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Intellettuali alla ricerca di senso

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Regressione: intellettuali a confronto
di Marco Gallizioli, su Rocca

Che il mondo stia attraversando uno snodo culturale estremamente complesso non è certo uno scoop, ma una semplice constatazione che non necessita di grandi analisti internazionali per essere autenticata. Molto più complesso, invece, è poter analizzare e decodificare i caratteri di questa straordinaria transizione per cercare di comprendere meglio i possibili sviluppi futuri delle nostre società.

una lettura imprescindibile
regressione-intCon questo intento, il filosofo ed economista tedesco Heinrich Geiselberger ha chiamato a raccolta alcune delle voci intellettualmente più autorevoli del nostro tempo, da Bauman ad Appadurai, da Latour a Zizek, da Fraser a della Porta, per tentare di districare la matassa intricata della nostra contemporaneità. Da questo sforzo è nato un bellissimo saggio a più mani, pubblicato in tutto il mondo nel 2017, la cui lettura è imprescindibile per chi voglia orientarsi in questo nebbioso e tumultuoso presente che ci è capitato da vivere. Il titolo del lavoro è programmatico e, apparentemente, pessimista: La grande regressione: quindici intellettuali di tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo (1).
Innanzitutto, occorre definire cosa si intenda con «regressione», definendone i caratteri. Ciò è fondamentale se non si vuole confondere questa bellissima raccolta di saggi con una geremiade fine a se stessa. Inquadrare in termini culturale il senso dell’attuale «regressione» è, paradossalmente, l’unico modo per avanzare verso nuovi sviluppi del pensiero. In termini generali, per Geiselberger, con «regressione» si deve intendere un abbassamento del livello di civilizzazione (2), una compromissione di ciò che nel passato recente e in occidente si era dato per acquisito in termini di diritti e benessere. In primo luogo, infatti, si deve sottolineare che il nostro universo culturale ha perso fiducia nel concetto di progresso. Anche se ciò pare un paradosso in società sospinte dall’ipertecnologia verso il perpetuo e ansiogeno cambiamento, in realtà, a ben vedere, la mancanza di fiducia nel futuro sembra essere una strisciante e implicita condizione del nostro humus culturale. In uno dei suoi ultimi lucidissimi contributi, posto in apertura dell’opera, Zygmunt Bauman sostiene che «mentre le generazioni precedenti vedevano nel futuro il luogo più sicuro e promettente verso cui rivolgere le proprie speranze, noi tendiamo a proiettare su di esso soprattutto le nostre paure e le nostre angosce» (3). Siamo diventati timorosi, quando non proprio pessimisti e spaventati. Le nostre apprensioni si declinano in un profondo senso di incertezza connesso alla precarizzazione del lavoro, o causato dalla diminuzione del tenore di vita e delle tutele sociali, dal senso di provvisorietà sottolineato dall’estrema fragilità delle relazioni interpersonali e da un sempre più pervasivo panico da immigrazione. Insomma, per dirla col sociologo polacco, si ha l’impressione di non riuscire più a controllare in modo pacato e razionale le proprie esistenze.

