EUROPA

Venerdi 26 gennaio 2024

Domani venerdì 26 gennaio 2024 ———
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Gigi Riva merita un monumento. Noi sardi glielo dobbiamo!

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Appoggiamo con entusiasmo la proposta della dedica a Gigi Riva del monumento attualmente dedicato a Carlo Felice e la nuova intitolazione della strada: Largo Gigi Riva
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Messaggio del Vescovo e celebrazione esequiale di Gigi Riva

Sarà monsignor Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, a presiedere la Messa esequiale di Gigi Riva, domani 24 gennaio alle ore 16, presso la Basilica di Nostra Signora di Bonaria.

L’Arcivescovo ha rivolto un messaggio, unendosi al cordoglio per la morte del calciatore, figlio adottivo della terra sarda.

«La morte di Gigi Riva tocca nel profondo il cuore di Cagliari e di tutta la Sardegna. Nella sua carriera di calciatore e di dirigente scorgiamo le caratteristiche dell’etica sportiva che, più volte, papa Francesco ha ricordato, soprattutto nel dialogo con gli atleti: la lealtà, il coraggio, la disciplina del corpo e della mente, la fantasia e il sacrificio, l’amicizia, lo spirito di gruppo, l’agonismo non come prevaricazione ma come ascesi spirituale, il riscatto sociale.
Sardo di adozione, si è sentito parte di un popolo che lo ha apprezzato non solo per le sue doti sportive ma anche per la semplicità e genuinità che sempre l’hanno contraddistinto. La sua vita ci insegna che il vero campione non si lascia stordire dal divismo e che il contatto sincero e spontaneo con il popolo, e non solo con i tifosi, è un’occasione unica per trasmettere i valori autentici dello sport.
Nella preghiera, affidiamo Gigi Riva all’abbraccio eterno del Signore che ama la vita».
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Cosa vuole il Popolo. Cosa vogliono i sardi. Ascoltateci!

img_6050[Una bella e condivisa proposta di Pierluigi Marotto]. Allora la dico cosi, visto che il tempo del cazzeggio è dell’uso dei muscoli È SCADUTO!
@Renato Soru, concorra a definire e far eleggere la prima donna sarda alla Presidenza della Giunta Regionale
@Alessandra Todde ,concorra a definire e far eleggere R.SORU alla Presidenza del Consiglio Regionale quale garante dell’attività legislativa e istituzionale per portare la Sardegna in Europa e
accompagnare il processo di
Autodeterminazione del Popolo
sardo.
Le future generazioni avranno a
ricordare il 2024 come l’anno della
svolta e della emancipazione
civile, politica e sociale della nostra
Terra Madre.
Abbiate il coraggio entrambi di
liberarvi di certi nani e quaraquaqua e
puntate a mandare la destra
all’opposizione senza se e senza ma.
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Il Papa da Fazio

img_6028Non c’è solo la proverbiale ironia di papa Francesco dietro quel suo riconoscersi solo alla luce di scelte pastorali coraggiose, da ultima il via libera alle benedizioni delle coppie gay. “Traspare anche una certa paura, mista ad amarezza, per il rendersi conto che ampie fette della Chiesa, quelle più praticanti, non lo stanno seguendo”, è il teologo Vito Mancuso a mettere il dito nella piaga della crescente solitudine di Bergoglio sullo sfondo dell’apparizione di quest’ultimo al programma Che tempo che fa.

Il Governo di Israele alla sbarra degli imputati

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Dobbiamo essere per la pace

img_5240 Amos Oz: “A voi europei tocca riservare ogni oncia di aiuto e solidarietà a questi due pazienti, sin d’ora. Non dovete più scegliere fra essere pro Israele o pro Palestina. Dovete essere per la pace”.
Contro il fanatismo
di Roberto Paracchini

