tutta la nostra disponibilità a fare ciò che è possibile perché possano riabbracciare i loro cari sani e salvi o almeno riavere i corpi di chi è stato ucciso, perché siano degnamente sepolti.
Nel commemorare il primo anniversario dell’attacco del 7 ottobre Papa Francesco parlava di “vergognosa incapacità della comunità internazionale e dei Paesi più potenti di far tacere le armi e di mettere fine alla tragedia della guerra”. Cosa serve per la pace?
Oggi la situazione a Gaza è ancora più grave e tragica rispetto a un anno fa, dopo una guerra devastante che ha mietuto decine di migliaia di morti. È necessario recuperare il senso della ragione, abbandonare la logica cieca dell’odio e della vendetta, rifiutare la violenza come soluzione. È diritto di chi è attaccato difendersi, ma anche la legittima difesa deve rispettare il parametro della proporzionalità. Purtroppo, la guerra che ne è scaturita ha avuto conseguenze disastrose e disumane… Mi colpisce e mi affligge il conteggio quotidiano dei morti in Palestina, decine, anzi a volte centinaia al giorno, tantissimi bambini la cui unica colpa sembra essere quella di essere nati lì: rischiamo di assuefarci a questa carneficina! Persone uccise mentre cercavano di raggiungere un tozzo di pane, persone rimaste sepolte sotto le macerie delle loro case, persone bombardate negli ospedali, nelle tendopoli, sfollati costretti a spostarsi da una parte all’altra di quel territorio angusto e sovrappopolato… È inaccettabile e ingiustificabile ridurre le persone umane a mere “vittime collaterali”.
Come possiamo giudicare gli episodi di antisemitismo aumentati in maniera importante in diverse parti del mondo negli ultimi mesi?
Sono una triste e altrettanto ingiustificata conseguenza: viviamo di fake news, della semplificazione della realtà. E ciò porta chi si alimenta di queste cose ad attribuire agli ebrei in quanto tali la responsabilità per ciò che accade oggi a Gaza. Lo sappiamo che non è così: ci sono anche tante voci di forte dissenso che si levano dal mondo ebraico contro la modalità con cui l’attuale governo israeliano ha operato e sta operando a Gaza e nel resto della Palestina dove – non dimentichiamolo – l’espansionismo spesso violento dei coloni vuole rendere impossibile la nascita di uno Stato Palestinese. Vediamo la testimonianza pubblica dei familiari degli ostaggi. L’antisemitismo è un cancro da combattere e da estirpare: c’è bisogno di uomini e donne di buona volontà, educatori che aiutino a comprendere a soprattutto a distinguere… Non possiamo dimenticarci di quanto è accaduto nel cuore dell’Europa con la Shoah, dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze perché questo male non rialzi la testa. Dobbiamo al tempo stesso fare in modo che mai siano giustificati atti di disumanità e di violazione del diritto umanitario: nessun ebreo deve essere attaccato o discriminato in quanto ebreo, nessun palestinese per il fatto di essere tale deve essere attaccato o discriminato perché – come purtroppo si sente dire – “potenziale terrorista”. La perversa catena dell’odio è destinata a generare una spirale che non può portare nulla di buono. Spiace vedere che non si riesca a imparare dalla storia, anche recente, che resta maestra di vita.
Lei ha parlato di una situazione insostenibile e ha fatto cenno ai tanti interessi in gioco che impediscono la fine della guerra. Quali sono questi interessi?
Sembra evidente che la guerra perpetrata dall’esercito israeliano per sconfiggere i miliziani di Hamas non tiene conto che ha davanti una popolazione per lo più inerme e ridotta allo stremo delle forze, in un’area disseminata di case e di palazzi rasi al suolo: basta vedere le immagini aeree per rendersi conto di che cosa sia Gaza oggi. Mi sembra altrettanto evidente che la comunità internazionale risulti purtroppo impotente e che i Paesi in grado di influire veramente fino ad oggi non l’abbiano fatto per fermare la carneficina in atto. Non posso che ripetere le parole chiarissime pronunciate in proposito il 20 luglio scorso da Papa Leone XIV: “Alla comunità internazionale rivolgo l’appello a osservare il diritto umanitario e a rispettare l’obbligo di tutela dei civili, nonché il divieto di punizione collettiva, di uso indiscriminato della forza e di spostamento forzato della popolazione”. Parole che ancora attendono di essere accolte e comprese.
Cosa può fare dunque la comunità internazionale?
Certamente può fare molto di più rispetto a ciò che sta facendo. Non basta dire che è inaccettabile quanto avviene e poi continuare a permettere che avvenga. C’è da porsi delle serie domande sulla liceità, ad esempio, del continuare a fornire armi che vengono usate a discapito della popolazione civile. Purtroppo, lo abbiamo visto, finora le Nazioni Unite non sono state in grado di fermare quanto sta accadendo. Ma ci sono attori internazionali che sarebbero invece in grado di influire maggiormente per porre fine a questa tragedia e occorre trovare una strada per dare alle Nazioni Unite un ruolo più efficace nel porre fine alle tante guerre fratricide in corso nel mondo.
Che cosa pensa del piano presentato dal Presidente Trump per arrivare alla tregua e alla fine della guerra?
Qualunque piano che coinvolga il popolo palestinese nelle decisioni sul proprio futuro e permetta di finire questa strage, liberando gli ostaggi e fermando l’uccisione quotidiana di centinaia di persone, è da accogliere e sostenere. Anche il Santo Padre ha auspicato che le parti accettino e che si possa finalmente incominciare un percorso di pace.
Come giudicare le prese di posizione delle società civili che si stanno esprimendo, anche in Israele, contro le politiche di guerra del governo israeliano e in favore della pace?
Anche se a volte queste iniziative, a causa delle violenze di pochi facinorosi, rischiano di far passare a livello mediatico un messaggio sbagliato, mi colpisce positivamente la partecipazione alle manifestazioni, e l’impegno di tanti giovani. È il segno che non siamo condannati all’indifferenza. Dobbiamo prendere sul serio quel desiderio di pace, quel desiderio di impegno… Ne va del nostro futuro, ne va del futuro del nostro mondo.
C’è chi sostiene, anche nella Chiesa, che di fronte a tutto ciò bisogna innanzitutto pregare, non scendere in piazza per non fare il gioco dei violenti…
Sono un battezzato, sono un credente, sono un prete: per me la preghiera incessante davanti a Dio perché ci assista, ci aiuti e intervenga per porre fine a tutto ciò sostenendo gli sforzi delle donne e degli uomini di buona volontà è essenziale, quotidiana, fondamentale. Papa Leone ci ha invitato ancora una volta a recitare un Rosario per la pace l’11 ottobre. Ma vorrei anche ricordare che la fede cristiana o è incarnata o non è… Siamo seguaci di un Dio che si è fatto Uomo assumendo la nostra umanità e ci ha testimoniato che non possiamo essere indifferenti rispetto a ciò che accade intorno a noi e anche lontano da noi. Per questo la preghiera non sarà mai abbastanza, ma non sarà neanche mai abbastanza l’impegno concreto, la mobilitazione delle coscienze, le iniziative di pace, la sensibilizzazione, anche a costo di apparire “fuori dal mondo”, anche a costo di rischiare: c’è una maggioranza silenziosa – composta anche da tanti giovani – che non si arrende a questa disumanità. Anche loro sono chiamati a pregare. Pensare che il nostro ruolo, come cristiani, sia quello di rinchiuderci nelle sacrestie, lo trovo profondamente sbagliato. La preghiera chiama anche ad un impegno, a una testimonianza, a scelte concrete.
Papa Leone non si stanca di chiedere la pace. Cosa può fare la Santa Sede in questa situazione? Quale può essere il contributo suo e di tutta la Chiesa?
La Santa Sede, talvolta incompresa, continua a chiedere pace, a invitare al dialogo, a usare le parole “negoziato” e “trattativa” e lo fa sulla base di un profondo realismo: l’alternativa alla diplomazia è la guerra perenne, è l’abisso dell’odio e dell’autodistruzione del mondo. Dobbiamo gridare con forza: fermiamoci prima che sia troppo tardi. E dobbiamo agire, fare tutto il possibile perché non sia troppo tardi. Tutto il possibile.
Perché è importante il riconoscimento dello Stato di Palestina in questa fase?
La Santa Sede ha riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina dieci anni fa, con l’Accordo Globale tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina. Il Preambolo di quell’accordo internazionale supporta pienamente una risoluzione giusta, comprensiva e pacifica della questione della Palestina, in tutti i suoi aspetti, in conformità al diritto internazionale e a tutte le pertinenti risoluzioni dell’ONU. Al contempo, sostiene uno Stato di Palestina che sia indipendente, sovrano, democratico e praticabile, inclusivo della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e di Gaza. Il medesimo accordo individua questo Stato non in opposizione ad altri, ma capace di vivere fianco a fianco dei suoi vicini, in pace e in sicurezza. Guardiamo con soddisfazione al fatto che diversi Paesi del mondo abbianoriconosciuto lo Stato di Palestina. Ma non possiamo non notare con preoccupazione che le dichiarazioni e le decisioni israeliane vanno in una direzione opposta e, cioè, intendono impedire per sempre la possibile nascita di un vero e proprio Stato palestinese. Questa soluzione – la nascita di uno Stato palestinese – dopo quanto avvenuto negli ultimi due anni mi sembra ancora di più valida. È la via, quella dei due popoli in due Stati, che la Santa Sede ha perseguito fin dall’inizio. Le sorti dei due popoli e dei due Stati sono interconnesse.
Come sta la comunità cristiana sul terreno, dopo il duro attacco alla Sacra Famiglia, e perché il suo ruolo nello scenario mediorientale è importante?
I cristiani di Gaza, come abbiamo visto, sono stati anch’essi sotto attacco… Mi commuove pensare a queste persone che sono determinate a restare e che quotidianamente pregano per la pace e per le vittime. È una situazione sempre più precaria. Cerchiamo di essere loro vicini in tutti i modi, grazie alle attività del Patriarcato latino di Gerusalemme e della Caritas, ringraziamo i governi e tutte le istituzioni che si impegnano per far arrivare aiuti e per permettere ai feriti gravi di essere soccorsi. Il ruolo dei cristiani in Medio Oriente è stato e rimane fondamentale, anche se il loro numero si assottiglia. Vorrei ricordare che essi partecipano in tutto e per tutto alle vicende del loro martoriato popolo palestinese, del quale condividono le sofferenze.
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Prima Loro. Interventi di Raniero La Valle

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Cari amici,

dopo l’ultimatum del cosiddetto “Piano di pace” di Trump, “solo un Dio”, per citare una profezia indimenticabile di Heidegger a suo tempo riecheggiata in Italia, poteva salvare il popolo palestinese. L’“ordine esecutivo” di Trump, nuovo governante o “re di Israele” (perché di questo si tratta), suffragato dagli affari negoziati da suo genero Jared Kushner e dall’avallo dello Sceicco del Qatar, a cui Netanyahu aveva dovuto “chiedere scusa” per il bombardamento israeliano su Doha del 9 settembre, aveva decretato la “fine del lavoro” del genocidio dei palestinesi, o mediante una resa incondizionata che avrebbe segnato la fine della loro esistenza come popolo, o mediante lo scatenamento di “un inferno da nessuno mai visto prima”.

Per Netanyahu il modo, sempre incessantemente ribadito, di “finire il lavoro” era di sacrificare gli ostaggi per portare a termine il genocidio, chiudendo così definitivamente la “questione palestinese”, cioè l’incomodo dei due popoli sulla stessa terra. La scelta politica di Hamas di cedere all’editto di Trump, impedisce ora a Netanyahu di finire in tal modo il lavoro, ma stando ai termini della capitolazione intimata ai palestinesi (ben oltre Hamas), potrebbe segnare ugualmente l’estinzione dell’esistenza comunitaria, politica e pubblica, del popolo palestinese.

