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“REDDITO di CITTADINANZA”: una buona notizia, ma…

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Reddito di Cittadinanza: a rischio inferno burocratico.
di Roberta Carlini, su Rocca.

C’è una parola che ricorre spesso, anzi quasi sempre, quando si parla della nuova misura introdotta dal governo italiano contro la povertà: divano. Ricorre sia negli attacchi dei detrattori – che parlano del rischio di dare soldi a persone che magari poi restano sprofondate sul divano invece di andare a lavorare – che nella difesa dei sostenitori – che garantiscono controlli e punizioni contro chi resta seduto sul divano invece di accettare i lavori proposti. È una deriva del linguaggio pubblico offensiva, fortemente stigmatizzante verso i poveri (ricalcando l’antichissima idea diffusa dalle poor law ottocentesche in poi che il povero, per un motivo o per l’altro, sia colpevole della sua povertà), arretrata rispetto alla realtà di un’economia nella quale c’è allo stesso tempo poco lavoro, e molti lavori pagati pochissimo, al di sotto della soglia della povertà. E, presi da questo dibattito falso ma allo stesso tempo disvelatore della cultura politica predominante, rischiamo di non accorgerci degli effettivi pericoli presenti nella attuazione della misura più consistente, dal punto di vista numerico, della manovra economica per il 2019.

il cosiddetto reddito di cittadinanza
Cominciamo dal governo, o meglio dalla sua parte che si è attribuita la titolarità della nuova misura, nell’inedita lottizzazione non delle poltrone o degli incarichi ma, per la prima volta, dello stesso bilan- cio pubblico: con i Cinque Stelle che hanno «vinto» 7,1 miliardi per la loro misura-bandiera, laddove la Lega ne ha portati a casa 4 per le misure per anticipare le pensioni («quota 100»). Va detto che questo stile politico è di per sé censurabile, dato che si tratta della manovra di tutti e dei soldi di tutti, e che per capire i reali vantaggi e i reali sacrifici legati alle due misure bisogna considerare anche come sono finanziate, ossia con nuovo deficit e nuove tasse attuali e (soprattutto) futuri.
Ma teniamo per un attimo da parte questo discorso, per valutare in sé l’innovazione maggiore della manovra, ossia la nuova carta acquisti per i poveri. È preferibile chiamarla così, e non «reddito di cittadinanza» (o tanto meno «reddito»), visto che non è una somma di denaro da gestire come si vuole, ma una carta con cui fare la spesa in posti e tempi definiti, e – si immagina, a stare agli esempi che l’hanno preceduta – non valida per tutti gli acquisti ma solo per quelli legati a un dignitoso sostentamento; e, soprattutto, non è «di cittadinanza», poiché non è universale ma legato ad alcune condizioni, una delle quali, ossia l’essere residenti in Italia da almeno dieci anni, è fatta apposta per escludere una massa di poveri di origine straniera.

la nuova carta acquisti per i poveri
Con tutti questi limiti, la nuova misura per i poveri poteva essere una buona notizia. Fino a pochi anni fa l’Italia non aveva uno strumento generale per aiutare i poveri, mentre questi crescevano sempre di più in seguito alla crisi economica e al cambiamento del mercato del lavoro. Poi è stato introdotto il Rei, reddito di inclusione attiva (anche questo corrisposto con una carta acquisti), con finanziamenti però troppo bassi per raggiungere la platea delle persone in povertà assoluta in Italia – che sono circa 5 milioni. La nuova carta acquisti gode di finanziamenti più elevati e dunque aumenta sia il numero delle persone raggiunte che l’importo della spesa mensile disponibile. Un po’ presto per dire, alla Di Maio, che «abbiamo abolito la povertà», ma comunque un passo avanti rispetto alla ristrettezza delle casse del Rei. Però allo stesso tempo si complica e si potenzia l’apparato burocratico di controllo e verifica delle condizioni per accedere alla carta, e per mantenerne la titolarità. In particolare, è posta un’enfasi enorme sulla disponibilità a lavorare, e dunque ad accettare le offerte di lavoro che gli uffici dei centri per l’impiego faranno pervenire agli assistiti. Pare una cosa ovvia, ma potrebbe rivelarsi un inferno burocratico: prima di tutto, come molti hanno sottolineato, per i Centri per l’impiego passa una infinitesima parte delle offerte di lavoro in Italia. Le imprese che hanno bisogno di assumere non vanno nei Centri, ma battono altre strade, la prima delle quali è sempre quella della conoscenza e relazioni personali.
Questo non sarebbe un buon motivo per fermarsi, anzi potrebbe dare la spinta a introdurre per la prima volta in Italia un sistema efficiente di collocamento pubblico del lavoro. Ma per farlo servono soldi, tempo e persone qualificate: difficile che tutto ciò possa essere trovato nelle poche settimane che separano dalla deadline (scadenza non prorogabile) per l’avvio del «reddito», ossia maggio 2019 – data che non ha una motivazione economica o sociale ma puramente politica, le elezioni europee nelle quali si misureranno i nuovi pesi dei partiti di governo.