sovranità economica compromessa
A livello più ampio questo senso di regresso sociale, si connette con l’inconsistenza delle leadership politiche mondiali, sempre più balbuzienti in termini di proposte e di prospettive, e sempre più pericolosamente populiste e autoritarie. In altre parole, la politica avverte l’erosione della sovranità economica di ciascuno stato e cerca di sostituire questa avvenuta erosione dell’indipendenza produttiva e finanziaria con una neo-sovranità culturale di stampo più o meno larvatamente nazionalistica. Ma cosa si intende per sovranità economica compromessa? Risponde a questo interrogativo un’altra voce autorevole dell’antropologia culturale contemporanea, Arjun Appadurai, quando sottolinea che nessuno stato, oggi, si mostra di fatto autosufficiente, anzi, al contrario ogni economia è tenuta sotto scacco di un’altra in una sorta di inestricabile interrelazione. Così, il motore economico americano dipende dalla Cina, che, a sua volta, è legata alle materie prime africane o asiatiche e ai paesi produttori di petrolio che, a loro volta, sono connessi al funzionamento del mercato occidentale e globale. Per questo «la sovranità economica, come base della sovranità nazionale (…) oggi diventa sempre più irrilevante» (4) e la politica, per acquisire combustibile ideologico, devia la propria attenzione sul tema culturale, rispolverando e riattualizzando una forma di pensiero nazionalistico. Vladimir Putin, in Russia, cerca di fondare il suo successo politico usando una retorica antieuropeista che ponga in rilievo i valori russi tradizionali, e, fatte le debite proporzioni, in maniera analoga si comportano in Turchia, Erdogan, in India, Narendra Modi e, negli Usa, Donald Trump. Questi leader, usando linguaggi specifici, cercano di mascherare l’affanno economico con una revanche di tipo nazionalistico, condita di retorica destrorsa, capace di mescolare tra loro populismo, virilismo misogino, xenofobia, neoliberismo e una certa insana dose di megalomania.
Lo scivolamento verso destra del pensiero politico globale, dunque, costituisce un altro aspetto della regressione, non tanto perché sia antitetico rispetto ad una concezione progressista, intesa come bene assoluto, ma, più semplicemente, perché la risposta culturale che queste forme di leadership politiche offrono è debole e incentrata solo sul creare e ricreare un senso diffuso di risentimento. Un ulteriore aspetto di quello che U. Beck chiamava «il dramma cosmopolitico» (5) sta proprio nel fatto che, da un lato, il mondo vive una realtà sempre più interconnessa e interdipendente e, dall’altro, non produce alcun pensiero realmente cosmopolita, anzi, si sforza di alimentare una cultura della paura, del timore e del sospetto. Il «panico da immigrazione» (6), come lo definisce Bauman, si rinforza via via sempre più, per la ragione che non esiste alcuna rete di riflessione internazionale capace di «pensare» il fenomeno globale. Più specificatamente, poi, il sociologo definisce tale panico ancora più angosciante, perché in realtà non coincide con un reale timore verso l’immigrato, ma con un panico rivolto alla condizione esposta e debole del migrante. Se l’immigrato è colui che viene da un posto e cerca di inserirsi in un altro luogo, attribuendo un senso al suo vagare, il «migrante», invece, è parte di un flusso umano che fugge verso qualcosa di indefinito e, per questa ragione, il suo vagare è drammaticamente inarrestabile.

creare una logica globale del «noi»
Se, dunque, il fenomeno della diaspora migrante è, per sua stessa natura inarrestabile e, in sé, in grado di generare paura e senso del rischio, giocoforza la questione dell’assimilazione non può più essere rinviata, né culturalmente demonizzata, come, invece, sembrano voler fare i leader mondiali più apertamente populisti. Al contrario, è sempre più imperativo creare una logica globale del «noi» che lentamente si imponga sulla mentalità contrastiva del «loro», secondo la quale lo straniero è l’estraneo che minaccia la mia visione culturale. Questa logica del «noi» o, per dirla con Francesco Remotti (7), del «noialtri», rispetto a quella del «voi» o del «voialtri», non è più rimandabile, né può essere coperta con la benzina ideologica rappresentata da una concezione xenofoba semplificatoria. Ovviamente, la logica del «noi» comporta molti problemi e infinite questioni, chiamando in causa le differenze culturali, filosofiche e religiose, alcune delle quali paiono sulla carta inconciliabili e davanti alla cui complessità nessuno si deve illudere di trovare facili soluzioni, ma la rinuncia apriori di tentare mediazioni per la creazione di una visione davvero cosmopolita e, insieme rispettosa delle diversità, non è una alternativa. Occorre anche pensare, con l’antropologo norvegese Frederick Barth (8), se e quanto la sottolineatura delle differenze culturali preesista o sia successiva alla creazione delle frontiere, ossia se in qualche modo non siamo culturalmente portati ad evidenziare il differente dell’altro per salvaguardare il proprio isolamento piuttosto che individuarne le analogie. Senza diventare drastici, cancellando evidenti inconciliabilità tra le culture, appare altresì evidente che è la violazione della frontiera che attiva un discorso della differenza e del disprezzo per la diversità. In altre parole, ci sentiamo più diversi dagli altri, quando ce ne sentiamo minacciati.
La logica del «noi», ossia lo sforzo di pensare davvero una politica globale e globalizzata in cui le questioni di tutte le comunità umane possano essere affrontate in maniera integrata, se forse appare ad alcuni un’utopia, rappresenta una via molto più concreta e pragmatica delle pseudo risposte finora elaborate dalla politica. La nostalgia di un mondo pre-globale, oppure l’adesione a movimenti identitari che si alimentino di xenofobia e islamofobia, la retorica di demagoghi identitari, secondo Geiselberger (9), sono modalità per non arginare e, addirittura, per acuire l’aspetto regressivo della cultura. Secondo Appadurai, poi, non solo non si è generata alcuna valida riflessione capace di generare una nuova logica inclusiva mondiale, ma si è sviluppato anche uno strisciante pensiero antidemocratico sempre più diffuso proprio all’interno delle grandi democrazie occidentali. Quasi tutte le consultazioni elettorali dei grandi paesi liberi del mondo portano in superficie, attraverso lo strumento democratico del voto, una sorta di insofferenza verso il sistema democratico in quanto tale, premiando generosamente chi si fa portabandiera di un programma anti-inclusivo.

