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VIVERE FUORI DALL’ISOLA CON QUEL GRAN DESIDERIO D’ASSOCIAZIONISMO. IL MAL DI SARDEGNA

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di Massimiliano Perlato
Più senti nostalgia, più hai voglia di pensare alla Sardegna. Più vedi fuori dalla finestra le ciminiere delle industrie che sputano fuliggine, più pensi alle montagne verdi della Sardegna. Più vedi le fontane ghiacciate in qualche piazza di qualche metropoli europea, più pensi al mare cristallino della Sardegna, invitante anche d’inverno. Più pensi alla Sardegna, più hai voglia di coinvolgere gli altri sardi, anche quelli che vivono migliaia di chilometri lontano. Magari fondando un circolo, dove far sventolare la bandiera dei quattro mori, dove appendere il poster di Gianfranco Zola, simbolo di una emigrazione vincente. Il “mal di Sardegna”, è vero, è una malattia, ma che ha dato l’occasione di aprire tanti circoli sparsi fra i continenti. La voglia di ritrovarsi, di ricordare momenti di “vita sarda”, risale al dopoguerra, quando molti isolani tentarono di far fortuna nella penisola e all’estero. Ma come nasce un circolo? Quali carte bisogna avere, a parte tanta passione e tanta nostalgia per istituire un angolo di Sardegna oltremare? Innanzitutto ci vogliono la testardaggine, cosa di cui i sardi, per tradizione, non difettano. E tanta, tanta pazienza. Aprire un circolo è cosa lunga di 2 o 3 anni, tra domande, documentazione da presentare alla Federazione di appartenenza e alla Regione Sardegna e numerose verifiche. Ma soprattutto ci vogliono i soldi e neanche pochi. Inutile contare sui contributi della Regione, che arrivano magari quando ci si è ormai dimenticati di averli chiesti. Per inaugurare un nuovo circolo ci vuole un bel gruzzolo, da anticipare per mettere su una sede, pagare affitto, luce, telefono, riscaldamento. E magari può essere necessario l’aiuto di una segretaria, per l’organizzazione di attività culturali e spettacoli che costano sempre più. Questo soltanto per partire, con la speranza che poi Mamma Regione, un anno dopo, si “ricordi” di finanziare le spese anticipate dai soci. Ma se anche i soldi ci sono, servono determinazione e pazienza. Occorre, se si vuole, il riconoscimento della Federazione prima e della Regione poi, dimostrare di avere le carte in regola per poter fare domanda. Sia la Federazione che la Regione richiedono che i circoli siano in determinate condizioni: saper camminare con le proprie gambe, in parole povere avere autonomia finanziaria; dimostrare l’iscrizione di almeno 100 soci; garantire una gestione assembleare e democratica con tanto di elezioni interne; disporre di una sede adeguata; riunire all’interno del circolo non sardi presi a caso, ma rappresentativi di una certa comunità (logudorese, gallurese, cagliaritana, ogliastrina ecc.). Se ci sono questi requisiti, la Federazione spedisce al futuro circolo uno statuto tipo, che servirà come esempio per la scrittura del nuovo. Intanto, tra domande, moduli da compilare, attesa per le risposte, i mesi passano veloci come l’entusiasmo iniziale. Alcuni mollano subito, altri dopo 2 o 3 mesi. C’è invece chi arriva alla fine e viene contattato dalla Federazione, che si preoccupa di seguire passo passo tutto l’iter, per l’atto formale di costituzione del circolo, che di solito avviene dal notaio. Il riconoscimento da parte della Regione Sardegna è invece un valore aggiunto del circolo, visto che sulla sua nascita si pronunciano l’Assessore al Lavoro prima, e la Giunta poi. Troppi i circoli in Italia? Se una comunità di sardi, anche nella penisola, vuole fare del bene per la Sardegna, meglio così. La FASI (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia) dà l’assenso. L’importante è che non sia una cosa temporanea né una “scusa” per ottenere finanziamenti pubblici. La voglia degli emigrati di aprire nuovi centri di associazionismo è sempre elevata: è una spinta continua, spontanea e volontaria. Si stanno affacciando