Editoriali

Disastro sanità

3dd2e059-2dc5-4bf2-8bb2-70b88f851d5bdisperazione AladinGli italiani situano la salute in cima alle loro preoccupazioni. Giustamente.
Hanno grande considerazione del Sistema sanitario pubblico, nonostante tutto. Nonostante gli episodi di malasanità, il complessivo peggioramento dei servizi sanitari e la progressiva privatizzazione degli stessi. La pandemia ha messo a nudo tutte le criticità. E svelato l’indebolimento delle strutture sanitarie, che nel tempo sono state ridimensionate, in taluni casi smantellate, private di adeguati finanziamenti… A subirne le conseguenze sono stati i ceti più poveri, ma anche il ceto medio. Molte morti potevano essere evitate, non solo nel periodo più acuto della pandemia. Il potere politico, di tutti gli schieramenti, massimo responsabile dello stato passato e presente della sanità, ha cercato con colpevole ritardo di escogitare qualche rimedio, difficile in relazione alla inadeguatezza dell’organizzazione sanitaria, spezzettata nei molteplici centri di potere (regionali e non solo) che esso stesso aveva creato. Una terribile confusione, alimentata da inefficienze e assurdi carichi burocratici, a tutti i livelli, nonché dalle consuete irresponsabili speculazioni politiche. Con relativa tempestività sono state trovate le risorse, anche ingenti, in gran parte di provenienza europea (PNRR in primis). I danni sono stati davvero tanti e diffusi in tutto il Paese e le sofferenze della popolazione terribili. Costretti dagli eventi si è messo mano al potenziamento degli ospedali e all’attivazione di presidi sanitari sul territorio, anche con l’assunzione di nuovi medici e unità di personale socio-sanitario. Qualcosa è stata migliorata, ma ancora nessuna radicale soluzione in grado di arrestare il degrado e restituirci un sanità adeguata alle esigenze. Gli interventi non sono stati di uguale portata, efficienza ed efficacia in tutto il Paese. Continuano drammaticamente a pesare le differenziazioni tra Nord e Sud, in una prospettiva di ulteriore aumento delle distanze a sfavore del Sud, come fanno temere le sciagurate misure dell’autonomia differenziata. Perché qualcosa cambi davvero occorre lottare in un percorso di lunga durata: uniti e organizzati nella ricerca e nella pratica politica. Anche noi daremo il nostro contributo. Non mi dilungo. Per quanto riguarda la situazione sarda, non solo sanitaria, siamo messi male: basta leggere l’intervento odierno (14/4/23) di Andrea Pubusa sul blog Democraziaoggi. I sardi sopportano. Come sono purtroppo abituati a fare da millenni. La grande parte non si ribella. Non sottovaluto certo l’impegno eroico di movimenti, comitati popolari, sindacati, anche qualche buon politico… che si battono contro la chiusura di ospedali, per più risorse e personale alla sanità e così via, ma l’establishment politico non sembra rispondere alle pressioni popolari. Tutto sommato tiene, anche nei consensi, e poco si preoccupa del calo della partecipazione, di quella dei cittadini attivi, organizzati nelle associazioni democratiche di base e di quella elettorale, tanto se si è eletti dalla minoranza della popolazione non cambia il peso del potere. Ovviamente tutti i partiti all’indomani delle elezioni esprimono formale dispiacere per il crescente astensionismo, ma non mettono in campo alcuna volontà e relative proposte concrete per modificare le leggi elettorali che lo determinano in rilevante misura. Così capita che in Sardegna abbiamo la peggiore tra le leggi elettorali regionali, voluta e mantenuta dall’unanimità delle forze politiche, salvo meritori dissenzienti. Torniamo alla sanità. Da segnalare che del persistente disastro nessuno intende assumersi le responsabilità: per la coalizione di centrodestra, che governa oggi la Regione, è tutta colpa della precedente gestione di centrosinistra. Non ne dubitiamo, ma allora che fa il centrodestra in maggioranza? Più che altro provoca ulteriori danni, considerato che il suo impegno quasi si esaurisce nel creare e distribuire posti di potere, a questo fine determinati a modificare assetti organizzativi, che creano più problemi che buone soluzioni. Basta riferirsi alla recente decisione di spostare due importanti reparti dell’Ospedale Brotzu (Centro Antidiabetico e Centro per l’Autismo) ad altri nosocomi. Al riguardo bastano e avanzano le pesanti critiche al provvedimento assunto dall’assessore regionale alla sanità, formulate dal mio omonimo e amico Franco Meloni, medico ed ex dirigente sanitario di alto rango, nonché autorevole politico di maggioranza, nelle pagine de L’Unione Sarda del 13 c.m. In conclusione del suo convincente ragionamento (a cui rimandiamo) Franco Meloni, anche facendosi portatore delle istanze dei pazienti e dei familiari “vittime” del provvedimento assessoriale (per fortuna non ancora eseguito) ne chiede la revoca. Vedremo come va a finire. Speriamo bene! Per parlare ancora di prospettive, specificamente di programmi della sanità regionale (piani nazionale e sanitari regionali e dintorni) giova segnalare come questi, in certa parte condivisibili, restino in gran parte “sulla carta”. Su tali tematiche, al tempestivo e interessante recente Convegno promosso dall’Aimos a Cagliari, di cui abbiamo dato conto in un apposito articolo, i massimi dirigenti amministrativi e sanitari della Regione hanno ampiamente relazionato, ma si tratta allo stato di “cose da fare”, in minima parte in attuazione. Per esempio per quanto riguarda la costituzione delle Case della salute e degli Ospedali di Comunità. I soldi ci sono, medici e personale socio-sanitario molto meno, le strutture non ancora del tutto individuate e pronte alla bisogna… la spesa va a esasperante rilento. Come si può essere soddisfatti? Come possono esserlo le migliaia di cittadini in fila per le prestazioni sanitarie specialistiche, con tempi di risposta assolutamente inaccettabili? Come avere fiducia in una classe politica che non riesce a portare avanti programmi e progetti in tempi ragionevoli? Chiudo, provvisoriamente s’intende, con un solo esempio (di inefficienza).
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L’amministrazione comunale di Cagliari dispone da diversi anni (dal 2016!) di un finanziamento per realizzare un Centro della salute dedicato ai quartieri di San Michele e Is Mirrionis, erogato dall’Unione Europea e dalla Regione Sarda in attuazione del Programma ITI Is Mirrionis. A fronte dei programmi definiti, dei soldi disponibili, dell’individuazione dello stabile (ex Scuola di Via Abruzzi), di un bel programma organizzativo/gestionale redatto dal Comitato Casa del quartiere Is Mirrionis (tutto registrato e documentato) nulla risulta si sia ulteriormente fatto. Gli abitanti di San Michele e Is Mirrionis, soprattutto gli anziani, i giovani, i poveri… possono aspettare o anche morire! Chiediamo conto di questa inaccettabile inerzia al Sindaco Paolo Truzzu e agli assessori competenti. E, ovviamente, chiediamo che i consiglieri comunali della maggioranza e dell’opposizione prendano posizione.
Non finisce qui! È una promessa e, se volete, anche una minaccia, ma una buona minaccia, che tiene in conto e vuole approfittare dell’approssimarsi del periodo elettorale, perché per una buona causa, in favore della gente, specie della povera gente (fm).
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Eventi consigliati
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Sabato 15 aprile 2023
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Venerdì 21 aprile 2023
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Mercoledì 3 maggio 2023
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Che succede in Israele e Palestina? La situazione volge al peggio. Tuttavia s’intravede qualche segnale positivo.

    bb3bf13b-a1c0-4fd5-9346-8f5b63f22861Israele e Palestina
    di Franco Meloni
    «Per il popolo palestinese non c’è fine al dolore, all’oppressione, al sacrificio, alla negazione della libertà e dell’indipendenza, ma solo muri, divieti, repressione e segregazione che dura dal 1967. #FreePalestine». Non sono certo un fan di Beppe Grillo e neppure appartengo al Movimento 5 Stelle da lui fondato, ma devo dire che condivido totalmente questo tweet da lui scritto il 7 aprile scorso e riportato sul suo blog, a commento di un articolo, che pure ho apprezzato, scritto da Torquato Cardilli, dal titolo “Sacrilegio e orrore in Terrasanta”, sugli episodi di violenza perpetuati dalla polizia e dall’esercito israeliano nei confronti di fedeli musulmani che pregavano nella “spianata delle moschee”.
    Il tweet è stato pubblicato poche ore prima dell’attentato terroristico di Tel Aviv in cui ha perso la vita il giovane avvocato italiano Alessandro Parini. Fino a quel momento i commenti al tweet di Grillo erano stati del tutto positivi, a sostegno della causa palestinese. Dopo hanno prevalso commenti di dileggio e insulto nei confronti di Grillo.

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    Noi non abbiamo avuto nessuna esitazione a condannare duramente l’atto di terrorismo che ha ucciso Alessandro Parini, sempre che di questo si sia trattato (come nella versione delle autorità israeliane). Ma questo esecrabile episodio, come pure i lanci dei razzi da Gaza, non cancellano le pesanti responsabilità del Governo israeliano che alimenta un clima di violenza, prima causa degli episodi di terrorismo destinati a ripetersi, come prevede la gran parte dei commentatori politici internazionali.
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    In questo quadro di disperazione, spunta tuttavia qualche segno positivo, a cui vogliamo aggrapparci. Ci riferiamo alla notizia del calo di consensi del capo del governo israeliano Netanyahu e, ancor più al

    Sondaggio Gallup a favore dei palestinesi – La prima volta nella storia!

    Un blog di un movimento internazionale pro Palestina ci informa che ai primi di marzo, Gallup, una delle più grandi organizzazioni di sondaggi di opinione pubblica al mondo, ha reso noto un’indagine sulle “simpatie in Medio Oriente”, secondo cui il 49% dei democratici statunitensi ha espresso le proprie simpatie per i palestinesi, a fronte dell’oltre 38% per gli israeliani [la prima volta nella storia del sondaggio con un risultato a favore dei palestinesi]: “Guardando a tutti gli adulti statunitensi, indipendentemente dall’affiliazione partitica, il divario tra la preferenza verso Israele e la Palestina è il più stretto da quando sono iniziati i sondaggi sulla questione”. Al sondaggio Gallup nello stesso periodo se n’ è aggiunto un altro del Pew Research Center che ha mostrato che “più americani condividevano opinioni favorevoli che sfavorevoli sugli ebrei”. Come ha sottolineato lo scrittore e analista politico palestinese-americano Yousef Munayyer in un recente Tweet.
    Scorrendo i dati degli ultimi dieci anni, Munayyer ci avverte che gli atteggiamenti democratici nei confronti degli ebrei sono rimasti relativamente fermi, mentre le loro simpatie per i palestinesi sono aumentate. Questi due sondaggi (Gallup e Pew) presi insieme sono significativi perché offrono prove concrete che “simpatizzare con la situazione palestinese sotto l’oppressione delle sistematiche violazioni dei diritti umani da parte di Israele non dovrebbe avere nulla a che fare con l’atteggiamento della gente nei confronti degli ebrei o di qualsiasi gruppo”.
    Secondo il citato movimento pro Palestina, questo significa che “il mondo sta prendendo coscienza del fatto che il sostegno ai palestinesi e le critiche a Israele non hanno nulla a che fare con il proprio atteggiamento nei confronti del popolo ebraico”. Si dirà: si tratta di un sondaggio che riguarda solo gli USA. Ma tutti sappiamo quanto contano gli USA per Israele, se solo pensiamo al flusso di aiuti americani che beneficiano Israele e che potrebbero rischiare un ridimensionamento!
    Cogliamo allora questi segnali positivamente, enfatizzandoli, perché vanno nella direzione giusta, da noi auspicata in sintonia con i movimenti pacifisti e di impegno sociale di cui parlava anche il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, in uno dei suoi illuminanti interventi che tra i tanti abbiamo ripreso nella nostra News.
    Torneremo sulla questione, per opportuni approfondimenti, come nei nostri programmi.
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    - Nella foto in testa l’ingresso al campo profughi Aida di Betlemme (dicembre 2022).
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    politica-internazionale-correttto-copiarocca-8-del-15-apr-2023
    Il direttore di Rocca, Mariano Borgognoni, nell’editoriale dell’ultimo numero di Rocca preannuncia, a partire dal prossimo numero, un approfondimento della questione israelo-palestinese, anticipando questo impegno con la copertina della rivista: “Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. (…) approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo”. In piena sintonia con gli amici di Rocca e della Pro Civitate Christiana di Assisi, ai quali ci legano consolidati rapporti di amicizia e collaborazione, vogliamo con Aladinpensiero unirci a tale programma, sia “rimbalzando” gli articoli che Rocca proporrà, sia proponendone altri di carattere documentale, di analisi e opinioni. In questo contesto siamo anche impegnati a segnalare e sostenere le iniziative della Caritas diocesana di Cagliari che al termine di un Pellegrinaggio in Terrasanta, tenutosi tra la fine dello scorso dicembre e l’inizio del nuovo anno, ha deciso di partecipare a programmi di solidarietà con il popolo palestinese, proposti dalla Caritas di Gerusalemme, rivolti soprattutto ai giovani palestinesi e alle persone di quelle zone in situazione di particolare disagio. Non solo quindi documentazione, dibattito e confronto di idee ma anche concreta operatività, per quanto possiamo fare.
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    Cominciamo questa attività con la segnalazione di un importante documento, un dossier su “Apartheid in Israele – Appello urgente alle Chiese di tutto il mondo” redatto da Kairos Palestina e Global Kairos for Justice – 2022 e così firmato:
    firme-appello-palestina
    e, di seguito, alcuni articoli di Avvenire che danno conto di importanti iniziative di solidarietà in Palestina.
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    APPELLO URGENTE
    ALLE CHIESE
    DI TUTTO IL MONDO

    UN DOSSIER SU APARTHEID IN ISRAELE Per scaricare il testo pdf dell’Appello: https://smips.org/2023/03/24/appello-urgentealle-chiesedi-tutto-il-mondo/
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    avvenire-it_logoSolidarietà. Caritas-Focsiv insieme in Terra Santa per ripartire dai giovani
    Luca Geronico, inviato a Gerusalemme e Betlemme sabato 1 aprile 2023
    L’accesso per tutti all’istruzione, in Cisgiordania come in Israele, è la chiave dei progetti che si sviluppano intono alle nuove generazioni. «Quello che hanno smarrito è la speranza»
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    L’iniziativa. Betlemme: pane, amore e sviluppo
    Luca Geronico, inviato a Betlemme martedì 4 aprile 2023
    Il forno dei salesiani da più di un secolo è punto di riferimento nella città. Le Ong: «Un’impresa sociale da seguire» Martedì 4 aprile su Tv2000 e Radio InBlu la maratona di solidarietà «Insieme per gli ultimi»
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    f23ce055-7b07-470f-80aa-a68917feb7f1Democrazia fragile in Israele. Speranza nei giovani
    3 Aprile 2023 by Fabio | su C3dem.
    La democrazia in Israele è fragile, i giovani la salveranno:
    Francesca Caferri, In piazza con Grossman “La democrazia è fragile i giovani la salveranno” (la Repubblica).
    - David Grossman.
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    Un sabato santo pieno di tensioni. Colloquio con il patriarca latino di Gerusalemme mons. Pierbattista Pizzaballa. Su formiche.net:
    https://formiche.net/2023/04/conflitto-medio-oriente-patriarca-latino-gerusalemme/
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    ———Eventi segnalati————————-
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    ffd713e0-6677-4082-a5ad-0478fb5c68bcEvento venerdì 21 aprile 2023.
    L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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Auguri di buona Pasqua di Resurrezione con l’ottimismo della volontà

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di Franco Meloni
Piova, grandini, nevichi o splenda il sole, faccia freddo o caldo… Auguri! In situazioni di tremenda guerra perché finisca o nella serenità della Pace perché continui… Auguri! Comunque Auguri di Pasqua di Resurrezione! Che per tutti possa essere Resurrezione! Che il Cristo risorto possa portare a tutti la Pace! In certa misura dipende da ciascuno di noi. Almeno per un momento in questa Santa Pasqua troviamo gioia e conforto nel sentirci fratelli e sorelle, in sintonia nella Terra nostra patria.
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Sappiamo bene quanto questo comune anelito di Pace contrasti con le situazioni di conflittualità diffuse nel Pianeta. Non solo quindi nell’Ucraina, sconvolta da un’inutile sanguinosa guerra cominciata formalmente un anno fa con l’aggressione russa. Tra tutti i conflitti soffermiamoci di quello in atto in Israele e Palestina.
Tutti gli osservatori internazionali da tempo sostengono che sarà sempre peggio. E così è! L’ultimo attentato terroristico di venerdì, dove è rimasto vittima il nostro connazionale, con almeno sette feriti, lo conferma. Condanna senza attenuanti dell’atto terroristico, di quanti lo hanno attuato e provocato. E insieme richiesta pressante perché cessino i comportamenti di quanti determinano i presupposti della situazione conflittuale. In modo particolare evidentemente ci riferiamo alle politiche del governo israeliano, che vanno in direzione contraria alla ricerca della pacifica convivenza dei popoli di Israele e Palestina. Per quanto ci riguarda, come italiani, chiediamo che il nostro governo si attivi in tal senso, quello virtuoso, del rispetto dei diritti democratici, unitamente agli altri governi europei. Ieri il nostro ministro degli Esteri ha dichiarato: “Fino a quando Hamas continua a soffiare sul fuoco c’è il rischio di una impennata” rimarcando che “bisogna lavorare affinché ciò non accada” e “fare di tutto perché la situazione sia meno tesa”. Ma non si tratta solo di Hamas. Considerando le forze in campo, il primo che deve assumersi tale responsabilità è appunto il governo israeliano! In questa direzione anche noi ci esprimiamo in sintonia con i movimenti pacifisti israeliani e palestinesi. E di tutto il mondo. In argomento vogliano ancora una volta fare nostre le parole di mons. Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, nel messaggio inviato di recente a una comunità ecumenica di Bergamo, impegnata a sostegno della Pace in Israele e Palestina.

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“Voglio unirmi a voi qui da Gerusalemme per la vostra preghiera per la pace in Terrasanta. Una pace molto attesa e voluta, non so se sempre da tutti ricercata, e che comunque resta il bene più prezioso che ci manca e di cui abbiamo estremo bisogno. La vostra preghiera è un momento di grande solidarietà che apprezziamo, di cui abbiamo bisogno e che forse è l’unica risorsa che in questo momento abbiamo.

Divisioni e violenza
Stiamo vivendo momenti difficili dal punto di vista politico e sociale: si va verso un deterioramento delle già quasi inesistenti relazioni tra i due popoli e soprattutto a una frammentazione della vita sociale.

Abbiamo da un lato – ed è la cosa che più preoccupa – una sempre più profonda sfiducia tra le due popolazioni, quella israeliana e palestinese. Ormai, è molto difficile parlare di pace, prospettive, speranza. Sono cose necessarie ma è difficile essere credibili quando si parla di questo proprio a causa della profonda sfiducia che è frutto di tanti fallimenti, tradimenti anche, dei cosiddetti accordi di pace.

I due popoli sono divisi e divise sono al loro interno la comunità israeliana e quella palestinese
Preoccupa anche la divisione all’interno delle due società: di quella israeliana spaccata in due, tra religiosi e laici, non soltanto per motivi partitici ma soprattutto per la divisione sull’idea stessa della identità che lo Stato d’Israele deve avere. Ma anche nella società palestinese: la frammentazione ormai è sempre più evidente non solo fra Gaza e la Cisgiordania ma anche all’interno della Cisgiordania.

Ecco, questa situazione alimenta una sempre maggiore violenza. In questo periodo abbiamo avuto un numero di morti che ci riporta ai tempi della seconda Intifada e purtroppo temo che la violenza continuerà e aumenterà di molto. Non sarà una nuova Intifada come l’abbiamo vista nelle due precedenti ma sarà comunque una violenza organizzata dai diversi gruppi a causa proprio della frammentazione di cui parlavo e della mancanza di una leadership unitaria da entrambi i lati.

