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logo76Newsletter n.230 del 30 agosto 2021

NUOVO INIZIO
Cari Amici,

l’orrore degli attentati e il dramma dei profughi afghani mostrano quanto sia alto il prezzo della rotta americana a Kabul, e non solo per l’America. Essa è stata assimilata alla fuga da Saigon dell’aprile 1975. In realtà è stata molto di più e molto più grande è la sua forza simbolica come evento capace di segnare una periodizzazione della storia in due tempi opposti e diversi tra un’epoca che finisce e un’altra che comincia. La caduta di Saigon rappresentò infatti la sconfitta del tentativo degli Stati Uniti di sostituirsi alle potenze europee (e nel caso specifico, alla Francia) nella gestione di un potere imperiale residuo su questa o quella porzione del “Terzo mondo” arretrato, e quindi segnò la fine dell’età coloniale; l’abbandono dell’Afghanistan rappresenta invece il fallimento della risposta dell’Occidente alla caduta del comunismo e dell’ordine bipolare, e segna la fine del nuovo ordine globale. Ne esce sconfitta la pretesa dell’Occidente di sostituirsi al socialismo scomparso instaurando un unico dominio su un mondo ridotto alla propria misura e finisce il sogno degli Stati Uniti di dar corso a un “nuovo secolo americano”. La lettura che ci sentiamo di avanzare è che la caduta di Kabul è speculare alla caduta del muro di Berlino; ambedue frutto non di una sconfitta militare ma di una decisione politica degli invasori, i sovietici allora, gli americani oggi; ambedue segno che il mondo da loro immaginato e voluto è sbagliato e impossibile, e che un altro se ne deve ora progettare e costruire. Il 2021 si rivela pertanto come il rovescio dell’89. Ma allora è lì che bisogna tornare, come ai nastri di partenza, per organizzare un’altra risposta. Come fu sostenuto in un seminario della scuola “Vasti” del novembre 2001 che qui riprendiamo, l’Occidente sbagliò allora la lettura e la risposta agli eventi dell’89, prima favorendo la dissoluzione dell’URSS, poi concependo un mondo di cui esso fosse l’unico gendarme e padrone; l’Occidente non seppe uscire dal sistema di dominio e di guerra che era legato alla diarchia del terrore ma, venuta meno l’Unione Sovietica, proseguì quel medesimo sistema mettendosi alla sua testa da solo; esso pertanto non seppe cogliere l’occasione di quella inaudita e pacifica discontinuità storica, non seppe concepire e gestire un progetto nuovo per il mondo che rappresentasse un vero superamento del vecchio sistema bipolare, e così facendo si inserì nella traiettoria della sua caduta, attivando una crisi speculare a quella che fu la crisi del comunismo e innescando la fase finale della crisi di quell’ordine. Come avvenne questo? Quando il 14 novembre 1989 Gorbaciov, capo dell’URSS, trasmise ai dirigenti tedeschi la decisione di aprire il muro di Berlino, tutta la politica militare, tutta la politica estera, tutto il mondo erano pensati in funzione della sfida finale della storia, identificata con lo scontro dell’Occidente col comunismo inteso come il principio del male. Nel momento in cui questo improvvisamente e in modo incruento finisce, gli americani stentano a crederci, e si apre un vuoto che non si è minimamente preparati a riempire.
L’unica cosa che l’Occidente riesce a dire è: “la guerra fredda è finita, e noi l’abbiamo vinta”.
Ma che fare del mondo? Finalmente il capitalismo ha prevalso, il mercato è ormai universale, le più ardite speranze dei teorici del liberalismo che avevano profetato: col libero commercio, l’eterna pace, si possono realizzare. La storia è giunta al suo adempimento e noi ce l’abbiamo portata.
D’altra parte il capitalismo che dai grandi Paesi dell’Occidente si presenta a raccogliere l’eredità del mondo, è un capitalismo attraente, un capitalismo non solo di ricchezze e di lustrini televisivi, ma anche di diritti, di protezione sociale, di pluralismo politico. Non è il capitalismo selvaggio che oggi conosciamo, è un capitalismo ancora profondamente influenzato dall’esistenza di un campo antagonista, dalla sfida esterna del mondo socialista, dal condizionamento interno delle sinistre e dei sindacati, dal compromesso keynesiano.
E’ un capitalismo che ha dovuto accettare delle compatibilità con diritti e valori indipendenti dal mercato, è un capitalismo avaro con i bisogni, ma dispensatore di desideri.
E quindi tutti ci vogliono entrare, immigrandoci dentro e importandolo a casa loro.