C’era una volta un bambino che amava molto osservare le persone. E poi c’era un gelato, che a quel bambino piaceva molto. E c’era anche una promessa: “Se fai il buono ti compriamo il gelato”. E c’era pure un locale, un Caffè, dove quel bambino veniva portato dai genitori che “dovevano discutere con i loro amici”, come gli raccontavano. E a quel bambino non piaceva molto starsene lì con tutti quei grandi sette giorni su sette. “Allora dovevo pur fare qualcosa di me stesso, per non urlare o dar fuori di matto”. Sì, certo c’era la promessa del gelato, ma non bastava. “Così me ne stavo lì seduto, come un piccolo detective, a osservare il via vai del locale – gente che entrava, gente che usciva… e come uno Sherlock Holmes, ne studiavo gli abiti, le facce, i gesti, le scarpe, rimiravo le borsette e ingannavo l’attesa inventando piccole storie su questa gente, fantasticando sulla loro provenienza o sui rapporti tra quelle due donne e quell’uomo seduti al tavolino d’angolo…”.
Passano gli anni. Forse 50 o 60. E quel bambino, nato a Gerusalemme nel 1939, si chiama oggi Amos Oz: a 15 anni decise di cambiare il cognome originario Klausner in Oz, che in ebraico significa “forza”, poi entrò nel kibbutz Hulda dove scelse di andare in rotta coi genitori, fortemente di destra, e dove visse per i successivi 30 anni. Quel bambino, poi ragazzo, poi giovane adulto, con gli anni divenne l’Amos Oz scrittore che in molti conoscono e amano anche per la capacità di entrare nell’animo dei suoi personaggi facendoceli intimamente vivere: uno degli autori più importanti della letteratura contemporanea, morto nel 2018.
Passati tutti quegli anni e arrivati ai primi del XXI secolo, Oz confessò in alcune conferenze tenute a Tubinga (recentemente ripubblicate in Italia da Feltrinelli col titolo Contro il fanatismo) che continuava a comportarsi “così” come allora: “Quando mi capitano i cosiddetti ‘tempi morti’, in aeroporto o quando mi trovo in sala d’attesa dal dentista, o in coda da qualche parte… Ancora fantastico. E credetemi, è un passatempo utile, non solo per uno scrittore: per chiunque di noi. Accadono davvero tante cose, in ogni angolo di strada, in ogni coda in attesa dell’autobus, in qualunque sala d’aspetto di un ambulatorio, o in un Caffè… Tanta di quella umanità attraversa ogni giorno il nostro campo visivo, mentre per gran parte del tempo noi restiamo indifferenti, non ce ne accorgiamo neppure, vediamo ombre invece di persone in carne e ossa. Perciò, con l’abitudine di osservare gli estranei, e con un pizzico di fortuna, finirete presumibilmente per scrivere dei racconti congetturando intorno a quello che la gente si fa a vicenda, a come ci si appartiene a vicenda”.
Ed è proprio su questa importante constatazione, su “come ci si appartiene a vicenda”, che Oz costruisce la sua visione della letteratura, certamente, ma anche il suo modo di vivere la vita e, si potrebbe dire, il suo insegnamento. “Ogni mattina – racconta nel libro citato – faccio una piccola passeggiata nel deserto, prendo una tazza di caffè, mi siedo alla scrivania e comincio a domandarmi: ‘Come mi sentierei se fossi lei? Come dev’essere stare dentro la sua pelle?’ – questo è ciò che devi fare se vuoi scrivere anche il più semplice dei dialoghi: devi spartire non soltanto la tua fedeltà, ma persino i tuoi sentimenti tra diversi personaggi”. E non solo, “parafrasando D. H. Lawrence (…) per scrivere un romanzo bisogna essere capaci di assumersi una mezza dozzina di conflitti e sentimenti contraddittori e opinioni, con lo stesso grado di convinzione, veemenza ed empatia”.
Considerazioni, queste ultime, che gli attori teatrali ben conoscono, ma che in Amos Oz diventano non solo il propulsore della sua grande letteratura, ma anche il terreno per entrare nel dramma e nella tragedia dei luoghi in cui è vissuto. “Allora, forse – afferma – sono equipaggiato un po’ meglio degli altri per capire, con il mio punto di vista ebraico-israeliano, come ci si sente a essere un palestinese sradicato, come ci si sente ad essere un arabo palestinese cui degli ‘alieni di un altro pianeta’ hanno portato via la terra natale. E come ci si sente a essere coloni israeliani in Cisgiordania? Sì, talvolta mi infilo nei panni di quella gente oltranzista, o quanto meno ci provo”.
Nel 1967, Oz assieme a pochissime altre persone, “molto prima che fosse fondato il movimento Pace Adesso, qualche settimana dopo la spettacolare vittoria militare d’Israele nella guerra dei Sei Giorni, iniziò “a propugnare una soluzione binazionale, una Palestina accanto a Israele, cosa che in quei giorni di euforia nazionale in Israele veniva guardata non solo come un tradimento, ma anche come una manifestazione di totale idiozia”. Invece, per l’autore de “Lo stesso mare” e di tanti altri favolosi romanzi, “solo colui che ama può diventare un traditore. Il tradimento non è il contrario dell’amore, è una delle sue tante opzioni. Traditore è colui che cambia agli occhi di coloro che non possono cambiare e non cambierebbero mai e odiano cambiare e non lo concepiscono, a parte il fatto che vogliono continuamente cambiare te: così la penso io”.
“In altre parole – spiega Oz – agli occhi del fanatico il traditore è chiunque cambi. Triste alternativa quella fra il diventare un fanatico o un traditore. In un certo senso non essere fanatici significa essere un traditore agli occhi dei fanatici”. E così, “traditore lo sei comunque. Qualunque cosa tu faccia, tradisci o la tua arte o il tuo senso di dovere civile”. Ma per Oz la soluzione esiste ed è il compromesso. Per molti il compromesso “puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Per lo scrittore il fanatismo “dilaga ovunque. Non mi riferisco alle ovvie manifestazioni di fondamentalismo e oltranzismo… No, perché il fanatismo è praticamente dappertutto, e nelle sue forme più silenziose e civili è presente tutto intorno a noi, e fors’anche dentro di noi”. Poi Oz fa una serie di esempi tra cui quello, portato al paradosso, di certi pacifisti: “Conosco quei pacifisti, alcuni miei colleghi del movimento per la pace in Israele, capaci di spararmi in testa solo perché ho auspicato una strategia lievemente diversa per il processo di pace con i palestinesi”. Sia chiaro, spiega, “non voglio certo intendere che ogni opinione convinta sia una forma di fanatismo. Certo che no. Però penso che il seme del fanatismo si annidi immancabilmente nella rettitudine inflessibile, piaga di molti secoli”. E nemica inflessibile del compromesso.
Nei romanzi di Oz nessuno è un’isola, chiuso e impermiabile al mondo, ma tutti sono una penisola, legati alla terra del proprio modo di essere e all’oceano, gli spazi del cambiamento. “Se nei miei romanzi c’è messaggio metapolitico, è sempre, in un modo o nell’altro, il messaggio di un compromesso, un compromesso doloroso, e della necessità di scegliere tra vita e morte, fra l’imperfezione della vita e la perfezione di una morte gloriosa”, che tutto sommerge, si potrebbe aggiungere, come un macigno di “rettitudine inflessibile”. E non è certo un caso, sottolinea lo scrittore, che i fanatici non abbiamo senso dell’umorismo. “In vita mia non ho ancora visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo”. Questo anche perché “l’umorismo implica la capacità di ridere di sé stessi”. Umorismo come antidoto al fanatismo e al fondamentalismo, che nasce anche da una profonda conoscenza dell’ebraismo (tra le altre cose Oz ha insegnato letteratura ebraica nell’università Ben Gurion, nel Negev). “Nella vita quotidiana degli anni quaranta – ricorda – ognuno pensava di appartenere a Gerusalemme nel vero senso del termine, mentre gli altri erano considerati alla stregua di una presenza ammissibile, di sfondo”. E le “tensioni interconfessionali erano tali che ci si poteva o diventare matti oppure sviluppare un ottimo senso dell’umorismo. O ancora un senso di relatività. La convinzione insomma che ognuno ha la sua storia, ma non ce n’è una più valida o avvincente dell’altra”.
Pure qui ritorna lo spazio di un Caffè come luogo di dialogo e di produzione di storie, come quella che vede discutere animatamente alcune persone, tra cui se ne nota una più vecchia degli altri che se ne sta in silenzio, ma che si scopre essere Dio. L’avventore più vicino “ha una domanda da fargli, ovviamente molto pressante. Dice: ‘Caro Dio, per favore dimmi una volta per tutte, chi possiede la vera fede? I cattolici o i protestanti o forse gli ebrei o magari i mussulmani? Chi possiede la vera fede?’. Allora Dio, in questa storia risponde: ‘A dirti la verità, figlio mio, non sono religioso, non lo sono mai stato, la religione nemmeno m’interessa’”. Insomma, prosegue Oz, “c’è una vena di anarchia non soltanto in Israele, ma credo piuttosto nel retaggio culturale dell’ebraismo”.
Una percezione di relatività, che nasce anche dal senso dell’umorismo, è indispensabile allo scrittore per capire le ragioni degli altri. Quand’era piccolo, Oz ricorda che le prime parole in inglese da lui pronunciate “sono state British, go home!, che noi marmocchi gerosolimitani (nativi di Gerusalemme – ndr) gridavamo gettando sassi contro le pattuglie inglesi a Gerusalemme nella nostra ‘intifada’ del 1945, 1946 e 1947”. Poi la storia è diventata ancora più complessa: “Come non far maturare un senso di relatività, un senso della prospettiva e anche una triste ironia sul fatto che gli occupati possono diventare occupanti, gli oppressi oppressori, le vittime di ieri aggressori? Con quanta facilità i ruoli si ribaltano”. E la storia si incancrenisce.
“Fra noi e i palestinesi – scrive nell’ultimo suo piccolo e illuminante saggio Resta ancora tanto da dire – c’è da più di cent’anni una ferita aperta, anzi c’è una ferita infetta, piena di pus. Un ascesso, ormai”. Ma “non si cura una ferita con un bastone… Non è ammissibile continuare a infierire in questo modo su una ferita aperta, sperando che così si rimargini, che smetta di sanguinare”. Certo, “la sopraffazione non di rado va fermata con la forza… Ma nessuna ferita si cura con un bastone”. Da pacifista coerente, Oz spiega che “una ferita va curata” e che “prima di tutto bisogna trovare la lingua della cura. Che non è quella dell’oppressione, né quella della deterrenza, non è la lingua del ‘dare una lezione’”. Per lo scrittore è una lingua più semplice: “Soffri. Lo so. Soffro anch’io. Su, ricominciamo insieme”.
Nella guerra arabo-israeliana del 1948, il punto – sostiene – non è di chi sia la responsabilità del conflitto. “Il punto è la tragedia. Che siano da accusare le dirigenze arabe, o i sionisti, o entrambi, resta il fatto che nel 1948 centinaia di migliaia di palestinesi persero le loro case. So bene che nello stesso anno, durante la stessa guerra, quasi un milione di ebrei orientali dei paesi arabi persero anche loro le case e molti di loro vennero cacciati via e arrivarono in Israele”. E prima e in parte assieme a loro, molti ebrei abbracciarono l’idea sionista ma con un ventaglio vastissimo di posizioni e interpretazioni, tanto da far dire ad Oz, seppure “cum grano salis, (…) che Israele non è un paese e nemmeno una nazione. È una feroce, schiamazzante collezione di argomentazioni, un perpetuo seminario di strada”.
“Ma allora che cos’è il sionismo? – si domanda retoricamente lo scrittore in Resta ancora tanto da dire, consapevole che è questa la domanda che molti gli pongono – Non riesco a rispondervi se non con la consapevolezza che non abbiamo un altrove”. Come dire che il sionismo nasce tra gli ebrei perseguitati da secoli, poi sterminati dal nazismo e infine rifiutati da tutti gli altri paesi, come gli stessi genitori di Oz.
In questo contesto il conflitto Israelo-palestinese era e resta una tragedia. Dopo la guerra del 1948 “un buon numero” di ebrei orientali, “finì in quelle stesse case che erano appartenute agli arabi palestinesi”. In pratica, “dopo tre quattro, cinque anni trascorsi nei campi di transito, gli ebrei sopravvissuti che venivano dall’Iraq, dal Nord Africa e dall’Egitto, Siria e Yemen ebbero finalmente una casa e un lavoro, mentre i profughi palestinesi no. La questione rimane aperta, e con dolore”.
Ed è per questo che questa lunga storia non ha “buoni da una parte e cattivi dall’altra. Non è un film western, e nemmeno un western capovolto”. C’è invece, “una tragedia: il contrasto tra un diritto e l’altro”. Un diritto e l’altro, entrambi calpestati, infatti “una delle cose che rendono il conflitto israeliano-palestinese particolarmente grave, è il fatto che esso sia essenzialmente un conflitto tra due vittime. Due vittime dello stesso oppressore. E qui Oz on ha dubbi. “L’Europa che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura, che l’ha controllato e usato come base d’imperialismo, è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia e infine sterminato in massa gli ebrei perpetrando un genocidio senza precedenti”.
La storia poi diventa particolarmente crudele, racconta Oz, perché queste due vittime di uno stesso oppressore non solidarizzano tra loro, ma si odiano. Da un lato “l’ebreo, in particolare l’ebreo israeliano, è dipinto come un’estensione dell’Europa: bianca, sofisticata, tirannica, colonizzatrice, crudele, senza cuore”. E non come “un gruppo sparuto di sopravvissuti e profughi mezzo isterici, braccati da terribili incubi, traumatizzati non solo dall’Europa, ma anche dal modo in cui siamo stati trattati nei paesi arabi e islamici”. Dall’altro lato, “parimenti noi, ebrei israeliani, non consideriamo gli arabi, nello specifico i palestinesi, per quello che sono, e cioè vittime di secoli di oppressione, sfruttamento, colonialismo e umiliazione. E invece li vediamo come dei cosacchi da pogrom, dei nazisti con i baffi, abbronzati e con indosso la kefijah”.
A fronte di tutto questo “vige su entrambi i fronti una profonda ignoranza: non di carattere politico, su scopi e obiettivi, ma relativa al vissuto di traumi che le due vittime hanno subito”. Da un lato il movimento nazionale palestinese, per molti anni, “ha mancato di riconoscere l’autenticità del legame ebraico con la terra di Israele. Perché non ha voluto riconoscere che il moderno Israele non è affatto un prodotto dell’impresa coloniale”. Dall’altro, parimenti “aggiungo subito che sono altrettanto critico verso le generazioni di sionisti israeliani che hanno mancato di riconoscere l’esistenza di un popolo palestinese, un popolo vero con veri, legittimi diritti. Così, entrambe le leadership, tanto passate quanto presenti, sono colpevoli di non aver compreso la tragedia, o se non altro di non averla spiegata ai propri popoli”.
Che fare, infine? Oz chiude Contro il fanatismo con una esortazione quanto mai attuale: “A voi europei tocca riservare ogni oncia di aiuto e solidarietà a questi due pazienti, sin d’ora. Non dovete più scegliere fra essere pro Israele o pro Palestina. Dovete essere per la pace”.

