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Coronavirus. Pensare, analizzare, agire. Il contributo dei redattori della rivista Rocca, della Pro Civitate Christiana di Assisi su ANZIANI, DISUGUAGLIANZE, MIGRANTI, SCIENZA

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ANZIANI
gli scarti di un sistema

di Ritanna Armeni su Rocca.

E’ stata la presidente della commissione europea Ursula Von der Lyen a lanciare per prima l’idea.
Per combattere efficacemente i coronavirus è bene che gli anziani rimangano in quarantena fino alla fine del 2020. Non è chiaro se per anziani si intende chi ha superato i sessantacinque o i settanta anni di età, ma l’idea è piaciuta anche in Italia. Sono due mesi che il paese è fermo, è necessario riprendere l’attività produttiva, allentare le prescrizioni, ma occorre farlo gradualmente e allora – si dice – restino a casa gli anziani, quelli che sono più deboli, più soggetti alla malattia e alla morte.
Parte consistente dell’opinione pubblica ha approvato. Sì, gli anziani a casa. Gli altri fuori a lavorare o a cercare un lavoro, a studiare, a viaggiare, i più vecchi possono farne a meno. In fondo che cosa costa un altro po’ di carcere domiciliare a chi non è produttivo?
C’è voluto poco e quella che sembrava un’ipotesi come tante si è trasformata in un dibattito aspro e cattivo.
L’ipotesi di tenere a casa ancora per qualche mese gli anziani è diventata in parte dell’opinione pubblica necessaria e utile; il motivo della scelta è pian piano cambiato: non più la protezione della loro debolezza, ma la loro inutilità, anzi il danno che possono procurare al già debole stato sociale del paese.
Soprattutto nei social che – piaccia o meno – sono in gran parte lo specchio del paese.
In essi si riflette la gente per quello che è, fuori da ogni mediazione culturale, quindi anche con le brutture, gli eccessi, le forme d’inciviltà. E nei social il dibattito si è sviluppato con virulenza, la verità si è trasformata nel suo contrario, la polemica è dilagata.
Gli anziani da soggetti da proteggere si sono trasformati in pericolosi portatori del contagio, da vittime di un sistema sanitario, evidentemente impreparato e non all’altezza, in pericoli per la salute degli altri, dei giovani, dei produttivi.
Se si ammalano – qualcuno ha detto – occupano un posto in terapia intensiva e lo tolgono ai giovani. Gli ospedali devono essere decongestionati, i vecchi devono lasciare il posto.
Il fatto che gli anziani aspirino, come tutti alla libertà di movimento, a godere di una primavera o di un estate, a frequentare librerie, è segno di egoismo.
Fatto il primo passo se ne sono fatti altri. I vecchi che vogliono uscire e che vorreb- bero, come dice la Costituzione, avere gli stessi diritti e doveri di tutti i cittadini, sono stati trasformati in facili bersagli. Hanno avuto già tutto, si è detto: il lavoro che oggi scarseggia, i diritti che sono stati quasi del tutto annullati, la pensione che i precari se la sognano.
E poi ancora. Hanno distrutto il paese portando il debito a livelli insopportabili. Sono state le cicale del benessere e ora sono diventati i parassiti della crisi.
Per un curioso cortocircuito che si verifica spesso nelle vicende italiane, i fautori de «gli anziani a casa» non hanno cercato l’obiettivo vero delle proprie difficoltà, frustrazioni e disperazioni, hanno individuato quello più a portata di mano. E anche se non è giusto pazienza.
È avvenuto altre volte, anzi avviene quasi sempre. Non siamo ancora usciti da anni in cui i danni e le tragedie prodotte da una globalizzazione senza controllo poli- tico e sociale sono stati attribuiti alla corruzione della politica e poi alla politica tout court. Le conseguenze le paghiamo ancora. Ci sono stati anni in cui un pensiero mainstream, anche di sinistra, ha contrap- posto i garantiti, anche quando erano lavoratori manuali con salari bassissimi ai non garantiti, i giovani disoccupati. E questo è bastato per renderci ciechi sulle vere cause della fine di tante importanti garan- zie sociali. Per non capire che la disoccupazione era fatto strutturale su cui inter- venire e non una contrapposizione fra salariati e disoccupati.
Poi è venuto il momento in cui si sono contrapposti gli onesti e laboriosi italiani agli immigrati parassiti pur di non affrontare e risolvere i problemi epocali dell’immigrazione. Potrei continuare. Oggi si tirano in ballo gli anziani per nascondere i fallimenti della lotta all’epidemia, le man- canze enormi del servizio sanitario nazionale, l’incapacità di reazione immediata al virus della comunità scientifica, la mediocrità della classe politica, i ritardi e soprattutto le difficoltà di una ripresa economica e sociale in un paese in ginocchio. Quando s’iniziano queste guerre il primo a morire è il buon senso. Si dimentica ad esempio che l’epidemia è dilagata proprio nelle zone produttive del paese, dove i contatti e quindi i contagi sono maggiori e gli anziani ne sono stati vittime anche se loro presumibilmente non frequentavano i luoghi di maggior contagio. Che sono morti perché più deboli in un paese che non ha saputo curarli. Sì, il buon senso sparisce e lascia posto alla ricerca del nemico chiunque esso sia, purché vicino e ci eviti lo sforzo di pensare un po’ di più, di acuire il nostro senso critico, di guardare alla realtà. È più facile essere cattivi che intelli- genti. Ed è facilissimo essere cattivi quando il terreno è stato ampiamente preparato. Sono anni che in Italia i politici al governo – tutti i governi – attaccano i cosiddetti privilegi degli anziani, che riducono le loro pensioni, che li indicano come i privilegiati di un sistema di garanzie, che contrappongono la loro vita «facile» e sicura a quella precaria e incerta dei giovani.
Sono anni. È stato comodo, molto comodo. Adesso un altro passo è stato fatto. Sono diventati pericolosi per la salute, scarti di un sistema che per andare avanti deve metterli da parte.
Non vi chiedete più per favore se da questa tragica epidemia usciremo migliori o peggiori. È evidente che siamo già peggiori.
Ritanna Armeni
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DISEGUAGLIANZE
il virus
non colpisce tutti in modo uguale