Ma a questo punto, caduto il limite esterno, il capitalismo realizzato si accorge di non essere affatto universale. E’ il sistema migliore possibile, ma non è per tutti, i suoi benefici non si possono estendere a tutti. Esso non può reggere la vita e lo sviluppo del mondo. Non può sfamare tutti, non può avere acqua e medicine per tutti, non può permettere la democrazia a tutti. I meccanismi economici non sono attrezzati per questo, perché sono fatti per incrementare il denaro e non per soddisfare i bisogni. Ma questo non è il solo problema. E’ lo stesso ordine fisico della terra che presenta limiti invalicabili a una fruizione universale del livello di vita conseguito dalle aree privilegiate del sistema. club_of_rome_logo-svg Il Club di Roma già nel 1971 aveva proiettato nel futuro i limiti dello sviluppo, e quelle previsioni erano risultate fondate. Stava per finire il petrolio, il gas naturale, il carbone, stava per cambiare il clima, stavano per ritrarsi le acque da bere e innalzarsi le acque marine, i tassi di inquinamento stavano per raggiungere livelli catastrofici. Contro il mito del progresso illimitato, si faceva strada la coscienza della scarsità. Gli anni 90, gli anni dopo la fine dell’URSS, sono gli anni in cui i grandi poteri rimasti sono posti di fronte a queste alternative, a queste scelte. Ci sono correnti che spingono verso una ristrutturazione equa di tutti i rapporti mondiali, che postulano la pace la giustizia e la salvaguardia del creato, ci sono le teologie della liberazione dell’America Latina, ci sono i pacifisti, ci sono i rapporti delle Agenzie intergovernative sul clima che denunciano i pericoli e che spingono verso quei primi risultati che saranno la conferenza di Rio sul clima e il Trattato di Kyoto; nel vertice di Roma del 1996 la FAO ancora si illude di poter dimezzare la fame nel mondo per il 2015.
Ma il sistema fa un’altra scelta. Se il mondo non si può tenere in piedi tutto, allora se ne garantisce solo una parte, la propria. Il capitalismo vincente non può ritrarsi e rientrare nei vecchi confini del Primo Mondo, continuerà a inglobare tutto il mondo, ma con una stratificazione, una gerarchia, una grande selezione, una realistica diseguaglianza; c’è un mondo da salvare e un mondo a perdere, i privilegiati e gli esclusi, i necessari e gli esuberi; cioè noi e loro, quelli che poi un giorno papa Francesco chiamerà “gli scarti”.
La formula del resto era stata enunciata da Herbert Spencer, il promotore ottocentesco della società dell’utile, della “military and industrial society”, ed era così enunciata nel suo “Sistema di filosofia sintetica”: gli uomini sono come sottoposti a un giudizio di Dio; “se sono realmente in grado di vivere essi vivono, ed è giusto che vivano. Se non sono realmente in grado di vivere essi muoiono, ed è giusto che muoiano”. Il darwinismo sociale. È questo il punto di caduta a cui l’intero corso storico perviene.
Ma un mondo così non sta a posto da solo. Deve essere tenuto a bada con scettro di ferro. Il grande problema che si apre con la fine dell’ordine bipolare e la scomparsa dell’URSS è quello del governo del mondo. L’idea è che occorre stabilire un sovrano universale, e questo non può essere altro che gli Stati Uniti perché, come doveva spiegare Brzezinski, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, non c’è altra alternativa che l’America all’anarchia globale. Nell’aprile del 1992 le “linee guida” per la politica della difesa degli Stati Uniti formalizzano la nuova dottrina.
“Occorre impedire a qualsiasi potenza ostile – dicono – il dominio di regioni le cui risorse le consentirebbero di accedere allo status di grande potenza”; occorre “impedire l’ascesa di un futuro concorrente globale”; occorre “dissuadere i Paesi industriali avanzati da qualsiasi tentativo che miri a contestare la nostra leadership”, cioè la leadership americana: e questo valeva anche per l’Europa.
E nel 1998 la destra americana avanza il progetto di fare del nuovo secolo un “nuovo secolo americano”. Naturalmente occorreva anche tenere in mano le carte per l’ultima partita sulla ripartizione e l’utilizzo delle risorse in via di esaurimento, ma soprattutto occorreva al più presto possibile riappropriarsi dello strumento sovrano del governo del mondo: la guerra. La guerra, agli inizi degli anni 90, non solo era bandita dal diritto, ripudiata dalle Costituzioni, ma godeva di un unanime discredito e repulsione nell’opinione pubblica mondiale. La guerra, identificata ormai con la guerra nucleare, era considerata come il male assoluto, anche dai governanti. La guerra fredda era combattuta per evitare la guerra. Le politiche dell’Occidente erano tutte politiche di pace, anche i missili si mettevano per la pace, la “ratio” della corsa al riarmo nucleare era la dissuasione dalla guerra nucleare. La guerra era il terrore; la pace era l’equilibrio del terrore, era la deterrenza: cioè togliere il terrore con il terrore.
Ma nella nuova situazione creatasi dopo l’89 la guerra doveva essere ripristinata, richiamata dal suo esilio, eticamente riscattata e di nuovo agghindata e adornata come una sposa.