Ed è qui che si riapre la partita, in un modo che sembra dare ragione alla profezia sull’ultima salvezza che può venire “solo” da Dio: salvezza che deriva dal fatto che in questa seconda catastrofe (dopo la Nakba del 1948 e seguenti) il popolo palestinese non è lasciato solo. Naturalmente il miracolo non lo può fare Dio da solo (lo dicono tutti i teologi), e pertanto lo ha fatto con la Global Sumud Flotilla (rinominata “Hamas Flotilla” da Israele), grazie a un grande coinvolgimento della comunità internazionale, ai settemila nostri domiciliati idealmente a Gaza e sulla medesima flottiglia, grazie ai partecipanti al convegno di “Coraggio della pace” di Sesto Fiorentino, all’81 per cento di Italiani che si sono espressi a favore della causa palestinese, e infine lo ha fatto col miracolo di due milioni di persone, soprattutto giovani, che il 3 ottobre in cento città si sono riversate sulle strade, sulle autostrade, sulle ferrovie e sulle piazze per “gridare per i Palestinesi” (come Bonhoeffer, prima di essere giustiziato, aveva chiesto di “gridare per gli Ebrei”) e, nello stesso giorno, con un gruppo di lavoro di laici e monaci che a Monte Sole, nel luogo della strage di Casaglia e in cui a perenne testimonianza è sepolto Giuseppe Dossetti, hanno riflettuto con partecipe dolore sulla tragedia palestinese, e sulla pretesa blasfema di farne risalire la responsabilità a un presunto mandato del Dio di Israele, e infine con la partecipazione di massa allo sciopero generale oggi a Roma.

È per questa universale “vox populi”, per questo imprevisto di una sollevazione mondiale per il popolo di Palestina, per la lunga sofferenza dei rispettivi ostaggi e della popolazione di Gaza, e per la scelta lungimirante di Hamas, che il popolo palestinese può ora contare di sopravvivere.

Nello stesso giorno in cui arriva questa notizia giunge anche l’appello dell’“Osservatorio genocidio” di Avaaz su quello che da due anni è in corso nel Sudan, genocidio che è già costato la vita di 150.000 persone, ha prodotto la maggiore crisi di rifugiati del pianeta, il collasso del sistema sanitario, il blocco degli aiuti per 30 milioni di persone e una carestia tale che “le persone si aggirano come fantasmi”. Ciò vuol dire che altri popoli sono vittime di sterminio, e che il miracolo della insurrezione della comunità internazionale e delle nostre iniziative di resistenza e partecipazione deve ripetersi e produrre nuovi risultati.

Nel sito pubblichiamo il testo della risposta di Hamas.

Con i più cordiali saluti.

Per “Prima Loro”, Raniero La Valle.
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Cari Amici,

nel rito officiato alla Casa Bianca, nel quale Donald Trump ha annunciato la Buona Novella della pace perpetua non solo a Gaza ma in tutto il Medio Oriente, si è potuto vedere in modo impressionante come realtà e apparenza, verità e menzogna, fatti e simboli siano strettamente legati nell’attuale politica americana, sicché il discernimento di ciò che veramente è e di ciò che veramente accade diventa il primo compito da assolvere per potersi assumere la responsabilità dell’agire.

La prima realtà che salta agli occhi, gravida di molte implicazioni, è che sta in America il vero governo dello Stato di Israele. Si pensava finora che si trattasse solo dell’influenza autorevole ma non determinante di un potente alleato: per esempio le raccomandazioni di Biden furono disattese da Netanyahu dopo gli eventi del 7 ottobre. Ora invece si tratta di una vera e propria sostituzione. Lo si era visto quando gli Stati Uniti mettendosi al posto di Israele bombardarono con i B-2 Spirit i siti nucleari iraniani, e lo si vede ora quando Trump decide di subentrare nel “lavoro” che Netanyahu non riesce a finire a Gaza, pretendendo l’immediata resa di Hamas (72 ore) senza nemmeno il disturbo di chiederglielo, per assumersi poi direttamente il governo di Gaza o in alternativa per portare rapidamente a termine il genocidio e pervenire alla soluzione finale della questione palestinese nel senso voluto da Israele.

A questo subentro presiede una identificazione ancora più mistificante con l’attuale potere dello Stato sionista, quando Trump. dichiarandosi autore di una pace eterna per “sistemare cose che durano da migliaia di anni in Medio Oriente”, si mette nei panni di Mosè come già fece Netanyahu il 27 settembre dell’anno scorso all’Assemblea dell’ONU, quando si attribuì lo stesso compito di Mosè al suo affacciarsi alla Terra promessa, quello di lasciare alle generazioni future la benedizione o la maledizione: cosa che il Primo ministro israeliano fece presentando alla sbigottita assemblea delle Nazioni Unite due mappe, una con i Paesi benedetti e l’altra con i popoli maledetti, musulmani od arabi, dall’Iran alla Siria all’Iraq, addossando così a Dio stesso un improbabile mandato di sterminio. Ed ora è il presidente americano che si rifà ai biblici eventi del Sinai, presentandosi come il messianico artefice di “uno dei più grandi giorni di sempre nella civiltà”, benedizione per gli uni, maledizione per gli altri, cioè per il popolo palestinese nemmeno nominato tra i soggetti destinati a vivere nella “pace perpetua” del Medio Oriente, che si tratti di Gaza o di Gerusalemme e della Cisgiordania già fatta a pezzi dal “muro di ferro” dei coloni.

In tutto ciò la vera sostituzione che ne risulta è quella nella gestione e nel compimento del genocidio. La lunga tragedia di Gaza ha mostrato una caratteristica poco considerata finora del genocidio: mentre una esecuzione capitale, un omicidio, una strage, sono cose istantanee, che si consumano in un solo momento, un genocidio è un evento che si protrae nel tempo, è un processo di lunga durata. Bisogna essere dotati per perseverare, bisogna avere forze e mezzi adeguati, non essere distolti dal lavoro, per portare a termine un genocidio, prima che si rovesci a proprio danno. Quello della popolazione di Gaza dura ormai da due anni e, se non fosse per Trump, ancora non se ne vedrebbe la fine; quello del popolo palestinese come tale, come popolo negato, come ingombro da rimuovere, come indesiderati da isolare, separare, nascondere alla vista dei dominatori, come avviene in Israele e in Cisgiordania, dura da settant’anni. Troppi, per Israele, ha alla fine deciso Netanyahu, il primo capo del governo israeliano che ha la sincerità di dire che non ci sarà mai uno Stato palestinese, cioè uno Stato riconosciuto da altri 159 Stati di tutto il mondo. Troppi, due anni di genocidio a Gaza, dice Trump, che non può fare la parte del Salvatore, del futuro Nobel per la pace, se ogni sera si vedono in Televisione i bambini scheletriti a Gaza e nello stesso tempo folle immense che protestano, e Chiese e flotte del mondo civile che si oppongono alla legittimazione del genocidio, alla sua ricezione che lo omologhi come pratica di routine, come nuova risorsa tecnologica dell’attuale sistema di dominio e di guerra.

Ed ecco perché ora è l’America di Trump che si erge come arbitra nello scontro epocale tra il Bene e il Male, sono gli Stati Uniti dei fondamentalismi blasfemi e delle lobbies “evangeliche” e sioniste, sono le masse trumpiane dell’America grande “di nuovo”, che sono pervase da una mentalità apocalittica come è stato osservato dai migliori analisti dopo l’assassinio e l’esaltazione funebre di Charlie Kirk, sono tutti questi che rilasciano a Israele la licenza di genocidio o, in difetto, decidono di compierlo in proprio. E lo chiamano pace.

Nel sito pubblichiamo l’omelia dell’arcivescovo di Napoli sullo spargimento di sangue [anche qui sotto], un’intervista al giurista Pasquale Annicchino sulla “Mentalità apocalittica” che si sta diffondendo negli Stati Uniti e la traccia di un intervento sulla Fine dell’Occidente di Raniero La Valle al Convegno del “Coraggio della pace” di Sesto Fiorentino.

Con i più cordiali saluti,

da “Prima Loro”
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LA METAFORA DEL SANGUE
Ascolta, Israele: cessa di versare sangue palestinese

Settembre 30, 2025
La sicurezza che calpesta un popolo non è sicurezza: è un incendio che brucia chi credeva di domarlo.
L’omelia dell’arcivescovo di Napoli: il sangue di san Gennaro è solo un segno, si sciolga il nostro cuore
Card. Mimmo Battaglia
Pubblichiamo l’omelia che l’Arcivescovo di Napoli Card. Mimmo Battaglia ha tenuto il 19 settembre in occasione della celebrazione del miracolo di San Gennaro.
“Oggi Napoli si ferma come il mare quando il vento si placa. È un placarsi interiore, la sensazione di una giornata di festa, di fede, di identità. Le strade si fanno navate, i balconi cantorie, la città una cattedrale intera. Al centro, non un oggetto, ma un segno: un’ampolla, un sangue, un nome — Gennaro. Qui celebriamo non un trofeo, ma una memoria viva: quella dei martiri che l’Amore non ha lasciato soli. Il tempo, che velocemente svuota i nomi dei dominatori, conserva invece i nomi delle vittime — scritti nel pianto dei poveri, nel grido degli innocenti, nel silenzio degli ultimi. Anche quando a noi sfuggono, Dio li conosce e li incide nelle sue palme.

La Parola ci pone oggi sulle labbra una frase che è varco e promessa: «Chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo la salverà» (Mc 8,35). Non è un motto per poster, è un ponte tra due rive. Su quel ponte Gennaro passò intero: la carne consegnata, la paura vinta, la libertà restituita al suo Autore. Non scelse di salvarsi: scelse di donarsi. E il sangue, che i violenti credettero sigillo d’oblio, divenne voce: voce che ancora predica alla città e la chiama a fidarsi del Vangelo più di ogni calcolo, più di ogni prudenza. Guardiamo quel segno non con superstizione, ma come invito a scommettere tutto sull’Affidamento.

Oggi la parola sangue ci brucia addosso. Perché il sangue è un linguaggio che tutti capiamo, e che chiede conto a tutti. Il sangue di Gennaro si mescola idealmente al sangue versato in Palestina, come in Ucraina e in ogni terra ferita dove la violenza si crede onnipotente e invece è solo rumore. Il sangue è sacro: ogni goccia innocente è un sacramento rovesciato. Se potessi, raccoglierei in un’ampolla il sangue di ogni vittima — bambini, donne, uomini di ogni popolo — e lo esporrei qui, sotto queste volte, perché nessun rito ci assolva dalla responsabilità, perché la preghiera senta il peso di ogni ferita e non scivoli via. E oggi, con pudore e con fuoco, dico: è il sangue di ogni bambino di Gaza che metterei esposto in questa cattedrale, accanto all’ampolla del santo. Perché non esistono “altre” lacrime: tutta la terra è un unico altare.

Da questa cattedrale che respira come un petto antico, si alza un appello chiaro, diretto, senza garbo diplomatico:

Ascolta, Israele: non ti parlo da avversario, ma da fratello nell’umano. Ti chiamo col nome con cui la Scrittura convoca il cuore all’essenziale: Ascolta. Cessa di versare sangue palestinese.

Cessino gli assedi che tolgono pane e acqua; cessino i colpi che sbriciolano case e infanzie; cessino le rappresaglie che scambiano la sicurezza con lo schiacciamento, cessi l’invasione che soffoca ogni speranza di pace. La sicurezza che calpesta un popolo non è sicurezza: è un incendio che, prima o poi, brucia la mano che credeva di domarlo.