In questa situazione, i cristiani
Tutto questo è preoccupante e pone alla nostra piccola comunità cristiana tanti problemi e domande: come stare dentro queste situazioni? Cosa deve dire come Chiesa? Abbiamo già parlato tanto ma possiamo ripetere sempre le stesse cose contro l’occupazione, a favore della sicurezza e così via? Siamo in una fase in cui un po’ tutti sentiamo il bisogno di ripensare il linguaggio e ripensare anche il nostro atteggiamento dentro queste vicende molto gravi e difficili. Però non disperiamo.

Ho visto e continuo a vedere – visitando le parrocchie e le realtà del territorio – tantissime associazioni, movimenti, persone che hanno voglia di mettersi in gioco, che non rinunciano a voler credere che si possa fare qualcosa, nei quali la sfiducia non ha attecchito. La preoccupazione principale è proprio questa, che la sfiducia, che la violenza entri dentro il cuore delle persone e diventi un modo di pensare.

Bisogna mantenere una piccola rete di anticorpi nel territorio
Credo che la prima cosa che dobbiamo fare sia lavorare con tutte le persone possibili – cristiani, ebrei, musulmani – perché si possa mantenere una piccola rete di anticorpi nel territorio che, nonostante tutto, lavorano non per costruire barriere ideologiche o fisiche ma per dare vita a relazioni e in futuro serviranno a ricostruire le prospettive di questo Paese, in modo diverso da quelle del passato. Un futuro con l’idea di due popoli, quello ebraico e palestinese, che non sono destinati ma chiamati dalla Provvidenza a vivere l’uno accanto all’altro nel modo più pacifico e sereno possibile.

La vostra preghiera è dunque molto importante. Celebriamo quest’anno i sessant’anni della Pacem in Terris, che è stato il documento che ha cambiato il modo della Chiesa di stare nel mondo e di parlare della pace e noi oggi, a distanza di allora, dobbiamo essere figli credibili di quel documento, che è stato così importante e che ancora oggi accompagna la vita di molte comunità. Sono sicuro che anche da Bergamo potremo ricevere contributi nella riflessione e soprattutto nella preghiera, perché questa piccola comunità di Terrasanta possa continuare a dare la sua piccola ma bella testimonianza di fede ma soprattutto di speranza.
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Buona Pasqua a tutte e tutti con i *14 GRAZIE* con cui Papa Francesco ha voluto concludere la via Crucis del venerdi santo:
*Grazie*, Signore Gesù, per la mitezza che confonde la prepotenza.
*Grazie*, per il coraggio con cui hai abbracciato la croce.
*Grazie*, per la pace che sgorga dalle tue ferite.
*Grazie*, per averci donato come nostra Madre la tua santa Madre.
*Grazie*, per l’amore mostrato davanti al tradimento.
*Grazie*, per aver mutato le lacrime in sorriso.
*Grazie*, per aver amato tutti senza escludere nessuno.
*Grazie*, per la speranza che infondi nell’ora della prova.
*Grazie*, per la misericordia che risana le miserie.
*Grazie*, per esserti spogliato di tutto per arricchirci.
*Grazie*, per aver mutato la croce in albero di vita.
*Grazie*, per il perdono che hai offerto ai tuoi uccisori.
*Grazie*, per avere sconfitto la morte.
*Grazie*, Signore Gesù, per la luce che hai acceso nelle nostre notti e riconciliando ogni divisione ci ha reso
tutti fratelli, figli dello stesso Padre che sta nei cieli.

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Israele e Palestina
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Il direttore di Rocca, Mariano Borgognoni, nell’editoriale dell’ultimo numero di Rocca preannuncia, a partire dal prossimo numero, un approfondimento della questione israelo-palestinese, anticipando questo impegno con la copertina della rivista: “Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. (…) approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo”. In piena sintonia con gli amici di Rocca e della Pro Civitate Christiana di Assisi, ai quali ci legano consolidati rapporti di amicizia e collaborazione, vogliamo con Aladinpensiero unirci a tale programma, sia “rimbalzando” gli articoli che Rocca proporrà, sia proponendone altri di carattere documentale, di analisi e opinioni. In questo contesto siamo anche impegnati a segnalare e sostenere le iniziative della Caritas diocesana di Cagliari che al termine di un Pellegrinaggio in Terrasanta, tenutosi tra la fine dello scorso dicembre e l’inizio del nuovo anno, ha deciso di partecipare a programmi di solidarietà con il popolo palestinese, proposti dalla Caritas di Gerusalemme, rivolti soprattutto ai giovani palestinesi e alle persone di quelle zone in situazione di particolare disagio. Non solo quindi documentazione, dibattito e confronto di idee ma anche concreta operatività, per quanto possiamo fare.
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Cominciamo questa attività con la segnalazione di un importante documento, un dossier su “Apartheid in Israele – Appello urgente alle Chiese di tutto il mondo” redatto da Kairos Palestina e Global Kairos for Justice – 2022 e così firmato:
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e, di seguito, alcuni articoli di Avvenire che danno conto di importanti iniziative di solidarietà in Palestina.
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APPELLO URGENTE
ALLE CHIESE
DI TUTTO IL MONDO

UN DOSSIER SU APARTHEID IN ISRAELE Per scaricare il testo pdf dell’Appello: https://smips.org/2023/03/24/appello-urgentealle-chiesedi-tutto-il-mondo/
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avvenire-it_logoSolidarietà. Caritas-Focsiv insieme in Terra Santa per ripartire dai giovani
Luca Geronico, inviato a Gerusalemme e Betlemme sabato 1 aprile 2023
L’accesso per tutti all’istruzione, in Cisgiordania come in Israele, è la chiave dei progetti che si sviluppano intono alle nuove generazioni. «Quello che hanno smarrito è la speranza»
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L’iniziativa. Betlemme: pane, amore e sviluppo
Luca Geronico, inviato a Betlemme martedì 4 aprile 2023
Il forno dei salesiani da più di un secolo è punto di riferimento nella città. Le Ong: «Un’impresa sociale da seguire» Martedì 4 aprile su Tv2000 e Radio InBlu la maratona di solidarietà «Insieme per gli ultimi»
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3 Aprile 2023 by Fabio | su C3dem.
La democrazia in Israele è fragile, i giovani la salveranno:
Francesca Caferri, In piazza con Grossman “La democrazia è fragile i giovani la salveranno” (la Repubblica).
- David Grossman.
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L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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Israele e Palestina

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Il direttore di Rocca, Mariano Borgognoni, nell’editoriale dell’ultimo numero di Rocca preannuncia, a partire dal prossimo numero, un approfondimento della questione israelo-palestinese, anticipando questo impegno con la copertina della rivista: “Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. (…) approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo”. In piena sintonia con gli amici di Rocca e della Pro Civitate Christiana di Assisi, ai quali ci leganoo consolidati rapporti di amicizia e collaborazione, vogliamo con Aladinpensiero unirci a tale programma, sia “rimbalzando” gli articoli che Rocca proporrà, sia proponendone altri di carattere documentale, di analisi e opinioni. In questo contesto siamo anche impegnati a segnalare e sostenere le iniziative della Caritas diocesana di Cagliari che al termine di un Pellegrinaggio in Terrasanta, tenutosi tra la fine dello scorso dicembre e l’inizio del nuovo anno, ha deciso di partecipare a programmi di solidarietà con il popolo palestinese, proposti dalla Caritas di Gerusalemme, rivolti soprattutto ai giovani palestinesi e alle persone di quelle zone in situazione di particolare disagio. Non solo quindi documentazione, dibattito e confronto di idee ma anche concreta operatività, per quanto possiamo fare.
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Cominciamo questa attività con la segnalazione di un importante documento, un dossier su “Apartheid in Israele – Appello urgente alle Chiese di tutto il mondo” redatto da Kairos Palestina e Global Kairos for Justice – 2022 e così firmato:
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e, di seguito, alcuni articoli di Avvenire che danno conto di importanti iniziative di solidarietà in Palestina.
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APPELLO URGENTE
ALLE CHIESE
DI TUTTO IL MONDO

UN DOSSIER SU APARTHEID IN ISRAELE Per scaricare il testo pdf dell’Appello: https://smips.org/2023/03/24/appello-urgentealle-chiesedi-tutto-il-mondo/
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politica-internazionale-correttto-copia
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avvenire-it_logoSolidarietà. Caritas-Focsiv insieme in Terra Santa per ripartire dai giovani
Luca Geronico, inviato a Gerusalemme e Betlemme sabato 1 aprile 2023
L’accesso per tutti all’istruzione, in Cisgiordania come in Israele, è la chiave dei progetti che si sviluppano intono alle nuove generazioni. «Quello che hanno smarrito è la speranza»
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L’iniziativa. Betlemme: pane, amore e sviluppo
Luca Geronico, inviato a Betlemme martedì 4 aprile 2023
Il forno dei salesiani da più di un secolo è punto di riferimento nella città. Le Ong: «Un’impresa sociale da seguire» Martedì 4 aprile su Tv2000 e Radio InBlu la maratona di solidarietà «Insieme per gli ultimi»
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f23ce055-7b07-470f-80aa-a68917feb7f1Democrazia fragile in Israele. Speranza nei giovani
3 Aprile 2023 by Fabio | su C3dem.
La democrazia in Israele è fragile, i giovani la salveranno:
Francesca Caferri, In piazza con Grossman “La democrazia è fragile i giovani la salveranno” (la Repubblica).
- David Grossman.

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———Eventi segnalati————————-
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ffd713e0-6677-4082-a5ad-0478fb5c68bcEvento venerdì 21 aprile 2023.
L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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Riflessioni & Dibattito

457b1c0e-0091-4ca4-8afe-bceebaf7a649145007e6-b00c-4cc4-a60e-dcce3785d78aImpegno nella Chiesa e subito andare in “mare aperto”
di Franco Meloni*
Nel dibattito su “Cattolici e Politica”, meritoriamente lanciato da L’Unione Sarda, concordo con quanti ritengono oggi improponibile una riedizione di un partito politico cattolico o che si ispiri ai principi cristiani, sulle orme del Partito Popolare di don Sturzo e della Democrazia Cristiana. Beninteso, queste esperienze sono state positive, fondamentali, se solo pensiamo che i cattolici sono stati determinanti nella grande alleanza antifascista che ci ha dato la democrazia e la Costituzione. Pur ritenendo legittime tali proposte, dubito di consistenti successi elettorali, nonostante recenti sondaggi secondo cui circa il 25% degli elettori italiani sarebbero favorevoli alla nascita di un partito cattolico. Interpreto questo dato non come ricerca di un nuovo soggetto politico, bensì come un’esigenza di recupero dei valori fondamentali per il  “bene comune”. Dove la politica deve ri-trovare il suo fondamento. A questo fine i cattolici  devono  impegnarsi, più di quanto facciano attualmente, senza separarsi dal resto del mondo. In fondo seguendo l’esortazione di Papa Francesco: “partecipare, in mezzo agli altri e con gli altri, a costruire la casa comune, che richiede fraternità, giustizia, accoglienza, amicizia sociale”. Questo messaggio attualmente trova tanti cattolici impegnati soprattutto nel volontariato, mentre l’agone più propriamente politico viene da essi disertato, ingrossando le fila degli astensionisti. E’ ora di invertire la rotta, anche in Sardegna, dove è urgente rilanciare proposte coraggiose, non importa se considerate utopistiche. Cosa possono fare i cattolici insieme con tutte le persone di buona volontà disposte a un percorso comune? Partire dalla fiducia. La Sardegna ne ha bisogno più che di risorse materiali: creare un clima di fiducia che consenta di affrontare i problemi e di risolverli mettendo a frutto le capacità personali e delle comunità di appartenenza. Tutto ciò sembra banale, ma non lo è affatto. Sicuramente è difficile. Pensate cosa significa creare fiducia nel mondo della politica: praticare rapporti di scambio intellettuale e collaborazione fattuale tra persone che nella ricerca del bene comune, nel confronto e nello scontro dialettico, arrivino a soluzioni ottimali. La condizione è che si pratichi l’ascolto reciproco e che si persegua l’obbiettivo della massima partecipazione. Cosa abbastanza diversa da quanto accade oggi, laddove la politica tende a selezionare le idee e le scelte sulla base degli interessi dei gruppi prevalenti e la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica è sempre più ristretta. Allora occorre allargare gli spazi di partecipazione democratica sia per quanto riguarda l’accesso alle rappresentanze istituzionali (riforma delle leggi elettorali), sia per la promozione della cittadinanza attiva, sia per la valorizzazione delle competenze che devono prevalere sulle appartenenze. E’ la “partecipazione” la chiave giusta per ridare speranze di rinascita al popolo sardo e i cattolici devono essere in prima fila nell’impegno concreto per favorirla, avendo come chiaro e virtuoso riferimento la nostra Costituzione. Ma i cattolici dove possono trovare le ragioni e la forza del loro impegno? La risposta è nella Chiesa, nelle sue innumerevoli espressioni organizzative, nelle parrocchie come negli altri ambiti aggregativi, formali o spontanei, praticando spazi pubblici reali, contigui e non opposti a quelli liturgici, in cui, come dice il monaco Enzo Bianchi: “delineare le istanze evangeliche irrinunciabili, che poi i singoli cattolici con competenza e responsabilità tradurranno in impegni e azioni diverse a livello economico, politico, giuridico”. Esattamente come previsto dai percorsi sinodali, sulla scia degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, in cui da due anni è impegnata la Chiesa universale unitamente alle Chiese particolari, ovviamente sorretti da spirito evangelico e da correlato ottimismo della volontà! In conclusione i cattolici devono ripartire dall’impegno nella Chiesa, come detto, e subito andare “in mare aperto” (la “Chiesa in uscita” di papa Francesco) per navigarvi e operare insieme con tutti gli uomini e le donne di buona volontà. In definitiva per la Salvezza dell’Umanità e di tutto il Creato.
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cattoliciGli interventi nel dibattito su L’Unione Sarda

1) 02/3/2023 Antonello Menne, I cattolici e la politica.
2) 04/3/2023 Sergio Nuvoli, L’impegno dei cattolici.
3) 11/3/2023 Tonino Secchi, La diaspora dei cattolici.
4) 14/3/2023 Luca Lecis, Valori, non partiti.
*5) 1/04/2023 Franco Meloni, I cattolici tornino in mare aperto. Su Aladinpensiero/Editoriali e L’Unione Sarda/Il dibattito dell’1/4/2023.
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E’ online Rocca n.8 del 15 aprile 2023.
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L’Editoriale di Mariano Borgognoni
Se fossi andato a votare ai gazebo piddini non avrei avuto dubbi nel mettere la mia croce sul nome di Elly. La rianimazione del partito (p rigorosamente minuscola) richiedeva infatti uno shok. Qualsiasi scelta che anche lontanamente somigliasse alla continuità sarebbe stata letale. Quel partito infatti era ormai diventato una sorta di partito tecnico, il cui segretario naturale sarebbe potuto essere Mario Draghi o Mario Monti o proprio mari e monti, come quelle cucine che scelgono di non scegliere. Con i rischi conseguenti: ricordate la storia dell’asino di Buridano? Gli iscritti sono andati dritti… pel tratturo antico. Gli elettori hanno dato uno schiaffo di correzione. Salutare. I primi frutti si intravedono dopo la glaciazione lettiana, una sorta di tutti a nanna nel supremo interesse nazionale, dell’Occidente (con la O rigorosamente maiuscola), della nuovo soggetto politico, appena Nato. Né riforma elettorale, né campo largo, né orizzonte lungo. Così il Pd, sorto con il proposito di mettere a frutto i riformismi comunista, socialista e cristiano, tenuti lontani dalla guerra fredda, li ha semplicemente rimossi. Anzi li ha fatti marcire, mischiati e irriconoscibili, nella poltiglia di correnti, divenute via via stagni di potere bisognosi, per sopravvivere fuori dal cimento del consenso, di qualunque porcellum elettorale. Oh! naturalmente non è tutta responsabilità di Letta. Molti sono andati ai gazebo, molti altri no. Anzitutto perché credono, questi ultimi, che a votare, in questo sistema elettorale, bisognerebbe andare per scegliere i candidati al Parlamento. Non i leader di partito. Per come la vedono costoro, che comprendo molto, i partiti sono associazioni in cui gli iscritti dovrebbero contare, se no perché consumare la suola delle scarpe per andare in sezione o nei circoli? Bisogna ammettere però che a partito mezzo morto è stato meglio chiamare il medico che il becchino. E stavolta sembra che l’elettore si sia messo il camice bianco piuttosto che il mantello nero. L’inatteso successo della Schlein non è stato tanto il frutto della scelta tra opzioni diverse che, per la verità, nella competizione con Bonaccini non sono apparse così nettamente, ma di un robusto voto di protesta, da parte di coloro che hanno resistito o desistito alle elezioni, contro il ceto politico che ha guidato il partito soprattutto in questi ultimi anni. Abili guidatori di un aereo mai decollato. Non ha vinto quindi una linea, ha perso una linea. Proprio per questo ora viene la prova più difficile e in essa impareremo a conoscere meglio la fisionomia politico-culturale di Elly Schlein e le sue doti di leader. Oltre al volto del nuovo Partito Democratico. Molti commentatori molto approssimativi hanno parlato di una ricollocazione del partito su posizioni di sinistra-sinistra. A parte l’inconsistenza della definizione non mi pare affatto che Schlein possa essere ricondotta ad un chiaro posizionamento ideologico. Lo stesso termine di radicalità, più volte evocato, è variamente declinabile; potrebbe per esempio riferirsi all’idea di dar vita ad un partito liberal o ad un partito radicale di massa o ad un partito laburista e popolare moderno. Non si tratta della stessa cosa. Nelle prime riunioni mi è parso di notare che la Schlein non usa il termine compagni, non evoca mai la parola socialismo, non fa riferimento al concetto di persona. Non sono affatto considerazioni banali come qualcuno astutamente obietterà: quasi sempre il linguaggio dice la cosa. I termini che ho citato, insieme ai simboli delle lotte per il lavoro e la libertà, sono lingua in uso in tutti i partiti socialisti, socialdemocratici e della sinistra europea. Si vuole rimanere creativamente o uscire da questo orizzonte? Che fa riferimento anche ad una base sociale tipica, sia pure profondamente cambiata, nel mondo del lavoro, nella centralità dei diritti sociali e nella capacità di proteggere gli strati sociali più fragili, senza sottovalutare i diritti civili ma anche senza prender su ogni pratica solo perché presente; ad un modo di stare in occidente aperto all’idea di un mondo multipolare e pacifico che veda nella prospettiva il recupero del ruolo di una Europa di cui siano parte, in qualche modo, sia l’Ucraina che la Russia; ad un governo delle migrazioni che salvi ed integri ma che si accompagni alla cooperazione internazionale e all’impegno internazionalista per l’emancipazione dei popoli e la liberazione da regimi corrotti sostenuti dalle classi dominanti dei Paesi dominanti. Dentro questo orizzonte si tratta altresì di attingere al patrimonio del solidarismo cristiano e a quell’idea di persona e di comunità che mette in discussione le opposte derive del collettivismo senza libertà e dell’individualismo senza uguaglianza che già Maritain da una parte e Adorno dall’altra avevano visto molti decenni fa. Si vuole far riferimento a queste fonti che sono sotto la pelle della nostra storia nazionale ed europea, si pensa ad un partito radicato nel territorio, comunità democratica organizzata e solida o si tenta una carta diversa che guarda all’esperienza americana, all’idea di un partito leggero, fortemente interclassista, molto tattico, veloce e iperleaderistico che marca la sua differenza prevalentemente sui diritti civili? Insomma quello che di solito viene definito un partito radicale di massa con un insediamento borghese colto largamente prevalente. In fondo il primo corso del Pd veltroniano si collocava lungo questa traiettoria ed anche la primitiva collocazione del Pds occhettiano tentava con un doppio salto di guadagnare la sponda liberal, immaginando lì la collocazione della cosa nuova. Ma oggi è lo stesso Occhetto che nell’intervista a noi rilasciata, oltre che nel titolo del suo ultimo libro, spiega «perché non basta dirsi democratici». Insomma avremo tempo per studiare la fenomenologia di Elly Schlein. Le prime schermaglie sui capigruppo di Senato e Camera e sugli assetti esecutivi piddini ci rimettono davanti la forza d’inerzia del corpaccione dei collocati da una parte e dall’altra il mandato che la nuova Segretaria sente essergli venuto dall’opinione democratica di dar vita a un vero mutamento. Anche se la domanda: quale mutamento? è quella sulla quale si registrano le maggiori opacità. E d’altra parte è ancora presto per poter dare una valutazione fondata. Insomma chi vivrà vedrà. Noi cercheremo di monitorare il cammino. Con questo editoriale, un po’ ruvido, si voleva solo aprire un confronto che non ci può vedere indifferenti. Per chi continua a credere nella fatica della democrazia l’alternativa alla politica può essere solo una politica alternativa, per cambiare la società nel segno che hanno lasciato sulla nostra Costituzione coloro che coltivarono l’ambizione di tenere insieme libertà ed uguaglianza.
P.S. Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. Nel prossimo numero approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo.