​​​​​​​​​Roberto Paracchini
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Oggi martedì 17 ottobre 2023

img_3099 Il valore politico della fraternità
di Franco Miano [dal blog di Enzo Bianchi]
La “Fratelli tutti” mostra chiaramente che senza la scelta della fraternità la ricerca del bene comune si svuoterebbe del tutto di senso.
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Enzo Bianchi “Perché Francesco rinnova il sinodo”-https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/10/enzo-bianchi-perche-francesco-rinnova.html
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Il Mondo che verrà. Questo è il momento di progettare un altro mondo per non andare tutti all’altro mondo

img_1666Il Mondo che verrà
15 Ottobre 2023

Adesso che un nuovo tremendo conflitto insanguina il Medio Oriente, mentre non accenna a placarsi la guerra in Ucraina, è più che mai necessario pensare alla pace. E’ questo il momento di pensare ad un altro mondo se non vogliamo finire tutti all’altro mondo.

di Domenico Gallo

La guerra continua da oltre un anno e mezzo senza neanche un giorno di tregua. La controffensiva che avrebbe dovuto portare l’Ucraina alla vittoria è iniziata da più di tre mesi, senza produrre nessuno spostamento significativo del fronte. È in corso una orribile guerra di attrito che ci ricorda quella delle prime undici battaglie dell’Isonzo combattute da giugno 1915 a agosto 1917. Battaglie combattute praticamente senza spostamenti significativi del fronte, ma con centinaia di migliaia di morti da entrambe le parti. «La realtà, da un lato e dall’altro, è una guerra di trincea – ha scritto il generale Antonio Li Gobbi su Analisi difesa – che pensavamo fosse relegata con le sue brutture nella nostra preistoria. Combattimenti senza gloria condotti in fetide trincee dove le lacrime si mischiano al sudore, il sangue agli escrementi, il fango ai cadaveri che non possono trovare tempestiva sepoltura». I numeri di questa carneficina, fatti trapelare dal colonnello Douglas Macgregor (cfr Mini, il Fatto quotidiano, 13/9/2023), già consigliere del Pentagono, sono impressionanti. «Valutiamo che gli ucraini abbiano avuto 400 mila morti in combattimento. Nell’ultimo mese di questa presunta controffensiva che avrebbe dovuto spazzare il campo di battaglia, hanno avuto almeno 40.000 morti. Non sappiamo quanti siano i feriti, ma sappiamo che probabilmente tra i 40 e i 50.000 soldati hanno subito amputazioni, che gli ospedali sono pieni».