di Roberta Carlini su Rocca

Inizialmente si era pensato a un virus che agiva come «a livella» di Totò, e che eravamo tutti uguali davanti al nemico sconosciuto, senza differenza tra ricchi e poveri. Anzi, una prima mappa della geografia del virus «privilegiava» le regioni più economicamente interconnesse, dalla metropoli industriale di Wuhan al fitto tessuto produttivo del Nord Italia. E poi, metropoli internazionali come Milano, Londra, New York in ginocchio. Manager, grandi attori, registi, intellettuali, usi a viaggiare per eventi, conferenze, commerci. Ma questi erano solo i vettori della diffusione di un virus destinato a colpire, oltre che il cuore, i meccanismi stessi della globalizzazione, che già era in pericolo per l’ondata di sovranismi e protezionismi, e adesso è minata dalla rottura di quelle «catene mondiali del valore» che caratterizzano l’economia dei giorni nostri. La risposta all’interrogativo sull’impatto del virus sull’altra grande malattia del nostro tempo, ossia la diseguaglianza, sta altrove. E va data in tre parti, cercando di capire quanto le diseguaglianze influiscono sulla letalità del Covid 19; qual è l’effetto delle politiche di contenimento della pandemia (i «lockdown») sulla diseguaglianza; e cosa succederà con l’arrivo della recessione mondiale che ne consegue.