L’occasione la fornì l’Iraq e la sua disputa con l’Arabia Saudita e gli altri Paesi OPEC per il prezzo del petrolio, sceso a prezzi stracciati fino a 12 dollari al barile. Fidando nel fatto che la guerra non usava più, l’Iraq occupò il Kuwait. Questo crimine fu fatale. Il muro di Berlino era stato rimosso da un anno, l’URSS non era più in grado di fermare l’Occidente. E Bush padre fece la guerra; la fece per due ragioni; la prima, come spiegò poi nelle sue memorie, perché non si poteva permettere che le riserve di petrolio del Medio Oriente cadessero sotto il controllo di una potenza ostile; e fu la prima guerra per il petrolio: e la seconda ragione, più importante, fu per ristabilire il diritto di guerra esercitandolo in nome di quelle stesse Nazioni Unite che l’avevano abrogato; e quella del 1991 fu la guerra per riabilitare la guerra agli occhi dell’opinione pubblica occidentale. Ci vollero alcuni mesi non solo per preparare l’armata ma per sviluppare una imponente campagna di persuasione; paolovionu si trattava di rovesciare il sentire comune che Paolo VI aveva quindici anni prima icasticamente proclamato dalla tribuna dell’ONU: mai più la guerra. E infatti Giovanni Paolo II le si oppose.
Nel 1999 toccò alla Iugoslavia. La guerra era stata ormai richiamata in servizio, era “libera all’esercizio”. Anche per quella guerra si parlò di petrolio, della necessità di aprire un corridoio per gli oleodotti dal Caspio. Ma la vera ragione fu politica. La ragione fu di uscire dall’ordine delle Nazioni Unite, dove la guerra era ancora formalmente bandita, e comunque sottoposta a limiti e condizioni, ed entrare, ormai senza altre remore, nell’ordine della NATO; la NATO diventava essa la nuova comunità internazionale, la parte per il tutto, assumeva prerogative sovrane, si investiva in proprio del diritto e del potere sovrano di guerra. Per far questo cambiava i suoi statuti. Il 24 aprile 1999, nel vertice atlantico di Washington, la NATO cambiava finalità e natura, dichiarava non più operanti i limiti degli articoli 5 e 6 del suo Statuto che restringevano l’ipotesi di uso della forza armata alla difesa contro un’aggressione, e rompeva perciò anche i limiti dell’art. 51 della Carta dell’ONU; inoltre la NATO infrangeva i limiti della sua competenza territoriale e si assegnava come campo d’azione tutto il mondo; teorizzava la pace e la sicurezza non più come indivisibili per tutti, ma solo per sé e per i 19 Paesi membri, e individuava nuove minacce alla sicurezza: terrorismo, sabotaggio, criminalità organizzata, interruzione di approvvigionamenti, movimenti migratori, fattori politici, economici, sociali, ambientali, rivalità etniche, religiose, riforme mal pensate o fallite, violazione di diritti umani, dissoluzione di Stati. Per la prima volta il ricorso alle armi, cioè la guerra, veniva contemplata come risposta a crisi politiche, sociali, economiche, religiose di ogni tipo. Non a caso la prima delle nuove minacce alla sicurezza era individuata nel terrorismo. Quest’ultima era una profezia destinata ad autorealizzarsi. Se il mondo doveva restare pietrificato nella sua ingiustizia costitutiva, se la guerra diventava il mezzo universale per gestire ogni genere di contraddizioni o di crisi, e se l’esistenza di un’unica superpotenza militare faceva sì che la guerra restasse prerogativa e risorsa di una parte sola, agli altri non restava che il terrorismo.
In tal modo terrorismo e guerra erano assimilati come due variabili della stessa fattispecie, come due surrogati dello stesso bene perduto: la politica.
La conferma giunse ben presto, l’11 settembre 2001, con gli attentati al Pentagono e alle Torri gemelle. Il giovane Bush li riconobbe subito come atti di guerra. E infatti rispose con la guerra, perché questa ormai era diventata l’unica lingua della politica. Nascono così la guerra e l’invasione in Afghanistan durate fino ad ora, e subito dopo la seconda guerra del Golfo, giunta fino alla distruzione dell’Iraq e all’uccisione di Saddan Hussein, sulla base della menzogna, poi ufficialmente riconosciuta dal rapporto Chilcot del Parlamento inglese e dallo stesso Tony Blair, della minaccia delle armi di distruzione di massa. E nel 2002 il delirio teorizzato dalla destra neoconservatrice secondo cui la sicurezza americana stava nel dominio del mondo veniva formalizzato nella “Nuova strategia della sicurezza nazionale americana” che arricchiva con le armi spaziali gli arsenali a disposizione della Casa Bianca.
È tutto questo che è finito nel neoisolazionismo di Trump, nell’ideologia dell’“America First”, nella “debacle” di Biden, nell’abbandono americano dell’Afghanistan e nella tragedia dei presi e lasciati nell’aeroporto di Kabul. Ed è da qui allora che deve partire l’altra risposta, che in un altro modo deve coinvolgere la totalità degli attori che agiscono sulla scena del mondo, Stati e popoli, dagli Stati Uniti alla Cina, dai kurdi ai palestinesi, dagli ebrei ai musulmani; è in questo quadro che si innalza la proposta universale e inclusiva di papa Francesco, la sua proposta di una fraternità umana nella pluralità di diritto divino delle religioni, ed è qui che si leva la proposta laica di una ricomposizione della società umana sotto la sovranità del diritto, di una Costituzione della Terra.