Gli esperti militari avevano avvertito i responsabili politici che la “vittoria” sul campo dell’Ucraina era un obiettivo impossibile. In particolare, il Capo di Stato maggiore dell’esercito americano, gen. Mark Milley, aveva avvisato: «Né l’Ucraina né la Russia sono in grado di vincere la guerra che, invece, può solo concludersi ad un tavolo negoziale». Le scelte degli Usa e della Nato, invece, puntano ad istigare Zelensky alla guerra ad oltranza. Da ultimo il segretario di Stato Antony Blinken si è recato a Kiev, il 6/7 settembre, portando aiuti per un miliardo di dollari. Gli aiuti statunitensi – ha detto Blinken – consentiranno alla controffensiva ucraina di “acquisire slancio”. L’orientamento degli architetti della politica internazionale dell’Occidente di proseguire la guerra ad oltranza (promettendo a Zelensky una vittoria impossibile) comporta il prolungamento di un massacro senza senso e senza nessuno sbocco, come fu la guerra di Corea, che si concluse con un armistizio lasciando inalterata la linea del fronte, dopo aver provocato quasi tre milioni di morti. L’armistizio, firmato il 27 luglio del 1953, pose fine ai combattimenti ma non allo stato di guerra poiché dopo settant’anni non è stato ancora stipulato un Trattato di pace.

Mentre continua il coro, intonato da politici e mass media sulle note di Biden e Stoltenberg, che invoca la vittoria e promette la continuazione del massacro, nessuna Cancelleria, nessuna forza politica è capace di aprire una finestra sul futuro. Nessuno è in grado di azzardare un progetto per il futuro, anche perché gli eventi che hanno provocato la guerra e che determinano la sua continuazione ad oltranza, annunziano un futuro oscuro del quale è meglio non parlare. È stato uno dei principali interpreti della prima guerra fredda, Henry Kissinger (in un intervista al Corriere della Sera del 28 giugno 2022) ad avvertirci che bisogna guardare come porre fine al conflitto: «Stiamo arrivando a un momento – afferma – in cui bisogna affrontare la questione della fine della guerra in termini di obiettivi politici altrettanto che militari: non si può semplicemente continuare a combattere senza un obiettivo».

Per Kissinger l’unico obiettivo realistico che può garantire la pace è di reintegrare la Russia nell’Europa, non certo spingerla ad est nelle braccia della Cina. Perché questo è il punto centrale del suo ragionamento: va sconfitta l’invasione dell’Ucraina, «non la Russia come Stato e come entità storica». E dunque, quando le armi alla fine taceranno, «la questione del rapporto fra Russia ed Europa andrà presa molto seriamente». Il presupposto, sottolinea Kissinger, è che la Russia è stata parte della storia europea per cinquecento anni, è stata coinvolta in tutte le grandi crisi e «in alcuni dei grandi trionfi della storia europea»: e pertanto «dovrebbe essere la missione della diplomazia occidentale e di quella russa di tornare al corso storico per cui la Russia è parte del sistema europeo. La Russia deve svolgere un ruolo importante».

Senonchè l’obiettivo di reintegrare la Russia nel sistema europeo è diametralmente opposto agli obiettivi perseguiti da una politica che, attraverso l’allargamento ad est della Nato e la svolta russofoba dell’Ucraina dopo il golpe di Maidan, ha identificato la Russia come nuovo nemico da sostituire alla dissolta Unione Sovietica, scavando un solco per dividere per sempre la Russia dal resto dell’Europa. Questo solco adesso si è trasformato in una cortina di ferro fondata sul sangue e sull’odio. Una cortina invalicabile perché alimentata dall’odio generato da 500.000 morti, milioni di profughi e distruzioni incommensurabili.
Il conflitto in corso rischia di essere una guerra costituente su cui si decideranno gli equilibri geopolitici internazionali, la posta in gioco è il futuro del mondo. Un mondo nel quale, alla collaborazione fra le principali potenze posta a base del progetto di pace delle Nazioni Unite, si sostituirebbe la logica della contrapposizione inevitabile e del confronto politico-militare fra l’Occidente collettivo a guida Usa e la Cina, in un crescendo di tensioni e di corsa al riarmo. Questo vale soprattutto per Europa dove – qualora si dovesse giungere ad una tregua di tipo coreano – la guerra proseguirebbe con altri mezzi. Resterebbero in piedi le sanzioni, la separazione economica e l’apartheid nei confronti della società e della cultura russa. Resterebbe in piedi l’accumulo delle minacce militari e la corsa al riarmo, a danno delle spese sociali. Una cappa di terrore e di odio, graverebbe sul continente avvelenando la vita delle nazioni.

Non bisogna rassegnarsi al futuro orribile che il conflitto in corso lascia intravedere. Se è indifferibile un’azione politica per fermare la prosecuzione della guerra, a cominciare dal blocco della fornitura di armi, è altrettanto urgente pensare a come uscire dalla guerra e dalle cause che l’hanno generata.
In realtà è proprio durante la guerra che è più forte l’esigenza di pensare la pace, di delineare un progetto che consenta di superare le cause che hanno provocato la guerra per ristabilire la convivenza pacifica fra le nazioni. Come fecero quei visionari che nel 1941 misero mano al Manifesto di Ventotene. Come ci ha ricordato Pasqualina Napoletano (CRS: Pensare la pace sotto le bombe): «quel gruppo di visionari, riuscì a concepire un progetto capace di andare oltre l’odio, con l’intento di riappacificare popoli e nazioni, responsabili di due Guerre Mondiali. Un progetto coraggioso, che non si fondasse sull’umiliazione e sulla vendetta ma sulla integrazione economica e politica: gli Stati Uniti d’Europa». Quale progetto per la riappacificazione e la convivenza pacifica, o quanto meno per la sicurezza collettiva in Europa abbiamo articolato? Quale progetto abbiamo in mente per prosciugare l’oceano di odio che la guerra ha creato fra due popoli fratelli e ripudiare il conflitto tribale fomentato dai nazionalismi, l’un contro l’altro armati? Se si oscurano le cause che hanno portato alla scoppio del conflitto, ivi compreso il fatto che per oltre 25 anni gli Usa hanno praticato una nuova guerra fredda per umiliare ed isolare la Russia, come si fa a rimediare agli errori commessi per impostare un nuovo criterio di convivenza pacifica?