ROCCA 15 APRILE 2023 l’editoriale di Mariano Borgognoni
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ffd713e0-6677-4082-a5ad-0478fb5c68bcEvento venerdì 21 aprile 2023.
L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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Cattolici e Politica

fab13692-65ba-4cf8-9561-3e94a3b11907145007e6-b00c-4cc4-a60e-dcce3785d78aImpegno nella Chiesa e subito andare in “mare aperto”
di Franco Meloni*
Nel dibattito su “Cattolici e Politica”, meritoriamente lanciato da L’Unione Sarda, concordo con quanti ritengono oggi improponibile una riedizione di un partito politico cattolico o che si ispiri ai principi cristiani, sulle orme del Partito Popolare di don Sturzo e della Democrazia Cristiana. Beninteso, queste esperienze sono state positive, fondamentali, se solo pensiamo che i cattolici sono stati determinanti nella grande alleanza antifascista che ci ha dato la democrazia e la Costituzione. Pur ritenendo legittime tali proposte, dubito di consistenti successi elettorali, nonostante recenti sondaggi secondo cui circa il 25% degli elettori italiani sarebbero favorevoli alla nascita di un partito cattolico. Interpreto questo dato non come ricerca di un nuovo soggetto politico, bensì come un’esigenza di recupero dei valori fondamentali per il  “bene comune”. Dove la politica deve ri-trovare il suo fondamento. A questo fine i cattolici  devono  impegnarsi, più di quanto facciano attualmente, senza separarsi dal resto del mondo. In fondo seguendo l’esortazione di Papa Francesco: “partecipare, in mezzo agli altri e con gli altri, a costruire la casa comune, che richiede fraternità, giustizia, accoglienza, amicizia sociale”. Questo messaggio attualmente trova tanti cattolici impegnati soprattutto nel volontariato, mentre l’agone più propriamente politico viene da essi disertato, ingrossando le fila degli astensionisti. E’ ora di invertire la rotta, anche in Sardegna, dove è urgente rilanciare proposte coraggiose, non importa se considerate utopistiche. Cosa possono fare i cattolici insieme con tutte le persone di buona volontà disposte a un percorso comune? Partire dalla fiducia. La Sardegna ne ha bisogno più che di risorse materiali: creare un clima di fiducia che consenta di affrontare i problemi e di risolverli mettendo a frutto le capacità personali e delle comunità di appartenenza. Tutto ciò sembra banale, ma non lo è affatto. Sicuramente è difficile. Pensate cosa significa creare fiducia nel mondo della politica: praticare rapporti di scambio intellettuale e collaborazione fattuale tra persone che nella ricerca del bene comune, nel confronto e nello scontro dialettico, arrivino a soluzioni ottimali. La condizione è che si pratichi l’ascolto reciproco e che si persegua l’obbiettivo della massima partecipazione. Cosa abbastanza diversa da quanto accade oggi, laddove la politica tende a selezionare le idee e le scelte sulla base degli interessi dei gruppi prevalenti e la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica è sempre più ristretta. Allora occorre allargare gli spazi di partecipazione democratica sia per quanto riguarda l’accesso alle rappresentanze istituzionali (riforma delle leggi elettorali), sia per la promozione della cittadinanza attiva, sia per la valorizzazione delle competenze che devono prevalere sulle appartenenze. E’ la “partecipazione” la chiave giusta per ridare speranze di rinascita al popolo sardo e i cattolici devono essere in prima fila nell’impegno concreto per favorirla, avendo come chiaro e virtuoso riferimento la nostra Costituzione. Ma i cattolici dove possono trovare le ragioni e la forza del loro impegno? La risposta è nella Chiesa, nelle sue innumerevoli espressioni organizzative, nelle parrocchie come negli altri ambiti aggregativi, formali o spontanei, praticando spazi pubblici reali, contigui e non opposti a quelli liturgici, in cui, come dice il monaco Enzo Bianchi: “delineare le istanze evangeliche irrinunciabili, che poi i singoli cattolici con competenza e responsabilità tradurranno in impegni e azioni diverse a livello economico, politico, giuridico”. Esattamente come previsto dai percorsi sinodali, sulla scia degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, in cui da due anni è impegnata la Chiesa universale unitamente alle Chiese particolari, ovviamente sorretti da spirito evangelico e da correlato ottimismo della volontà! In conclusione i cattolici devono ripartire dall’impegno nella Chiesa, come detto, e subito andare “in mare aperto” (la “Chiesa in uscita” di papa Francesco) per navigarvi e operare insieme con tutti gli uomini e le donne di buona volontà. In definitiva per la Salvezza dell’Umanità e di tutto il Creato.
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* Anche su L’Unione Sarda/Il dibattito, del 1° aprile 2023 (pag. 44)
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i-carec3dem_banner_04L’etica della cura: una nuova prospettiva.
26 Marzo 2023 by Fabio | su C3dem
di Sandro Antoniazzi

Che cos’è l’etica della cura?
La parola cura ha molti significati.
Alcuni più medico-sanitari, altri più sociali, ma il carattere comune più significativo è indubbiamente quello relazionale.
La parola americana “care” è indubbiamente più espressiva, perché significa “prendersi cura di…”, ”interessarsi di…”, “preoccuparsi di…” (“I care” era il motto che don Milani che opponeva a “me ne frego”).
Dunque, cura dice che nelle relazioni è contenuto un interesse per l’altro, una preoccupazione per l’altro da noi.
Ogni attività sociale – in famiglia e nelle convivenze, coi vicini e nel quartiere, nel lavoro, nei servizi, nelle istituzioni – è fatta di relazioni; l’etica della cura se ne occupa in modo integrale, cioè sia a livello soggettivo che in quello collettivo-sociale.
Consideriamo alcune di queste situazioni.
Il campo delle attività e dei servizi sociali è di fatto un settore marginale, femminilizzato, considerato come un costo e quindi mal sopportato, accettato per necessità.
Non produce surplus e dunque si presenta economicamente povero, dotato di scarse risorse perché dipendente dai contributi pubblici (sempre lesinati) e dalla spesa delle famiglie. E’ in corso anche un processo di privatizzazione che però riguarda solo i ceti benestanti che se lo possono permettere (basta guardare le rette delle RSA).
E’ tradizionalmente un settore con occupazione femminile, sia perché si pensa che la cura sia un’espressione più propria delle donne, sia perché è quasi “naturale” pagare le donne meno degli uomini.
Le ristrettezze delle risorse economiche e il carattere personale del lavoro, fa sì che si esprima una forte pressione nei confronti dei lavoratori (spesso cooperative di immigrati) perché rendano il più possibile; così i lavoratori vengono a trovarsi in conflitto tra le esigenze di rendimento massimo e quelle di un lavoro di cura che richiede attenzione alle persone da curare.
Ecco, dunque, un settore dove si manifesta in modo evidente l’esigenza di un’attenzione primaria alla dimensione della cura.
Passando al lavoro domestico, si può dire che tradizionalmente esisteva una divisione del lavoro per cui l’uomo lavorava fuori casa guadagnando un salario e la donna rimaneva in casa ad allevare i figli e svolgere i lavori casalinghi.
Questo sistema è stato in larga misura superato dall’evoluzione della società e dalle lotte delle donne (a partire da quelle sul salario domestico).
Ma nella realtà non è cambiato molto e la maggior parte del lavoro domestico è tuttora a carico delle donne.
L’etica della cura spinge a una profonda revisione di questo stato di cose: da una parte sostenendo che dove l’attività svolta in casa costituisce un vero e proprio lavoro sociale deve essere riconosciuto e pagato (riguarda il mantenimento e l’allevamento dei figli e l’accompagnamento degli anziani e dei disabili che hanno bisogno di cura), dall’altra affermando che il lavoro di cura che ora continua a gravare prevalentemente sulle donne, venga più equamente ripartito e condiviso anche dagli uomini.
Procedere in questa direzione porterebbe a un profondo cambiamento della nostra vita sociale e personale, a una condizione di maggiore giustizia e anche a più democrazia (perché una più giusta redistribuzione del lavoro di cura permetterebbe anche alle donne di partecipare maggiormente).
Esiste poi un campo, per certi versi nuovo, dove il lavoro di cura viene oggi richiamato: si tratta della dimensione relazionale (e intellettiva) che sta assumendo una parte del lavoro recente.
Le trasformazioni tecnologiche ed economiche tendono a ridurre il lavoro manuale (svolto sempre più dalle macchine) e a sviluppare un lavoro, quello terziario (commercio, finanza, servizi alle imprese e alla persona, consulenza) in cui assume importanza primaria il lavoro della persona.
Ora il lavoro della persona è fatto di intelligenza e di sentimento che necessariamente si esprimono nel lavoro; anzi spesso costituiscono fattori essenziali per l’esecuzione del lavoro stesso, fattori che secondo alcuni il padrone “sfrutta” per il suo profitto.
Esistono diversi lavori, dunque, dove si manifesta questa dimensione “relazionale” come caratteristica inerente al lavoro e in questi casi appare evidente che il tradizionale sistema di remunerazione in base alle ore di lavoro non è più adeguato.
Come tenere conto nella valutazione del lavoro di questa dimensione relazionale di cura?
Questi sono alcuni esempi, in settori fondamentali, di applicazione dell’etica della cura nel campo sociale e del lavoro, ma è stata avanzata anche un’altra problematica non meno rilevante; gli ambientalisti definiscono spesso il loro impegno ecologico con il termine “cura del pianeta”.
E’ evidente che qui la parola cura è usata in una forma ben diversa, si può dire in modo prevalentemente simbolico. Si apre così una serie di problemi importanti.
La cura della persona comporta, si può dire logicamente, anche la cura dell’ambiente in cui si vive; si tratta però dell’ambiente prossimo.
Questa cura dell’ambiente porta a sua volta riconsiderare il rapporto uomo-natura, rapporto personale, ma che stimola una riflessione filosofica.
Addentrandosi in questi problemi, dato che la questione ambientale riveste un carattere mondiale, si apre l’esigenza di confrontarsi con culture diverse, dei tanti popoli che abitano il pianeta.
E poi come far concordare questa cura per il pianeta con quella più strettamente relazionale tra persone, al di là degli accostamenti logici e di linguaggio?
Insomma, l’ordine di problemi che si pongono all’etica della cura è estremamente vasto, ma nello stesso tempo affascinante perché affronta i problemi in una prospettiva nuova che può offrire nuove soluzioni, nuovi modi di vedere, intuizioni inedite.

Nascita e sviluppo dell’etica della cura
Si fa giustamente risalire la nascita dell’etica della cura a Carol Gilligan, psicologa allieva di Lawrence Kohlberg, e al suo libro “Con voce di donna”.
Criticando la concezione del proprio maestro che considerava i maschi più maturi sul piano della razionalità etica, perché più capaci di astrazione, Gilligan dimostrava che questo dipendeva dalla scala di valori usata: in realtà l’approccio degli uomini e delle donne era semplicemente diverso e dunque diversa era anche la loro valutazione morale, più relazionale per le donne, più astratta per gli uomini.
Ma mentre questa differenza veniva tradizionalmente usata per sostenere una condizione di inferiorità delle donne, Gilligan ne fa la base per sostenere un diverso approccio morale, basato sulla relazione più che su principi astratti.
Gilligan, almeno inizialmente, riferiva questo modo di vedere come proprio delle donne, ma il dibattito sviluppatosi sulla sua tesi e soprattutto il contributo di Joan Tronto, ha spostato decisamente il discorso su un piano generale.
Ogni persona è vulnerabile e ha bisogno di relazioni e di cura e dunque l’etica della cura ha un valore universale: se l’etica della giustizia, che rimane necessaria e ineludibile, si basa su principi astratti, l’etica della cura è altrettanto necessaria perché invece più aderente alla condizione in cui si trovano le persone.
Il dibattito che poi si è sviluppato nel mondo femminista ha riguardato in particolare il confronto con l’etica della giustizia, soprattutto quella di Rawls, criticando in particolare le sue carenze nell’affrontare le situazioni reali.
Le critiche che si rivolgono all’etica della cura manifestano la preoccupazione che serva a riproporre e quasi a confermare una diversità/inferiorità della donna e inoltre vi sono tesi delle femministe marxiste che tendono a contrapporre all’etica della cura il modello della “riproduzione”.
Che la riproduzione sia essenziale al capitalismo è un fatto indiscutibile (siamo in un sistema capitalistico e tutto è necessariamente integrato e funzionale al sistema), ma l’etica della cura è però, forse, più in grado di rispondere ai problemi sociali che ne derivano.
Dunque, l’etica della cura è cresciuta, ha chiarito i suoi fondamenti, le sue distanze ma anche la sua compatibilità con l’etica della giustizia; deve ora, anche se nata in ambiente femminista, andare oltre e dimostrare nella pratica di saper affrontare in modo convincente i molti problemi della società attuale.

La cura in campo sociale
Il campo più naturale in cui l’etica della cura può trovare applicazione è certamente quello sociale.
Consideriamo il lavoro domestico. Le battaglie storiche delle donne erano partite dal salario per il lavoro svolto a casa, sostenendo che il loro non era un’attività naturale morale dovuta al ruolo di madre e di moglie, ma che si trattava di un lavoro vero e proprio, secondo alcune “produttivo” a tutti gli effetti.
Questa via teorica è stata abbandonata perché infruttuosa e anche l’idea del salario è andata perdendosi a favore del più popolare Reddito di base.
Queste proposte sottintendono problemi teorici importanti.
Intanto se si sostiene il Reddito di base, il quale è indipendente da qualsiasi attività, si rinuncia in pratica alla tesi del lavoro domestico, che è un lavoro vero e proprio il quale va ricompensato: rinuncia negativa di un’acquisizione importante.
In secondo luogo, il lavoro domestico non è un lavoro “produttivo, né in senso marxiano né per l’economia capitalistica; è un lavoro a tutti gli effetti, ma è un lavoro sociale, un lavoro utile, un lavoro di utilità sociale che, in quanto tale, va retribuito dal pubblico o dalla società.
In questo senso è molto più propria la proposta del “care income”, sostenuta da femministe americane (un contributo elevato per ogni figlio sino alla maggiore età e per ogni anziano bisognoso di cura).
Per il lavoro sociale istituzionalizzato si possono prendere le RSA come l’esempio più chiaro su cui sviluppare la riflessione.
L’economia di queste strutture è povera: il settore pubblico riconosce un contributo che è inferiore al 50% e il resto è a carico della famiglia (per un costo che attualmente in Lombardia si aggira tra i 2.000 e i 3.000 euro mensili). L’inflazione recente ha ulteriormente aggravato l’onere familiare.
Così le direzioni aziendali cercano di far tornare i conti assumendo cooperative di immigrati al costo più basso possibile e sfruttando al massimo questi lavoratori, chiedendo tempi e carichi di lavoro a limite delle loro possibilità. Ma le RSA non sono fatte per prendersi cura degli anziani, coi tempi e i modi necessari?
Dunque, il problema delle RSA è trovare un equilibrio finanziario che non spinga a questa produttività esasperata che contraddice la finalità dell’ente e, inoltre, una sua “collocazione” nella città o paese come un luogo centrale della vita sociale comune.
Del resto, la “Ca’ Granda”, l’ospizio o albergo dei poveri di Milano, non era stata costruita al centro della città di Milano?
E poi la responsabilità pubblica/sociale non è solo quella dello Stato. Perché non pensare a una responsabilità sociale attraverso una proposta di finanziamento mutualistico regionale o provinciale? Basterebbe qualche centinaio di euro a testa per abitante per coprire l’attuale spesa di ricovero, insostenibile per la maggior parte delle famiglie.
Infine, la componente relazionale del lavoro attuale: qui i problemi di principio sono molti e trattandosi di problemi nuovi si presentano più complessi e variegati, perché molte e creative sono le ipotesi in circolazione. Vediamo quelli principali.
Il primo riguarda un classico problema teorico (“teoricissimo” per la quantità di dibattiti che ha sollevato nel tempo), quello del valore-lavoro.
Secondo un gruppo di economisti di sinistra la teoria del valore-lavoro di Marx non sarebbe più valida, perché non in grado di misurare l’attuale lavoro, intellettivo e affettivo.
In verità il limite del pensiero di Marx non è considerare il lavoro come generatore di valore, ma invece di pensare che questo potesse essere considerato come strumento di misura; non lo era neppure ieri, lo è tanto meno oggi.
Ma questi nuovi intellettuali di sinistra criticando il valore-lavoro, non criticano solo lo strumento di misura, ma rigettano il lavoro: il lavoro non è più un valore.
Invece il lavoro riveste un valore rilevante, ieri come oggi, tanto per Marx quanto per noi (lo dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la presenza di 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo).