le nuove leve. Crescono le donne dirigenti e molte sono anche presidenti. Ma non tutte hanno ancora la voglia di assumersi grandi responsabilità. Però è scontato che senza di loro non ci sarebbe alcun tessuto associativo. Le donne rappresentano l’anello di congiunzione tra la società e la famiglia, anche all’interno di ogni singolo circolo. Le note dolenti per le attività dei circoli arrivano purtroppo dalla Regione. Le innumerevoli crisi di questi ultimi lustri, le bocciature delle Finanziarie e i ritardi nell’approvarle hanno fatto sì che, nonostante la puntualità che i circoli osservano nello spedire documentazione e bilanci, i finanziamenti arrivano con grande ritardo. E poi il fatto che in Sardegna non si riesce ad apprezzare quel che si fa per l’isola, anche se, da questo punto di vista, l’opinione generale sta migliorando. In tutti questi anni ha influito negativamente una scarsa informazione. Secondo consolidati studi, chi vive nelle zone interne dell’isola ha avuto o ha ancora un parente emigrato. Eppure non sa molto, o si dimentica in fretta, dell’importanza che può rivestire un circolo per chi lascia la terra natale. Ecco a cosa serve informare: a conciliare il sardo di Sardegna con il sardo emigrato. Tra Melbourne e Ginevra, Monaco e Buenos Aires, i sardi nel mondo sono quasi 600mila. Buona parte ha lasciato l’isola durante le grandi ondate migratorie dagli anni Cinquanta agli anni Settanta del Novecento. Se a questa cifra si aggiungono le ultime generazioni, il numero tende notevolmente a salire. Il conteggio si complica riguarda alle comunità di più vecchio insediamento perché figli, nipoti e pronipoti di un emigrato alla fine dell’Ottocento sono difficili se non impossibili da quantificare. Oggi potrebbero vivere a Montreal o a Sidney, avere un cognome sardo o essersi sposati con stranieri e non parlare l’italiano. In questi casi si tratta di una moltitudine indeterminata, integrata in realtà sociali lontane e diverse dall’isola. Anche le stime ufficiali evidenziano alcuni problemi. In base ai dati forniti dall’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) che fa capo al Ministero dell’Interno, gli emigrati in Germania sarebbero quasi 25mila. Per le anagrafi consolari sono invece quasi 10mila in più. La stessa discrepanza emerge in Francia: 23mila per l’AIRE, 33mila per i consolati. Per la Gran Bretagna le due valutazioni differiscono di 2mila unità circa: 4mila contro 6mila. Probabilmente sottostimato è anche il dato riferito agli Stati Uniti d’America. L’AIRE conta poco più di mille sardi, 400 in meno della cifra elaborata dai consolati. Nei 15 Paesi del mondo dove è presente il maggior numero di sardi, il totale raggiunge quota 80mila tenendo conto degli archivi AIRE, 113mila secondo il Ministero degli Esteri. Anche sommando i quasi 300mila emigrati che risiedono nelle regioni italiane, si arriva a una cifra troppo lontana da 600mila. La notevole discrepanza tra i dati dell’anagrafe italiana e dei consolati si spiega analizzando i criteri di censimento. Il Ministero degli Esteri aggiorna i registri in seguito ai contatti diretti con gli emigrati. L’AIRE si basa sulle cancellazioni anagrafiche effettuate dai Comuni, una formalità burocratica che non sempre ci si preoccupa di sbrigare. Per questo le cifre sono sottostimate ma in compenso ricche di particolari sulla provenienza regionale. A complicare le statistiche intervengono i casi di doppia cittadinanza. Confermando la cifra globale approssimativa e il fatto che non esiste ancora un censimento dei sardi all’estero, il Servizio Emigrazione dell’Assessorato regionale al Lavoro chiarisce alcuni aspetti: sino alla terza generazione si possono contare più o meno 600mila emigrati. Negli Stati Uniti si è arrivati ormai alla sesta generazione. I pronipoti potrebbero aver ben poco di sardo, se non le lontane origini ed i legami di sangue, ed è probabile che non facciano riferimento ad alcun circolo.
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