La visione del futuro può nascere solo da una revisione critica del passato, dal ripudio di una politica orientata a costruire l’ostilità nei rapporti fra le nazioni, a perseguire la “sicurezza” di una parte (la nostra) a danno dell’altra parte, incrementando le minacce militari e l’assedio geopolitico al “nemico”. Bisogna costruire un percorso a ritroso, riprendendo la strada che portò alla Conferenza sulla Sicurezza e cooperazione in Europa, conclusasi nel 1975 con l’Atto finale di Helsinki. I principi della Conferenza, condensati nell’Atto finale sono serviti a favorire la distensione fra i contrapposti blocchi militari in un’epoca in cui erano ancora presenti tutte le insidie della guerra fredda, ed hanno configurato la sicurezza in Europa come sicurezza collettiva fondata sul disarmo. Questi principi sono stati calpestati da una politica che ha privilegiato la contrapposizione al posto della cooperazione, l’emarginazione al posto del dialogo, il riarmo unilaterale al posto del disarmo negoziato, la costruzione dell’ostilità al posto dell’amicizia fra i popoli.

Per prima cosa occorre ripudiare la pretesa di costruire la pace attraverso la “vittoria”, cioè l’umiliazione della Russia e la negazione dei suoi interessi. Questa pretesa esclude ogni possibilità di negoziato, la mediazione non contempla vittorie, ma è, per antonomasia, la conciliazione di interessi geopolitici contrapposti, a cui si deve dare identica legittimità .
Bisogna pensare ad un futuro “disarmato”, in cui la sicurezza per i singoli Stati e per l’Europa nel suo complesso non sia fondata sul riarmo e l’estensione della minaccia militare, bensì sul disarmo negoziato e sulla riduzione della pressione militare. La Nato deve cessare di “abbaiare” ai confini della Russia e l’Ucraina non può essere la lancia della Nato nel costato della Russia. Deve essere restaurata la convivenza pacifica fra i due popoli dell’Ucraina e fra l’Ucraina e la Russia. Il baratro di dolore che la guerra ha scavato fra i due popoli può essere colmato solo col negoziato e non con le armi o la vendetta. Un negoziato sotto l’egida dell’Onu che dia la parola alle popolazioni interessate, perché se le frontiere sono inviolabili, ancora più inviolabili sono gli esseri umani, che non possono essere sacrificati dai loro governi per tracciare i confini con i coltelli.

È questo il momento di definire un progetto che superi non solo il conflitto in armi, ma quel sistema di dominio e di contrapposizione politica e militare che ha generato la guerra e sta distruggendo l’Europa. È il momento di pensare che un altro mondo è possibile e di progettarlo, come fecero quegli intellettuali cattolici che scrissero fra il 18 e il 24 luglio del 1943, prima della caduta del fascismo e nella fase più drammatica della guerra, il “codice dei Camaldoli”, prefigurando un nuovo ordinamento che trovò inveramento, grazie al contributo fecondo di altre culture, nella Costituzione della Repubblica italiana.
Bisogna pensare a come reintegrare la Russia nell’Europa, ad un negoziato che punti a ristabilire il dialogo, il confronto, la fiducia, gli scambi culturali con il popolo russo, in modo che la Russia non sia più avvertita come una minaccia per l’Europa e l’Europa non sia più avvertita come una minaccia per la Russia. Bisogna ripensare all’Europa recuperando l’impostazione originaria dei padri fondatori che hanno messo la costruzione della pace a fondamento del progetto europeo.
Il mondo che verrà sarà orribile se non saremo capaci di ripudiare le scelte che hanno aperto la strada al ritorno della guerra in Europa e nel resto del mondo. Questo è il momento di progettare un altro mondo per non andare tutti all’altro mondo.
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NON VOGLIO VENDETTA DA NESSUNO
11 OTTOBRE 2023 / COSTITUENTE TERRA / SI SALVANO INSIEME /
La vendetta è il contrario della sicurezza, è il contrario della pace, è anche il contrario della giustizia. Netaniahu: ” un uomo dai molti slogan. Promette che Israele prenderà una potente vendetta e che il nemico pagherà un prezzo senza precedenti”

Orly Noy* (The Guardian)

Siamo sotto shock mentre digeriamo gli attacchi di Hamas e i fallimenti del governo di Netanyahu. La preoccupazione ora è ciò che verrà dopo

È ancora impossibile digerire questi giorni più bui del buio, iniziati con le sirene che ci hanno svegliato di soprassalto sabato mattina, un giorno che sembra infinito e probabilmente non finirà per molti giorni a venire. Il pensiero dei rapiti nella Striscia di Gaza mi opprime dal dolore. Ogni pensiero su di loro lascia uno strato di terrore sulla pelle. Le immagini e le testimonianze di corpi sparsi in ogni angolo, di famiglie tenute in ostaggio per ore come scudi umani nelle proprie case dai militanti di Hamas, tormentano ancora la mente, congelando il cuore.

Lo shock assoluto causato dall’attacco di Hamas alle città del sud ha assunto varie forme con il passare delle ore: paura, impotenza, rabbia e, soprattutto, un profondo senso di caos. I colossali fallimenti del governo di Benjamin Netanyahu e dell’apparato di sicurezza stanno convergendo in un senso di collasso totale. Il sistema di intelligence, che sorveglia ogni aspetto della vita dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, non era a conoscenza dell’attacco; i civili sono rimasti indifesi per molte ore contro i militanti di Hamas, che li hanno intrappolati nelle loro case e massacrati senza l’intervento militare – gli stessi militari incaricati di proteggere ogni colono in Cisgiordania in ogni momento.

Siamo scioccati dalla mancanza di informazioni affidabili durante le lunghe ore in cui le persone cercavano disperatamente familiari e amici scomparsi, inondando i social network con le foto dei propri cari scomparsi. E ora assistiamo all’assenza di rifornimenti e cibo sufficienti per le forze di riserva arruolate frettolosamente e inviate in prima linea contro Hamas, lasciando il compito di organizzare gli articoli di cui hanno bisogno ai civili in ogni città e paese.

Domenica Netanyahu ha dichiarato formalmente guerra e ora, in questo momento, tutto Israele è in stato di guerra. I missili che sono caduti nel cuore di Tel Aviv e il bombardamento delle città del nord hanno trasformato l’intero paese in un campo di battaglia, almeno nella percezione pubblica.

Qui a Gerusalemme si cerca di mantenere la speranza che Hamas non lanci missili verso la città a causa della sua vicinanza alla moschea di al-Aqsa, ma l’ansia generale persiste. Le scuole sono state chiuse, così come tutte le attività commerciali, e pochissime persone sono in strada. Chi non deve farlo, non esce di casa. Sabato sera, dopo ore trascorse con ansia a guardare la televisione e i social media, mia figlia è stata presa dal panico per il timore che i militanti di Hamas, armati e ancora all’interno del territorio israeliano, potessero raggiungere Gerusalemme e attaccarci nella nostra casa. Solo dopo un giro approfondito tra i rifugi pubblici del quartiere si è calmata un po’ ed è riuscita ad addormentarsi.

In mezzo a questo caos assoluto, Netanyahu si è rivolto ai cittadini sabato sera: una dichiarazione vuota con slogan come “vinceremo”, “li colpiremo”, “annienteremo il terrorismo”. È un uomo dai molti slogan. Promette che Israele “prenderà una potente vendetta” e che “il nemico pagherà un prezzo senza precedenti”, subendo “un fuoco di risposta di una portata che il nemico non ha conosciuto”.