C3dem. L’etica della cura: una nuova prospettiva

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26 Marzo 2023 by Fabio | su C3dem
di Sandro Antoniazzi

Che cos’è l’etica della cura?
La parola cura ha molti significati.
Alcuni più medico-sanitari, altri più sociali, ma il carattere comune più significativo è indubbiamente quello relazionale.
La parola americana “care” è indubbiamente più espressiva, perché significa “prendersi cura di…”, ”interessarsi di…”, “preoccuparsi di…” (“I care” era il motto che don Milani che opponeva a “me ne frego”).
Dunque, cura dice che nelle relazioni è contenuto un interesse per l’altro, una preoccupazione per l’altro da noi.
Ogni attività sociale – in famiglia e nelle convivenze, coi vicini e nel quartiere, nel lavoro, nei servizi, nelle istituzioni – è fatta di relazioni; l’etica della cura se ne occupa in modo integrale, cioè sia a livello soggettivo che in quello collettivo-sociale.
Consideriamo alcune di queste situazioni.
Il campo delle attività e dei servizi sociali è di fatto un settore marginale, femminilizzato, considerato come un costo e quindi mal sopportato, accettato per necessità.
Non produce surplus e dunque si presenta economicamente povero, dotato di scarse risorse perché dipendente dai contributi pubblici (sempre lesinati) e dalla spesa delle famiglie. E’ in corso anche un processo di privatizzazione che però riguarda solo i ceti benestanti che se lo possono permettere (basta guardare le rette delle RSA).
E’ tradizionalmente un settore con occupazione femminile, sia perché si pensa che la cura sia un’espressione più propria delle donne, sia perché è quasi “naturale” pagare le donne meno degli uomini.
Le ristrettezze delle risorse economiche e il carattere personale del lavoro, fa sì che si esprima una forte pressione nei confronti dei lavoratori (spesso cooperative di immigrati) perché rendano il più possibile; così i lavoratori vengono a trovarsi in conflitto tra le esigenze di rendimento massimo e quelle di un lavoro di cura che richiede attenzione alle persone da curare.
Ecco, dunque, un settore dove si manifesta in modo evidente l’esigenza di un’attenzione primaria alla dimensione della cura.
Passando al lavoro domestico, si può dire che tradizionalmente esisteva una divisione del lavoro per cui l’uomo lavorava fuori casa guadagnando un salario e la donna rimaneva in casa ad allevare i figli e svolgere i lavori casalinghi.
Questo sistema è stato in larga misura superato dall’evoluzione della società e dalle lotte delle donne (a partire da quelle sul salario domestico).
Ma nella realtà non è cambiato molto e la maggior parte del lavoro domestico è tuttora a carico delle donne.
L’etica della cura spinge a una profonda revisione di questo stato di cose: da una parte sostenendo che dove l’attività svolta in casa costituisce un vero e proprio lavoro sociale deve essere riconosciuto e pagato (riguarda il mantenimento e l’allevamento dei figli e l’accompagnamento degli anziani e dei disabili che hanno bisogno di cura), dall’altra affermando che il lavoro di cura che ora continua a gravare prevalentemente sulle donne, venga più equamente ripartito e condiviso anche dagli uomini.
Procedere in questa direzione porterebbe a un profondo cambiamento della nostra vita sociale e personale, a una condizione di maggiore giustizia e anche a più democrazia (perché una più giusta redistribuzione del lavoro di cura permetterebbe anche alle donne di partecipare maggiormente).
Esiste poi un campo, per certi versi nuovo, dove il lavoro di cura viene oggi richiamato: si tratta della dimensione relazionale (e intellettiva) che sta assumendo una parte del lavoro recente.
Le trasformazioni tecnologiche ed economiche tendono a ridurre il lavoro manuale (svolto sempre più dalle macchine) e a sviluppare un lavoro, quello terziario (commercio, finanza, servizi alle imprese e alla persona, consulenza) in cui assume importanza primaria il lavoro della persona.
Ora il lavoro della persona è fatto di intelligenza e di sentimento che necessariamente si esprimono nel lavoro; anzi spesso costituiscono fattori essenziali per l’esecuzione del lavoro stesso, fattori che secondo alcuni il padrone “sfrutta” per il suo profitto.
Esistono diversi lavori, dunque, dove si manifesta questa dimensione “relazionale” come caratteristica inerente al lavoro e in questi casi appare evidente che il tradizionale sistema di remunerazione in base alle ore di lavoro non è più adeguato.
Come tenere conto nella valutazione del lavoro di questa dimensione relazionale di cura?
Questi sono alcuni esempi, in settori fondamentali, di applicazione dell’etica della cura nel campo sociale e del lavoro, ma è stata avanzata anche un’altra problematica non meno rilevante; gli ambientalisti definiscono spesso il loro impegno ecologico con il termine “cura del pianeta”.
E’ evidente che qui la parola cura è usata in una forma ben diversa, si può dire in modo prevalentemente simbolico. Si apre così una serie di problemi importanti.
La cura della persona comporta, si può dire logicamente, anche la cura dell’ambiente in cui si vive; si tratta però dell’ambiente prossimo.
Questa cura dell’ambiente porta a sua volta riconsiderare il rapporto uomo-natura, rapporto personale, ma che stimola una riflessione filosofica.
Addentrandosi in questi problemi, dato che la questione ambientale riveste un carattere mondiale, si apre l’esigenza di confrontarsi con culture diverse, dei tanti popoli che abitano il pianeta.
E poi come far concordare questa cura per il pianeta con quella più strettamente relazionale tra persone, al di là degli accostamenti logici e di linguaggio?
Insomma, l’ordine di problemi che si pongono all’etica della cura è estremamente vasto, ma nello stesso tempo affascinante perché affronta i problemi in una prospettiva nuova che può offrire nuove soluzioni, nuovi modi di vedere, intuizioni inedite.

Nascita e sviluppo dell’etica della cura
Si fa giustamente risalire la nascita dell’etica della cura a Carol Gilligan, psicologa allieva di Lawrence Kohlberg, e al suo libro “Con voce di donna”.
Criticando la concezione del proprio maestro che considerava i maschi più maturi sul piano della razionalità etica, perché più capaci di astrazione, Gilligan dimostrava che questo dipendeva dalla scala di valori usata: in realtà l’approccio degli uomini e delle donne era semplicemente diverso e dunque diversa era anche la loro valutazione morale, più relazionale per le donne, più astratta per gli uomini.
Ma mentre questa differenza veniva tradizionalmente usata per sostenere una condizione di inferiorità delle donne, Gilligan ne fa la base per sostenere un diverso approccio morale, basato sulla relazione più che su principi astratti.
Gilligan, almeno inizialmente, riferiva questo modo di vedere come proprio delle donne, ma il dibattito sviluppatosi sulla sua tesi e soprattutto il contributo di Joan Tronto, ha spostato decisamente il discorso su un piano generale.
Ogni persona è vulnerabile e ha bisogno di relazioni e di cura e dunque l’etica della cura ha un valore universale: se l’etica della giustizia, che rimane necessaria e ineludibile, si basa su principi astratti, l’etica della cura è altrettanto necessaria perché invece più aderente alla condizione in cui si trovano le persone.
Il dibattito che poi si è sviluppato nel mondo femminista ha riguardato in particolare il confronto con l’etica della giustizia, soprattutto quella di Rawls, criticando in particolare le sue carenze nell’affrontare le situazioni reali.
Le critiche che si rivolgono all’etica della cura manifestano la preoccupazione che serva a riproporre e quasi a confermare una diversità/inferiorità della donna e inoltre vi sono tesi delle femministe marxiste che tendono a contrapporre all’etica della cura il modello della “riproduzione”.
Che la riproduzione sia essenziale al capitalismo è un fatto indiscutibile (siamo in un sistema capitalistico e tutto è necessariamente integrato e funzionale al sistema), ma l’etica della cura è però, forse, più in grado di rispondere ai problemi sociali che ne derivano.
Dunque, l’etica della cura è cresciuta, ha chiarito i suoi fondamenti, le sue distanze ma anche la sua compatibilità con l’etica della giustizia; deve ora, anche se nata in ambiente femminista, andare oltre e dimostrare nella pratica di saper affrontare in modo convincente i molti problemi della società attuale.

La cura in campo sociale
Il campo più naturale in cui l’etica della cura può trovare applicazione è certamente quello sociale.
Consideriamo il lavoro domestico. Le battaglie storiche delle donne erano partite dal salario per il lavoro svolto a casa, sostenendo che il loro non era un’attività naturale morale dovuta al ruolo di madre e di moglie, ma che si trattava di un lavoro vero e proprio, secondo alcune “produttivo” a tutti gli effetti.
Questa via teorica è stata abbandonata perché infruttuosa e anche l’idea del salario è andata perdendosi a favore del più popolare Reddito di base.
Queste proposte sottintendono problemi teorici importanti.
Intanto se si sostiene il Reddito di base, il quale è indipendente da qualsiasi attività, si rinuncia in pratica alla tesi del lavoro domestico, che è un lavoro vero e proprio il quale va ricompensato: rinuncia negativa di un’acquisizione importante.
In secondo luogo, il lavoro domestico non è un lavoro “produttivo, né in senso marxiano né per l’economia capitalistica; è un lavoro a tutti gli effetti, ma è un lavoro sociale, un lavoro utile, un lavoro di utilità sociale che, in quanto tale, va retribuito dal pubblico o dalla società.
In questo senso è molto più propria la proposta del “care income”, sostenuta da femministe americane (un contributo elevato per ogni figlio sino alla maggiore età e per ogni anziano bisognoso di cura).
Per il lavoro sociale istituzionalizzato si possono prendere le RSA come l’esempio più chiaro su cui sviluppare la riflessione.
L’economia di queste strutture è povera: il settore pubblico riconosce un contributo che è inferiore al 50% e il resto è a carico della famiglia (per un costo che attualmente in Lombardia si aggira tra i 2.000 e i 3.000 euro mensili). L’inflazione recente ha ulteriormente aggravato l’onere familiare.
Così le direzioni aziendali cercano di far tornare i conti assumendo cooperative di immigrati al costo più basso possibile e sfruttando al massimo questi lavoratori, chiedendo tempi e carichi di lavoro a limite delle loro possibilità. Ma le RSA non sono fatte per prendersi cura degli anziani, coi tempi e i modi necessari?
Dunque, il problema delle RSA è trovare un equilibrio finanziario che non spinga a questa produttività esasperata che contraddice la finalità dell’ente e, inoltre, una sua “collocazione” nella città o paese come un luogo centrale della vita sociale comune.
Del resto, la “Ca’ Granda”, l’ospizio o albergo dei poveri di Milano, non era stata costruita al centro della città di Milano?
E poi la responsabilità pubblica/sociale non è solo quella dello Stato. Perché non pensare a una responsabilità sociale attraverso una proposta di finanziamento mutualistico regionale o provinciale? Basterebbe qualche centinaio di euro a testa per abitante per coprire l’attuale spesa di ricovero, insostenibile per la maggior parte delle famiglie.
Infine, la componente relazionale del lavoro attuale: qui i problemi di principio sono molti e trattandosi di problemi nuovi si presentano più complessi e variegati, perché molte e creative sono le ipotesi in circolazione. Vediamo quelli principali.
Il primo riguarda un classico problema teorico (“teoricissimo” per la quantità di dibattiti che ha sollevato nel tempo), quello del valore-lavoro.
Secondo un gruppo di economisti di sinistra la teoria del valore-lavoro di Marx non sarebbe più valida, perché non in grado di misurare l’attuale lavoro, intellettivo e affettivo.
In verità il limite del pensiero di Marx non è considerare il lavoro come generatore di valore, ma invece di pensare che questo potesse essere considerato come strumento di misura; non lo era neppure ieri, lo è tanto meno oggi.
Ma questi nuovi intellettuali di sinistra criticando il valore-lavoro, non criticano solo lo strumento di misura, ma rigettano il lavoro: il lavoro non è più un valore.
Invece il lavoro riveste un valore rilevante, ieri come oggi, tanto per Marx quanto per noi (lo dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la presenza di 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo).
E si può aggiungere rispetto a Marx, e soprattutto alla tradizione marxista, non solo e non tanto per lo sfruttamento (concetto “economico” che indica la differenza tra il lavoro dell’operaio e il suo prodotto complessivo), ma prima e ancor più per l’oppressione, cioè per la condizione di dipendenza in cui si trova il lavoratore, che limita la sua libertà e dignità.
L’altra tesi fondamentale, sempre collegata all’interpretazione del lavoro intellettivo e affettivo come carattere dominante dell’economia attuale, è che ormai sarebbe difficile distinguere tra lavoro e vita; praticamente l’intera vita costituirebbe un contributo/partecipazione all’economia capitalistica.
Si può riconoscere un minimo di plausibilità a questa tesi, ma indubbiamente entro limiti ben più ristretti da quelli invasivi sostenuti da questi pensatori.
Prendiamo, ad esempio, un tipico lavoro moderno, quello effettuato al computer: molti di questi lavori sono ripetitivi e non vanno al di là dell’inserimento di dati, registrazioni standard, controlli predefiniti, invii periodici, ecc… In pratica, per molti versi, si presenta come un lavoro tayloristico, col computer invece della catena di montaggio.
Se ci sono lavori dove il contributo intellettivo e affettivo è rilevante questo va adeguatamente retribuito: ma in realtà le imprese lo sanno bene e retribuiscono in modo congruo questi lavoratori, spesso essenziali per la produzione aziendale.
Se la motivazione a giustificazione del Reddito di base, individuata nel contributo generale all’economia e alla società, si presenta debole, non mancano altre motivazioni a sostegno: il paese è ricco e dunque una parte della ricchezza può essere distribuita a tutti, il sistema di redistribuzione della ricchezza attraverso la contrattazione non funziona più e quindi sono necessarie altre soluzioni, si favorirebbe l’eguaglianza, si consentirebbe maggiore libertà nella scelta del lavoro, ecc…
Non entriamo nel merito di tutte queste giustificazioni, che in genere tendono ad accumularsi tra loro, limitandoci a sostenere che per quanto la proposta possa presentarsi allettante, incontra una difficoltà impeditiva al momento insuperabile, che è rappresentata dall’onere finanziario della misura.
Pur calcolando un’ipotesi bassa di reddito garantito – quantificabile in 500 euro mensili – si avrebbe una spesa annua di 360 miliardi (500 euro x 60 milioni di persona x 12 mesi), che rappresenta più della metà delle entrate previste dallo Stato per il 2023 (672 miliardi); spesa chiaramente insostenibile.
Peraltro, il paese sarà ricco a livello dei privati, ma non certamente a livello pubblico, perché come è noto lo Stato italiano ha un debito molto elevato (in Europa siamo secondi, superati solo dalla Grecia).
Sono proposte che vanno tenute presenti anche se al momento impraticabili, magari utilizzabili per soluzioni parziali e comunque da discutere bene, soprattutto per non perdere il valore del lavoro, di cui si deve certamente avere cura.

La cura del pianeta
Il termine “cura del pianeta” propone immediatamente uno scenario vastissimo cui corrisponde un ipotetico programma altrettanto smisurato.
Se alla base si esprime un’istanza etica indubbia, prevale però lo spessore politico della proposta: si tratta, si può ben dire, di cambiare il mondo e ciò chiama in causa tutti, le organizzazioni internazionali, i governi, le imprese, le singole persone.
Ognuno ha la sua responsabilità e il suo compito in quest’opera, ognuno non solo è utile, ma necessario, se si intende salvare il pianeta.
Naturalmente diverso è il contributo che si chiede alle persone da quello che si chiede alle istituzioni: alle persone si chiede di estendere la loro “cura” dalle persone all’ambiente in cui vivono; verso le istituzioni si svolge un’opera di pressione con documenti, manifestazioni, sit-in, proteste perché accolgano le raccomandazioni di intervento a favore dell’ambiente.
L’esempio e la forza che viene dalle esperienze di base è una condizione essenziale per essere credibili e per poter contare nei confronti delle istituzioni.
Ma non è mai facile per il singolo cittadino comprendere i grandi problemi a livello mondiale, spesso complessi anche tecnicamente; e poi gli Stati hanno tante posizioni diverse in base al loro grado di sviluppo economico delle loro risorse, della loro collocazione geopolitica.
A livello delle persone l’etica della cura dovrebbe preoccuparsi di formare una cultura (una coscienza) sui problemi ambientali, sapendo che per curare il pianeta sarà necessario modificare il nostro modello di vita facendo anche delle rinunce (come sta già avvenendo per l’energia e come già si sta programmando per l’auto o per l’acqua).
E significa anche aver presente che nel mondo esistono tante culture diverse, che vanno comprese e con cui bisogna dialogare, se effettivamente si ha a cuore l’intero pianeta.
Sui problemi ambientali, e più in generale sui temi in cui sono coinvolte le istituzioni, è preminente senza dubbio l’etica della giustizia.
Ora il confronto tra l’etica dominante e quella della cura diventa più stringente e più determinante, perché la cura ha molto da dire sulle decisioni che si assumono e sul modo di vedere i problemi.
Giustamente alcune associazioni di provenienza femminista e ambientalista parlano di “società della cura”, come una finalità a cui tendere nel proprio impegno: una società fatta di persone che si curano degli altri e dell’ambiente e una società dove le decisioni sulla vita comune sono prese insieme con cura.
L’etica della cura non ha un modello di società da proporre, anche la “società della cura” non è una forma di società definita; se tutti ci preoccupiamo, ci prendiamo cura, allora la vita di tutti e la convivenza certamente migliora.
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Costituente Terra Chiesadituttichiesadeipoveri News

Ripudiare la guerra per la paceEROI DI UNO SCEMPIO MILLENARIO costituente-terra-logologo76
Newsletter n. 110 del 29 marzo 2023 Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 291 del 29 marzo 2023.

Cari amici,

A Zelensky che chiede sempre nuove armi, l’Inghilterra ha risposto annunziando l’invio di un milione di proiettili all’uranio impoverito. Non risulta che Zelensky li abbia rifiutati, mentre al fronte ispeziona i carri armati tedeschi giunti in Ucraina a combattere la Russia come i panzer tedeschi che la attraversarono per la loro invasione nella seconda guerra mondiale. Intanto tornano al campo di battaglia i militari ucraini inviati in Germania, in Inghilterra e in Italia per imparare l’arte delle nuove tecnologie dell’industria di guerra.
I proiettili ad uranio impoverito sono armi anticarro a bassa potenzialità nucleare, come di ridotta radioattività sono le armi atomiche tattiche rispetto a quelle strategiche. Come ha spiegato il 23 marzo il Corriere della Sera, giornale che sostiene la fornitura di armi all’Ucraina, l’uranio impoverito, il “DU (depleted uranium)” causa “un aerosol micidiale che permane nell’ambiente migliaia di anni e intossica chi lo inala o lo ingerisce, e si sospetta che arrivi a modificare il DNA causando linfomi, leucemie e malformazioni dei feti”. Noi conosciamo questi effetti nei soldati italiani contaminati nelle missioni all’estero, come quella in Bosnia Erzegovina e Kosovo, e sono note le conseguenze a lungo termine delle atomiche sul Giappone; e fu per l’orrore di quelle armi che l’Imperatore del Giappone decise di porre termine alla guerra. Ma qui non c’è nessun imperatore che pensa alla sorte del popolo, e non sappiamo che cosa accadrà nella annunciata battaglia di primavera nel teatro di guerra del Donbass, che l’Ucraina vuole riconquistare come condizione per mettere fine alla guerra; ma se pure l’uranio impoverito non arriverà a contaminare il resto d’Europa, certamente produrrà lo scempio previsto e potrà permanere per migliaia di anni nella popolazione del Donbass. E allora perché preferire che muoia pur di non perderla, devastarla per farla stare da una parte o dall’altra del confine? Si vede qui tutta la nequizia, che noi già conosciamo, del nazionalismo irredentista: per far sventolare una bandiera si mandano al macero centinaia di migliaia (e in una guerra mondiale, milioni) di persone.
Tutto ciò mette a nudo la mistificazione di cui la povera Ucraina è vittima. Si esalta infatti il popolo ucraino che combatte fino alla morte (come viene celebrato in Televisione e nei collegamenti da remoto) per la sua indipendenza e libertà, ragione per cui si rifiutano i negoziati e il cessate il fuoco, perché, come dice Biden e sulla sua scia dicono gli ucraini, non servirebbero ad altro che a permettere alla Russia di riorganizzare le sue truppe per l’invasione del Paese e magari di altri pezzi d’Europa. Ma tutti sanno che la posta in gioco di un negoziato e della pace non è affatto l’indipendenza, la sovranità e la propensione europea dell’Ucraina, ma sono la sua neutralità tra la Russia e la NATO, lo statuto definitivo del Donbass, la fine del contenzioso sulla Crimea e la garanzia della inoffensività della Russia.
Non è dunque per l’esistenza stessa dell’Ucraina, per la libertà e la felicità del suo popolo che l’Ucraina è vittima di una guerra a cui non si vuole porre fine; altri sono i moventi di ciascuno dei protagonisti: si combatte per il dominio mondiale della coalizione atlantica, per la frustrazione dell’Europa interessata più ai motori a scoppio che alla pace, per l’intransigenza di chi ritiene così di difendere la Patria aggredita. Ma non si combatte per le persone gettate nella fornace, non per cittadini immolati a ideali artefatti e non veri, non per un mondo che guarda attonito alla strage ed è a rischio di una guerra planetaria.
Perciò è tempo della pace.
Pubblichiamo nel sito l’articolo del Corriere della Sera sull’uranio impoverito e un articolo di Raniero La Valle, “Ahi serva Europa”, uscito oggi su “Il Fatto quotidiano” [vedi di seguito]. Infine: la preghiera che il Papa pronunziò in piazza san Pietro durante la pandemia, che sarà ritrasmessa a partire dal 10 giugno 2023 da un’orbita spaziale.
Con i più cordiali saluti,

Costituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri (Raniero La Valle)
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AHI SERVA EUROPA
29 MARZO 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO/
L’Unione Europea ha fallito sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, in cui ne andava della sua identità

Raniero La Valle

“Ahi serva Italia, di dolore ostello…”. Quando Dante scriveva queste parole l’Italia era un faro di civiltà, un giardino di bellezza, la culla del pensiero. Però non sapeva leggere i segni dei tempi, era in balia dei potenti, tradiva le sue origini e non riusciva a stare senza guerra.