una nota di speranza
Una prima parziale via d’uscita a questa condizione regressiva viene indicata proprio dall’anziano Bauman che, a un passo dalla morte, ha mantenuto lucidi i risvolti pessimistici della crisi e, insieme, ha saputo elaborare anche una nota di speranza. Il sociologo polacco trova nell’invito alla cultura del dialogo, formulato da papa Francesco, forse l’unico vero appiglio per uscire da una impasse negativa e angosciante del pensiero. Nella visione del papa, la cultura del dialogo implica «(…) un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerare e apprezzare» (10). Per il pontefice, la pace si realizza, paradossalmente, solo armandosi con le armi del dialogo, dell’incontro e della negoziazione, ossia armi che producano vita e non morte. La cultura del dialogo dovrebbe diventare, così, una prassi educativa, capace di formare le nuove generazioni a modalità inedite per la gestione dei con- flitti. A conclusione della sua riflessione, Bauman, convinto dalle parole di papa Francesco, sostiene che solo educandosi a una cultura del dialogo si può sperare di trovare una soluzione ai problemi del nostro tempo, sapendo che tale soluzione non sarà affatto dietro l’angolo, ma anzi pretenderà «una riflessione e una pianificazione sul lungo periodo, due arti purtroppo dimenticate e raramente messe in pratica in questi tempi affrettati vissuti sotto la tirannia del momento» (11). Solo ponendosi alla ricerca di soluzioni sovrannazionali e cosmopolite si potrà uscire dallo stallo regressivo attuale, sapendo che l’unica soluzione auspicabile è quella di individuare menti lucide che desiderino veramente cominciare a pensare un mondo nuovo. Quella che, forse, può sembrare una risposta inconcludente o fumosa, in realtà si dimostra essere l’unica vera possibile soluzione: per abitare il nostro tempo dobbiamo compiere lo sforzo lento di elaborare nuove strategie che comportino un approccio integrato dei problemi e questo pensiero costa in termini di fatica e di messa in gioco di sé. Forse, dunque, la vera regressione sta nel contemplare che, in realtà, questa messa in discussione di sé non è un’opzione valida per i più. Così come, forse, non credere in questa lettura pessimistica è l’unico modo per invertire la regressione culturale stessa.
Marco Gallizioli
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Note
(1) H. Geiselberger (a cura di), La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2017.
(2) H. Geiselberger, Introduzione, in cit. p. 11. (3) Z. Bauman, Sintomi alla ricerca di un oggetto e di un nome,incit.p.32.
(4) A. Appadurai, L’insofferenza verso la democrazia, in cit. p. 18.
(5) Cfr. U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma 2005.
(6) Cfr. Z. Bauman, op. cit., p. 33.
(7) Cfr., F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 24-50.
(8) Cfr. F. Barth, Ethnic Groups and Boundaries. The Social Organization of Culture Difference, Waveland Press, Long Grove – Illinois 1998.
(9) H. Geiselberger, op. cit., p. 10.
(10) Dal Discorso del Santo Padre Francesco, 6 maggio 2016: http://vatican.va/content/france- sco/it/speeches/2016/may/documents/papa- francesco_20160506_premio-carlo-magno.html.
(11) Z. Bauman, op. cit., p. 43.
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