So il peso del tuo lutto, le ferite che porti nella carne e nella coscienza. Ogni terrorismo è un sacrilegio, ogni sequestro un’ombra sull’umano, ogni razzo contro civili un peccato che grida. Ma oggi — davanti al sangue del martire — ti chiamo per nome: tu, Israele, fermati. Apri i valichi, lascia passare cure e pane, sospendi il fuoco che non distingue e moltiplica gli orfani. Non ti chiedo debolezza: ti chiedo grandezza. La grandezza di chi arresta la propria forza quando la forza profana la giustizia; di chi riconosce che l’unica vittoria che salva è quella sulla vendetta.

Sorelle e fratelli, Napoli, nonostante le sue ferite, è città di pace. E da questa città affacciata sul Mediterraneo vorrei si generasse un movimento di speranza e di pace, perché come diceva La Pira occorre partire dalle città per unire le nazioni. E vorrei anche che questo contagio di riconciliazione fosse fondato su un linguaggio chiaro, compreso da tutti i popoli di tutte le città che su questo mare affacciano i propri timori e le proprie speranze. Perché la menzogna comincia dalle parole, soprattutto da quelle ambigue, anestetizzate: i droni sono fucilazioni telecomandate; i “danni collaterali” sono bambini senza volto; una spesa militare che supera scuola e sanità non è sicurezza ma suicidio collettivo. Convertiamo gli arsenali in ospedali, gli utili di guerra in borse di studio, i bunker in biblioteche

Questa è l’unica geopolitica evangelica degna del Nome che invochiamo.

Diciamocelo con la franchezza dei santi: il male non è un’idea, è una filiera. Ha uffici, contabili, bonus, piani industriali. La guerra non “scoppia”: si produce, si finanzia, si premia. Ogni bilancio militare che si gonfia come una vela è vento cattivo contro la carne dei poveri. Ogni “espansione della spesa per la difesa” che supera scuola e sanità non ci rende sicuri: ci rende più soli e più poveri.

Il grido dei poveri e degli ultimi, il sangue dei bambini e il pianto delle loro madri, dice ai potenti di questa terra, alle istituzioni di questa nostra unione, alla Knesset, ai governi, ad ogni comando militare: fermate la spirale! Cercate giustizia prima dei confini, diritti prima dei recinti, dignità prima dei calcoli. Non si costruisce pace con check-point e interruzioni di vita, ma con diritto eguale, sicurezza reciproca, misericordia politica.

Il sangue gridato dalle macerie non è un argomento: è un’anafora di Dio che ripete: Che ne hai fatto di tuo fratello?

Sorelle e fratelli che sedete nei parlamenti, vi chiedo: come potete scegliere i missili prima del pane? Dove avete smarrito il volto dei vostri fratelli e delle vostre sorelle?

Sorelle e fratelli che operate nella finanza e nei grandi mercati, vi chiedo: come potete esultare quando la guerra si allunga e le azioni della difesa salgono? Non sentite il grido dei vostri fratelli e delle vostre sorelle?

Sorelle e fratelli imprenditori e azionari le cui industrie falsificano il Vangelo del lavoro, fondendo aratri in granate, vi chiedo: che ne avete fatto della dignità dei vostri fratelli e delle vostre sorelle?

E noi tutti, con le nostre coscienze addormentate, che lasciamo scorrere il dolore come acqua sul marmo, assuefatti all’orrore, chiusi nel piccolo recinto della comodità che vogliamo difendere a ogni costo… anche noi dobbiamo chiederci: che ne abbiamo fatto dei nostri fratelli e delle nostre sorelle?

Qui, a Napoli, questa domanda ce la poniamo ogni giorno perché la nostra città è un altare ferito e luminoso, dove il sangue lo conosciamo: quello dei giovani perduti, quello delle vittime innocenti, quello invisibile di chi smette di sognare. La questione meridionale non è un capitolo archiviato: è una pagina che chiede inchiostro nuovo — lavoro, scuola, cura, cultura. E necessita non di amministratori dell’emergenza, ma artigiani di futuro. Perché la politica, se è degna del suo nome, è un’arte liturgica: mette ordine non per ornare, ma per servire.

E guardando all’Italia intera, lasciamo che i numeri si facciano volti: giovani legati al precariato come a una zattera; anziani costretti a scegliere se curarsi o mangiare; famiglie che contano i centesimi come si contano i respiri. È qui che si misura il Vangelo: «Ero affamato… ero assetato… ero forestiero…» — non come metafora, ma come agenda.

“Cosa possiamo fare?” — mi chiedete. È la domanda di Pietro quando la barca scricchiola. Il martirio che ci è chiesto oggi non è quello del sangue, ma quello della coerenza. Della mitezza ostinata di chi non si lascia comprare. Della pazienza creativa di chi educa senza scorciatoie. Della fedeltà operosa di chi serve i poveri senza altarini. Della sobrietà lieta di chi spende meno per sé e investe su chi non potrà restituire. È il martirio dell’attenzione: costa più dell’oro.

Ma il Vangelo non ci chiede solo bontà: ci chiede giustizia. La giustizia non è risentimento: è ordine dell’amore. È regola che santifica il tempo, è lavoro che non sfrutta, è tavola che allarga i posti, è potere che non si auto-assolve. L’Europa non si salverà con muri e con rotte ciniche, ma ricordando di essere nata da monasteri e cattedrali: scuole per i figli dei poveri, mercati che chiudevano la domenica, comunità che fondavano legami. Non nostalgie, ma disciplina di futuro.

Torniamo al sangue. Guardatelo. Non come curiosità, ma come specchio. Il sangue di Gennaro non è un talismano: è un appello. Ogni goccia dice: non tradire. Non tradire il Vangelo con un culto senza conversione. Non tradire il povero con un’elemosina senza scelte. Non tradire la pace con parole senza progetto. Non tradire i bambini con scuole senza maestri e città senza cortili.

Per questo, oggi, osiamo chiedere un miracolo preciso. San Gennaro, fratello e martire: sciogli non solo il tuo sangue — che è segno — ma il nostro cuore, dove si decide tutto. Disarma le nostre paure travestite da prudenza. Spazza via la patina di cinismo che si attacca alla fede. Donaci un coraggio senza teatro e scelte che non fanno notizia ma cambiano la vita.

Guarda la Palestina, guarda l’Ucraina, guarda i Sud del mondo: quanti non hanno più lacrime e ci prestano i loro occhi. Fa’ che la pace non sia uno slogan, ma una pratica. Fa’ che ogni comunità diventi sala d’attesa di resurrezioni: mensa per chi ha fame, porta per chi non ha casa, lingua per chi non sa parlare, compagnia per chi non regge da solo. E qui, nella nostra città, fa’ che sotto ogni balcone si veda un ragazzo con un libro e non con un’arma; che ogni cortile sia un campo di gioco e non di spaccio; che ogni impresa pulita valga più di qualunque denaro sporco.

Se oggi chiediamo un prodigio, fa’ che sia questo: che il prodigio cominci da noi. Che si apra in ciascuno un cantiere di pace: una sedia in più a tavola, un’ora in più per educare, un euro in meno per sé e uno in più per chi non può. E quando qualcuno domanderà se il sangue si è sciolto, potremo rispondere: sì, il sangue si è sciolto. Non solo qui, non solo oggi, non solo nell’ampolla: si è sciolto nei cuori. Ha ripreso a scorrere; ha portato ossigeno alle mani, grazia agli occhi, forza ai piedi. E la città — questa città che amiamo — riprenderà il suo passo grande, e questo mondo – per il quale Dio Padre ha donato il suo Figlio Gesù, nel cui sangue tutti siamo amati e salvati – riprenderà il suo passo santo: il passo della pace.
Amen.”

19 settembre 2025

+ don Mimmo Card. Battaglia
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CHE COSA C’È DIETRO TRUMP
L’avanzare di una mentalità apocalittica

Settembre 30, 2025
L’assassinio di Charlie Kirk e la sua canonizzazione politico-religiosa rivelano il pericolo che stanno correndo la società americana e le destre fondamentaliste. La svista del card. Dole
Sul sito Prima Loro
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“L’ALTRO LATO DEL MONDO”
Se Dio cambia campo

Settembre 30, 2025
Un intervento al Convegno del “Coraggio della pace” del 25-28 settembre a Sesto Fiorentino. L’Europa deve diventare una comunità di popoli che comprenda la Russia
Raniero La Valle

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UNA COSTITUZIONE DELLA TERRA PER SALVARE L’UMANITÀ

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Dichiarazione del Direttivo di Costituente Terra – 24/09/2025

Al discorso demolitorio del multilateralismo, della democrazia e del diritto internazionale pronunciato da Trump all’Assemblea Generale dell’ONU, tuttora in corso, c’è una sola risposta possibile:
“UNA COSTITUZIONE DELLA TERRA PER SALVARE L’UMANITÀ”

Nei giorni scorsi si è aperta a New York la nuova sessione delle Nazioni Unite, in occasione dell’80° anniversario della nascita dell’organismo che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, segnava una svolta epocale e apriva alla speranza di un mondo senza guerre, fondato sul dialogo tra gli Stati e su una diplomazia multilaterale, in un contesto sempre più globale.
Superare le diseguaglianze, sradicare la povertà, creare le basi di un nuovo diritto internazionale e aiutare l’umanità a intraprendere un cammino di pace e benessere apparivano obiettivi raggiungibili. Ma la storia si è rivelata ben più complessa.

Dopo la fine della Guerra Fredda, le Nazioni Unite hanno cercato di promuovere processi capaci di umanizzare la globalizzazione, mettendo al centro i diritti e la dignità della persona. Tuttavia, l’assenza di garanzie efficaci nel loro assetto istituzionale ha reso questi intenti, di fatto, semplici petizioni di principio.
Le diseguaglianze non si sono ridotte; anzi, sono aumentate. Il dominio del capitale è diventato asfissiante, la politica si è piegata all’economia, mentre il ritorno di nazionalismi e fondamentalismi religiosi ha spaccato il mondo, alimentato circa 60 conflitti armati e prodotto guerre e massacri spaventosi.

Il diritto internazionale è stato messo in discussione, i tribunali internazionali delegittimati, e anche negli Stati occidentali lo Stato di diritto e la democrazia sono oggi erosi dalla crescente affermazione delle autocrazie — a cominciare proprio dagli Stati Uniti.

In questo contesto, il lunghissimo comizio pronunciato dal Presidente degli Stati Uniti all’apertura dell’Assemblea Generale ha espresso con forza tutti gli elementi che aggravano e alimentano la crisi in corso: individualismo patologico (la parola “io” ha sostituito quella del Paese che rappresenta), nazionalismo esasperato, disprezzo per le Nazioni Unite e per ogni Stato o istituzione che non si allinei alla sua visione del mondo, aggressività verbale verso gli avversari — trattati come nemici —, toni violenti contro i migranti e negazione della questione ecologica e climatica.

Fortunatamente, altri Capi di Stato e di Governo hanno fatto sentire parole ben diverse. Dall’intervento del Presidente del Brasile in apertura, al discorso appassionato del Presidente dell’Indonesia, subito dopo quello di Trump, si è levata una chiara difesa del multilateralismo, della responsabilità collettiva e del sostegno concreto alle Nazioni Unite.

Tuttavia, per poter affrontare adeguatamente i poteri economici, finanziari e tecnologici dominanti — e per contenere gli Stati più forti e armati che rivendicano un potere assoluto, privo di limiti e vincoli — è necessario fare un passo ulteriore: superare le molteplici Carte e Dichiarazioni Universali che, pur essendo sacrosante, restano troppo spesso mere enunciazioni di principio. È urgente dotarsi di una Costituzione della Terra, una costituzione rigida, sovraordinata, capace di vincolare i poteri che pretende di limitare.