Quel linguaggio è intenzionale. Infatti, mentre l’opinione pubblica israeliana traumatizzata non è ancora pronta a cercare la profonda resa dei conti politica e morale che questa catastrofe richiede, la rabbia già diretta verso Netanyahu è palpabile. Un primo ministro coinvolto in procedimenti legali ha nominato, per soddisfare le sue esigenze politiche, persone che non solo erano estremamente aggressive ma anche altamente poco professionali – e le ha incaricate della nostra sicurezza. Giustamente ora è considerato personalmente responsabile. Cerca di salvare la propria pelle politica, ancora una volta, esortando la Knesset a istituire un governo di emergenza nazionale, molto simile a quello formato tre anni fa con il leader del partito di Unità Nazionale, Benny Gantz, con il pretesto del coronavirus. risposta. Ma anche senza la formazione di un governo di emergenza nazionale, l’opposizione ebraica alla Knesset sostiene pienamente l’attacco mortale del governo a Gaza. E non sono soli: molti israeliani vogliono vedere l’intera Striscia di Gaza pagare un prezzo senza precedenti.

Il desiderio pubblico di vendetta è comprensibile e terrificante, ma la cancellazione di qualsiasi linea rossa morale è sempre una cosa spaventosa.

È importante non minimizzare o condonare gli atroci crimini commessi da Hamas. Ma è anche importante ricordare a noi stessi che tutto ciò che ci sta infliggendo adesso, lo stiamo infliggendo ai palestinesi da anni. Spari indiscriminati, anche contro bambini e anziani; intrusione nelle loro case; bruciando le loro case; prendere ostaggi – non solo combattenti ma civili, bambini e anziani. Continuo a ricordare a me stesso che ignorare questo contesto significa rinunciare a un pezzo della mia stessa umanità. Perché la violenza priva di contesto porta a un solo possibile risposta: vendetta. E non voglio vendetta da nessuno. Perché la vendetta è il contrario della sicurezza, è il contrario della pace, è anche il contrario della giustizia. Non è altro che altra violenza.

Ritengo che ci siano crimini di abbondanza e che ci siano crimini di fame, e non solo abbiamo portato Gaza sull’orlo della fame, ma l’abbiamo portata ad uno stato di collasso. Sempre in nome della sicurezza. Quanta sicurezza abbiamo ottenuto? Dove ci porterà un altro giro di vendetta?

Sabato sono stati commessi crimini terribili contro gli israeliani, crimini che la mente non può comprendere – e in questo momento di oscuro dolore, mi aggrappo all’unica cosa a cui mi è rimasta aggrappata: la mia umanità. La convinzione assoluta che questo inferno non sia predestinato. Né per noi né per loro.
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*Orly Noy è giornalista ed editore della rivista di notizie in lingua ebraica Local Call
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CI STIAMO TRASFORMANDO TUTTI IN VITTIME E CARNEFICI
11 OTTOBRE 2023 / COSTITUENTE TERRA / DISIMPARARE L’ARTE DELLA GUERRA /
Mi addolora il fatto che abbiamo adottato il terrore e l’orrore che abbiamo subito per affermare il nostro impellente diritto alla vita

di Ali Rashid

Corre il tempo, e cambiano i contenuti essenziali, le idee, i concetti e sensi. E’ compiuto il processo di trasvalutazione di ogni valore! Dio è morto. Viva l’eroica morte, giusto l’annientamento del “nemico”. Dilaga il nichilismo e trionfa la tecnica.

Vivo è in me il racconto di mio nonno, che andava a Safad in Galilea per comprare il fulard di seta dalla comunità ebraica sfuggita alla inquisizione in Portogallo, e che impararono la tessitura della seta dagli arabi in Spagna.

Il ricordo di Khaiem, socio del mio nonno nella cava vicino a Gerusalemme. Khaiem non ha potuto salvare la mia famiglia dalla pulizia etnica ma continuava a mandare la sua parte del guadagno della impresa finché non morì.

Non ho notizie dei figli di Khaiem, ma io ho seppellito mia sorella in Norvegia, un fratello in America, un mio stimatissimo zio una settimana fa a New York mentre la salma del mio nonno giace in un cimitero affollato ad Amman.

Nelle case di pietra fatte a mano del mio bellissimo villaggio Lifta confinante con Gerusalemme, stanno per costruire un villaggio per i ricchi turisti , mentre una volta era un rifugio sicuro per gli ebrei che fuggivano dal fascismo e dal nazismo che discriminava e annientava gli ebrei nella inenarrabile tragedia dell’ Olocausto.

Dio è morto con tutti i valori che ci rendono uguali. Trionfante è l’affermazione della volontà di potenza che affida alla tecnica i propri fini e diventa l’intima essenza dell’essere in un mondo disincantato. Eppure una volta eravamo tutti fratelli.

Stiamo scivolando tutti nel Nulla, nella mancanza di senso.

E la ragione? La pietà? La misericordia per i vivi e per i morti? La convivenza? Il rispetto? Il diritto?

Ma chi non ha un aereo di guerra sofisticato e moderno o un carro armato deve solo piangere in eterno il suo destino? Deve morire in silenzio?

Come in una “discarica”, sono finiti a Gaza gli abitanti della costa meridionale della Palestina, vittime della pulizia etnica. Secondo i nuovi storici israeliani, per svuotare ogni città o villaggio palestinese furono compiuti piccoli o grande massacri, lo stesso è avvenuto nei luoghi dove sono sorte le nuove città e insediamenti intorno a Gaza che sono stati teatro degli ultimi eccidi compiuti da noi palestinesi. Mi addolora il fatto che abbiamo adottato il terrore e l’orrore che abbiamo subito per affermare il nostro impellente diritto alla vita.

Ma questa catena di morte è inarrestabile?

Eppure una volta eravamo fratelli e abbiamo provato la ricchezza e i vantaggi della convivenza e del rispetto reciproco.

Ci stiamo trasformando tutti in vittime e carnefici per la gabbia del finto stato nazionale con confini discriminatori sempre più stretti e selettivi e in nome di fasulle razze e convenienze, di banali appartenenze e schieramenti.

La ragione, l’umanità, la vita ci supplicano a dire no alla guerra! Non siamo condannati a farci a pezzi rassicurando tutti per un proprio futuro!

Non dobbiamo discriminare i vivi e i morti.

Alì Rashid

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9 maggio – Festa dell’Europa

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12 aprile Commenti Opinioni Riflessioni Eventi

Bianchi Enzo prioreRussia e Ucraina. Conferenza di Enzo Bianchi, Genova 23/03/2023.
https://www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/185665/russia-e-ucraina-scontro-anche-tra-chiese?fbclid=IwAR0ng4THhvjjU65HEWpBPAjItUxU9Qf9gMya-aV6-rIFV8GjDODU-RB5jMs
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democraziaoggiPer Angioy, come per Catilina, i gruppi dominanti ordirono un colpo di Stato
12 Aprile 2023
A.P. Su Democraziaoggi
Ho sempre voluto saperne di Catilina, fin da quando alle scuole medie ci fecero tradurre passi delle Catiliniarie di Cicerone. Il console mi sembrava fin d’allora un trombone molto ambizioso al servizio dei ricchi, gli ottimati, contro i populares, i ceti meno abbienti, sfruttati e indebitati. Catilina lo vedevo dalla parte di quei dirigenti sindacali […]
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————-Giovedì 13 aprile a Cagliari——–
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avvenireLe sfide del male e i trend da invertire. No all’eclissi dell’empatia
No all’eclissi dell’empatia

Mauro Magatti
mercoledì 12 aprile 2023 Su Avvenire

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25 marzo 2023. Ricorrenza del Trattato di Roma, alle origine dell’UE. La Sardegna si salva solo con l’Europa.