Questo si potrebbe dire oggi dell’Europa, serva delle armi e del denaro, chiusa nel suo egoismo, dimentica dei suoi ideali, sovversiva delle ragioni stesse per cui è nata. Era nata per chiudere con le guerre, per togliere le dogane al carbone e all’acciaio al fine di costruire, e non ai cannoni e ai carri armati al fine di distruggere, era nata per abbracciare i suoi popoli e farsi amica e accogliente a quelli di altre comunità e perfino era decisa a fare rinunzie alla sua sovranità non per farsi serva di nessuno bensì per contribuire alla pace e alla giustizia tra le nazioni. E prima ancora di Spinelli e di Spaak, di Schumann e di Monnet, di Ursula Hirschmann e Simone Weil, di Adenauer e di De Gasperi, l’”idea di Europa” era cresciuta lungo un millennio, come l’avevano illustrata Erich Przywara e Friedrich Heer, tanto cari a papa Francesco, e come aveva ispirato le lettere dei condannati antifascisti (l’identità cancellata da Giorgia Meloni) della Resistenza europea.

Ed ora che cosa è diventata? Sono i segni di questo suo tempo che ce lo hanno rivelato e l’ultimo Consiglio europeo ce l’ha mostrato con la massima evidenza. L’Unione Europea ha fallito sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, le due massime cure in cui ne andava della sua “identità culturale”, secondo il “progetto di pace e amicizia che ne è il fondamento”, come aveva detto Francesco al Consiglio europeo del 25 novembre 2014. La pace l’hanno licenziata a tempo indeterminato non solo i suoi cattivi capi, i suoi membri più atlantici, a cominciare dal Regno Unito, che arriva a promettere armi a componenti nucleari, ma anche i due personaggi che ne dovrebbero rappresentare l’unità e lo sguardo sul mondo, Ursula Von der Leyne e Jens Stoltenberg, l’una pavesata con i colori di un Paese in guerra, l’altro, dimentico della storia, andato a chiedere di votare i “crediti di guerra” ai partiti socialisti a Bruxelles, come alla vigilia della prima guerra mondiale.

Ma non solo: l’Europa non capisce nemmeno quello che, se mossi da probità professionale, le stanno dicendo gli esperti di geopolitica: che il suo vero “competitore” sono gli Stati Uniti, che per averla vassalla sono interessati a tenerla in guerra senza fine, vogliono dominarla col loro gas e i loro prodotti più avanzati, che non per niente hanno fatto saltare l’oleodotto che univa la Russia al resto dell’Europa. E non c’è nemmeno bisogno di particolari doti interpretative: l’hanno scritto gli Stati Uniti nella loro “Strategia della sicurezza nazionale” che la loro sicurezza, la loro difesa e l’obiettivo della loro bulimia militare stanno nel fatto che non vi sia alcuna potenza al mondo che non solo non superi, ma “nemmeno eguagli” la potenza americana. E se c’è una potenza che potrebbe osare eguagliarla non è la Russia, data già per disfatta, né la Cina, designata come suprema sfida del futuro, ma è l’Europa che, se facesse una politica meno suicida, potrebbe già ora competere economicamente e grazie alla proiezione della sua cultura, con l’egemonia degli Stati Uniti; ciò che potrebbe e dovrebbe fare proprio restando loro amica ed alleata per costruire insieme “un mondo libero, aperto, prospero e sicuro”, come essi lo vogliono, aiutandoli a evitare gli errori, come quello che fanno, e che facevano ben prima dei crimini di Putin, col volere la fine della Russia.

Certo non è alzando l’età di pensione e gettando un Paese intero in una lotta sociale ad oltranza, non è stando appesi alle labbra e al “Crimea o morte” di Zelenski, non è dicendo “nazione” per non dire “fascismo”, né incentivando le fabbriche a stipulare contratti pluriennali per la costruzione di armi che avranno bisogno di altrettanti anni per essere consumate sui campi di battaglia, sulle città e sui famosi vecchi e bambini costretti a morire anche loro in guerra, non è con queste scelte che l’Europa potrà ritrovare la sua dignità, la nobiltà delle sue origini, gli ideali che l’hanno spinta ad unirsi. È per quegli ideali, non per essere “provincia” di un Impero che l’Europa è nata, con la vocazione ad attraversare il Mediterraneo e a guardare a Sud, a Israele alla Palestina e al mondo arabo, ad Est, alla Russia e alla Turchia, e ad Ovest, non solo a un’America sola, ma a tutte e due; e non è togliendo ai suoi popoli la loro tutela sociale che l’Europa unita sarà in grado di prevalere, politicamente e culturalmente, sui sovranismi. Ma allora quale politica dovremmo fare? E quanto dobbiamo aspettare per vedere arrivare qui una vera Schlein, non il dominio del passato ma il coraggio del cambiamento?

Raniero La Valle

Articolo pubblicato su Il fatto quotidiano del 29 marzo 2023

Verso il peggio

La guerra in Ucraina, le responsabilità dell’Occidente
24-03-2023 – di: Domenico Gallo su Volerelaluna
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Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, il saggio dello storico americano Benjamin Abelow, è un documento indispensabile per comprendere le vere cause e le origini profonde della disastrosa guerra che sta devastando l’Ucraina e sta portando il mondo sull’orlo dell’olocausto nucleare. Sono solo 70 pagine, è un manuale denso di informazioni essenziali, una specie di Bignami sul contesto politico e i retroscena internazionali nei quali si inserisce la tragedia della guerra. Tutto ciò che è necessario per comprendere come la sciagurata avventura militare di Putin, che ha varcato il Rubicone la mattina del 24 febbraio 2022, costituisca una risposta del tutto prevedibile, e perciò prevenibile, a una trentennale storia di provocazioni alla Russia, cominciate durante la dissoluzione dell’Unione Sovietica e proseguite, in un crescendo inarrestabile, fino all’inizio del conflitto attuale. Una storia di provocazioni, di accumulo di minacce militari, e di sfide politiche che è stata completamente oscurata, ignorata e cancellata dai leader politici delle nazioni europee e dai mass media, che hanno presentato lo scatenamento del conflitto (azione certamente ingiustificabile e criminale come tutte le guerre), come un fatto inspiegabile, frutto dell’impazzimento di un novello Hitler, deciso a soggiogare tutta l’Europa, in preda a un delirio di potenza.

Abelow elenca, in estrema sintesi, otto categorie di eventi che hanno inciso profondamente sugli interessi di sicurezza della Russia e sul rapporto di fiducia con l’Occidente, creando un allarme diffuso a cui la mediocre classe dirigente russa non ha saputo dare altra risposta che non fosse il ricorso all’uso della forza. Non si tratta soltanto dell’allargamento della NATO di oltre 1600 chilometri ad est. Le insidie contro la sicurezza della Russia si sono manifestate anche con il ritiro unilaterale degli USA dal trattato sui missili antibalistici. A seguito del ritiro gli USA hanno installato una base ABM in Romania (e ne stanno installando un’altra in Polonia). I sistemi ABM schierati dagli americani non contemplano solo il lancio di missili antibalistici, ma consentono l’utilizzo di armi offensive con testata nucleare, come i missili Tomahawk che hanno una gittata di oltre 2.400 km. Nel 2019 gli USA si sono ritirati unilateralmente anche dal Trattato del 1987 sulle armi nucleari a raggio intermedio e quindi hanno creato le condizioni per poter posizionare armi nucleari a breve distanza dalla Russia, che – a sua volta – non può reagire allo stesso modo. In questo contesto un ruolo centrale assume la vicenda dell’Ucraina, dove gli USA hanno favorito nel 2014 un colpo di Stato che ha portato al governo forze di estrema destra fortemente ostili alla Russia e alla minoranza russofona. Gli USA hanno deciso di estendere la NATO al territorio dell’Ucraina, sebbene già dal 2008 la Russia aveva fatto intendere di considerarlo inaccettabile. A ciò si aggiungano le ripetute manovre militari ai confini della Russia e nel Mar Nero con esercitazioni a fuoco vivo. Anche quando è stato chiaro che la Russia stava preparando una risposta militare, non si è voluto fare nulla per abbassare i toni della sfida: fino all’ultimo gli USA e gli alleati europei (compresa l’Italia) hanno insistito sull’ingresso dell’Ucraina nella NATO, presentandolo come un principio non negoziabile.

Il merito del libro di Abelow è di far comprendere che non si possono valutare gli eventi internazionali se non si è capaci di mettersi nei panni dell’altro. Il libro stimola il lettore a porsi una domanda di una semplicità disarmante: «Come reagirebbe Washington se la Russia stringesse un’alleanza militare con il Canada e poi piazzasse basi missilistiche a cento chilometri dal confine con gli Stati Uniti?».

Il punto fondamentale è chiedersi se la narrazione occidentale sulla guerra in Ucraina sia corretta o meno. Se l’avanzata russa in Ucraina viene considerata al pari dell’aggressione nazista, allora la politica occidentale di alimentare una guerra senza quartiere fino alla totale sconfitta dell’aggressore ha un senso, anche se comporta un fortissimo rischio di olocausto nucleare. Ma se questa narrazione fosse totalmente sbagliata perché fondata su false premesse, come ci dimostra, in poche battute la rievocazione storica di Abelow, allora una soluzione negoziata sarebbe possibile in tempi brevi e consentirebbe di risparmiare una insensata carneficina e di scongiurare il rischio di un’escalation nucleare.

Per completare il quadro, Abelow richiama l’allarme lanciato dagli esperti di politica estera americani, come George Kennan (uno dei più autorevoli teorici della guerra fredda) in ordine ai pericoli derivanti dall’insensata scelta di allargamento a Est della NATO. La scelta, attraverso l’allargamento della NATO, di ricostruire quel nemico che la dissoluzione dell’URSS aveva fatto venire meno, fu considerata da Kennan come una profezia che si autoavvera. Le minacce e le insidie agli interessi di sicurezza della Russia avrebbero sicuramente provocato una reazione negativa e ricreato in futuro la possibilità dello scoppio di un conflitto, com’è puntualmente avvenuto. In conclusione, osserva Abelow, «la minaccia esistenziale che la Russia percepisce da un’Ucraina, armata, addestrata e militarmente integrata nell’Occidente, avrebbe dovuto essere chiara a Washington fin dall’inizio. Quale persona sana di mente poteva credere che piazzare un arsenale occidentale al confine con la Russia non avrebbe scatenato una risposta vigorosa?».

Se gli Stati Uniti hanno agito secondo una logica imperiale, che mira a indebolire e fiaccare la Russia, è assurda la cecità dei leader europei che hanno agito con un «livello di deferenza e di codardia tali da essere quasi inconcepibili». Eppure proprio questo è il problema dell’Europa, la deferenza (verso gli USA) e la codardia dei leader europei, che sono stati talmente sciocchi da infilarsi nelle sabbie mobili del conflitto ed è difficile che possano trovare la saggezza per uscire da quelle sabbie mobili prima di affondare del tutto e portare giù con sé tutti noi.
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Ripudiare la guerra per la paceCostituente Terra Newsletter n. 109 del 22 marzo 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 290
del 22 marzo 2023.
Le guerre promesse
Cari amici,
Ci sono molte “ultime notizie” che prefigurano un mondo a perdere.
La prima è che nella pianificazione nucleare degli Stati Uniti pubblicata dal Pentagono si dice: “abbiamo condotto un’analisi approfondita di un’ampia gamma di opzioni per la politica nucleare, comprese le politiche No First Use (non ricorso alle atomiche prima di un attacco nucleare altrui) e Single Purpose (uso limitato a una singola finalità) e abbiamo concluso che tali approcci si tradurrebbero in un livello di rischio inaccettabile alla luce della gamma di capacità non nucleari di concorrenti che potrebbero infliggere danni a livello strategico agli Stati Uniti e ai suoi alleati e partner”. Al riparo della minaccia nucleare si potrà invece “proiettare potenza” e combattere guerre convenzionali senza arrivare all’uso dell’atomica.
La viceministra inglese della Difesa, Annabel Goldie ha annunciato la volontà di Londra di fornire a Kiev proiettili all’uranio impoverito per la guerra anticarro, Putin ha risposto che se l’Inghilterra manderà “armi con componenti nucleari la Russia sarà costretta a rispondere”. Dunque la guerra nucleare è stata sdoganata.
Biden ha respinto le proposte della Cina per un “cessate il fuoco” in Ucraina e un dialogo per un nuovo ordine mondiale, dando inizio di fatto all’annunciata “competizione” a tutto campo degli Stati Uniti e del campo atlantico con la Cina.
La Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato contro Putin condannandolo di fatto agli arresti domiciliari: se lascerà la Russia per andare in qualsiasi Paese, tranne quelli che non riconoscono la giurisdizione della Corte, verrà imprigionato e processato.

Ha scritto Domenico Gallo

: “l’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della CPI perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra (e quindi ai crimini che della guerra sono un sottoprodotto). Quali che siano le responsabilità di Putin, questo non giustifica l’emissione di un mandato d’arresto contro un capo di Stato in carica. Nell’esercizio della sua discrezionalità il Procuratore della Corte Penale Internazionale deve essere coerente con i fini delle Nazioni Unite, che consistono essenzialmente nel mantenimento e nel ristabilimento della pace, tanto più che nello Statuto della Corte non vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non si può pretendere di fare giustizia a costo della pace. Incriminando Putin, mentre la guerra è in corso, si tagliano i ponti rispetto alla possibilità di un negoziato e si impedisce alla Russia di tornare sui suoi passi”. La Russia è uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza: l’incriminazione di Putin di fatto sopprime, e in ogni caso sospende, l’ONU.
In Israele il governo Netanyahu ha rilanciato la colonizzazione in Palestina e legalizzato nuovi insediamenti “selvaggi”. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, del partito “Sionismo religioso” ha affermato in un discorso a Parigi che “i palestinesi non esistono”, sono “un’invenzione di meno di 100 anni fa”. “Non esistono i palestinesi perché non esiste un popolo palestinese”. Gli Stati Uniti hanno redarguito l’esponente sionista e l’Unione europea, tramite il capo della sua diplomazia Josep Borrell ha invitato il governo israeliano a sconfessare il suo ministro.
La Presidente italiana Giorgia Meloni ha per la seconda volta detto di “avere la coscienza a posto” per la strage dei migranti a Cutro, ma non ha receduto dalle politiche di cui essi sono vittima, “la difesa dei confini” e la lotta contro la “sostituzione etnica”. Ma la sostituzione etnica è quella che ha fatto l’Europa e le due Americhe, mentre quelle politiche sono rivolte contro gruppi di profughi più o meno numerosi solo in ragione della loro provenienza da terre straniere. Ma la Convenzione contro il genocidio vieta non solo gli atti che colpiscono tutti i membri di un gruppo, ma anche una parte di loro in quanto appartenenti a “un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” come tale. Pertanto le politiche che conducono alla loro “distruzione fisica, totale o parziale”, e fanno del Mediterraneo un cimitero, sono, coscienti o no, politiche di genocidio.
Con queste politiche e questi “che sono considerati i governanti delle nazioni e dominano su di esse” (Marco 10, 42), abbiamo di che temere il futuro, l’esilio del diritto, e il bando della pace.
Con i più cordiali saluti,

Costituente Terra (Raniero La Valle)
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QUEL MANDATO D’ARRESTO PER PUTIN BLOCCA LA PACE
22 MARZO 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO /
L’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della Corte Penale Internazionale perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra e a tutti i suoi delitti

di Domenico Gallo

Fiat Justitia et pereat mundus (si faccia Giustizia e perisca il mondo) oppure Fiat Justitia ne pereat mundus (si faccia Giustizia affinchè non perisca il mondo), è questo il dilemma di fronte al quale ci pone la notizia che la Corte penale Internazionale, su richiesta del Procuratore Karim Khan, ha spiccato un mandato di cattura contro il presidente russo Vladimir Putin per un presunto crimine, consistente nella deportazione di numerosi bambini dai territori occupati dell’Ucraina. Non v’è dubbio che la feroce guerra in corso farà lavorare per anni la Corte penale internazionale per prendere conoscenza della valanga di oltraggi all’umanità che sono stati commessi dai belligeranti e che verranno commessi ancora fino a quando non si porrà fine al conflitto. Non dimentichiamo che “la guerra è un assassinio di massa”, così come l’ha definita crudamente Hans Kelsen nella prefazione al suo libro Peace Through Law (1944). La guerra è la madre di tutti i delitti, crea l’ambiente umano nel quale si possono sviluppare tutte le peggiori perversioni generate dalla paura, dall’odio e dalla “disumanizzazione” del nemico. E’ vero che gli atti più atroci sono vietati dal diritto bellico, che li bolla come crimini di guerra e crimini contro l’umanità, però quella del diritto è una barriera molto fragile. Ci è stato insegnato che se il diritto internazionale è il punto di evanescenza del diritto pubblico, il diritto bellico è il punto di evanescenza del diritto internazionale (Antonio Cassese). L’istituzione della Corte penale Internazionale, frutto del Trattato di Roma del 1998, mirava a rafforzare il fragile diritto umanitario, assicurando la garanzia di una giurisdizione universale a sua tutela. Proprio per questo, hanno rifiutato la giurisdizione della Corte quegli Stati che sono più adusi a commettere crimini internazionali e/o che non accettano limitazioni alla propria sovranità (USA, Israele, Iran, Turchia, Russia e Cina).

Pochi giorni fa è stato reso noto il rapporto di una Commissione Internazionale Indipendente sull’Ucraina, redatto da un gruppo di esperti nominati dall’ONU, che fa emergere una serie impressionante di crimini di guerra, che includono uccisioni volontarie, attacchi a civili, reclusione illegale, torture, stupri, trasferimenti forzati e deportazione di bambini. Si tratta di fatti atroci, non dissimili (esclusa la deportazione di bambini) da quelli compiuti dalle forze armate americane durante la seconda guerra del Golfo, come documentati, almeno in parte, da Julian Assange, che per questo “crimine di verità” rischia di essere sepolto vivo in un carcere americano. Tuttavia all’epoca nessuno pensò di incriminare George Bush, responsabile politico di quella tragedia, né di inviare armi al paese aggredito per consentirgli di difendersi dall’aggressore. L’esperienza della guerra in Jugoslavia ci ha fatto toccare con mano come la giustizia internazionale possa essere strumentalizzata ai fini della guerra, per delegittimare ed indebolire l’avversario. Così la NATO, dopo aver impedito alla Corte penale internazionale per l’ex Jugoslavia di indagare sui crimini commessi dalle sue forze militari durante la campagna di bombardamenti contro la Jugoslavia del 1999, si è arrogata la funzione di polizia giudiziaria della Corte, pretendendo la consegna di Milosevic. In definitiva, grazie anche all’attitudine filoatlantica del suo Procuratore (la svizzera Carla del Ponte) la Corte per l’ex Jugoslavia finì per diventare un organo gregario della NATO.

Orbene, l’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della CPI perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra (e quindi ai crimini che della guerra sono un sottoprodotto). Quali che siano le responsabilità di Putin, questo non giustifica l’emissione di un mandato d’arresto contro un capo di Stato in carica. Nell’esercizio della sua discrezionalità il Procuratore della CPI deve essere coerente con i fini delle Nazioni Unite, che consistono essenzialmente nel mantenimento e nel ristabilimento della pace, tanto più che nello Statuto della Corte penale internazionale non vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non si può pretendere di fare giustizia a costo della pace. Incriminando Putin, mentre la guerra è in corso, si tagliano i ponti rispetto alla possibilità di un negoziato e si impedisce alla Russia di tornare sui suoi passi.