La speranza, tuttavia, non è svanita. La partita è tutt’altro che chiusa. Ma va giocata con una visione e una proposta all’altezza della sfida, e con la determinazione necessaria.
Costituente Terra vuole contribuire a questa speranza, proponendo una Costituzione universale in 100 articoli, che rilanci il progetto delle Nazioni Unite, dotandolo finalmente di strumenti di garanzia efficaci. Non si tratta di un’utopia, ma di una lettura realistica e non rassegnata allo strapotere dei più forti, al loro desiderio di mani libere, di ricorrere alla violenza quando vogliono, di continuare l’oppressione sulla stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta e la distruzione delle risorse comuni.

Una nuova visione del mondo è possibile. Un nuovo orizzonte è già attivo, in molti Paesi d’Europa e dell’America Latina, e si pone come riferimento per tutte le iniziative che si oppongono alla logica del dominio dei più forti, più ricchi, più armati, e per tutte le associazioni, i movimenti e le forze democratiche, politiche e sociali che li animano.

Per questo, Costituente Terra, insieme all’Università della Pace, a Other News e ad altre associazioni, movimenti e istituzioni territoriali, affronterà questi temi il prossimo 24 ottobre, presso la sede dell’Università della Pace in Via Panisperna (Roma).
L’incontro sarà dedicato alla crisi del multilateralismo, della democrazia e del diritto internazionale, con un confronto tra visioni e proposte per offrire una risposta efficace e una via d’uscita. In tale occasione sarà presentata al dibattito pubblico la proposta di Costituzione in 100 articoli.

Direttivo di Costituente Terra
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COSTITUENTE TERRA

Verbale della Riunione Congiunta dell’Esecutivo e del Direttivo
Roma, 24 Settembre 2025
Segretario verbalizzante: Mimmo Rizzuti.

Ordine del Giorno:
Resoconto sintetico delle attività e delle iniziative dal 5 agosto ad oggi:
Convegno di Riace
Incontri online con il Congresso della Corte Costituzionale Colombiana
Confronto tra il Presidente di CT e il Ministro della Giustizia dell’Honduras
Tour accademico-politico in Brasile, Argentina e Uruguay con Dario Ippolito e Carlo Ferrajoli
Informativa sulle iniziative in corso

Preparazione dell’iniziativa del 24 ottobre a Roma, in collaborazione con:
Università della Pace
Other News
Fondazioni Basso e Di Vittorio
Altre associazioni e movimenti
Tema:
“A 80 anni dalla Carta dell’ONU e della crisi profonda del multilateralismo, della democrazia, del diritto internazionale, si può rispondere solo attraverso un processo e un percorso di Costituzionalismo Globale. La nostra Costituzione della Terra in 100 articoli. È possibile un percorso a tappe? Quale ruolo dovrebbe e potrebbe giocare l’Unione Europea?”

Iniziative in corso:
Rilancio tesseramento
Questioni amministrative
Varie ed eventuali

Introduzione.

Ha aperto i lavori il presidente L. Ferrajoli con una panoramica sulle grandi questioni che gravano sul pianeta e sulla portata politico/culturale della Costituzione della Terra, già attivismo in tanta parte dell’America latina e con una puntuale rassegna del suo viaggio e dei suoi incontri in Brasile, Argentina e Uruguay.

A seguire, Mimmo Rizzuti, per l’organizzazione, ha evidenziato come il percorso avviato dopo l’Assemblea Generale del 26 febbraio scorso sia stato portato avanti con successo. È stato avviato un primo riassetto organizzativo, ancora in fase di verifica, che ha cominciato a produrre risultati.

Costituente Terra (CT) è stata presente in modo visibile in numerose iniziative per la pace, per la riforma dell’ONU e dell’UE, puntando a garantire la democrazia e l’effettività delle decisioni democraticamente assunte. Ma ha fatto anche di più: ha iniziato a costruire un proprio percorso e un’agenda autonoma verso la Costituzione della Terra. È seguita una esposizione ragionata, a più voci delle attività svolte, così sintetizzate.

Attività Svolte

Convegno di Riace: “Una Costituzione della Terra per salvare l’Umanità. Perché ripartire da Riace”

Evento di grande rilievo, che ha intrecciato i grandi temi sociali con quelli dell’accoglienza, dell’inclusione, dell’ecologia, della crisi climatica e del Mediterraneo. Ha incluso un forte messaggio di solidarietà con Gaza, culminato nel gemellaggio tra Riace e Gaza.
Il report completo è già disponibile sul sito di CT.

Prosecuzione del Percorso Internazionale

Il presidente di CT ha proseguito il percorso con:

Incontri online con il presidente Ibáñez e il Congresso della Corte Costituzionale Colombiana
Confronto diretto con il Ministro della Giustizia dell’Honduras, in rappresentanza della Presidente dello Stato
Tour accademico-politico in Brasile, Argentina e Uruguay con Dario Ippolito e Carlo Ferrajoli
Incontri con:
Presidente dell’Alta Corte Argentina
Ministri della giustizia e dei rapporti istituzionali del Brasile
Vicepresidente dell’Uruguay
Presidente del Brasile Lula
Un report dettagliato della missione è in preparazione a cura di Carlo Ferrajoli e sarà pubblicato in una newsletter dedicata.

Iniziativa del 24 Ottobre a Roma

Evento centrale a conclusione del programma annuale, in collaborazione con:

Università della Pace
Other News
Fondazioni Basso e Di Vittorio
Movimento Europeo Italia
Altre associazioni e movimenti
Titolo:
“A 80 anni dalla Carta dell’ONU: Multilateralismo, democrazia, diritto internazionale in crisi profonda e sotto attacco. Percorsi per una risposta improcrastinabile. Una Costituzione della Terra come via obbligata per uscirne.”
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24 ottobre – H. 9:30–18:00 – Via Panisperna 207, Palazzo Falletti, Salone UNIPACE

Alle 18:30, il Presidente Luigi Ferrajoli incontrerà il Giubileo dei Movimenti.

Tutti i membri degli organi dirigenti e gli attivisti di CT sono caldamente invitati a partecipare e contribuire attivamente alla costruzione e realizzazione della giornata.

Costituzione del Gruppo di Lavoro per il Consolidamento del Percorso in centro Sud America su proposta di Luigi Marini ,Javier Miranda e Francesco Vincenti
È stato approvato dal Direttivo un Gruppo di Lavoro ad hoc composto da:

Franco Vincenti
Javier Miranda
Luigi Marini
Michele Fiorillo
Carlo Ferrajoli
Sandra Regina Martini
Pedro Grandez Castro
Il gruppo avvierà un percorso di lavoro in costante confronto con il Presidente, l’organizzazione e l’Esecutivo di CT.

Iniziative in Corso (Politico-Culturali e Organizzative)
Settembre–Ottobre 2025

27 settembre – Roma: Dialogo del Presidente con Michela Ponzani su Guerra e Pace. Diritto umanitario e diritto internazionale.
30 settembre – Roma, Istituto Sturzo: Convegno “50 anni dalla Conferenza di Helsinki”, con Fondazioni Basso, Di Vittorio e “Salviamo la Costituzione”
1 ottobre – Firenze: Presentazione del libro Progettare il Futuro con Feltrinelli
4 ottobre – Fano: Consegna di un premio al Presidente, con Francesca Albanese
Proposta: registrare un colloquio tra i premiati su “incongruenze del presente e progettazione del futuro” (proposta di F. Vincenti)
6 ottobre – Roma: Iniziativa UNIPACE con Jeffrey Sachs (posti limitati)
Incontro con Unipace sulla proposta apprezzata e condivisa dagli organismi riuniti di CT, predisposta da Dario Ippolito, per la costruzione, in seno alla stessa, di un sistema di cattedre itineranti sulla Costituzione della Terra, articolate in partenza in 8 seminari da svolgere ciascuno in un Paese Diverso, con la partecipazione di un Accademico aderente al progetto di Costituente Terra.
10–11 ottobre: Partecipazione alla Marcia della Pace in preparazione del 12 ottobre
Gruppo di lavoro designato per l’organizzazione:
Paola Paesano, Federica Borlizzi, Matteo Bellucci, Michele Fiorillo, Giovanna Procacci, Gianluca Ruggiero, Alessandro Saso
Supporto: Silvano Falocco, Massimo Zucconi, organizzazione centrale
Riunione Zoom il 1° ottobre h. 18:00–19:30 (il link sarà inviato a ciascuno da M. Bellucci)
13 ottobre – Roma: Iniziativa con CISDA e Comune di Roma sui diritti delle donne in Afghanistan : Riconoscere l’apartheid di genere come crimine contro l’Umanità.
14 ottobre – Roma e 17 ottobre – Ventotene: Incontro con il gruppo Costituente Terra Catalano (progetto con scuole e università catalane)
Temi: costruzione di un sito internazionale multilingue e raccordo tra i nodi nazionali
16 ottobre – Ancona: Iniziativa locale per la costituzione di Costituente Terra Marche
Appello Finale
Esecutivo e Direttivo hanno rivolto un pressante appello:

“Il 24 ottobre è una giornata di particolare significato e valenza. Tutti i/le costituenti, i membri degli organismi di CT e gli attivisti sono invitati ad organizzarsi per essere presenti e partecipare all’intera giornata.”

Tesseramento e Amministrazione
La discussione sul rilancio del tesseramento e sulle questioni amministrative è stata rinviata ad una riunione successiva.

Varie ed eventuali:

Franco Meloni – CT Sardegna – ha suggerito, tra l’altro di cercare un collegamento, per una possibile auspicabile interazione con il Gruppo dei cattolici del “Nuovo Codice Europeo di Camaldoli”

Partecipanti (in presenza e da remoto)
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Luigi Ferrajoli (ha introdotto i lavori)
Mimmo Rizzuti
Silvano Falocco
Giovanna Procacci
Javier Miranda
Stefano Bevere
Gianluca Ruggiero
Michele Fiorillo
Massimo Zucconi
Luigi Marini
Alessandro Saso
Franco Vincenti
Alessandro Schiattone
Franco Meloni
Roma, 24 settembre 2025
Il Segretario Verbalizzante
M.R.
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—Informazione importante—
Luigi Ferrajoli sarà a Cagliari mercoledì 3 dicembre per un’iniziativa culturale, in occasione della presentazione di una nuova pubblicazione di raccolta ragionata di suoi testi già editi. Contiamo
di trovare il tempo per un incontro
Con il nostro Circolo sardo di C.T.
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Gaza

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Gaza brucia non è più tempo di parole
di Gianfranco Pagliarulo – Presidente ANPI
Gaza, rasa al suolo dalle bombe e dai caterpillar, brucia. Erano intrappolate 700mila persone. Nessuno saprà mai il numero reale di vittime. Gaza è in piena distruzione, ma assieme collassa moralmente Israele e il suo governo, e il Paese che lo sostiene dichiaratamente col suo presidente Trump, gli Stati Uniti. È una Caporetto di valori e di umanità, che coinvolge anche la Germania e, ahinoi, il nostro Paese, che continuano a inviare forniture militari a Israele e non muovono un dito per fermare questa immane tragedia. Si è già alzata e si deve alzare nei prossimi giorni una straordinaria mobilitazione di popolo, di persone, di tutti coloro che, indipendentemente dalle opinioni politiche, riconoscono in quello che sta succedendo un orrore indicibile, una indelebile macchia nella storia di questo secolo. Per questo l’ANPI partecipa e parteciperà a tutte le iniziative pacifiche di protesta e sostiene e sosterrà gli scioperi territoriali dei prossimi giorni fino allo sciopero generale del 19 settembre, con particolare riferimento alla Toscana che si fermerà per 8 ore. Non è più tempo di parole. Occorre arrestare un cuore di tenebra che può infettare, e forse sta già infettando, il mondo”
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Non mancano le prese di posizione degli intellettuali, manca la fiducia di cambiare le cose per la scomparsa degli antichi punti di riferimento in un tempo di dispersione, atomizzazione e solitudine. Urge dar vita a un nuovo blocco sociale che unisca il mondo del lavoro, della marginalità, della moderna intellighenzia, per il progetto di un domani per il nostro Paese e per l’Unione Europea che abbia al centro il ripudio della guerra

È vero che, davanti all’orrore di Gaza che si rinnova e si amplifica quotidianamente verso l’annientamento di un popolo, della sua memoria, delle sue istituzioni, il mondo delle arti, delle scienze e della cultura interviene in modo frammentario?