Con i più cordiali saluti

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VISITA DEL SOMMO PONTEFICE PAOLO VI
ALL’ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE

DISCORSO DEL SANTO PADRE
ALLE NAZIONI UNITE
*

Lunedì, 4 ottobre 1965

Nel momento in cui prendiamo la parola davanti a questo consesso unico al mondo, sentiamo il bisogno anzitutto di esprimere la Nostra profonda gratitudine al Signor Thant, vostro Segretario Generale, per l’invito ch’egli Ci ha rivolto di visitare le Nazioni Unite, in occasione del ventesimo anniversario della fondazione di questa Istituzione mondiale per la pace e per la collaborazione fra i popoli di tutta la terra. Noi ringraziamo altresì il Signor Presidente dell’Assemblea, On. Amintore Fanfani, il quale, dal giorno del suo insediamento, ha avuto per Noi parole tanto cortesi.

Grazie anche a voi tutti, qui presenti, per la vostra buona accoglienza.

A ciascuno di voi il Nostro riverente e cordiale saluto. La vostra amicizia Ci ha invitati e Ci ammette ora a questa riunione: e come amici Noi qui a voi Ci presentiamo.

Vi esprimiamo il Nostro cordiale omaggio personale e vi offriamo quello dell’intero Concilio Ecumenico Vaticano II, riunito in Roma, e qui rappresentato dai Signori Cardinali che a questo scopo Ci accompagnano. A loro nome, come da parte Nostra, rendiamo a voi tutti onore e vi salutiamo!

Questo incontro, voi tutti lo comprendete, segna un momento semplice e grande. Semplice, perché voi avete davanti un uomo come voi; egli è vostro fratello, e fra voi, rappresentanti di Stati sovrani, uno dei più piccoli, rivestito lui pure, se così vi piace considerarci, d’una minuscola, quasi simbolica sovranità temporale, quanta gli basta per essere libero di esercitare la sua missione spirituale, e per assicurare chiunque tratta con lui, che egli è indipendente da ogni sovranità di questo mondo. Egli non ha alcuna potenza temporale, né alcuna ambizione di competere con voi; non abbiamo infatti alcuna cosa da chiedere, nessuna questione da sollevare; se mai un desiderio da esprimere e un permesso da chiedere, quello di potervi servire in ciò che a Noi è dato di fare, con disinteresse, con umiltà e amore.