Non vi è chi non veda come il mandato di arresto spiccato contro Putin sia un formidabile atout nelle mani della Santa Alleanza occidentale per delegittimare l’avversario e rafforzare la versione del conflitto come una sorta di guerra santa contro il male, secondo la vulgata di Zelensky. Una guerra che dovrà proseguire fino alla “vittoria”, cioè alla sconfitta della Federazione Russa e all’arresto dei suoi capi.

In questo modo è stato compiuto un altro passo nel girone infernale della guerra e le lancette dell’orologio atomico si sono avvicinate ancora di più alla mezzanotte.

Noi continuiamo a pensare che la giustizia non deve avvicinare la fine del mondo, al contrario, auspichiamo che si faccia giustizia per evitare che il mondo perisca.

Domenico Gallo

(articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 21 marzo 2023 con il titolo: Quel mandato d’arresto per Putin blocca la pace)
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News Costituente Terra Chiesadituttichiesadeipoveri. Le guerre promesse.

Ripudiare la guerra per la paceCostituente Terra Newsletter n. 109 del 22 marzo 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 290
del 22 marzo 2023.
Le guerre promesse
Cari amici,
Ci sono molte “ultime notizie” che prefigurano un mondo a perdere.
La prima è che nella pianificazione nucleare degli Stati Uniti pubblicata dal Pentagono si dice: “abbiamo condotto un’analisi approfondita di un’ampia gamma di opzioni per la politica nucleare, comprese le politiche No First Use (non ricorso alle atomiche prima di un attacco nucleare altrui) e Single Purpose (uso limitato a una singola finalità) e abbiamo concluso che tali approcci si tradurrebbero in un livello di rischio inaccettabile alla luce della gamma di capacità non nucleari di concorrenti che potrebbero infliggere danni a livello strategico agli Stati Uniti e ai suoi alleati e partner”. Al riparo della minaccia nucleare si potrà invece “proiettare potenza” e combattere guerre convenzionali senza arrivare all’uso dell’atomica.
La viceministra inglese della Difesa, Annabel Goldie ha annunciato la volontà di Londra di fornire a Kiev proiettili all’uranio impoverito per la guerra anticarro, Putin ha risposto che se l’Inghilterra manderà “armi con componenti nucleari la Russia sarà costretta a rispondere”. Dunque la guerra nucleare è stata sdoganata.
Biden ha respinto le proposte della Cina per un “cessate il fuoco” in Ucraina e un dialogo per un nuovo ordine mondiale, dando inizio di fatto all’annunciata “competizione” a tutto campo degli Stati Uniti e del campo atlantico con la Cina.
La Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato contro Putin condannandolo di fatto agli arresti domiciliari: se lascerà la Russia per andare in qualsiasi Paese, tranne quelli che non riconoscono la giurisdizione della Corte, verrà imprigionato e processato.

Ha scritto Domenico Gallo

: “l’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della CPI perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra (e quindi ai crimini che della guerra sono un sottoprodotto). Quali che siano le responsabilità di Putin, questo non giustifica l’emissione di un mandato d’arresto contro un capo di Stato in carica. Nell’esercizio della sua discrezionalità il Procuratore della Corte Penale Internazionale deve essere coerente con i fini delle Nazioni Unite, che consistono essenzialmente nel mantenimento e nel ristabilimento della pace, tanto più che nello Statuto della Corte non vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non si può pretendere di fare giustizia a costo della pace. Incriminando Putin, mentre la guerra è in corso, si tagliano i ponti rispetto alla possibilità di un negoziato e si impedisce alla Russia di tornare sui suoi passi”. La Russia è uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza: l’incriminazione di Putin di fatto sopprime, e in ogni caso sospende, l’ONU.
In Israele il governo Netanyahu ha rilanciato la colonizzazione in Palestina e legalizzato nuovi insediamenti “selvaggi”. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, del partito “Sionismo religioso” ha affermato in un discorso a Parigi che “i palestinesi non esistono”, sono “un’invenzione di meno di 100 anni fa”. “Non esistono i palestinesi perché non esiste un popolo palestinese”. Gli Stati Uniti hanno redarguito l’esponente sionista e l’Unione europea, tramite il capo della sua diplomazia Josep Borrell ha invitato il governo israeliano a sconfessare il suo ministro.
La Presidente italiana Giorgia Meloni ha per la seconda volta detto di “avere la coscienza a posto” per la strage dei migranti a Cutro, ma non ha receduto dalle politiche di cui essi sono vittima, “la difesa dei confini” e la lotta contro la “sostituzione etnica”. Ma la sostituzione etnica è quella che ha fatto l’Europa e le due Americhe, mentre quelle politiche sono rivolte contro gruppi di profughi più o meno numerosi solo in ragione della loro provenienza da terre straniere. Ma la Convenzione contro il genocidio vieta non solo gli atti che colpiscono tutti i membri di un gruppo, ma anche una parte di loro in quanto appartenenti a “un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” come tale. Pertanto le politiche che conducono alla loro “distruzione fisica, totale o parziale”, e fanno del Mediterraneo un cimitero, sono, coscienti o no, politiche di genocidio.
Con queste politiche e questi “che sono considerati i governanti delle nazioni e dominano su di esse” (Marco 10, 42), abbiamo di che temere il futuro, l’esilio del diritto, e il bando della pace.
Con i più cordiali saluti,

Costituente Terra (Raniero La Valle)
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QUEL MANDATO D’ARRESTO PER PUTIN BLOCCA LA PACE
22 MARZO 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO /
L’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della Corte Penale Internazionale perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra e a tutti i suoi delitti

di Domenico Gallo

Fiat Justitia et pereat mundus (si faccia Giustizia e perisca il mondo) oppure Fiat Justitia ne pereat mundus (si faccia Giustizia affinchè non perisca il mondo), è questo il dilemma di fronte al quale ci pone la notizia che la Corte penale Internazionale, su richiesta del Procuratore Karim Khan, ha spiccato un mandato di cattura contro il presidente russo Vladimir Putin per un presunto crimine, consistente nella deportazione di numerosi bambini dai territori occupati dell’Ucraina. Non v’è dubbio che la feroce guerra in corso farà lavorare per anni la Corte penale internazionale per prendere conoscenza della valanga di oltraggi all’umanità che sono stati commessi dai belligeranti e che verranno commessi ancora fino a quando non si porrà fine al conflitto. Non dimentichiamo che “la guerra è un assassinio di massa”, così come l’ha definita crudamente Hans Kelsen nella prefazione al suo libro Peace Through Law (1944). La guerra è la madre di tutti i delitti, crea l’ambiente umano nel quale si possono sviluppare tutte le peggiori perversioni generate dalla paura, dall’odio e dalla “disumanizzazione” del nemico. E’ vero che gli atti più atroci sono vietati dal diritto bellico, che li bolla come crimini di guerra e crimini contro l’umanità, però quella del diritto è una barriera molto fragile. Ci è stato insegnato che se il diritto internazionale è il punto di evanescenza del diritto pubblico, il diritto bellico è il punto di evanescenza del diritto internazionale (Antonio Cassese). L’istituzione della Corte penale Internazionale, frutto del Trattato di Roma del 1998, mirava a rafforzare il fragile diritto umanitario, assicurando la garanzia di una giurisdizione universale a sua tutela. Proprio per questo, hanno rifiutato la giurisdizione della Corte quegli Stati che sono più adusi a commettere crimini internazionali e/o che non accettano limitazioni alla propria sovranità (USA, Israele, Iran, Turchia, Russia e Cina).

Pochi giorni fa è stato reso noto il rapporto di una Commissione Internazionale Indipendente sull’Ucraina, redatto da un gruppo di esperti nominati dall’ONU, che fa emergere una serie impressionante di crimini di guerra, che includono uccisioni volontarie, attacchi a civili, reclusione illegale, torture, stupri, trasferimenti forzati e deportazione di bambini. Si tratta di fatti atroci, non dissimili (esclusa la deportazione di bambini) da quelli compiuti dalle forze armate americane durante la seconda guerra del Golfo, come documentati, almeno in parte, da Julian Assange, che per questo “crimine di verità” rischia di essere sepolto vivo in un carcere americano. Tuttavia all’epoca nessuno pensò di incriminare George Bush, responsabile politico di quella tragedia, né di inviare armi al paese aggredito per consentirgli di difendersi dall’aggressore. L’esperienza della guerra in Jugoslavia ci ha fatto toccare con mano come la giustizia internazionale possa essere strumentalizzata ai fini della guerra, per delegittimare ed indebolire l’avversario. Così la NATO, dopo aver impedito alla Corte penale internazionale per l’ex Jugoslavia di indagare sui crimini commessi dalle sue forze militari durante la campagna di bombardamenti contro la Jugoslavia del 1999, si è arrogata la funzione di polizia giudiziaria della Corte, pretendendo la consegna di Milosevic. In definitiva, grazie anche all’attitudine filoatlantica del suo Procuratore (la svizzera Carla del Ponte) la Corte per l’ex Jugoslavia finì per diventare un organo gregario della NATO.

Orbene, l’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della CPI perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra (e quindi ai crimini che della guerra sono un sottoprodotto). Quali che siano le responsabilità di Putin, questo non giustifica l’emissione di un mandato d’arresto contro un capo di Stato in carica. Nell’esercizio della sua discrezionalità il Procuratore della CPI deve essere coerente con i fini delle Nazioni Unite, che consistono essenzialmente nel mantenimento e nel ristabilimento della pace, tanto più che nello Statuto della Corte penale internazionale non vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non si può pretendere di fare giustizia a costo della pace. Incriminando Putin, mentre la guerra è in corso, si tagliano i ponti rispetto alla possibilità di un negoziato e si impedisce alla Russia di tornare sui suoi passi.

Non vi è chi non veda come il mandato di arresto spiccato contro Putin sia un formidabile atout nelle mani della Santa Alleanza occidentale per delegittimare l’avversario e rafforzare la versione del conflitto come una sorta di guerra santa contro il male, secondo la vulgata di Zelensky. Una guerra che dovrà proseguire fino alla “vittoria”, cioè alla sconfitta della Federazione Russa e all’arresto dei suoi capi.

In questo modo è stato compiuto un altro passo nel girone infernale della guerra e le lancette dell’orologio atomico si sono avvicinate ancora di più alla mezzanotte.

Noi continuiamo a pensare che la giustizia non deve avvicinare la fine del mondo, al contrario, auspichiamo che si faccia giustizia per evitare che il mondo perisca.

Domenico Gallo

(articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 21 marzo 2023 con il titolo: Quel mandato d’arresto per Putin blocca la pace)
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Rocca. A sessant’anni dalla PACEM IN TERRIS

pacem-in-terris
Il quindicinale Rocca della Pro Civitate Christiana, a cui siamo legati da un rapporto di amicizia e collaborazione, nell’ultimo numero (n.7 del 1 aprile 2023) dedica un servizio speciale sull’enciclica Pacem in terris emanata da Giovanni XXIII il 13 aprile 1963. Sono passati 60 anni ma il messaggio dell’enciclica è anche oggi straordinariamente valido. Chiara e netta la condanna della guerra che mai può essere giustificata: non è esiste nessuna “guerra giusta”. Lo rammentiamo a maggior ragione oggi, nel tempo in cui la guerra sconvolge molte parti del mondo, a partire dalla guerra Ucraina/Russia che si combatte in piena Europa, con il rischio sempre più pericolosamente possibile di un coinvolgimento planetario in conflitto atomico.
D’accordo con il direttore di Rocca, che ringraziamo, rilanciamo alcuni contributi del numero 7, già pubblicato online, condividendo in particolare la scelta strategica della nonviolenza come alternativa alle politiche guerrafondaie. Ostinatamente e convintamente per la Pace!

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La guerra tornata nella ragione?
di Raniero La Valle su Rocca