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- 25 marzo 1957 Trattato di Roma che istituisce la Comunità Economica Europea, alle origini dell’attuale UE.

Energia per la Sardegna. Verrà il tempo delle scelte? È questo!

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di Vanni Tola
Sardegna: energia elettrica soltanto da rinnovabili e con l’impiego di batterie di accumulo, accantonata o almeno ridimensionata l’ipotesi metanizzazione.
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Con due interviste in contemporanea sul quotidiano La Nuova Sardegna, il governo Draghi presenta il progetto definitivo per la trasformazione del sistema energetico sardo. Parla il ministro della Transizione ecologica Cingolani e il presidente dell’Enel Starace che, congiuntamente, illustrano il piano particolareggiato della cosiddetta rivoluzione energetica per realizzare la decarbonizzazione della produzione di energia elettrica e la sua sostituzione con un uso massiccio dell’elettrico prodotto da energia rinnovabile, in particolare solare ed eolico, e con l’impiego di grandi accumulatori di energia. Entrambi gli intervistati precisano con determinazione che quella illustrata non è un’ipotesi di lavoro o la proposta di un piano da discutere e integrare bensì il piano definitivo presentato dall’Italia all’Unione Europea in sintonia con gli accordi prestabiliti. [segue]

Festa dell’Europa 2021

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di Franco Meloni
“Ce lo chiede l’Europa”: è la frase che da alcuni anni a questa parte ci sentiamo dire per giustificare scelte politiche impopolari, quelle che si basavano sull’austerità. A pagarne le spese erano (e ancora sono) appunto i ceti popolari di tutti i paesi europei. Basta pensare alle sofferenze inflitte al popolo della Grecia. Così scelte all’insegna dell’efficientismo, come il “pareggio di bilancio”, in Italia introdotto con una riforma costituzionale, sono stati strumenti di aumento delle disuguaglianze sociali. Nel mentre nessun passo avanti sulla tutela dei diritti (anzi tolleranza dei sovranismi antidemocratici dei paesi dell’est europeo) e su una saggia politica di gestione dei flussi migratori. Sono solo alcuni esempi. Il discorso sarebbe lungo, ma è bene che si sviluppi in mille analisi, proposte e altri contributi di pensiero che molti meglio di noi sono capaci a fare e che volentieri per quanto possiamo ospitiamo anche nelle nostre pagine. Qui vogliamo rammentare che l’Europa per le generazioni post conflitto bellico ha rappresentato i valori virtuosi imprescindibili della democrazia e del vivere civile, in irriducibile contrapposizione con le impostazioni e la pratica del nazismo e del fascismo (mali assoluti), e di tutti i regimi totalitari. Per noi l’Europa era e continua ad essere, nonostante tutto (purtroppo siamo meno numerosi rispetto ai tempi dell’esordio e oltre, segnati dalle “visioni” dei grandi fondatori) un riferimento fondamentale, una meta da raggiungere. Purtroppo questa meta nel tempo anzichè avvicinarsi nel perseguimento dell’integrazione (Stati Uniti d’Europa) e dell’espansione dei diritti e per la Pace (nella logica della Costituente della Terra), si è allontanata pericolosamente. C’è voluta la terribile pandemia per un inversione di rotta, a cui diamo credito e su cui vogliamo investire. Semplificando: così come l’agenda di Draghi, anche quella di Ursula Von der Leyen, costituisce in un tutt’uno, per noi, “la nostra agenda”, ovviamente sapendo che Draghi-VdL sono espressioni di interessi prevalenti della borghesia, e che una inedita “lotta di classe” deve cercare di volgere il più possibile a favore degli interessi popolari. Mutatis mutandis, questo è ancora il modello da perseguire, che storicamente ci ha fatto crescere tutti. Il recupero del motto di don Lorenzo Milani, I care, fatto dalla presidente Ursula VdL è sicuramente un significativo faro, che illumina la nostra strada di europeisti convinti. Con questi intendimenti festeggiamo oggi l’Europa!

—-—Alle associazioni: fate come La Casa del quartiere Is Mirrionis e la CSS—————————-
51babb66-1edf-4ccc-a1aa-eb7fbc89c117166fafa3-9942-45d9-a68d-8a20f2328f81Per l’Europa che vogliamo. Iniziative encomiabili
La “Casa del quartiere Is Mirrionis” di Cagliari, sulla base dello statuto costitutivo che ne fissa la missione di intervento nel sociale a favore dei cittadini e per la promozione della più ampia partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica, nel riaffermare lo spirito europeista che unitamente all’orgogliosa appartenenza sarda, la permea,
ADERISCE
alla Festa dell’Europa, istituita dall’Unione Europea, che si celebra il 9 maggio di ogni anno.
SI IMPEGNA
per il successo della Conferenza sul futuro dell’Europa, che prende avvio proprio da domenica 9 maggio 2021, favorendo la partecipazione della cittadinanza del quartiere, della città e dell’intera Sardegna, in tutte le forme e combinazioni (in proprio e in collaborazione con terzi) che verranno stabilite dagli organi di gestione dell’associazione, anche promuovendo la presenza e le iniziative degli associati singoli o organizzati nelle entità aderenti alla Casa sull’apposita piattaforma online dedicata
Il Presidente Terenzio Calledda
Ecco il link
https://futureu.europa.eu/?locale=it
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css-eu
La CONFEDERAZIONE SINDACALE SARDA – CSS partecipa alla Festa dell’EUROPA di Domenica 9 maggio 2021, ricordando che i sardi vogliono una EUROPA DEI POPOLI, come l’avevano sognata i grandi sardisti Camillo Bellieni ed Antonio Simon Mossa, nella
quale la Sardegna viene riconosciuta ed opera come popolo e nazione.
La CSS è membro fondatore della Piattaforma dei Sindacati delle Nazioni senza Stato. In questo organismo internazionale sono rappresentati le delegazioni della Sardegna, della Valle d’Aosta, dei Paesi Baschi, della Galizia, della Catalogna, della Bretagna, della Corsica, della Martinica, del Guadalupe e Nuova Caledonia.
“Serbit e boleus un’Europa de is Pópulus in paxi,
de s’agiudu torrau, de sa solidariedadi umana,
no cussa de is leonis a iscórriu e gherra”
.