Come mai davanti alla montagna di cadaveri che a Gaza sta sotterrando qualsiasi residuo di credibilità internazionale dell’Unione Europea e del nostro stesso Paese, ci si limita a qualche balbettio di circostanza senza mai assumere un provvedimento concreto?

Come mai, davanti al concreto rischio di un terzo conflitto mondiale, l’Unione Europea è in ginocchio verso occidente a baciare l’anello (o ben altro) di Trump, e s’alza minacciosa verso oriente perché, innamorata della sua stessa propaganda come Narciso davanti alla sua immagine riflessa nell’acqua (pro memoria: Narciso cadde in quell’acqua, e vi affogò), si arma e si riarma contro l’invasione dei cosacchi prossima ventura?

E come mai stenta a configurarsi e a organizzarsi un grande movimento di popolo in dichiarato contrasto verso questa deriva?

Donald Trump, presidente Usa, e Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione Europea (Imagoeconomica, Dati Bendo)
Gaza. Lavinia Marchetti, in un interessante scritto del 19 luglio, sottolinea che “è la cultura intera, che si è lavata le mani di fronte alla catastrofe. Dove sono i poeti, gli scrittori, gli artisti, i filosofi? Dove sono le loro parole che ardono, i manifesti, le veglie, le diserzioni dai festival, le lettere aperte, le interviste incendiarie? Non ci sono”.

A me pare un giudizio ingeneroso, ma c’è un fondo di verità. Intanto, non mi sembra che l’intero mondo della cultura e della scienza sia silente o distratto: le prese di posizione dei “grandi intellettuali” – filosofi, storici, artisti, scienziati – non mancano. Ma l’equivoco, antico e purtroppo persistente, sta nella identificazione della cultura con i suoi esponenti più noti, quelli che appaiono in televisione e che scrivono sui giornali, insomma che si presume facciano opinione. Oggi la cultura non si identifica totalmente con coloro che la producono (studiosi, ricercatori ecc.), ma comprende anche tutti coloro che la rielaborano e la trasmettono: gli “intellettuali-massa”, che in gran parte non sono niente affatto indifferenti al massacro di Gaza, e che anzi partecipano numerosi a tutte le iniziative per Gaza e sui palestinesi. Il problema è semmai un altro: che la loro (ma non soltanto la loro) mobilitazione è di natura sentimentale e morale, e fatica a tradursi in conseguenti assunzioni di responsabilità politica.

Alcuni tra gli artisti, attori, cantanti, registi che hanno espresso pubblicamente il loro sdegno per quanto accade in terra palestinese
Peraltro neanche gli intellettuali come massa ripongono oggi grande fiducia nella concreta possibilità di cambiare lo stato di cose esistente; i più tenaci si rifugiano nel volontarismo. La ragione è evidente: non ci sono più gli antichi punti di riferimento né si intravede il seme dei nuovi nel tempo della dispersione, della atomizzazione e della solitudine sociale.

Le domande sono: come mai siamo arrivati a questo punto? Che fare?

Leggo in un romanzo di Saramago parole profetiche: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono”. Già! Ma perché siamo diventati ciechi?

Credo che la ragione fondamentale sia la seguente: quanto meno per l’occidente, è finita l’epoca delle masse sulla scena della politica, un tempo che ha coinciso con l’intero 900, che, nello scontro fra reazione e rivoluzione, ha segnato – nel bene e nel male – la storia dell’umanità, che, nonostante la catastrofe di due guerre mondiali e l’abominio della Shoah, ha consentito l’avvio della decolonizzazione del mondo, la conquista di insuperati standard di diritti sociali e civili in Europa e l’organizzazione e lo sviluppo di una particolare forma di governo che abbiamo chiamato democrazia. Una democrazia che si fondava sul suffragio universale, conquistato dalle lotte novecentesche del movimento dei lavoratori, si innervava su un complesso reticolo di forme di partecipazione al potere politico, si alimentava attraverso il virtuoso stimolo del conflitto sociale, si incarnava nell’affermazione dello stato di diritto, in cui tutti, compresi governi e istituzioni, sono soggetti alla legge.

Si tratta di un periodo che si avvia con gli effetti della seconda rivoluzione industriale e con la nascita dei sindacati, delle leghe, delle società di mutuo soccorso, dei partiti di massa. Il nazifascismo nasce come reazione a questa invasione dei popoli nell’intoccabile campo del Potere e la sua sconfitta modella le società europee in modo nuovo; la cultura e l’arte della seconda metà del 900 sono figlie di quel tempo e diventano avamposti della pietas e del peso della responsabilità, la res pondus.

Pensiamo alle grandi campagne contro la proliferazione delle armi nucleari, alla colomba di Picasso nel 1949, all’appello del 1955 di Albert Einstein contro il riarmo atomico. La cultura, la scienza, l’arte, la stessa politica dicono: mai più! Mai più la shoah, mai più Hiroshima, mai più la guerra. Nella seconda metà del 900 la cultura, la scienza e l’arte, nelle forme più varie, impregnano e interpretano il principio della sovranità popolare che è alla base della democrazia, ne diventano legittime rappresentanti, ne promuovono costruzione di senso, orizzonte, visione.

Questo tempo è finito. Quella politica è finita. La società è stata tendenzialmente espulsa da una politica che è sempre più inquinata dai centri di potere finanziario. Le avvisaglie sono del 1987, quando Margaret Thatcher afferma che «non esiste la società. Esistono gli individui, uomini e donne, e le famiglie». Se non esiste la società, perché dovrebbe esistere il popolo? Ma sono solo segnali, messaggi in codice. La frana avviene due anni dopo, con la caduta del muro di Berlino. Giustamente Rosi Bindi qualche tempo fa ha affermato: “Quando è caduto il muro di Berlino pensavamo avesse vinto la democrazia, in realtà aveva vinto il capitalismo”.

Da allora in poi è stata una regressione continua.

Cambiava la natura dei partiti, non più di massa, ma prevalenti comitati elettorali in cui il potere reale si concentrava nel gruppo parlamentare. Cambiava la natura delle istituzioni, perché i parlamenti venivano sempre più espropriati del loro ruolo rispetto all’esecutivo. Cambiavano le narrazioni politiche e istituzionali che riscrivevano la storia della Resistenza, del nazifascismo e persino della seconda guerra mondiale. Tramontava la partecipazione come forma democratica ineludibile. La rappresentanza diventava la cenerentola di un sistema istituzionale che sposava la sola governabilità. Si incrinava lo stato di diritto attraverso clamorose deroghe, da Guantanamo al rapimento illegale di Abu Omar dall’Italia all’Egitto nel 2003. I padroni della tecnologia – Apple, Google, Amazon – davano vita a imperi finanziari sovranazionali ademocratici e intoccabili. Il potere politico si mescolava al potere criminale: le infiltrazioni mafiose, la penosa grazia di Biden verso il figlio, il caso di scuola di Trump e la criminalità eletta a metodo di governo da parte di Netanyahu. Il panopticon, il modello di prigione ideale progettato da Jeremy Bentham nel XVIII secolo, caratterizzato da una struttura circolare dove tutto era visibile da una torre centrale di osservazione, tramontava, sostituito dal controllo sui social che ha reso trasparente il mondo.

E tutto ciò avveniva in un intreccio inestricabile. Era l’avvento della democrazia senza popolo, un ossimoro. Deperendo via via i riferimenti costitutivi della democrazia – i partiti, le istituzioni, lo stato di diritto, la partecipazione popolare -, cambiava progressivamente il quadro di riferimento necessario a un’arte, una scienza e una cultura organicamente collegati ai fondamenti e ai valori delle comunità nazionali del secondo dopoguerra.

D’altra parte, se la società non esiste ed esistono solo gli individui, appannandosi il valore della persona umana e della sua dignità, si spalancavano le porte alle Erinni di questo secolo: l’individualismo, la competizione, il nichilismo. E scomparivano progressivamente tutti i “mai più!” su cui si era retto l’equilibrio globale. Fino a oggi, quando, come scrive Lavinia Marchetti sempre a proposito di Gaza, “è questa la metafora della nostra Europa: un giardino curato che si stende accanto a un forno crematorio. Noi vediamo e sappiamo, ma è come se non vedessimo. E nonostante il sapere, scegliamo il rumore del frigorifero al suono delle bombe”.

Il compimento nazionale di questo composito processo è alle porte, e si chiama riforma del premierato.

Il tutto, sotto l’accorta regia di un sistema mediatico oramai diventato un’arma di distrazione di massa e di costruzione (e costrizione) del consenso attorno a un obsoleto ordine mondiale oramai incapace di nascondere i suoi orrori.

È il tempo che viviamo, il chiaroscuro fra il vecchio mondo che sta morendo e quello nuovo che tarda a comparire. E vennero i mostri: la guerra e il rischio di un nuovo fascismo.

Una delle tante iniziative del mondo della cultura e dell’arte per Gaza
Se è finito il tempo dell’irruzione dei popoli sulla scena della storia e perciò il tempo della buona politica, si possono quanto meno porre i presupposti per un cambiamento di fase?

Il campo dell’arte, della scienza e della cultura non è silente, come ho detto. Ma si tratta di scelte sradicate dal contesto storico-sociale che aveva caratterizzato il secolo scorso, e spesso ignorate, avversate, se non demonizzate, dal mainstream. Per di più gli intellettuali – nel senso più banale e ampio – hanno perso potere. Quanti sono coloro che sono in qualche modo condizionati da vincoli lavorativi e professionali con grandi imprese o con centri pubblici e privati – appunto – di potere reale? Per di più – diciamocelo – l’apoteosi dell’ignoranza celebrata dai populisti ha lasciato il segno.

Tutto ciò impone una straordinaria responsabilità, che è la ricostruzione delle condizioni basiche di un sistema democratico aggiornato al tempo in cui viviamo, a cominciare dalla rinascita di un tessuto partecipativo e dal progressivo svuotamento dell’immane serbatoio dell’astensionismo, che apre di per sé un delicato problema costituzionale: se la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, cosa avviene se la maggioranza del popolo rinuncia a tale esercizio perché sfiduciata del ruolo di rappresentanza delle istituzioni e tira a campare in condizioni di lavoro e di vita sempre peggiori, come sta concretamente avvenendo e come avverrà?

Ma non basta una straordinaria responsabilità. Occorre, assieme, l’avvio di un rapporto stabile e permanente del caleidoscopio dell’associazionismo, del volontariato e del movimento sindacale – e anche di ciò che di buono rimane nei partiti – con l’universo della cultura, dell’arte e della scienza. Con quale obiettivo? La composizione unitaria di forze sociali oggi separate e isolate, la costruzione di un nuovo blocco sociale che unisca il mondo del lavoro, della marginalità, dei moderni intellettuali.

Se l’occidente è in piena decadenza e se vogliamo salvare la parte migliore della sua eredità e della sua storia – la democrazia – dobbiamo immaginare una sua nuova frontiera, fondata sulla verità, sulla compassione, sulla pace, sulla bellezza, cioè sulla vita. Immaginiamo un’altra Italia in un’altra Europa, dalla decadenza a un nuovo rinascimento. In concreto un grande progetto di futuro per il nostro Paese e per l’Unione Europea, un progetto il cui fondamento dev’essere il ripudio della guerra. Un progetto che non può che essere disegnato col contributo di tutte le parti sociali, a cominciare – appunto – dal mondo della cultura, dell’arte, della scienza. Non è una possibile via. È l’unica via possibile per la salvezza dell’occidente e – per inciso – per la piena denuncia e la rigorosa abrogazione del raccapricciante doppio standard attuale, cioè per tornare umani.