DA VENTI SECOLI UN VOTO DEL CUORE

Questa è la Nostra prima dichiarazione; e, come voi vedete, essa è così semplice, che sembra irrilevante per questa Assemblea, che tratta sempre cose importantissime e difficilissime. Ma Noi dicevamo, e tutti lo avvertite, che questo momento è anche grande. Grande per Noi, grande per voi.

Per Noi, anzitutto. Oh! voi sapete chi siamo; e, qualunque sia l’opinione che voi avete sul Pontefice di Roma, voi conoscete la Nostra missione; siamo portatori d’un messaggio per tutta l’umanità; e lo siamo non solo a Nostro nome personale e dell’intera famiglia cattolica, ma lo siamo pure di quei Fratelli cristiani, che condividono i sentimenti da Noi qui espressi, e specialmente di quelli da cui abbiamo avuto esplicito incarico d’essere anche loro interpreti. Noi siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata; così Noi avvertiamo la fortuna di questo, sia pur breve, momento, in cui si adempie un voto, che Noi portiamo nel cuore da quasi venti secoli. Sì, voi ricordate: è da molto tempo che siamo in cammino, e portiamo con Noi una lunga storia; Noi celebriamo qui l’epilogo d’un faticoso pellegrinaggio in cerca d’un colloquio con il mondo intero, da quando Ci è stato comandato: “Andate e portate la buona novella a tutte le genti”.

Ora siete voi, che rappresentate tutte le genti. Noi abbiamo per voi tutti un messaggio, sì, un messaggio felice, da consegnare a ciascuno di voi.

IN NOME DEI MORTI DEI POVERI DEI SOFFERENTI

1. Il Nostro messaggio vuol essere, in primo luogo, una ratifica morale e solenne di questa altissima Istituzione. Questo messaggio viene dalla Nostra esperienza storica; Noi, quali “esperti in umanità”, rechiamo a questa Organizzazione il suffragio dei Nostri ultimi Predecessori, quello di tutto l’Episcopato cattolico, e Nostro, convinti come siamo che essa rappresenta la via obbligata della civiltà moderna e della pace mondiale.

Dicendo questo, Noi sentiamo di fare Nostra la voce dei morti e dei vivi; dei morti, caduti nelle tremende guerre passate sognando la concordia e la pace del mondo; dei vivi, che a quelle hanno sopravvissuto portando nei cuori la condanna per coloro che tentassero rinnovarle; e di altri vivi ancora, che avanzano nuovi e fidenti, i giovani delle presenti generazioni, che sognano a buon diritto una migliore umanità. E facciamo Nostra la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso. I popoli considerano le Nazioni Unite come il palladio della concordia e della pace; Noi osiamo, col Nostro, portare qua il loro tributo di onore e di speranza. Ecco perché questo momento è grande anche per voi.

GIUSTIZIA DIRITTO TRATTATIVA NELLE RELAZIONI TRA I POPOLI

2. Noi sappiamo che ne avete piena coscienza. Ascoltate allora la continuazione del Nostro messaggio. Esso è rivolto completamente verso l’avvenire: l’edificio, che avete costruito, non deve mai più decadere, ma deve essere perfezionato e adeguato alle esigenze che la storia del mondo presenterà. Voi segnate una tappa nello sviluppo dell’umanità, dalla quale non si dovrà più retrocedere, ma avanzare.

Al pluralismo degli Stati, che non possono più ignorarsi, voi offrite una formola di convivenza, estremamente semplice e feconda. Ecco: voi dapprima vi riconoscete e distinguete gli uni dagli altri. Voi non conferite certamente l’esistenza agli Stati; ma qualificate come idonea a sedere nel consesso ordinato dei Popoli ogni singola Nazione; date cioè un riconoscimento di altissimo valore etico e giuridico ad ogni singola comunità nazionale sovrana, e le garantite onorata cittadinanza internazionale. È già un grande servizio alla causa dell’umanità quello di ben definire e di onorare i soggetti nazionali della comunità mondiale, e di classificarli in una condizione di diritto, meritevole d’essere da tutti riconosciuta e rispettata, dalla quale può derivare un sistema ordinato e stabile di vita internazionale. Voi sancite il grande principio che i rapporti fra i popoli devono essere regolati dalla ragione, dalla giustizia, dal diritto, dalla trattativa, non dalla forza, non dalla violenza, non dalla guerra, e nemmeno dalla paura, né dall’inganno.