“Serve e vogliamo un’Europa di Popoli in pace, dell’aiuto condiviso e della solidarietà umana,
Non quella dei leoni in lotta ed in guerra“-
IL SEGRETARIO NAZIONALE DELLA CSS Dr. Giacomo Meloni
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Giuliano Pisapia, “Cambiamo l’Europa dal basso” (Corriere della sera).
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«I care» faro per tutti (una scelta da onorare)
di Francesco Gesualdi
in “Avvenire” del 7 maggio 2021
Parto da una doverosa precisazione: don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, il motto ‘I care’ (m’importa, ho a cuore) non lo aveva scritto su un muro, ma sulla porta che separava la scuola dalla sua camera. Un particolare non secondario perché essendo il punto di ingresso nell’unico spazio in cui a sera si ritirava in privato, voleva annunciare lo spirito che aleggiava in quello spazio e quindi nella sua persona. Uno spirito di assunzione di responsabilità verso le creature che la vita gli aveva messo davanti tale da fargli dimenticare totalmente se stesso. E uno spirito di coerenza verso la verità tale da fargli accettare le conseguenze che la difesa della verità spesso comporta. Don Lorenzo non lo ricordava per narcisismo, ma come invito a noi allievi a fare altrettanto, ricordandoci che se la società è ingiusta, violenta, predatrice, la responsabilità non è solo del ‘potere’ che impartisce ordini sbagliati e scrive leggi ingiuste, ma anche di tutti coloro che quegli ordini e quelle leggi eseguono. Ha fatto bene Ursula von der Leyen a ricordare il motto ‘I care’ proprio oggi che dall’altra parte dell’Atlantico, Joe Biden ha annunciato di voler appoggiare la richiesta avanzata da Sudafrica e India di sospendere le regole internazionali a difesa dei brevetti sui vaccini e ogni altro farmaco utile a sconfiggere la pandemia. Ha fatto bene perché ciò che in Europa ci è meno noto è che la decisione di Biden non giunge come un fulmine a ciel sereno, ma come conseguenza di una forte pressione popolare organizzata negli Stati Uniti da parte delle organizzazioni umanitarie che hanno fatto arrivare a Biden milioni di messaggi a favore della sospensione. Per questo la sua decisione è la vittoria di milioni di persone che in cuor loro hanno detto ‘I care’ e hanno preso l’iniziativa di agire per manifestare il proprio pensiero e insistere finché il Presidente di tanti di loro, l’uomo più potente del mondo, ha deciso di stare dalla parte delle persone piuttosto che delle multinazionali farmaceutiche. Un’iniziativa ancor più lodevole perché non attuata a favore di se stessi, ma di persone lontane, africani, asiatici, latino americani, che rischiano di non poter essere vaccinati a causa dei costi imposti dai brevetti. Ma il vero spirito dell’I Care è proprio questo: si agisce non perché se ne trae un vantaggio, ma perché non si tollera la sofferenza, l’ingiustizia, l’umiliazione, il sopruso, il latrocinio, a chiunque sia inflitto.
Ursula VdL, allora, deve ricordarsi che avendo preso l’impegno solenne, per giunta a Firenze, di volere assumere lo spirito di ‘I Care’ a livello personale e della politica dell’Unione Europea, si è assunta una grande responsabilità. La responsabilità di agire di conseguenza, applicando il suo e nostro ‘I Care’ prima di tutto verso i migranti. Verso tutte quelle donne, quegli uomini, quei bambini che dopo essere fuggiti da zone di guerra si trovano respinti, addirittura aggrediti dai cani alla frontiera est della Ue. Verso tutti coloro che cercando di fuggire dai lager libici si mettono in mare per raggiungere la sponda Sud della Ue, ma in caso di avaria vengono lasciati annegare o sono ripescati dalla cosiddetta Guardia costiera libica che li riporta nei lager dai quali hanno cercato di fuggire. Verso tutti i cittadini meno protetti della Ue che in tempo di austerità sono stati privati di un lavoro, di cure mediche, di scuola, sacrificati di nuovo sull’altare del debito.
Un tema, quello del debito pubblico, tutt’altro che superato, perché ora che la Ue ha deciso di indebitarsi per sostenere la transizione ecologica e la ripresa sociale, sarebbe beffardo se domani, dovesse ripristinare l’austerità per ripagare il debito fatto oggi in nome del suo ‘I Care’. Finché siamo in tempo sarebbe meglio proporre di rivedere i Trattati, in particolare quelli che regolano le funzioni e i meccanismi di funzionamento della Banca centrale europea affinché la moneta, al pari dei vaccini, sia gestita come un bene comune al servizio della piena occupazione, della promozione dei servizi pubblici e della tutela della natura.
Grazie dunque alla signora Ursula VdL, per averci ricordato il valore di ‘I Care’, ma per favore l’Europa un faro per i tanti cittadini che la guardano affinché di quello spirito sia dato l’esempio migliore.
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Domenica 9 maggio Festa dell’Europa.
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Verso la Festa dell’Europa del 9 maggio 2021

ueuvdleuropa-day-2021saerdegna-europa-bomeluzoCome ogni anno, da sardi, europeisti convinti, il 9 maggio parteciperemo alla Festa dell’Europa. Quest’anno la data segna l’inizio della “Conferenza sul futuro dell’Europa”, caratterizzata da una serie di dibattiti avviati su iniziativa dei cittadini che consentiranno a chiunque in Europa di condividere le proprie idee e contribuire a costruire il nostro futuro comune. Noi ci siamo con Aladinpensiero.
In questo contesto riteniamo interessante proporre il discorso integrale pronunciato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in occasione del decimo anniversario della conferenza sullo stato dell’Unione di Firenze. Di questo discorso evidenziamo una frase che fa riferimento all’insegnamento di don Lorenzo Milani, riprendendo il moto “I Care” che la presidente rilancia come moto europeo per affrontare la crisi attuale e oltre: A pochi chilometri da Firenze, c’è un piccolo borgo chiamato Barbiana. E su una collina a Barbiana, c’è una piccola scuola di campagna. Negli anni ’60 un giovane insegnante, don Lorenzo Milani, scrisse su un muro di quella scuola due semplici parole, in inglese: “I care”. Disse ai suoi studenti che quelle erano le due parole più importanti che dovevano imparare. “Mi interessa” significa che mi assumo la responsabilità.
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È un onore per me aprire questa edizione del decimo anniversario della conferenza suello stato dell’Unione. Ogni anno, in occasione della Giornata dell’Europa, Firenze diventa il centro della nostra Unione. E non potrebbe esserci posto migliore di Firenze per celebrare la Giornata dell’Europa di quest’anno.
[segue]

NESSUN PROFITTO SULLA PANDEMIA. TUTTI HANNO DIRITTO ALLA PROTEZIONE DAL COVID-19

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no-profit-per-vaccino-pandemia FIRMA QUI L’INIZIATIVA DEI CITTADINI EUROPEI: https://noprofitonpandemic.eu/it/
Il COVID-19 si diffonde a macchia d’olio. Le soluzioni devono diffondersi ancora più velocemente. Nessuno è al sicuro fino a che tutti non avranno accesso a cure e vaccini sicuri ed efficaci.
Abbiamo tutti diritto a una cura.
Firma questa iniziativa dei cittadini europei per essere sicuri che la Commissione europea faccia tutto quanto in suo potere per rendere i vaccini e le cure anti-pandemiche un bene pubblico globale, accessibile gratuitamente a tutti e tutte.