Intanto Gaza. Non stanchiamoci. Non smarriamoci nei silenzi omertosi o complici di tanti governi occidentali. Nonostante tutto, tante personalità e tante forze diverse denunciano l’orrore. Se i governi sono l’assenza, continuiamo a manifestare e a valorizzare la presenza. Apocalipse Now non è più un film. È Gaza. Il colonnello Kurtz è Netanyahu con i suoi complici. È il cuore di tenebra di un occidente che ha smarrito se stesso.

Se da qualche parte è rimasto qualcosa di sacro, lo troviamo sicuramente sotto le macerie di Gaza. Quelle macerie sono oggi il più grande monumento al valore della vita umana.

Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi
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In testa foto del murales realizzato da Giorgio Polo sulla facciata del rudere della Scuola Popolare di Is Mirrionis (17/9/2025). Altra foto tratta dalla rivista Patria Indipendente dell’ANPI
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- Su Democraziaoggi.
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PRENDERE IL MARE
Esodo dall’Occidente
Settembre 17, 2025
I valori traditi: la tradizione ebraico-cristiana; la gloria del diritto; l’idea d’Europa.
Raniero La Valle
Cari amici,

Slavoj Žižek: parole per riflessioni di credenti e non credenti.

Lettura consigliata, per chi avesse voglia, anche sul social, di impegnare utilmente un po’ di tempo. [Antonio Dessì su fb]

Nonostante la sua crisi ormai quasi epocale, pur disperso in tanti rivoli, il pensiero critico di origine marxista continua a esistere, libero da dogmatismi, ma con uno sguardo acuto aggiornato sul presente.
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Foto su Wikipedia
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Slavoj Žižek (https://it.wikipedia.org/wiki/Slavoj_%C5%BDi%C5%BEek) è uno dei suoi esponenti contemporanei più noti.

Studioso di marxismo, idealismo tedesco e psicoanalisi lacaniana (a proposito: vedi il mio https://www.facebook.com/share/p/1Gg3k2Gocm/?mibextid=wwXIfr), echeggiando Gramsci “pessimista di orientamento ottimista”, controverso e provocatore, ma almeno sgombero dalle ragnatele che affliggono un asfittico e polveroso deposito ancora diffuso soprattutto in Italia.
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Intervista sull’attualità politica, sulle tragedie del nostro tempo e su Dio dal punto di vista ateo. Slavoj Žižek (*).

È uno dei più influenti e controversi pensatori del nostro tempo, rimpiange l’ipocrisia di un mondo che prima, almeno, sapeva provare vergogna. «La Terra dovrebbe riscoprire la decenza» dice, senza tradire nessuna speranza, di fronte a capi di Stato che giocano a essere Dio e tollerano ogni forma di oppressione, purché non sia violata un’unica legge: non quella morale, ma quella del dominio. Il filosofo, sociologo e politologo sloveno, con lo stile provocatorio che lo contraddistingue, riflette sull’attualità a partire dai suoi due ultimi libri, entrambi pubblicati in Italia da Ponte alle Grazie: “Trump e il fascismo liberale” (2025) e “Ucraina, Palestina e altri guai” (2024). Parliamo di guerre, autoritarismo, etica, intelligenza artificiale, cristianesimo e libertà. Žižek non crede quasi a nulla, ma attende comunque un miracolo. Un miracolo che non ha nulla a che fare con Dio, semmai con l’Europa.

Cosa sta accadendo alle nostre democrazie?
«Quello che accade a livello globale è molto triste. Stiamo andando nella direzione orwelliana di un mondo diviso in tre mega-imperi: Oceania (Stati Uniti), Eurasia (Russia ed Europa) e Asia orientale (Cina). Il mondo che conosciamo, quello occidentale disegnato su un solo centro, America-Europa, aveva qualcosa di buono: certezze. Un mondo ipocrita, certo, ma ideologicamente e formalmente votato ai diritti umani. Erano diritti che venivano violati, ma ogni violazione ci esponeva alla critica. Ora, invece, entriamo in un nuovo mondo in cui ogni impero ha i propri valori, dove ciascuno rivendica il proprio dominio sugli altri. È per questo che Trump e Putin se la cavano bene: parlano la stessa lingua».

L’ipocrisia, quindi, è il minore dei mali?
«È il paradosso dell’autoritarismo liberale. Israele ammette apertamente di torturare i palestinesi imprigionati, afferma apertamente di voler ripulire Gaza. Finora lo faceva con più discrezione, adesso questa sfacciataggine è orrore. Preferisco l’ipocrisia alla mancanza di vergogna. Ipocrisia significa avere un minimo di moralità, perché ti vergogni o almeno fingi di vergognarti. La crisi di fondo, oggi, è in un certo senso spirituale e morale: la Terra dovrebbe riscoprire la decenza».

La recessione democratica è un problema, innanzitutto, morale?
«Forse sto diventando un neoconservatore, ma è così… Ci sono due tendenze nel mondo che mi preoccupano molto. La prima è che ci sono figure estremamente influenti oggi: oligarchi russi, cinesi, americani (Musk, Bezos, ecc) che non sono più capitalisti vecchio stile, ma controllano davvero un certo dominio come fossero nuovi padroni feudali. La seconda tendenza è che non esistono più gli “standard”.
La regola è: io faccio quello che voglio nel mio dominio, tu fai quello che vuoi nel tuo. Qualche tempo fa, Putin, ha riconosciuto i talebani come propri alleati sul fronte antimperialista: proprio quelli che torturano le donne, le persone, oggi sono “amici” che coesistono pacificamente con le democrazie, fintanto che applicano i propri standard nel proprio dominio. Non c’è più nessuna solidarietà globale, tutte le forme di oppressione saranno tollerate. Il risultato di tutto questo è che le democrazie liberali – così come noi le conoscevamo – si stanno esaurendo lentamente, stanno diventando irrilevanti».

Speranza ne ha?
«Sto aspettando miracoli. Non miracoli religiosi, intendo qualcosa che non pensavi potesse accadere e, invece, accade. A me piace essere pessimista. L’unico modo per provare un po’ di gioia è essere pessimisti, non aspettarsi niente».

Quindi lei è un pessimista a orientamento ottimista?
«Esattamente. Lincoln ha detto “potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”. Io invece penso si possa. È molto raro che le persone si risveglino. Tutti i miei amici mi dicono di dare a Trump un anno o due e che poi le persone si risveglieranno. E se invece non si risvegliassero? E se fossimo tutti troppo inerti? Ecco il mio pessimismo… Però, sono ancora pro-europeo. Trump continua a dirlo apertamente da più di dieci anni: il vero nemico degli USA è l’Europa. Non la Russia, non la Cina, ma l’Europa. E io all’Europa ci credo ancora. Insomma, viviamo in tempi tristi e l’unica formula che mi viene da usare – coniata dal filosofo Giorgio Agamben – è “il coraggio della disperazione”: non intendo la fine del mondo, ma disperazione nel senso che non esistono soluzioni semplici e chiare all’interno dell’attuale sistema liberaldemocratico. Questo è un pessimismo a orientamento ottimista».

Cosa manca all’Europa per assumere su di sé la responsabilità che le attribuisce, arginare il nuovo ordine mondiale: l’identità? Il riarmo?
«L’Europa è ossessionata dalla paura di affermare la propria identità. Io penso che abbia una grande scelta davanti a sé: diventare una marionetta (un luogo ottimo per il turismo, Venezia, Parigi e così via) o essere un’economia politicamente importante. Il riarmo interno è parte integrante dell’affermazione europea. Dobbiamo essere onesti, finora l’Europa è esistita silenziosamente sotto l’ombrello nucleare americano. Ora è chiaro che questo non può più funzionare e io penso che la militarizzazione dell’Unione europea sia l’unico modo per mantenere la pace in Europa. Un altro paradosso: l’unico modo per mantenere la pace in Europa è che essa sia una superpotenza, altrimenti siamo persi».

Che chance ha l’Europa?
«L’Europa è già una superpotenza, economicamente è molto forte. Il problema è che Trump e Putin lavorano lungo le stesse linee, vogliono disunire l’Europa. L’unica chance che ha è di affermarsi come un unico spazio che ancora rispetta il welfare state, i diritti umani. Non basta la militarizzazione, serve anche un’unione ideologica europea».

Perché ci sono leader mondiali che, nel recitare la parte dell’onnipotente, non mostrano interesse a comunicare un’immagine di sé saggia e misericordiosa? Veicolare questa immagine non era parte integrante della sopravvivenza dello Stato di diritto?
«Le darò una risposta molto brutale. La vera tragedia è che loro sono convinti che la propria visione prevarrà. I leader di cui parla pensano: “e se a lungo termine non apparissimo più come i cattivi, ma come persone che hanno chiesto alle illusioni della modernità europea di ripristinare lo stato naturale delle cose?”».

Penso al terribile video in cui Trump e Netanyahu sorseggiano un drink in un resort di lusso nato dalle macerie di Gaza. Tutti sanno che è un falso, eppure crea un immaginario che scava nei limiti morali. L’intelligenza artificiale avrà un effetto sul fondamento morale della democrazia?
«Ha detto qualcosa su cui sono pienamente d’accordo. Quel video non è solo una fantasia, una visione immaginaria, perché anche se è stato esplicitamente presentato come tale, ha effetti reali, materiali. La fantasia accede al reale che sta dietro. Penso alla tendenza dei cosiddetti tecnocrati trumpiani che hanno una visione, il “Network State”: il loro futuro ideale è di svuotare completamente un territorio, una parte dello Stato (ora Gaza), distruggere tutto e costruire lì un mondo puramente computerizzato e tecnocratico. Una società tua, dal punto zero. È parte di una rivoluzione tecnocratica che vuole un territorio libero, nel senso di “non radicato in un nessun ordine legale internazionale” che possa essere totalmente subordinato a una élite tecnocratica. Immagino un mondo diviso tra una maggioranza, dove la vita sarà miserabile e caotica, e queste isole di vita totalmente regolamentata. Un’altra visione pessimista…».

Il mondo che dipinge è un mondo amorale, tra innocenti che soccombono e potenti che perseverano. È una domanda che lei si pone nei suoi libri: Dio è malvagio?
«Mi piace provocare. Sono ateo e contrario a ogni dualismo: il bene e il male, Dio e il diavolo. Il cristianesimo, per me, è la religione della morte di Dio. Conosce la metafora del male, no? Se guarda un quadro molto da vicino, non riesce a vedere l’immagine completa. Quando si allontana, la vede e quel che le appariva come il male è in realtà solo un dettaglio che contribuisce alla bellezza globale. Io credo che dopo il ventesimo secolo – i gulag, l’Olocausto, milioni di persone morte nei Paesi colonizzati – questa visione parziale non possiamo più permettercela».

Allora Dio è morto?
«Cristo non muore in qualità di messaggero di Dio, è proprio Dio a morire e a ritornare come Spirito santo. Cos’è lo Spirito santo? È la comunità dei credenti. Quando gli apostoli chiedono a Dio “Come faremo a sapere che sarai tornato?” lui risponde “ovunque ci sarà amore tra di voi, ci sarò io”. Non bisogna credere nell’idea personalizzata del ritorno di Dio, ma al fatto che Dio sarà dove troverà persone libere, unite e auto-responsabili. È il messaggio più profondo del cristianesimo: non esiste una forza superiore che garantisca la felicità. Dio ci ha dato la “libertà” che significa, precisamente, che non esiste nessuna garanzia superiore. Ci sarà una nuova tecnocrazia gestita dall’intelligenza artificiale? Una catastrofe ecologica? Una guerra globale? Il futuro è aperto e dipende da noi. Il cristianesimo ci invita ad accettare l’orrore della nostra libertà».