i Centri per l’impiego
Tutto ciò non deve però far cadere in una illusione, che pare affacciarsi in molti commenti: che basterebbe avere dei Centri per l’impiego funzionanti e attivi, come nei Paesi europei più avanzati, per trovare il lavoro alle persone. Anche se in Italia c’è una difficoltà di incontro tra domanda e offerta di lavoro – capita a imprese del Veneto di non trovare operai specializzati, per esempio –, la ragione principale della disoccupazione è nella scarsità di offerta di lavoro complessiva da parte delle imprese e del settore pubblico, dovuta a sua volta alle condizioni economiche e a una crisi del sistema produttivo e delle finanze pubbliche che viene da lontano, per non parlare dello squilibrio territoriale. Basterebbe portare in provincia di Caltanissetta un Centro per l’impiego di Gotenbog (i soliti svedesi sono sempre i più bravi) per trovare lavoro ai giovani nisseni? Tanto più che questo Centro sarebbe gravato anche, con la nuova legge, di un compito in più: controllare che chi è nel programma del «reddito» non faccia il furbo, verificare quali lavori è tenuto ad accettare, a quanti chilometri di distanza, se le motivazioni per cui rifiuta sono accettabili oppure no, e allora se revocare il sostegno… Un apparato amministrativo che richiederebbe una burocrazia di un’efficienza superiore alla media, non solo italiana ma anche europea.

di fatto un programma per l’occupazione
Questi problemi c’erano in parte anche con il Rei, e si pongono ogni qual volta si introduce una misura che ha delle condizioni: l’amministrazione deve verificare le condizioni stesse. Ma, data la scarsità delle risorse e la particolare inefficienza dell’amministrazione italiana, soprattutto in questo campo, sarebbe stato meglio alleggerire le condizioni, introdurre solo quelle verificabili, concentrarsi sull’obiettivo: sostenere i poveri, quelli veri, e vigilare contro il sommerso in cui potrebbero rifugiarsi molti titolari del sostegno. Invece si è voluto trasformare il nuovo «reddito» in un programma per l’occupazione. In tutta la retorica – perché tale resterà – della spinta al lavoro, dei controlli e delle punizioni, poi, il Movimento Cinque Stelle si è buttato con una verve tutta sua, esaltando quella parte della sua storia e cultura che ha una radice (giustamente) legalitaria e una deriva (fortemente) poliziesca.

opposizione in difficoltà
Ma anche l’opposizione è in difficoltà, sull’argomento. Essendo nella stessa filosofia del Rei, introdotto dai governi di centrosinistra, è un po’ strano adesso sparare addosso al «reddito di cittadinanza». È apparso contraddittorio anche il principale argomento della propaganda del Pd, spes- so ripetuto in tv e sui social: ci sono due persone, che vivono sullo stesso pianerottolo, una lavora part time come cassiera e guadagna 600 euro al mese, l’altra non lavora e ne prende 780 dallo Stato. Come se lo scandalo fosse nella seconda parte del- la frase, e non nella prima: un lavoro pagato 600 euro al mese.
Per motivi pratici la difficoltà di far funzionare i centri per l’impiego – e ideali – la necessità di affrontare il problema della disoccupazione dal lato giusto, quello del- la domanda e creazione di lavoro – sarebbe meglio distinguere tra gli obiettivi, e associare a ogni obiettivo il suo strumen- to. Assistenza per combattere la povertà, politica economica e industriale per combattere la disoccupazione, la sottoccupa- zione, i bassi salari. Nel calderone del «reddito di cittadinanza» (che tale non è) rischia di bruciare qualche buona idea e la residua credibilità della politica nell’af- frontare i drammi dell’economia. Una pro- spettiva preoccupante, soprattutto dopo gli ultimi dati che fanno prevedere una nuo- va recessione in vista per l’Italia, sia per il peggiorare delle condizioni internazionali che per l’assoluta mancanza di politiche nazionali in grado di rimettere il Paese su un cammino di crescita.
Roberta Carlini

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ROCCA 15 FEBBRAIO 2019
REDDITO DI CITTADINANZA
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