Così ha da essere. Lasciate che Noi Ci congratuliamo con voi, che avete avuto la saggezza di aprire l’accesso a questa aula ai Popoli giovani, agli Stati giunti da poco alla indipendenza e alla libertà nazionale; la loro presenza è la prova dell’universalità e della magnanimità che ispirano i principii di questa Istituzione.

Così ha da essere; questo è il Nostro elogio e il Nostro augurio, e, come vedete, Noi non li attribuiamo dal di fuori; ma li caviamo dal di dentro, dal genio stesso del vostro Statuto.

GENEROSA FIDUCIA GIAMMAI INSIDIATA O TRADITA

3. Il vostro Statuto va oltre; e con esso procede il Nostro augurio.

Voi esistete ed operate per unire le Nazioni, per collegare gli Stati; diciamo questa seconda formola: per mettere insieme gli uni con gli altri. Siete una Associazione. Siete un ponte fra i Popoli. Siete una rete di rapporti fra gli Stati. Staremmo per dire che la vostra caratteristica riflette in qualche modo nel campo temporale ciò che la Nostra Chiesa cattolica vuol essere nel campo spirituale: unica ed universale. Non v’è nulla di superiore sul piano naturale nella costruzione ideologica dell’umanità. La vostra vocazione è quella di affratellare non solo alcuni, ma tutti i Popoli. Difficile impresa? Senza dubbio. Ma questa è l’impresa; questa la vostra nobilissima impresa. Chi non vede il bisogno di giungere così, progressivamente, a instaurare un’autorità mondiale, capace di agire con efficacia sul piano giuridico e politico?

Anche a questo riguardo ripetiamo il Nostro voto: perseverate. Diremo di più: procurate di richiamare fra voi chi da voi si fosse staccato, e studiate il modo per chiamare, con onore e con lealtà, al vostro patto di fratellanza chi ancora non lo condivide. Fate che chi ancora è rimasto fuori desideri e meriti la comune fiducia; e poi siate generosi nell’accordarla. E voi, che avete la fortuna e l’onore di sedere in questo consesso della pacifica convivenza, ascoltateci: fate che non mai la reciproca fiducia, che qui vi unisce e vi consente di operare cose buone e grandi. sia insidiata o tradita.

L’ORGOGLIO IL GRANDE ANTAGONISTA DELLE NECESSARIE ARMONIE

4. La logica di questo voto, che si può dire costituzionale per la vostra Organizzazione, Ci porta a integrarlo con altre formule. Ecco: che nessuno, in quanto membro della vostra unione, sia superiore agli altri. Non l’uno sopra l’altro. È la formula della eguaglianza. Sappiamo di certo come essa debba essere integrata dalla valutazione di altri fattori, che non sia la semplice appartenenza a questa Istituzione; ma anch’essa è costituzionale. Voi non siete eguali, ma qui vi fate eguali. Può essere per parecchi di voi atto di grande virtù; consentite che ve lo dica Colui che vi parla, il Rappresentante d’una Religione, la quale opera la salvezza mediante l’umiltà del suo Fondatore Divino. Non si può essere fratelli, se non si è umili. Ed è l’orgoglio, per inevitabile che possa sembrare. che provoca le tensioni e le lotte del prestigio, del predominio, del colonialismo dell’egoismo; rompe cioè la fratellanza.

CADANO LE ARMI, SI COSTRUISCA LA PACE TOTALE

5. E allora il Nostro messaggio raggiunge il suo vertice; il vertice negativo. Voi attendete da Noi questa parola, che non può svestirsi di gravità e di solennità: non gli uni contro gli altri, non più, non mai! A questo scopo principalmente è sorta l’Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace ! Ascoltate le chiare parole d’un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”. Non occorrono molte parole per proclamare questo sommo fine di questa istituzione. Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!