C’è un ripudio della guerra che sta nella Costituzione italiana, a cui non siamo rimasti fedeli (dalla partecipazione alla guerra contro l’Iraq, poi contro la Jugoslavia, al profluvio di armi inviate ad alimentare il conflitto in Ucraina) e c’è un ripudio della guerra proclamato da Giovanni XXIII nella «Pacem in terris» a cui la Chiesa è rimasta sempre fedele: dal «mai più la guerra!» gridato da Paolo VI dalla tribuna dell’Onu, all’opposizione frontale di Giovanni Paolo II alla guerra del Golfo, a papa Francesco che ha definito la guerra come una «mistica della distruzione». E se papa Giovanni aveva scritto che in questa età, che si gloria della potenza atomica, la guerra era uscita fuori della ragione (bellum alienum a ratione), e perciò non appartiene più all’umano, papa Francesco è andato oltre non solo definendo la guerra come «una pazzia», ma qualificando l’industria delle armi, «che le sta dietro», come «diabolica». Purtroppo con la guerra d’Ucraina e con tutte le altre che l’accompagnano le cose sono ancora peggiorate: l’industria delle armi ha talmente aumentato la produzione di armi che ci vorranno ancora più guerre per smaltirle; tutti i giornali parlano oggi della guerra come della cosa più normale del mondo e nessun negoziato è intrapreso per porre fine al sacrificio dell’Ucraina e alla guerra in Europa. Dunque assistiamo a un rovesciamento totale: quello che è diabolico è benedetto da chi ne trae profitti sempre più alti, la guerra che non apparteneva più all’umano vi è stata reintrodotta come congeniale alla natura stessa dell’uomo e quella che era uscita dalla ragione come mezzo atto a risarcire i diritti violati vi è stata rimessa senza che sia consentita altra ragione che la vittoria. Lo scacco della ragione è tanto maggiore perché per tutto il periodo della guerra fredda l’incompatibilità tra la guerra e la ragione era stata tenuta ferma, e anzi era stata presidiata dal terrore (la «deterrenza»), dato il rischio di una guerra nucleare. È stato con la prima guerra del Golfo, passata la paura dell’atomica grazie alla rimozione del muro di Berlino, che la guerra è stata recuperata, con la complicità dell’Onu, come ragionevole e anzi giusta e salutare, e da allora se ne è fatto uso più volte. Oggi la guerra non solo è combattuta in più continenti (papa Francesco ha citato «la Siria che da 13 anni è in una guerra terribile, lo Yemen, Myanmar e dappertutto in Africa»), ma è stata posta come struttura dell’ordine internazionale e cardine della nuova visione del mondo: i prossimi dieci anni, secondo gli Stati Uniti, saranno di «competizione strategica» tra le grandi Potenze e potrebbero finire in una guerra con la Cina. Il mondo è visto come «un campo di gioco globale» in cui le Nazioni si scontrano e lottano per la supremazia. La storia non ha insegnato niente. Ben prima della «Pacem in terris», in piena seconda guerra mondiale, Angelo Roncalli nell’omelia di Pasqua del 1942 nella cattedrale di Santo Spirito a Istanbul, essendo egli allora delegato apostolico in Turchia, aveva denunciato la causa di tutte le guerre: «Ciascuno di noi ama giudicare ciò che avviene dal punto di vista del pugno di terra sulla quale appoggia i piedi, cioè dal punto di vista della propria nazione. È una grande illusione. Bisogna elevarsi e abbracciare coraggiosamente l’insieme; bisogna elevarsi fino a perdere di vista le barriere differenziali che separano tra loro i combattenti» e, già Papa, nel messaggio di Natale del 1959 spiegava che «l’amore del prossimo, e verso la propria nazione, non deve ripiegarsi su se stesso, in una forma di egoismo chiuso e sospettoso del bene altrui, ma deve allargarsi ed espandersi per abbracciare tutti i popoli e con essi intrecciare relazioni vitali». La «Pacem in terris» non è stata dunque un bagliore improvviso, che irrompe nella storia e subito si spegne. Ma la storia aspetta ancora di esserne illuminata. ❑
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La guerra è illogica e immorale efficace e etica è la nonviolenza
di Mao Valpiana su Rocca
La guerra doveva diventare un tabù: vietata, proibita, inimmaginabile, persino impronunciabile. Invece, rieccola, accettata e idolatrata come mezzo per risolvere le controversie internazionali. «Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità»: inizia così il preambolo alla Carta delle Nazioni Unite. Stiamo dunque assistendo al fallimento dell’Onu che non è riuscita nel suo intento principale? Secondo Papa Francesco siamo già in piena terza guerra mondiale, non più «a pezzi». Dopo il primo e il secondo conflitto mondiale l’umanità sta rivivendo il flagello: «Oggi è in corso la terza guerra mondiale di un mondo globalizzato, dove i conflitti interessano direttamente solo alcune aree del pianeta, ma nella sostanza coinvolgono tutti». Anche la Costituzione italiana si era data l’obiettivo supremo di ripudiare la guerra, ma oggi c’è dentro in pieno, producendo ed esportando nel mondo le armi che servono ad alimentare i conflitti in corso. Il complesso militare-industriale italiano, Leonardo, il cui maggior azionista è il Ministero dell’Economia, rappresenta la più grande impresa militare europea, con fatturati in continua crescita e armi disseminate su tutto il pianeta, Paesi dittatoriali e in conflitto compresi. Dunque, proprio le istituzioni repubblicane, che la Costituzione dovrebbero rispettare, ne negano la missione fondamentale di ripudio della guerra, orecchie sorde al monito di Francesco: «I governanti capiscano che comprare armi e fare armi non è la soluzione del problema». il tempo stringe Il tempo sta per scadere nonostante gli avvertimenti dati già sessant’anni fa dall’Enciclica Pacem in Terris di S. Giovanni XXIII, all’indomani della costruzione del Muro di Berlino e della crisi dei missili di Cuba: «In un tempo come il nostro, che si gloria della potenza atomica, è alieno ad ogni ragione che la guerra possa essere uno strumento adeguato per ripristinare diritti violati» (n. 67). Papa Giovanni XXIII si poneva nel solco già tracciato dal Mahatma Gandhi pochi giorni dopo l’utilizzo per la prima volta nella storia della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki: «La morale legittimamente da trarre dalla tragedia suprema della bomba è che essa non sarà annullata da una contro bomba, così come la violenza non può essere combattuta da una controviolenza. L’umanità può uscire dalla violenza solo attraverso la nonviolenza. L’odio può essere vinto solo con l’amore». Anche don Lorenzo Milani si mette nella scia della Pacem in Terris e due anni dopo, nella sua Lettera ai giudici del 1965, ne trae le conseguenze politiche: «È noto che l’unica difesa possibile di una guerra di missili atomici sarà quella di sparare 20 minuti prima dell’aggressore, ma nella lingua italiana sparare prima si chiama aggressione, e non difesa. Oppure immaginiamo uno stato onestissimo che per sua difesa spari 20 minuti dopo, cioè spari con i suoi sommergibili, unici superstiti di un paese ormai cancellato dalla geografia. Ma nella lingua italiana, questo si chiama vendetta, non difesa. Mi dispiace se il discorso prende un tono di fantascienza. Ma Kennedy e Krusciov si sono lanciati l’un l’altro pubblicamente minacce del genere. Siamo dunque tragicamente nel reale. Allora la guerra difensiva non esiste. Dunque non esiste più una guerra giusta. La guerra difensiva non esiste più, né per la Chiesa, né per la Costituzione. Gli scienziati ci hanno avvertito che è in gioco la sopravvivenza della specie umana…». Oggi ai nomi di Kennedy e Krusciov, evocati da don Milani, possiamo sostituire quelli di Zelensky e Putin, e dalla storia precipitiamo nella tragica attualità. «Alienum est a ratione» significa fuori di testa, roba da matti. È l’impazzimento del tempo che stiamo vivendo. Papa Bergoglio, in piena continuità pastorale, osserva: «L’umanità era a un passo dal proprio annientamento, se non si fosse riusciti a far prevalere il dialogo, consapevoli degli effetti distruttivi delle armi atomiche. Purtroppo, ancora oggi la minaccia nucleare viene evocata, gettando di nuovo il mondo nella paura e nell’angoscia. Non posso che ribadire in questa sede che il possesso di armi atomiche è immorale». Dunque gli stati atomici sono stati immorali: Russia, Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Israele, Cina, India, Pakistan, Corea del Nord, a cui bisogna aggiungere – è l’elenco dell’immoralità – Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Turchia, che ospitano e accettano sul loro territorio le armi nucleari della Nato. Pazzi e immorali, questo siamo. Il tempo sta per scadere. Siamo a 90 secondi dalla mezzanotte secondo l’orologio dell’apocalisse della rivista Bulletin of the Atomic Scientists. È possibile fermare quelle lancette? La soluzione facile non c’è, altrimenti non saremmo qua a piangere, a temere per il futuro stesso del pianeta; ma se non la cerchiamo subito non ci sarà alternativa alla guerra con le sue annunciate drammatiche conseguenze globali. L’antidoto è prendere sul serio la nonviolenza. Il pensiero di Gandhi era chiaro fin dal 1939: «Voi volete eliminare il nazismo, ma non riuscirete mai ad eliminarlo con i suoi stessi metodi» e propose alle nazioni occupate da Hitler di ottenere la vittoria con la resistenza nonviolenta: «L’Europa eviterebbe lo spargimento di fiumi di sangue innocente e l’orgia di odio a cui oggi assistiamo». Aldo Capitini, che conobbe le conseguenze del secondo conflitto mondiale, dopo l’uso del nucleare militare sulla popolazione inerme, con la prima Marcia Perugia-Assisi del 1961 volle lanciare anche in Italia il metodo della nonviolenza politica come alternativa alla guerra: «Tanto dilagheranno violenza e materialismo che ne verrà stanchezza e disgusto; e salirà l’ansia appassionata di sottrarre l’anima ad ogni collaborazione con quell’errore», così scriveva nel 1936 prevedendo i massacri bellici del nazifascismo che incendieranno l’Europa. Alexander Langer si trovò ad affrontare concretamente il dilemma dell’alternativa alla guerra nel 1993 in pieno assedio di Sarajevo: «Oggi penso che davvero occorra un uso misurato e mirato della forza internazionale, e quindi nel quadro dell’Onu. Per fare cosa? Non certo per appoggiare alcuni dei contendenti contro altri, ma per fermare alcune azioni particolarmente intollerabili e far capire che c’è un limite», che la logica della guerra non paga. Gandhi, Roncalli, Milani, Langer, Bergoglio, sono le voci di un vasto movimento mondiale che dal 1945 in poi lavora per costruire l’alternativa alla guerra. Il tema che il pacifismo pone da oltre mezzo secolo è quello della messa al bando di tutte le armi nucleari, dell’abolizione della guerra dall’orizzonte del genere umano e della costruzione di un sistema di difesa e sicurezza non offensivo. Non è un’utopia, ma la proposta razionale e conseguente al diritto internazionale di una politica estera alternativa al modello imposto dai blocchi militari, la revisione di un modello di difesa basato su criteri di sostenibilità, razionalizzazione, riconversione. È la politica nonviolenta di prevenzione dei conflitti di oggi e del futuro. fermare subito la guerra in Ucraina tra resa e vittoria c’è una terza via? Per fermare la guerra bisogna non farla. Per ottenere il cessate il fuoco bisogna non sparare. Ma è morale, in una guerra di aggressione, chiedere all’aggredito di non prendere le armi? È possibile cercare una soluzione diversa che non sia la vittoria della vittima e la sconfitta del carnefice? Qui si entra in un terreno molto scivoloso, dove l’ideologia rischia di prevalere. La propaganda bellicista annulla ogni sfumatura e appiattisce: «o con me o contro di me», o con un esercito o con l’altro, o con il bene o con il male, senza se e senza ma. La nonviolenza, invece, ha tanti se e tanti ma da esprimere, e soprattutto vuole cercare una via praticabile e concreta, per salvare vite umane, con metodi compatibili con gli obiettivi di giustizia e libertà. La via unica di contrasto dell’aggressione è stata perseguita fino ad oggi solo con le armi, sempre più armi, inviate da Stati Uniti e Europa, ma non ha ancora ottenuto lo scopo desiderato. E la guerra continua. Esprimere una posizione critica all’invio di armi in Ucraina è una valutazione di contesto, fondata sull’esperienza e sui risultati negativi di trent’anni di guerre in tutto il mondo: Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Cecenia: dove sono finite le armi? che uso ne è stato fatto? con quali conseguenze? chi erano i buoni e chi i cattivi? chi ha vinto, chi ha perso? libertà e democrazia hanno prevalso? la vita di chi doveva essere liberato, è migliorata o peggiorata? Bisogna rispondere a queste domande prima di seguire lo stesso copione, come una coazione a ripetere. Bisogna capire qual è lo schema di gioco imposto dalle armi stesse: misurarsi con la distruzione del Paese, le migliaia di morti, feriti, invalidi e milioni di profughi. Lo scenario più terribile è quello di uno scontro generalizzato e permanente nel cuore d’Europa. È una prospettiva accettabile, o non conviene perseguire già oggi una strada diversa, che ponga le basi per un futuro di pace? Ci si può impegnare per l’invio di armi sempre più potenti, oppure ci si può impegnare per sostenere la resistenza nonviolenta, oggi minoritaria, ma che proprio per questo ha bisogno di solidarietà e aiuto. L’industria bellica costruisce i fucili; la nonviolenza i fucili li spezza. Sono due scelte diverse, forse entrambe legittime, ma incompatibili. Anche in Ucraina, in Russia, in Bielorussia (dove c’è il rischio concreto dell’apertura di un secondo fronte contro l’Ucraina, da parte del dittatore Lukashenko su pressione di Putin) c’è chi crede nella nonviolenza come possibilità di resistenza civile. Ci vuole ancora più forza per difendersi senza armi in mano, per amare la propria patria senza odiare quella altrui. Il movimento pacifista e nonviolento ha scelto di stare dalla parte di chi la guerra la rifiuta, di chi pratica l’obiezione di coscienza in Russia, in Bielorussia e in Ucraina, di chi diserta e vuole già oggi costruire la pace. Nell’ambito della Campagna di Obiezione alla guerra e della mobilitazione «Europe for Peace», sosteniamo concretamente i movimenti per la pace e la nonviolenza dei Paesi coinvolti nel conflitto che tutelano gli obiettori di coscienza dei loro Paesi e propagandano l’idea di sottrarsi alla guerra, di disertare dagli eserciti. In particolare i pacifisti russi e bielorussi (molti dei quali hanno dovuto espatriare) stanno attuando una vasta campagna per «rubare l’esercito» dalle mani di Putin e Lukashenko. In Bielorussia la campagna ha già attenuto un importante risultato: su 43.000 richiamati per un addestramento alla mobilitazione, se ne sono presentati solo 6.000. In Russia sono decine di migliaia i renitenti alle leva che si sono nascosti o hanno lasciato il Paese legalmente o illegalmente. E sono oltre 22.000 i pacifisti russi arrestati: è sufficiente dire pubblicamente che si è contro la guerra in Ucraina e per la pace, per essere incriminati. In Bielorussia si è arrivati ad emanare la pena di morte per i disertori e l’accusa di terrorismo per i pacifisti. Questo dimostra quanto il regime abbia paura proprio dell’attivismo nonviolento. Stiamo partecipando alla Object War Campaign! per diffondere gli strumenti comunicativi, per assicurare la difesa legale ai perseguitati, per aiutare i condannati o gli esuli, per organizzare le campagne di pressione politica, per rafforzare la rete internazionale della nonviolenza organizzata. Questo è quello che possiamo fare e che facciamo. Mao Valpiana
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È possibile sostenere le iniziative di pace in Russia, Bielorussia e Ucraina con la Campagna «Obiezione alla guerra» con un versamento su IBAN IT35 U 07601 11700 0000 18745455, intestato al Movimento Nonviolento, causale «Obiezione alla guerra»
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Mao Valpiana. Presidente del Movimento Nonviolento Membro dell’Esecutivo Rete italiana Pace e Disarmo, direttore della rivista «Azione nonviolenta»
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Rocca. 10 anni di Francesco. Va e ripara la mia casa

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Editoriale di Mariano Borgognoni su Rocca n.7/2023

rocca-07-2023-1-apr-23Stavolta due papi dominano le pagine di Rocca. È un fatto inusuale per una rivista che rivendica fino in fondo il suo carattere laico sia pure nella chiara ispirazione cristiana. Tranquilli i nostri lettori: non siamo diventati, nemmeno sotto il pontificato di Francesco, un giornale neoguelfo. Ma come non riconoscere che Giovanni XXIII con il Concilio e Francesco con la Chiesa in uscita abbiano rappresentato altrettanti momenti di svolta per i cristiani e per tutti gli uomini di buona volontà? E come non vedere in questi due uomini, cristiani sulla cattedra di Pietro, punti di riferimento obbligati per le speranze di giustizia e di pace che, spesso, anche oggi, restano mute e nascoste sotto la pelle della storia e che sentono il bisogno di chi sappia dire una parola coraggiosa e profetica. In mezzo non tanto ai profeti di sventura quanto ai costruttori di sventure, assidui oggi quanto mai, nel preparare, sul filo dei propri interessi, la lama pronta a far sanguinare il mondo. I segni dei tempi che Roncalli aveva individuato per un pacifico e giusto progresso dell’umanità: l’emancipazione dei lavoratori, delle donne e dei Paesi del terzo e quarto mondo restano obiettivi da perseguire e i processi di globalizzazione non sempre hanno globalizzato diritti sociali e civili ma spesso inconfessati interessi di gruppi ristretti che concentrano su di sé ricchezze e poteri inauditi e allargano la forbice delle disuguaglianze. Perfino l’Europa, rinata dopo i due grandi e spaventosi conflitti bellici del ’900, su istanze cristiane e socialiste, ha via via perso la bussola dei suoi ideali solidaristi, ugualitari, autenticamente democratici. E se ci vuole un papa per parlare di diritto al lavoro e alla sua dignità, di protezione sociale universalistica, di accoglienza e di mutuo soccorso, di cura dell’ambiente e di centralità delle periferie sociali ed esistenziali, vuol dire che in tanti hanno abbandonato il campo di costruzione di società giuste e libere, anzitutto dal bisogno e dalla servitù. «Francesco non vedi che la mia casa sta crollando? Va dunque e restauramela». Così parlò il Crocifisso di San Damiano al santo di Assisi (F.F. 1411) secondo La leggenda dei tre compagni. Ma non si trattava di riparare la chiesetta prossima alla rovina ma di portare al mondo un nuovo sole, una nuova primavera evangelica, secondo il paradosso cristiano per cui la novità va cercata sempre tornando alle origini. La scelta del nome da parte di Jorge Mario Bergoglio, così sorprendente, era già un programma. E la casa da riparare non era soltanto la Chiesa ma la casa comune. E mettiamoci dentro la gioia del Vangelo (Evangelii Gaudium), la lode al Signore cum tucte le sue creature (Laudato si’), la fratenità, sorella apparentemente minore senza la quale non stanno insieme libertà e uguaglianza (Fratelli tutti). Tutto questo dentro una chiesa povera e per i poveri, senza di che non si è credenti credibili. C’è tanto Francesco in Francesco! Anche l’isolamento. Anche il cammino difficile e contrastato di riforma della Chiesa, della necessaria e urgente declericalizzazione e depatriarcalizzazione che apra creativamente la strada di una comunità delle battezzate e dei battezzati, fedeli alla terra e annunciatori della buona notizia per tutti, ma soprattutto per le vittime, i sofferenti, gli assetati ed affamati di giustizia. È necessario tornare a riconoscere nella vita comune quella grazia che essa realmente è: le «rose» e i «gigli» della vita cristiana (Lutero). D’altra parte l’abbandono della pratica religiosa, soprattutto in Europa, impone di ripartire da questa cristiania, per usare il suggestivo termine che Panikkar adoperava per definire l’orizzonte di una sequela evangelica essenziale nel tempo della secolarizzazione, dentro cui ripensare lo stesso carisma dell’universalità. C’è chi ha parlato di un deficit di innovazione teologica in questo pontificato. Io sposo invece la tesi di un nostro amico che scrive così: «È avvenuto che se Martini era rimasto il papa che non ci eravamo meritati, poi Francesco è stato il papa che lo Spirito Santo ci ha suscitato comunque, forse stufo di aspettare che ce ne meritassimo uno così: così per determinazione, per visione, per una teologia che, come accade per i papi inattesi, sembra solo una grande pastorale ed è in verità una grande novità nella Tradizione» (R. Salvi). È un nuovo discorso su Dio quello che con parole e gesti ci è venuto presentando Bergoglio che semmai dovrebbe indurre i teologi all’audacia della ricerca, la quale è anche sempre messa in discussione di antiche immagini di Dio e ricerca coraggiosa di parole efficaci per dire oggi la fede dei cristiani. Naturalmente non è richiesto a nessuno di condividere ogni scelta e ogni parola del papa. Per esempio qualche dubbio si può avere sull’idea, più volte ripetuta daFrancesco, circa l’esigenza anzitutto di aprire processi. Su alcuni di questi forse sarebbe necessario mettendo dei punti fermi. Forse un nuovo Concilio, di cui parla il vescovo Carlassare nell’intervista che trovate in queste pagine, sarebbe utile. Ma il nostro apprezzamento va alla direzione di fondo di questo pontificato, al modo come Francesco appare prima come cristiano e poi come papa, alla riduzione al minimo di ogni pompa, alla scelta di vivere a Santa Marta, alla centralità del periferico e alla perifericità del sacrale, alla immagine da lui usata di un Cristo che bussa non per entrare nel tempio ma per uscirne e incontrare l’umano ferito. E un apprezzamento va anche all’umorismo a cui Francesco ci ha abituati e che anche noi abbiamo usato nel ricordo di questo decennio, con titoli e vignette. Un umorismo che rivela l’illusoria pretesa di eternità dei poteri di questo mondo (sacri e profani), che aiuta a vivere fuori della presunzione di possedere la verità intera, di aver catturato Dio, di averlo a nostra disposizione. No, avere la consapevolezza di essere cercatori cercati, porta anche il papa a dire con Pietro: «alzati, sono anch’io un uomo» At 10,26.
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In testa all’articolo. Il Sogno di Innocenzo III: sesta delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco della Basilica superiore di Assisi, attribuiti a Giotto. Fu dipinta verosimilmente tra il 1295 e il 1299 e misura 230×270 cm.

La tragedia di Cutro

f68c0b83-cb28-44b6-a99b-e19f58db227dvolerelaluna-testata-2Il mostruoso tra noi
14-03-2023 – di: Marco Revelli
Su Volerelaluna

Il mostruoso è tra noi, e si traveste da normalità. La sequenza di atti di questo governo guidato da una che si definisce “donna, madre, cristiana”, fin dal suo nascere ma con plastica evidenza dopo la tragedia di Cutro, ce ne offre una dimostrazione inquietante

Che cos’è “il mostruoso”? E’ l’applicazione sistematica alle proprie scelte, soprattutto se pubbliche, dell’”inumano”, il quale a sua volta consiste nella pratica relazionale di considerare gli uomini come “cose”, di spogliarli della loro natura di esseri simili a noi per trattarli come oggetti di cui disporre. Non lo scopriamo oggi. E’ una degenerazione presente da tempo, in modo pervasivo, nell’orizzonte esistenziale della modernità (in fondo è il codice segreto del capitalismo come relazione sociale), che ha avuto un’espansione iperbolica nel cuore dell’Europa nel periodo feroce tra le due guerre mondiali, come “caso-limite”, ma che oggi continua a riproporsi carsicamente in forme omeopatiche. Günther Anders ne introduce il concetto in uno straordinario libretto sulla figura di Eichmann, ma si affretta a precisare che “il tempo del mostruoso forse non è stato un puro interregno” e anzi il suo ripetersi non solo è possibile ma è probabile perché “uomini come Eichmann sono davvero qualcosa di assolutamente emblematico della condizione del nostro mondo odierno. Essi sono – l’affermazione è agghiacciante – persino inevitabili”.

Ebbene, come classificare le esternazioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che di fronte alla strage di bambini di Cutro ne rende colpevoli i genitori, molti dei quali anch’essi tra le vittime, se non sotto la voce dell’”Inumano”? E provenendo da una fonte istituzionale, come espressione della forma mentale di quel Potere, nella categoria del “mostruoso”? O come qualificare le parole dell’on. Federico Mollicone di Fratelli d’Italia che, nell’affermare l’insopportabilità dei flussi di migranti clandestini ha lamentato che le persone che vivono in luoghi come Cutro o che operano nel campo dei soccorsi “debbano subire scene raccapriccianti come quella di vedere appunto dei bambini morti sulla spiaggia” ? Ha detto proprio così il neo Presidente della Commissione cultura scienza e istruzione della Camera, senza un attimo di dubbio sull’enormità di quanto gli stava uscendo di bocca, come se quei poveri morti fossero colpevoli di essere lì, per il raccapriccio che provocavano nei legittimi proprietari del luogo.

C’è, in tutto questo, una sconvolgente incapacità di “vedere” l’altro, di porsene, sia pure per un istante, nelle stesse condizioni (si direbbe di “identificarsi” con lui), o anche solo di considerare le situazioni da cui provengono (se un genitore sceglie di portare un proprio figlio in un viaggio di quel genere, sapendo il rischio mortale che corre, evidentemente è perché fugge da un rischio peggiore, non ci vuole Papa Francesco per capirlo). Se lo scafista criminale e assassino appare loro come l’unica possibile fonte d’aiuto nel tentativo di fuggire da una condizione disperata è perché gli altri possibili attori sul terreno, a cominciare dalle autorità degli Stati di partenza e di quelli destinazione, gli si presentano di fronte come figure altrettanto pericolose, anzi peggio. Non calarsi in questo tipo di problematica è sintomo di un’assenza di empatia così totale, da suggerire la presenza di patologie psichiche ben conosciute dalla scienza: è noto che in psichiatria lo “psicopatico” è caratterizzato da una grave incapacità di vedere la sofferenza altrui e di soffrirne a sua volta (il senso etimologico, appunto, della parola empatia che derivando dal greco ἐν -πάϑεια significa mettersi “in sofferenza” con l’altro), il che ne spiega spesso il successo politico e sociale grazie alla simmetrica capacità di manipolare gli altri a proprio vantaggio come fossero appunto oggetti. Ma qui, più che a casi di devianza individuali o a deficit di socialità personali, siamo di fronte a fenomeni collettivi, a modi di agire e di sentire sistemici. Sono modi di pensare, protocolli di azione, dinamiche impersonali, logiche di apparato ciò che incorpora, e rende “istituzionale” quel deficit di humanitas. L’intera meccanica della tragedia di Cutro è, da questo punto di vista, esemplare.

Quello che ha determinato la strage non è stato un ordine riferibile a un preciso individuo o a un singolo ufficio. E’ stata una dinamica di sistema, una logica d’apparato che ha incorporato nei propri codici di funzionamento un ordine gerarchico di priorità nel quale la vita delle persone, nel caso si tratti di migranti, anziché al primo sta all’ultimo posto, subordinata ad altre preoccupazioni e ad altri obiettivi (l’invalicabilità dei confini, il controllo dei flussi, il buon nome del ministro competente in carica, suoi calcoli elettorali…). Quelle che a ragione sono state definite “le regole della vergogna”.