la diseguaglianza da virus
Dei malati di Covid 19 in Italia non sappiamo niente. È vero, ogni giorno sono stati forniti i dati ufficiali, nel rito della conferenza stampa della Protezione civile delle 18. Ma erano solo i numeri sui tamponi, i contagia- ti, i guariti, i morti. Altri dati sono forniti dal ministero della salute, e ci dicono qual è l’età media dei deceduti (79 anni), la loro distribuzione per sesso (i due terzi sono uomini), la presenza di patologie pregresse al momento del ricovero (il 61,3% aveva altre 3 malattie, e solo il 3,6% non aveva alcuna altra patologia), la distribuzione geografica. Delle condizioni socio-economiche non sappiamo nulla. In altri posti questi dati sono disponibili: per esempio a Londra si sa che i quartieri più poveri hanno il triplo dei contagiati di quelli più benestanti. Una mappa del contagio – oltre che delle morti – che desse conto anche del lavoro, del titolo di studio, del reddito, della proprietà di case, o almeno della area di residenza, sarebbe molto utile, sia a scopi epidemiologici che per capire se il virus ha colpito maggiormente i più poveri.
Qualcosa però si può dedurre, dalle poche informazioni che abbiamo. La concomitanza di malattie pregresse è una di queste: la presenza di malattie croniche sale, ovviamente, con l’età, ma è legata anche alla condizione sociale delle persone. Come hanno notato i sociologi Giuseppe Costa e Antonio Schizzerotto, per esempio, «a Torino nel 2018, a sesso ed età identici, le persone con diabete di tipo 2 (una delle malattie croniche fortemente predisponenti per un esito infausto del contagio) ammontavano al 4,5 per cento dei laureati e al 13 per cento dei soggetti con la scuola dell’obbligo». Il legame tra la speranza di vita, la salute e la condizione socio-economica – dimostrato da molta letteratura scientifica – è evidente anche nella media generale che qualche tempo fa ha fornito l’Istat, secondo la quale la speranza di vita «si allunga» di tre anni per gli uomini laureati. Non abbiamo dati neanche sulle condizioni economiche degli anziani contagiati e morti nelle case di riposo – uno degli epicentri della tragedia del coronavirus, in Lombardia ma anche in tanti altre parti del mondo –, ma sappiamo che, almeno per l’Italia, nella maggioranza dei casi gli anziani che possono permettersi di mantenere una casa e un/una badante di solito preferiscono questa soluzione a quella della casa di riposo. Molto probabilmente, quando avremo dati più chiari e certi scopriremo quello che dalle cronache si può intuire, ossia che l’arrivo e la diffusione del virus possono essere casuali, ma la capacità di difendersi dal virus non è uguale per tutti. In altre parole, i più poveri sono più vulnerabili. E solo grazie alle rigide misure di distanziamento sociale decise il 9 marzo non abbiamo assistito – per fortuna – all’azione di un altro tipo di diseguaglianze, quelle territoriali: poiché il virus non è «sbarcato» in massa al sud, dove le condizioni di salute degli anziani sono mediamente peggiori, e dove la capacità degli ospedali di reggere l’urto sarebbero state ancora inferiori.