Mi perdoni se torno a Dio, è il soggetto preferito da noi atei. A cosa serve passare attraverso la sua morte?
«Perché io credo che l’esperienza della morte di Dio sia la chiave: significa che ogni forma di quello che Lacan chiama “il grande Altro”, l’ordine superiore simbolico globale che domina il nostro universo, crolla. È quella che i mistici chiamano “la notte del mondo”, quando il tuo intero universo simbolico collassa: è un’esperienza cruciale che avviene solo grazie alla distruzione della religione. Spontaneamente siamo tutti religiosi, tutti crediamo in qualche ordine superiore. Dovremmo abbandonare l’idea: non c’è nessuna garanzia di progresso».
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Fonti. Ringraziamo [aladinpensiero].
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(*) L’intervista a Slavoj Zizek da parte di Marco Ventura su “La Lettura” è effettivamente stata pubblicata il 23 febbraio 2025 alle pp. 46-47, e il titolo dell’articolo era “Anche Dio è stato un po’ ateo”.
Edizione: “La Lettura” del 23 febbraio 2025. Pagine: 46-47.
Autore dell’articolo: Marco Ventura.
Intervistato: Slavoj Zizek, filosofo sloveno.
Titolo dell’intervista: “Anche Dio è stato un po’ ateo”.
Contenuto: L’intervista approfondisce la sua prospettiva sulla crisi del mondo contemporaneo, toccando temi come la fisica quantistica, l’intelligenza artificiale e una sua personale e provocatoria lettura del cristianesimo.
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Definire l’ateismo: Slavoj Žižek in anteprima,
Perché il vero ateismo deve essere indiretto. Lo spiega il filosofo sloveno Slavoj Žižek nell’introduzione al suo nuovo libro, Ateismo cristiano. Come diventare veri materialisti, in libreria da venerdì 28 febbraio per Ponte alle Grazie (traduzione di Vincenzo Ostuni, pp. 400, euro 24). Da 25 anni Žižek riflette in termini materialistici sul cristianesimo. Nel Tema del Giorno dell’App de «la Lettura» di mercoledì 26 febbraio, si possono leggere le prime pagine in anteprima. Mentre nel supplemento #691, in edicola e App, Žižek è intervistato da Marco Ventura
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Integrazioni e Approfondimenti
Su Avvenire. Dibattiti. Cosa cercano gli “atei cristiani”? Žižek contro la servitù digitale
Roberto Righetto martedì 15 luglio 2025
Nel suo ultimo saggio il filosofo si serve di san Paolo per la critica al capitale. Ma convince di più quella alla dipendenza dalla tecnologia e dalle sue “nuvole” divinizzate
https://www.avvenire.it/agora/pagine/l-ateismo-cristiano-di-i-ek-tira-giu-dio-dalle-te
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DE SENECTUTE
Anche Dio è stato un po’ ateo
18 Maggio 2025
Anche Dio è stato un po’ ateo.
Slavoj Zizek riflette in termini materialistici sul cristianesimo
Su https://www.gennarocucciniello.it/gc/anche-dio-e-stato-un-po-ateo/
Ne “La Lettura” del 23 febbraio 2025, alle pp. 46-47, Marco Ventura intervista il filosofo sloveno Slavoj Zizek.
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Sbilanciamoci. “Riarmo o lavoro?”

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[Sbilanciamoci] Anticipiamo qui la relazione della sessione “Riarmo o lavoro?” del XV Forum nazionale dell’Altra Cernobbio che si svolgerà il 5 e 6 settembre 2025, promosso da Sbilanciamoci e Rete Pace e Disarmo, in contemporanea al Forum Ambrosetti.
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Nei primi venticinque anni del XXI secolo si è consolidato un paradosso: mentre la finanza privata ha accumulato profitti record, il mercato del lavoro si è precarizzato e i salari reali hanno subìto una stagnazione. Oggi, con la corsa al riarmo europea, questo modello raggiunge l’apice. La spesa militare viene presentata come soluzione occupazionale, ma i dati mostrano il contrario: ogni euro investito in armamenti genera meno posti di lavoro rispetto agli stessi investimenti in sanità, istruzione o ambiente. Finanza, lavoro e militarizzazione si intrecciano in un circolo vizioso che penalizza l’occupazione di qualità.

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1. La finanza negli ultimi 25 anni
Il settore finanziario è stato finora il principale terreno di cambiamento, quello in cui in modo esplicito, con una tendenza avviata sul finire del secolo precedente (dagli anni ‘80 in poi), si sono affermate le idee che hanno giustificato lo smantellamento della presenza pubblica nell’economia e la privatizzazione nella gestione dei mercati di beni e servizi, praticamente in ogni campo. Per togliere spazio alla finanza pubblica serve legittimare il dominio di quella privata, e così è accaduto, nella narrazione e nella pratica:

2000–2007: grande espansione sostenuta dei mercati finanziari, crescita senza precedenti del credito e della capitalizzazione di borsa, strumenti finanziari derivati e high frequency trading si affermano come i nuovi ambiti di speculazione;
2008–2010: la grande crisi finanziaria innescata dallo scoppio della “bolla” dei mutui subprime porta a una recessione globale, con perdita massiccia di posti di lavoro (oltre 30 milioni secondo l’ILO) e introduzione di nuove regole prudenziali (Basilea III, Dodd-Frank);
2010–2015: l’era dei tassi zero e del quantitative easing stimola liquidità abbondante, buyback azionari e crescita della finanza alternativa che, con ingenti capitali, sempre più concentrati in pochi operatori, va alla ricerca di nuovi rendimenti, attraverso fondi di investimento (debt, venture, ETF), finanza peer-to-peer (crowdfunding), nuove relazioni pubblico-privato (impact investing), criptovalute;
2015–2020: inizia l’era dell’ESG e dell’impact finance, con il tentativo dei policy maker – soprattutto europei – di orientare la finanza privata verso obiettivi pubblici, forzando le ridefinizione delle funzioni di rischio e l’introduzione dei criteri ambientali (E), sociali (S) e di governance (G); parziale spostamento di parte dei capitali verso energie rinnovabili, salute, innovazione sociale, con nuove “bolle” di mercato e il significativo inquinamento di valori e prassi della cosiddetta finanza sostenibile;
anni 2020: inflazione post-Covid e rialzo dei tassi (2022–2023), nuova ondata di deregolamentazione tra super-profitti e competizione Usa-Cina.
Si arriva così ritorno del rischio geopolitico (guerre e sicurezza energetica), con la conseguente crescita dei settori “difesa” e “semiconduttori” come beni rifugio industriali. Oggi la finanza è tornata a intrecciarsi fortemente con la sicurezza nazionale.

Questa evoluzione del settore finanziario ha avuto ripercussioni dirette sul mondo del lavoro, creando dinamiche che si rinforzano reciprocamente.

2. Il mercato del lavoro globale
L’ILO stima che, a livello mondiale, la disoccupazione sia calata dopo la crisi del 2008 solo per risalire con la pandemia (2020). Le disuguaglianze salariali restano marcate, con i salari reali che in molte economie avanzate non hanno recuperato i livelli pre-crisi 2008.

Nel frattempo, la polarizzazione delle competenze cresce: da un lato domanda di lavoro qualificato legato alla transizione digitale e alle filiere della difesa, dall’altro precarizzazione e compressione salariale in settori tradizionali.

Anche qui si possono delineare delle macro fasi:

2000-2007: continua il processo di precarizzazione e flessibilità iniziato sul finire del XX secolo, con riforme del lavoro che in molti paesi hanno favorito contratti atipici e interinali. Il sovraindebitamento delle persone e delle imprese, indotto dalla crescita senza precedenti del credito facile, favorisce questo cambiamento strutturale, accompagnando l’illusione di mantenimento di un potere di acquisto che si va in realtà riducendo. Questo fenomeno ha generato, in particolare, una crescita del lavoro a basso costo nei servizi;
2008-2010: la “Grande crisi finanziaria” genera recessione globale e la perdita di milioni di posti di lavoro nei paesi avanzati; aumento della disoccupazione giovanile in Europa; polarizzazione del mercato del lavoro (alta specializzazione vs. mansioni a basso valore aggiunto);
2010–2019: la ripresa del Pil e (parzialmente) dell’occupazione passa per i nuovi settori tecnologici e per l’intelligenza artificiale, con la crescita di piattaforme digitali (gig economy, rider, freelance online), ampliamento del lavoro remoto, riduzione di alcune mansioni intermedie;
anni 2020: lo shock globale della pandemia da Covid-19 prima impoverisce ulteriormente tutto il mondo precario e micro-imprenditoriale che si era formato negli anni precedenti, poi trasforma l’organizzazione e la stessa percezione del lavoro tanto nelle aziende, anche grandi, quanto nelle nuove generazioni (smart working, welfare aziendale, sicurezza sul lavoro). Con il ritorno della manifattura strategica (reshoring, investimenti in filiere critiche come energia, difesa, tecnologie digitali), il lavoro tecnico-specializzato torna centrale, insieme al riemergere della questione salariale, legata all’inflazione, e a nuove rivendicazioni sindacali.
Intrecciando i due punti di osservazione, quello del settore finanziario e quello del mercato del lavoro, appaiono evidenti le interconnessioni, le permanenti tensioni e l’intimo trade-off tra lo sviluppo dell’uno e la sottomissione dell’altro:
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Riemerge, insomma, il mai sopito conflitto tra capitale e lavoro, che la politica ha smesso di discutere o considera superato, per connivenza con il potere finanziario privato o per conformismo al pensiero unico mercatista, che continua a raccontare l’illusione di mercati capaci di autoregolarsi.

3. L’Europa e l’Italia
Sul versante lavoro, per il nostro continente, Eurostat certifica tendenze ormai comuni a tutte le economie:

- un calo della disoccupazione complessiva (dal 10% del 2013 al 6% del 2023), comunque con forti divari generazionali e geografici, frutto anche delle continue e forti ridefinizioni dei sistemi di calcolo statistico, che tendono a sovrastimare la quota di occupazione espressa in “teste”, a prescindere dalle effettive misurazioni di altre unità di lavoro (ore o giornate/anno);
- stagnazione dei salari reali in diversi Stati membri;
- crescente polarizzazione tra occupazioni altamente qualificate e lavori a bassa protezione contrattuale.
Rispetto a queste tendenze, l’Italia è stata forse il principale laboratorio europeo, dove abbiamo sperimentato decenni di compressione salariale (le remunerazioni si sono schiacciate verso il basso), precarizzazione nelle forme e nella cultura del lavoro (effetto di Pacchetto Treu, Legge Biagi, Jobs Act), deindustrializzazione e terziarizzazione, con il manifatturiero che ha perso occupazione a favore di servizi a minor valore aggiunto.
Uno studio particolarmente efficace nel descrivere le trasformazioni avvenute è quello di Cetrulo et al. (2022). Alcuni dati flash:

- chi entrava nel mondo del lavoro nel 1983 aveva il 95% di probabilità che quello restasse il suo unico impiego. Tale percentuale nel 2018 era scesa al 70%;
- il numero medio di settimane di lavoro nel 1983 era pari a circa 40 l’anno, che sono scese progressivamente, fino ad arrivare a 30 (nel 2018);
- a partire dal 1993, il valore medio delle retribuzioni reali annuali scende (da 20mila a 16mila euro), mentre resta stabile, seppur oscillante, quello delle paghe settimanali: ciò riflette la crescente precarizzazione e la frammentazione del lavoro in Italia: contratti brevi, periodi di inattività e occupazione stagionale riducono il reddito totale, accentuando disuguaglianze e insicurezza economica;
- in una tendenza generalizzata di riduzione dei salari, l’area che registra il maggior peggioramento è il Meridione (da 17mila euro a poco più di 12mila), pur partendo già da redditi dell’11-22% inferiori alle altre aree;
- la quota di occupazione femminile aumenta (dal 33 al 43 per cento degli occupati, tra 1983 e 2018), ma non si muove il divario salariale tra uomini e donne, stabile al 30% a sfavore delle donne, con salari medi annui in riduzione per entrambi i gruppi di genere;
- per gli under 30 il salario reale medio è sceso del 30% tra 1993 e 2018, continuando a peggiorare anno dopo anno.
In sintesi, tra il 1983 e il 2018, la disuguaglianza salariale in Italia è stata trainata soprattutto da fattori intra-gruppo: genere, età, area geografica.
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Dal punto di vista del settore finanziario le tendenze sono state meno omogenee a livello di singoli Stati membri, ma comunque marcate. Per effetto di Unione bancaria e nuove regole prudenziali si è osservato:

– un generale processo di concentrazione degli operatori bancari (media del 25% a livello europeo, 68% in Germania, 48% in Spagna, 80% in Italia);

– uno strutturale deficit dell’offerta di credito all’economia reale, che per l’Area Euro non ha mai più raggiunto i valori precedenti la crisi finanziaria del 2008, e si è mantenuta sempre al di sotto del fabbisogno espresso dai settori produttivi, a differenze di altre aree del mondo che, seppur in fase di generale contrazione, registrano più fisiologiche oscillazioni.