Grazie a voi, gloria a voi, che da vent’anni per la pace lavorate, e che avete perfino dato illustri vittime a questa santa causa. Grazie a voi, e gloria a voi, per i conflitti che avete prevenuti e composti. I risultati dei vostri sforzi, conseguiti in questi ultimi giorni in favore della pace, benché, non siano ancora definitivi, meritano che Noi, osando farci interpreti del mondo intero, vi esprimiamo plauso e gratitudine.

Signori, voi avete compiuto e state compiendo un’opera grande: l’educazione dell’umanità alla pace. L’ONU è la grande scuola per questa educazione. Siamo nell’aula magna di tale scuola; chi siede in questa aula diventa alunno e diventa maestro nell’arte di costruire la pace. Quando voi uscite da questa aula il mondo guarda a voi come agli architetti, ai costruttori della pace.

E voi sapete che la pace non si costruisce soltanto con la politica e con l’equilibrio delle forze e degli interessi, ma con lo spirito, con le idee, con le opere della pace. Voi già lavorate in questo senso. Ma voi siete ancora in principio: arriverà mai il mondo a cambiare la mentalità particolaristica e bellicosa, che finora ha tessuto tanta parte della sua storia? È difficile prevedere; ma è facile affermare che alla nuova storia, quella pacifica, quella veramente e pienamente umana, quella che Dio ha promesso agli uomini di buona volontà, bisogna risolutamente incamminarsi; e le vie sono già segnate davanti a voi; e la prima è quella del disarmo.

Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con armi offensive in pugno. Le armi, quelle terribili. specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli. Finché l’uomo rimane l’essere debole e volubile e anche cattivo, quale spesso si dimostra, le armi della difesa saranno necessarie, purtroppo; ma voi, coraggiosi e valenti quali siete, state studiando come garantire la sicurezza della vita internazionale senza ricorso alle armi: questo è nobilissimo scopo, questo i Popoli attendono da voi, questo si deve ottenere! Cresca la fiducia unanime in questa Istituzione, cresca la sua autorità; e lo scopo, è sperabile, sarà raggiunto. Ve ne saranno riconoscenti le popolazioni, sollevate dalle pesanti spese degli armamenti, e liberate dall’incubo della guerra sempre imminente, il quale deforma la loro psicologia. Noi godiamo di sapere che molti di voi hanno considerato con favore il Nostro invito, lanciato a tutti gli Stati per la causa della pace, a Bombay, nello scorso dicembre, di devolvere a beneficio dei Paesi in via di sviluppo una parte almeno delle economie, che si possono realizzare con la riduzione degli armamenti. Noi rinnoviamo qui tale invito, fidando nel vostro sentimento di umanità e di generosità.

OLTRE LA COESISTENZA: LA COLLABORAZIONE FRATERNA

6. Dicendo queste parole Ci accorgiamo di far eco ad un altro principio costitutivo di questo Organismo, cioè il suo vertice positivo: non solo qui si lavora per scongiurare i conflitti fra gli Stati, ma si lavora altresì con fratellanza per renderli capaci di lavorare gli uni per gli altri. Voi non vi contentate di facilitare la coesistenza e la convivenza fra le varie Nazioni; ma fate un passo molto più avanti, al quale Noi diamo la Nostra lode e il Nostro appoggio: voi promovete la collaborazione fraterna dei Popoli. Qui si instaura un sistema di solidarietà, per cui finalità civili altissime ottengono l’appoggio concorde e ordinato di tutta la famiglia dei Popoli per il bene comune, e per il bene dei singoli. Questo aspetto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è il più bello: è il suo volto umano più autentico; è l’ideale dell’umanità pellegrina nel tempo; è la speranza migliore del mondo; è il riflesso, osiamo dire, del disegno trascendente e amoroso di Dio circa il progresso del consorzio umano sulla terra; un riflesso, dove scorgiamo il messaggio evangelico da celeste farsi terrestre. Qui, infatti, Noi ascoltiamo un’eco della voce dei Nostri Predecessori, di quella specialmente di Papa Giovanni XXIII, il cui messaggio della Pacem in terris ha avuto anche nelle vostre sfere una risonanza tanto onorifica e significativa.