la diseguaglianza da lockdown
Un altro misuratore della «diseguaglianza da Covid» è legato proprio al «lockdown», ossia alla chiusura di attività e produzioni, scuole e università. L’Istat ne ha quantificato la portata sull’economia: dal 9 marzo ha chiuso i battenti il 34% della produzione, per un totale di circa 8 milioni di occupati (un terzo degli occupati totali in Italia). La chiusura ha avuto un impatto diverso a seconda delle varie situazioni: c’è stato chi ha perso una parte delle sue entrate – perché rientrava nelle categorie protette dallo scudo della cassa integrazione o dell’indennità di disoccupazione, che il governo ha allargato –, chi ha perso tutte le sue entrate – perché aveva un contratto a termine non rinnovato, o forme di lavoro ancora più precarie fino al «nero» –, chi ha perso anche l’investimento che aveva fatto nell’attività chiusa. Il Forum Diseguaglianze e Diversità ha fatto una stima del lavoro «fragile», quello più colpito dal lockdown e non protetto abbastanza dalla sicurezza sociale: in totale, 9-10 milioni di persone. Si tratta di lavoratori a termine, in somministrazione, a partita Iva, piccoli imprenditori di settori «non resilienti», ossia non in grado di reggere l’urto delle mancate entrate per un periodo così lungo. La conclusione è nell’aumento delle diseguaglianze da lavoro, ossia quelle che già c’erano tra persone che comunque lavoravano, non erano nella fascia «tradizionale» della povertà.
Ma di questi aspetti economici del lockdown si è discusso molto, anche se non sempre con decisioni conseguenti: gli ammortizzatori sociali, pur debitamente aumentati, non sono riusciti a coprire tutti. Eppure quegli strumenti, lascito del welfare del secolo scorso, si sono rivelati utili e maneggevoli, anche se ovviamente molto costosi per le finanze pubbliche.
Si è pensato meno, e si hanno meno stru- menti a disposizione, per un altro tipo di diseguaglianza enormemente esasperata nelle settimane in cui siamo stati tutti chiusi in casa. Quella che passa per le stesse mura di casa, gli spazi, le dotazioni; e quella che ha colpito i più giovani e piccoli, i ragazzi e i bambini che non sono potuti andare a scuola. In questo caso il virus è stato tutt’altro che «la livella» di Totò, ha colpito proprio in basso. Le nostre case non sono tutte uguali, e non solo per bellezza, ariosi- tà, presenza di un giardino o un terrazzo: parliamo delle condizioni di base, dello spazio. Nella media, oltre un quarto delle famiglie italiane – dice l’Istat – vive in sovraffollamento abitativo. La quota sale al 41,1% per le famiglie nelle quali ci sono minori. Che non avevano «una cameretta tutta per sé», e a volte neanche da condividere solo con il fratello o la sorella, per collegarsi con la maestra e fare lezione. A proposito: la stessa indagine dell’Istat dice che il 14,3% delle famiglie con almeno un minore non ha a casa un computer o un tablet. La scuola a distanza, bellissimo esperimento nel quale molti hanno scoperto qualcosa di nuovo e che potrà tornare utile in futuro, per almeno un decimo dei nostri studenti è semplicemente impossibile. Per- ché non hanno computer, o rete, o spazio vitale. La chiusura delle scuole, misura sanitaria obbligata, è da questo punto di vista un’ingiustizia sociale prima ancora che un pericolo educativo: e colpisce il fatto che nei dibattiti sui pro e contro della riapertura pochissimi abbiano parlato di scuola, e anzi che sia stato accettato in assenza di un qualsiasi dibattito pubblico il fatto che le scuole riapriranno per ultime, a settembre.

la diseguaglianza da recessione
In passato, per precedenti epidemie o choc, si è parlato di un effetto inverso sulla diseguaglianza: eventi tragici come pandemie e guerre storicamente hanno ridotto le diseguaglianze poiché, causando una riduzione della forza lavoro, hanno fatto poi salire i salari al momento della ripresa. Molti economisti prevedono che stavolta non sarà così. Non solo per quanto detto finora – i primi effetti del virus e del lockdown – ma perché le previsioni sulle conseguenze economiche della pandemia contengono numeri senza precedenti. Quel che si teme è una recessione prolungata e profonda, che dunque lascerà senza lavoro molte persone e per molto tempo. Ridisegnerà interi settori economici, e – se le cose vanno bene – se ne uscirà con produzioni diverse o diversamente organizzate e lavori «nuovi», ma nella transizione molti potrebbero restare incastrati. La capacità e le risorse dei vari livelli di governo saranno determinanti, così come le capacità e le risorse individuali – che dipendono dal talento, ma anche e soprattutto dal «capitale familiare», dall’istruzione ricevuta, da quella che ci si potrà permettere di conquistare in tempi di crisi. Tutti motivi per ritenere che la recessione post-pandemia (o in corso di pandemia) può far deflagrare il problema della crescente diseguaglianza, a meno che non entrino in gioco potenti meccanismi di redistribuzione del peso e del rischio. Come ha scritto l’economista Maurizio Franzini, uno dei maggiori studiosi della diseguaglianza in Italia, «le politiche, a tutti i livelli, dovranno essere estremamente attente a frenare i rischi di aggravamento delle dinamiche che negli scorsi decenni hanno prodotto crescente disuguaglianza nei mercato e che possono trarre perverso alimento dalla pandemia, che di certo non produrrà un automatico miglioramento delle disuguaglianze. Se quelle politiche mancheranno il futuro per i ‘poveri’ potrebbe essere perfino peggiore del loro passato».
Roberta Carlini
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MIGRANTI
una risorsa fondamentale

di Fiorella Farinelli
[segue]