L’Italia, all’interno dell’Europa, è il paese che maggiormente ha subito gli effetti di questo processo di riassetto. Secondo i dati della Banca d’Italia, dal 2012 al 2024 all’economia reale sono venuti a mancare 240 miliardi di euro, con decrementi maggiori per le imprese (-266), le famiglie produttrici (-31) e il non profit (-3,5).

Nel 2024 il credito complessivo si è ridotto di 36 miliardi di euro (-2%), colpendo soprattutto le istituzioni senza scopo di lucro (-6%), le microimprese (-5%) e le altre imprese (>2%).

Numeri che segnalano un restringimento strutturale dell’accesso al credito, particolarmente penalizzante per piccole imprese e terzo settore, con ripercussioni dirette su occupazione, innovazione e coesione sociale.
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In questo quadro chiaramente favorevole a chi detiene i capitali, nulla ha spostato il tentativo di sviluppare una finanza “ad impatto sociale”. Fu proprio sulla scia della grande crisi finanziaria (2008) che nel 2013 nacque la Social Impact Investment Task Force del G8 per sviluppare investimenti ad impatto sociale. L’idea era orientare i capitali privati verso obiettivi pubblici senza sacrificare i profitti (Messina, 2014).

Oggi, tuttavia, occorre riconoscere che quella visione si è scontrata con forze ben maggiori, che una piccola “bolla” di finanza ad impatto è potuta emergere solo grazie all’abbondante liquidità degli anni passati, ma che nulla, nel profondo, è cambiato per manager e azionisti della finanza. Unico risultato ottenuto, piuttosto, è stato quello di generare ulteriori spinte alla privatizzazione di servizi e infrastrutture pubbliche: agricoltura, acqua, abitazioni, istruzione, sanità, energia e microfinanza. Non deve dunque sorprendere che nei paesi a più robusta democrazia i numeri dell’impact finance siano ancora poco significativi. Per l’Italia si parla (sovrastimando) di investimenti complessivi per 9 miliardi di euro, una goccia rispetto alle dimensioni della nostra economia. Poco c’entra l’innovazione (di processo o prodotto). E così, nessun particolare contributo all’occupazione. No, non passa dall’impact investing la ricucitura tra finanza e lavoro.

4. Il riarmo, sirena per i capitali
È proprio in questo scenario di crisi occupazionale che il riarmo europeo viene presentato come opportunità, ma si tratta di un’illusione che i dati smontano completamente.

Il crescente investimento europeo nella difesa, spinto dalla guerra in Ucraina e dalle pressioni geopolitiche, sta trasformando il settore bellico in un polo d’attrazione per i capitali privati. Nel 2023, la spesa dei governi UE per la difesa ha raggiunto i 279 miliardi di euro, pari al 1,6% del PIL, con un incremento del 10% rispetto all’anno precedente. Questo trend è destinato a proseguire, con previsioni di crescita fino al 1,8% del PIL europeo entro il 2026 (European Defense Agency).

In fase di tassi di interesse calanti, anche i capitali privati – sempre alla ricerca di nuovi spazi di profitto – vedono significative opportunità nella war-economy e sono pertanto attratti ad investire nel settore: un’analisi del Centre Delàs ha evidenziato che tra il 2022 e il 2024, le banche hanno canalizzato 279,33 miliardi di dollari verso l’industria bellica.

Come noto, all’atto strategico adottato dall’Unione europea denominato European Defence Industrial Strategy (EDIS), che prevede investimenti significativi nel settore della difesa, è stato associato “l’invito” alla Banca Europea per gli Investimenti (BEI) a rivedere la sua politica di prestito per includere finanziamenti alla difesa. Insomma: spesa dei governi, grandi banche di investimento pubbliche e finanza privata si alleano per promuovere nuovi investimenti bellici.

Tuttavia, è dimostrato che l’allocazione di queste risorse sarà del tutto inefficace nel generare occupazione stabile e di qualità. La maggior parte della spesa, infatti, è destinata a consumi correnti, come stipendi e acquisti di armamenti, e non ad investimenti in ricerca e sviluppo o in infrastrutture a lungo termine. Va considerato, inoltre, che l’industria della difesa europea è caratterizzata da una forte dipendenza dalle importazioni, con oltre il 70% delle forniture provenienti da fornitori non europei.
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Per questi motivi, l’aumento della spesa per la difesa, così come gli investimenti privati canalizzati sul settore, non generano gli stessi benefici occupazionali di investimenti in altri ambiti dell’economia.

In termini generali, lo studio di d’Agostino et al. (2017) mostra che l’aumento della spesa militare ha un impatto negativo costante sulla crescita economica di un paese. Ciò vale anche quando si analizzano periodi di tempo e paesi diversi con PIL variabili, nonché quando si confronta la spesa militare con altre forme di spesa pubblica. I risultati di questo lavoro mostrano che, in un periodo di 20 anni, un aumento dell’1% della spesa militare riduce la crescita economica del 9%. L’impatto economico negativo è particolarmente evidente, e più pronunciato, per la maggior parte dei paesi OCSE.

Più recentemente, e guardando al contesto europeo, l’analisi di Cepparulo e Pasimeni (2024) evidenzia come per l’Unione Europea sia ancora più accentuato questo rischio, considerata la frammentazione e la struttura multi-paese, poco coordinata, di spesa e scelte strategiche.
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Lo studio di Stamegna et al. (2024) ha, infine, confrontato gli effetti economici della spesa per la difesa con quelli di investimenti in educazione, sanità e ambiente, mostrando che quest’ultimi producono un impatto occupazionale più significativo. In particolare, confrontando i dati della spesa militare di Germania, Italia e Spagna, l’ammontare cumulativo investito nel decennio 2013-2023 risulta essere considerevole: rispettivamente 22,5, 16,3 e 10,6 miliardi di euro. Questa spesa cumulativa per armamenti ha generato un numero di posti di lavoro annui (intesi come posizioni lavorative della durata di un anno nel corso del decennio) pari a 86.300 in Germania, 47.600 in Italia e 63.300 in Spagna.

La tabella seguente mostra cosa sarebbe accaduto se le stesse somme fossero state investite in protezione ambientale: il numero di posti di lavoro annui sarebbe stato di 139.300 in Germania, 147.100 in Italia e 107.500 in Spagna. L’effetto positivo sull’occupazione sarebbe stato ancora più significativo se la stessa spesa fosse stata destinata alle attività sanitarie o all’istruzione, con un numero potenziale di posti di lavoro annui generati dagli stessi investimenti da 139.000 in Spagna a 293.000 in Germania.
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Perché gli investimenti militari generano meno occupazione? Le ragioni sono strutturali. L’industria bellica è altamente capital-intensive: richiede tecnologie sofisticate ma relativamente pochi addetti per unità di capitale investito. Inoltre, il 70% delle forniture militari europee proviene dall’estero, disperdendo l’effetto moltiplicatore sull’economia domestica.

Al contrario, sanità, istruzione e ambiente sono settori labor-intensive che creano occupazione diretta (medici, insegnanti, tecnici ambientali) e indiretta (manutenzione, fornitura di materiali, servizi di supporto). Questi investimenti inoltre restano prevalentemente sul territorio, attivando filiere produttive locali e generando un effetto moltiplicatore più ampio.

Un caso emblematico è quello della tedesca Rheinmetall, il cui valore di borsa è cresciuto del 300% dal 2022 al 2024. Nonostante i profitti record, l’azienda ha aumentato i dipendenti solo del 15%, confermando come i capitali bellici premino gli azionisti più dell’occupazione. Parallelamente, la Germania ha tagliato 2 miliardi di euro dal budget per le energie rinnovabili, settore che secondo le stime IRENA genera 42 posti di lavoro per milione di euro investito, contro i 14 del settore militare.

Si obietterà che la spesa militare stimola l’innovazione tecnologica con ricadute civili (il cosiddetto spin-off). Tuttavia, questo argomento è sempre meno convincente: le tecnologie digitali, energetiche e biotecnologiche avanzano più rapidamente nell’ambito civile che in quello militare. Il GPS e internet, spesso citati come successi dello spin-off militare, appartengono a un’epoca passata. Oggi sono i laboratori delle Big Tech, delle università e delle startup a guidare l’innovazione.

La corsa al riarmo non rappresenta solo una follia politica che aumenta i rischi geopolitici, ma anche un errore economico che sacrifica l’occupazione di qualità sull’altare dei profitti finanziari. Si rivela, inoltre, l’ennesimo regalo alla finanza dei rentier e alla sete spasmodica di profitto da parte dei capitali privati, distogliendo risorse preziose da quegli ambiti che, invece sì, avrebbero il potenziale per affrontare le cause strutturali della disoccupazione e della precarizzazione del lavoro. L’alternativa, infatti, esiste: riorientare gli investimenti verso la transizione ecologica, il rafforzamento dei servizi pubblici e l’innovazione civile. Questa scelta non solo genererebbe più posti di lavoro, ma costruirebbe un’economia più resiliente e una società più equa. La sfida è prettamente politica: sottrarre le decisioni di investimento alla logica speculativa per restituirle alla programmazione democratica.

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Bibliografia
AP News (2023), November 17. Teachers, doctors, trash collectors strike across Italy to protest economic policies. Associated Press.

Banca d’Italia (2024). Bollettino Statistico – Moneta e banche. Roma: Banca d’Italia.

Cepparulo, A., Pasimeni, P. (2024), Defence Spending in the European Union, DISCUSSION PAPER 199 | APRIL 2024, European Commission, Directorate-General for Economic and Financial Affairs.

Cetrulo, A., Sbardella, A., Virgillito, M. E. (2022). Vanishing social classes? Facts and figures of the Italian labour market. Journal of Evolutionary Economics.

Centre Delàs (2024). Bank Trading in Global Militarism. Centre Delàs d’Estudis per la Pau.

D’Agostino, G., Dunne, J. P., Pieroni, L. (2017). Does military spending matter for long-run growth? Defence and Peace Economics, 1-8.

Eurofound (2024). Labour disputes across Europe in 2023: The ongoing struggle for higher wages and cost-of-living adjustments. Publications Office of the European Union

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Eurostat (2023). Employment and unemployment (Labour Force Survey). European Commission.

International Labour Organization (ILO) (2024). World Employment and Social Outlook: Trends 2024. Geneva: ILO.

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Messina, A. (2014). “Finanza d’impatto”, inchiesta in 4 puntate, Sbilanciamoci.info.

Messina, A. (2022). L’accesso al credito e l’esclusione finanziaria, Sbilanciamoci.info.

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Stamegna, M., Bonaiuti, C., Maranzano, P., Pianta, M. (2024). The economic impact of arms spending in Germany, Italy, and Spain. MPRA Paper No. 120608.

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