Perché voi qui proclamate i diritti e i doveri fondamentali dell’uomo, la sua dignità, la sua libertà e, per prima, la libertà religiosa. Ancora, Noi sentiamo interpretata la sfera superiore della sapienza umana, e aggiungiamo: la sua sacralità. Perché si tratta anzitutto della vita dell’uomo: e la vita dell’uomo è sacra: nessuno può osare di offenderla. Il rispetto alla vita, anche per ciò che riguarda il grande problema della natalità, deve avere qui la sua più alta professione e la sua più ragionevole difesa: voi dovete procurare di far abbondare quanto basti il pane per la mensa dell’umanità; non già favorire un artificiale controllo delle nascite, che sarebbe irrazionale, per diminuire il numero dei commensali al banchetto della vita.

Ma non si tratta soltanto di nutrire gli affamati: bisogna inoltre assicurare a ciascun uomo una vita conforme alla sua dignità. Ed è questo che voi vi sforzate di fare. E non si adempie del resto sotto i Nostri occhi e anche per opera vostra l’annuncio profetico che ben si addice a questa Istituzione: “Fonderanno le spade in vomeri; le lance in falci”? (Is. 2, 4). Non state voi impiegando le prodigiose energie della terra e le invenzioni magnifiche della scienza, non più in strumenti di morte, ma in strumenti di vita per la nuova era dell’umanità?

Noi sappiamo con quale crescente intensità ed efficacia l’Organizzazione delle Nazioni Unite, e gli organismi mondiali che ne dipendono, lavorino per fornire aiuto ai Governi, che ne abbiano bisogno, al fine di accelerare il loro progresso economico e sociale.

Noi sappiamo con quale ardore voi vi impegniate a vincere l’analfabetismo e a diffondere la cultura nel mondo; a dare agli uomini una adeguata e moderna assistenza sanitaria, a mettere a servizio dell’uomo le meravigliose risorse della scienza, della tecnica, dell’organizzazione: tutto questo è magnifico, e merita l’encomio e l’appoggio di tutti, anche il Nostro. Vorremmo anche Noi dare l’esempio, sebbene l’esiguità dei Nostri mezzi ci impedisca di farne apprezzare la rilevanza pratica e quantitativa: Noi vogliamo dare alle Nostre istituzioni caritative un nuovo sviluppo in favore della fame e dei bisogni del mondo: è in questo modo, e non altrimenti, che si costruisce la pace.

PER SALVARE LA CIVILTÀ PROFONDO RINNOVAMENTO IN DIO

7. Una parola ancora, Signori, un’ultima parola: questo edificio, che state costruendo, si regge non già solo su basi materiali e terrene: sarebbe un edificio costruito sulla sabbia; ma esso si regge, innanzitutto, sopra le nostre coscienze. È venuto il momento della “metanoia”, della trasformazione personale, del rinnovamento interiore. Dobbiamo abituarci a pensare in maniera nuova l’uomo; in maniera nuova la convivenza dell’umanità, in maniera nuova le vie della storia e i destini del mondo, secondo le parole di S. Paolo: “Rivestire l’uomo nuovo, creato a immagine di Dio nella giustizia e santità della verità” (Eph. 4, 23). È l’ora in cui si impone una sosta, un momento di raccoglimento, di ripensamento, quasi di preghiera: ripensare, cioè, alla nostra comune origine, alla nostra storia, al nostro destino comune. Mai come oggi, in un’epoca di tanto progresso umano, si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo!

Il pericolo non viene né dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi risolvere molti dei gravi problemi che assillano l’umanità. Il pericolo vero sta nell’uomo, padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina ed alle più alte conquiste!

In una parola, l’edificio della moderna civiltà deve reggersi su principii spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo. E perché tali siano questi indispensabili principii di superiore sapienza, essi non possono non fondarsi sulla fede in Dio. Il Dio ignoto, di cui discorreva nell’areopago S. Paolo agli Ateniesi? Ignoto a loro, che pur senza avvedersene lo cercavano e lo avevano vicino, come capita a tanti uomini del nostro secolo?… Per noi, in ogni caso, e per quanti accolgono la Rivelazione ineffabile, che Cristo di Lui ci ha fatta, è il Dio vivente, il Padre di tutti gli uomini.

*Insegnamenti di Paolo VI, vol. III, p.516-523.
L’Osservatore Romano 6.10.1965 p.4.
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Il precedente editoriale. Ferrovie e Trasporti in Sardegna [Vanni Tola]. Nel deserto progettuale una buona eccezione [Gianfranco Fancello].