L’ha spiegato, come meglio non si poteva, il Contrammiraglio Vittorio Alessandro, ex portavoce del Comando generale delle Capitanerie di Porto, oggi in pensione, quando ha detto che fino a un certo punto il primo pensiero degli uomini del mare, fossero la Guardia Costiera o ogni altro corpo dotato di natanti, era quello di salvare le persone, come la legge del mare detta da secoli e secoli, poi, tutto è cambiato, e il primo riflesso è stato quello di evitare guai a se stessi, per non essere sospettati di qualcosa considerato riprovevole, come l’immigrazione clandestina. Una vera e propria rivoluzione copernicana o, meglio, un’”inversione morale”, come è stata definita la tecnica di trasformare la virtù di chi salva in vizio, anzi in crimine, che era stata avviata dal famigerato decreto Minniti, nel 2016, che pretendeva di imporre alle ONG operanti nel Mediterraneo un “codice d’onore” che le sottoponeva a controllo poliziesco, era proseguita con rinnovato impegno con Salvini (che aveva nel retrobottega l’altro Matteo, Piantedosi, a fargli da braccio secolare) ed è arrivata fino a questo capolinea luttuoso. Il soccorso, da allora, “è diventata l’ultima cosa da fare”, dice il Contrammiraglio. Che racconta: “Salvavamo centinaia di migliaia di vite umane e, nonostante il grandissimo lavoro e lo sforzo immane, per tutti noi era un vanto, un orgoglio portare a terra ogni persona. E soprattutto ti arrivava il riconoscimento, la stima di un Paese intero, persino l’invidia. Ed è stato per tutta Italia un grande arricchimento poter dire: se hai salvato una vita, hai salvato il mondo”. A un certo punto però, continua, “le nostre motovedette sono diventate i ‘taxi del mare’, i nostri uomini da eroi sono diventati la cinghia di trasmissione, le nostre navi, come la Diciotti e la Gregoretti, che avevano fatto niente più che il loro dovere salvando i migranti in pericolo, sono state lasciate fuori dai porti italiani… l’attività di salvataggio dei migranti è persino scomparsa dalle foto dei calendari del Corpo“.

Naturalmente l’imput al “sistema operativo” è stato dato da uomini (e donne) in carne ed ossa, che hanno ri-disegnato l’orizzonte di fondo del mutamento di prospettiva etico-politica (non tutti necessariamente di destra o post-fascisti, alcuni come si è visto arrivati anche dalle macerie di quello che fu il Partito comunista italiano). Ma poi la macchina ha proseguito da sola, come fanno appunto tutti gli apparati burocratici, producendo su scala allargata l’inumano in forma impersonale. Con la perentorietà indiscutibile dei protocolli su cui non si discute (più). E con quell’effetto-leva che hanno appunto i moderni apparati di sistema, capaci di moltiplicare su scala infinitamente ampia gli effetti delle piccole decisioni quotidiane, rendendo la sproporzione tra l’immaginato e il realizzato così ampia da cancellare ogni senso della personale responsabilità. E’ la ragione per cui oggi (ieri) Giorgia Meloni può esclamare, sgranando gli occhioni azzurro-ghiaccio davanti ai giornalisti indignati, “ma voi credete davvero che noi del Governo abbiamo voluto la morte di quei naufraghi?”, incapace di vedere in quei poveri corpi sparsi sulla spiaggia l’esito di una catena di azioni e decisioni di cui lei e i suoi ministri (compreso quello che alla sua sinistra non smetteva di chattare compulsivamente sullo smartphone) e i suoi sottosegretari giù giù fino ai gradi minori erano e sono, direttamente o indirettamente, responsabili.

D’altra parte per intravvedere che cosa aleggi tra le ombre del sottofondo oscuro di quelle menti basterebbe il desolante spettacolo di quella festa mal riuscita celebrata nonostante il clima luttuoso di una tragedia immane. Che cosa abbia spinto la capa del governo che non aveva trovato nemmeno un minuto per rendere omaggio a quelle bare allineate nel Palazzetto dello Sport di Crotone a risalire tutta l’Italia, fino a due passi dal confine svizzero, all’agriturismo di Ugiate Trevano, per intonare col compare Salvini quello sgangherato karaoke senza chiedersi se non sia poco opportuna un’esibizione festosa mentre ancora il mare restituisce, giorno dopo giorno i corpi di giovani, donne, bambini e bambine soprattutto. E se la canzone di Marinella, scelta per l’occasione, non costituisse uno strappo nello strappo della sensibilità che normalmente spinge anche i più rozzi tra i rozzi a non parlar di corda in casa dell’impiccato. Le cronache ci restituiscono una gioiosa “serata di brindisi con vino rigorosamente padano, paccheri al sugo bianco, filetto, torta ai frutti rossi, e karaoke”, tra il pubblico, ospite d’onore, Antonio Angelucci, immobiliarista, boss della sanità privata, un curriculum giudiziario di tutto rispetto, proprietario dei quotidiani che avrebbero parlato, a proposito del nuovo naufragio simile a quello di Cutro, di “Assalto all’Italia” e che, a proposito delle critiche al rave governativo di Ugiate Trevano , titoleranno ironizzando sul “reato di compleanno”…

E’ difficile farsi una ragione di tanto disprezzo delle più elementari forme dell’umano vivere, di questa ostentazione svaccata di ordinaria disumanità che va al di là di ogni differenza politica e culturale per toccare i fondamenti della convivenza e del rispetto; volgarità che esisteva certamente anche prima, ma che era stata a lungo tenuta celata, per vergogna, nel ripostiglio delle cose sporche. Lo è tanto più adesso, con la notizia ancora calda della nuova strage evitabile e non evitata, quando anche il direttore del quotidiano “La Stampa” titola il proprio editoriale Il naufragio dell’umanità scrivendo che come nel caso di Cutro, anche questa volta “potevamo salvarli, e non l’abbiamo fatto”. E quando vibra ancora nell’aria quel mostruoso “Ciao ciao” con cui dalla sala operativa di Roma è stato risposto alla telefonata di Sea Watch che chiedeva disperatamente soccorso per il barcone poi rovesciatosi. Perché, continuo a chiedermi, lo fanno, e lo ripetono? Forse pensando che davvero il Paese sia, nella sua maggioranza, così logorato moralmente da identificarsi con questo stile da suburra? Convinti di parlare in questo modo alla sua “pancia” strizzando l’occhio all’involgarimento come hanno fatto finora con evasori, redditieri di posizione, furbetti dei tanti quartierini di cui hanno riempito i codicilli della Milleproroghe? Contano di prender voti dalla parte peggiore dell’elettorato allineandosi verso il basso? Flirtando con quella disumanità diffusa che si respira nell’aria. O forse, più semplicemente, lo fanno perchè “così sono”.

E ancora una volta mi soccorre, quantomeno con la fiammella della ragione, il già citato Günther Anders, che di questi sotterranei della contemporaneità ha più di ogni altro fatto oggetto di sofferta riflessione, e che ci ha spiegato, già una sessantina di anni fa, che “dolore, lutto e pietà, per poter nascere, hanno bisogno di quella particolare condizione che si chiama stima” perché – scrive – “noi possiamo sentirci in lutto solo per coloro che avremmo potuto stimare”. E questi nuovi governanti che c’infangano la terra, di quegli uomini, donne, bambini che noi oggi piangiamo non avevano nessuna stima. Li consideravano intrusi. Peggio, fattori di possibile inquinamento, in conformità di quella sciagurata dottrina che predica il pericolo della “sostituzione etnica” (qualcosa che sa tanto di parente con l’omologa “pulizia etnica”) o, più banalmente, “sostituzione del popolo”. Salvini ne è un capofila prolificissimo (Tomaso Montanari sul “Fatto” ne ha tracciato un documentato profilo). Ma nemmeno Meloni scherza. Forse oggi, chiamata a frequentare i salotti buoni internazionali non gradisce che lo si ricordi, ma pochi anni fa twittava amabilmente contro l’UE, “complice dell’immigrazione incontrollata, dell’invasione dell’Europa e del progetto di sostituzione etnica dei cittadini europei volute dal grande capitale e dagli speculatori internazionali”, indignata perché la Commissaria Mogherini si era permessa di affermare che senza i migranti ci “sarebbe il crollo delle nostre società”. E poco dopo si ripeteva cinguettando di “Prove generali di sostituzione etnica in Italia” dimostrate dal fatto che in quell’anno più di 100 mila italiani avevano lasciato la nostra Nazione mentre in compenso, erano “sbarcati 153 mila immigrati, nella stragrande maggioranza uomini africani”.

Ecco perché non scherziamo affatto, né ci abbandoniamo a esercizi retorici, quando diciamo che in questa classe politica che è arrivata al governo si avverte, piantata nel fondo del suo DNA, una radice fascista. Un pezzo profondo di quell’autobiografia della nazione che l’aveva quasi distrutta ottant’anni fa. Il fascismo, colto nella sua superficie, è stato un’espressione cialtronesca del peggior spirito strapaesano diffuso nel nostro paese. Ma colto nella sua dimensione esistenziale e antropologico-culturale è stato anche, purtroppo, una cosa seria. Un fenomeno cioè caratteristico di un particolare tipo umano (o sarebbe meglio dire dis-umano) che ha fatto del principio di diseguaglianza declinato sul versante del rapporto gerarchico superiorità/inferiorità e di quello etnico (razza superiore/razza inferiore), la propria cifra. E che corrisponde a una patologia del “moderno” radicata nel profondo e capace di conservarsi al di là delle sue specifiche concretizzazioni di tempo e di luogo. E’ in qualche modo l’idea lanciata da Umberto Eco di un Ur-fascismo, o di un “fascismo eterno”, che va oltre le contingenze storiche e si esprime in particolari forme di carattere e di relazionalità orientate al disprezzo e alla sottomissione. Alla cancellazione dell’altro come proprio pari, e alla sua riduzione o a servitore, o a nemico o, infine, a “cosa inutile”. Quell’orizzonte non si è mai chiuso completamente. E oggi ne contiamo le vittime.
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Costituente Terra

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Costituente Terra Newsletter n. 107 del 9 marzo 2023

COME CI SIAMO GIUNTI

Carissimi,
siamo entrati nel secondo anno di guerra, e ancora non si intravede alcuna soluzione. Mentre si riforniscono le retrovie di armi di ogni tipo e si ammassano le truppe, resta il rischio di un’escalation incontrollata in fondo alla quale c’è l’olocausto nucleare.
Come siamo giunti a tutto questo, com’è stato possibile che i sogni dell’89 si siano rovesciati nell’incubo che stiamo vivendo? In quell’epoca con la caduta del muro di Berlino il treno della Storia era stato messo su un binario che correva verso un avvenire luminoso. Purtroppo quell’avvenire promesso è tramontato nell’arco di una generazione.
Ciò è stato il frutto di scelte precise degli architetti dell’ordine mondiale. All’inizio degli anni 90 l’Unione sovietica ha restituito l’autodeterminazione ai popoli dell’est europeo, la Germania si è riunificata, il Patto di Varsavia è stato disciolto, gli euromissili sono stati smantellati, mentre vengono firmati storici accordi sul disarmo. Questo clima di pacificazione doveva durare ben poco. Verrà interrotto dalla guerra del Golfo nel 1991, prima prova muscolare dell’impero sopravvissuto alla guerra fredda. Ma le vere scelte che cambiano il clima geopolitico vengono effettuate nel corso del 1997 dall’amministrazione Clinton che, stracciando gli impegni assunti con Gorbaciov, decide di estendere la NATO ad est, cominciando ad inglobare Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Si tratta della scelta politicamente più impegnativa che sia stata fatta dall’Amministrazione USA, dopo quella del contenimento dell’URSS, che ha dato origine alla prima guerra fredda. Contro questa scelta insorsero proprio coloro che la guerra fredda l’avevano teorizzata e praticata. In un articolo sul New York Times del 7 febbraio 1997 il diplomatico americano George Kennan, uno dei teorici della guerra fredda, lanciò un grido d’allarme, osservando:
“La decisione di espandere la NATO sarebbe il più grave errore dell’epoca del dopo guerra fredda. Una simile decisione avrebbe l’effetto di infiammare le tendenze nazionalistiche antioccidentali e militariste nell’opinione pubblica russa, pregiudicherebbe lo sviluppo della democrazia in Russia, restaurerebbe l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni est ovest, spingerebbe la politica estera russa in direzioni a noi decisamente non favorevoli.”
Clinton non ascoltò le proteste dei protagonisti della guerra fredda, fra cui lo stesso Henry Kissinger e andò avanti nel suo progetto. Nel summit che si svolse a Madrid l’8 e il 9 luglio 1997, la NATO assunse la decisione di estendersi ad est, cominciando ad includere Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, che furono formalmente ammesse nel 1999.
Della gravità e dell’importanza geostrategica di questa scelta, nessuna forza politica si rese conto e nessuno si oppose. In verità il grido d’allarme sollevato da George Kennan fu raccolto in Italia, in un isolato articolo pubblicato dal Manifesto il 24 giugno 1998 (D. Gallo, M. Dinucci, La nuova cortina di ferro). L’articolo sottolineava che dall’allargamento ad est della NATO derivava il rischio di un’altra guerra fredda ed osservava: “E’ una decisione la cui portata è paragonabile, nella mutata situazione internazionale, a quella degli accordi di Yalta.”. (..) nessuno può dire quali saranno in futuro le reazioni ed eventuali contromisure della Russia di fronte all’espansione della Nato verso i suoi confini. Sul piano geopolitico, è di tutta evidenza che il fatto di far avanzare le basi della Nato, portandole ai confini della Russia, costituisce oggettivamente un incremento della minaccia in senso tecnico-militare. Anche della minaccia nucleare.” In conclusione sii osservava: “Si pongono in questo modo le premesse per riesumare il fantasma della guerra fredda, fondata questa volta non più sulla competizione politico-ideologica fra i due blocchi, ma su un confronto meramente nazionalistico, come tale meno razionale e più imprevedibile. Cresce, pertanto, la possibilità che la marcia ad Est della Nato crei un nuovo fronte di tensione tra Est e Ovest in cui l’Europa si troverebbe ancora una volta coinvolta. Insomma, di nuovo un fantasma si aggira per l’Europa.”
All’epoca non si poteva prevedere la guerra che sarebbe scoppiata 24 anni dopo, però non era difficile comprendere che la nuova guerra fredda che si stava impiantando sarebbe stata molto più pericolosa della prima perché avrebbe attizzato derive nazionalistiche molto più irrazionali del confronto ideologico che animava, ma frenava anche, la prima guerra fredda.
Il passo successivo è stato quello di cambiare la missione della NATO, che ha “superato” la sua natura di patto difensivo e si è trasformata in uno strumento militare del tutto svincolato dal rispetto della Carta dell’ONU. Questa nuova missione è stata sperimentata con l’aggressione alla Jugoslavia: settantotto giorni di bombardamenti ininterrotti, volti a smembrare l’integrità territoriale della Jugoslavia con la separazione del Kosovo. Nel summit per il cinquantenario della NATO a Washington il 23 e 24 aprile 1999, la NATO legittimava questo suo nuovo volto, dichiarandosi competente a compiere operazioni militari al di fuori dell’art. 5 del Patto Atlantico, cioè si riappropriava del diritto di guerra. Nel disinteresse generale è proseguita l’espansione della NATO ad est, che ha inglobato anche quelle Repubbliche che una volta facevano parte dell’Unione Sovietica (Estonia, Lettonia e Lituania). Con il vertice di Bucarest del 2 aprile 2008, la NATO ha lanciato un ulteriore guanto di sfida alla Russia, dichiarando la disponibilità ad inglobare anche Ucraina e Georgia. Dopo un lavoro di ri-costruzione del nemico durato oltre venti anni, alla fine il nemico si è materializzato e la parola è passata alle armi.
In realtà, con la scelta che gli USA hanno imposto alla NATO nel luglio del 1997, il treno della Storia è stato deviato su un altro binario, ed alla fine è arrivato il 24 febbraio del 2022, data che simbolicamente rappresenta l’evento opposto e contrario a quello del 9 novembre 1989.
Per uscire da questo disastro bisogna cambiare il capotreno e riportare il treno della Storia sul binario che stava percorrendo nel 1990.
Nel sito pubblichiamo un articolo di Raniero La Valle per un’autocritica dopo un anno di guerra [ripreso anche da Aladinpensiero], un altro di Boaventura de Sousa Santos sull’Occidente visto dai Paesi del Sud, e un articolo di Roberto Pizarro Hofer sul ritorno del protezionismo.
Cordiali Saluti,

www.costituenteterra.it (Domenico Gallo)

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UN MONDO DI LEVIATANI TUTTI IN LOTTA TRA LORO
9 MARZO 2023 / COSTITUENTE TERRA / DISIMPARARE L’ARTE DELLA GUERRA /
È stato il peccato dell’Occidente quello di pensare il mondo uniforme e a sua misura. L’obiettivo non è un unico diritto, ma un costituzionalismo che riconosca e accolga la mirabile varietà delle culture e delle storie

di Raniero La Valle

C’è la guerra e nessuno in Occidente ha mai fatto un’autocritica. Noi, che tre anni fa abbiamo dato vita all’iniziativa di “Costituente Terra”, amiamo tanto l’unità del mondo e la sua pace da aver compiuto l’azzardo ermeneutico di pensare che la Terra potesse darsi un’unica Costituzione e conformarsi a un unico diritto, quando per contro va riconosciuta e accolta la mirabile varietà delle culture e delle storie, fatti salvi i diritti e le garanzie universali umane. È stato questo invece il peccato dell’Occidente di pensare il mondo a sua misura. E ci troviamo ora invece con un mondo dilaniato tra Leviatani in lotta tra loro, questi “Dii mortali”che inseguono pensieri di distruzione e di vittoria.

Oggi, dopo un anno di guerra, a 9 anni dal tranello degli accordi di Minsk (secondo la Merkel), a 5 mesi dal sabotaggio americano del gasdotto russo-europeo del Baltico (secondo il Premio Pulitzer Seymour Hersh e una previsione dello stesso Biden), “Costituente Terra” prende e mantiene il lutto per la “fine della pace”, come subito la chiamò “Limes”, anche se le pace dagli albori della civiltà fino ad ora non c’è mai stata e ha sempre ceduto il posto alla guerra, mentre la guerra torna ora in gran forma a farsi accreditare in nome della ragione e del diritto, da cui dopo la “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII era stata espulsa per sempre.

Prendiamo il lutto per una guerra tornata ad essere mondiale, ma anche per un’informazione che la mistifica, dopo che l’ultima guerra era finita con decine di milioni di morti, a cominciare dai sovietici, centinaia di migliaia di giapponesi arsi vivi dalle atomiche, e una fanciulla ebrea, Liliana Segre, rimasta in vita per poterci ancora dire che dopo la guerra resta l’amore.

Prendiamo il lutto per l’umanità dismessa, l’informazione omologata, e la pietà perduta, fino al punto che al terremoto in Siria non si può dare soccorso per le sanzioni atlantiche ed europee che le sono inflitte.

Occorre peraltro ricordare che pur nella varietà dei giudizi è stata unanime la condanna della sciagurata risposta aggressiva di Putin a una minaccia sia pure percepita come mortale e finale; ma inaccettabile è stata altresì l’intenzione, fin dall’inizio dichiarata da Biden, di bandire la Russia dalla comunità delle nazioni, infliggendole una sconfitta senza precedenti e sanzioni genocide, convogliando da tutto il mondo dollari e armi contro di essa, per ridurla a “paria”, che nel sistema indiano delle caste significa gettare un popolo fuori della condizione umana e della storia.

E ora ci viene annunciata in documenti ufficiali del 12 e del 27 ottobre scorsi di Biden e del capo del Pentagono Lloyd Austin sulle strategie di “sicurezza” e “difesa” degli Stati Uniti, una “sfida culminante” con la Cina per decidere nel prossimo decennio il futuro del mondo; e ciò attraverso una “competizione strategica” con o senza conflitti armati in cui l’America peraltro è sicura di “prevalere”, la cui posta in gioco è lo stabilimento di un unico imperio e di una stessa società per tutto il mondo. Ma noi pensiamo che nemmeno la Cina si possa gettare fuori della storia, e che anzi le Nazioni della Terra dovrebbero accorrere al suo capezzale dopo che essa è stata stremata da un’epidemia devastante che si è abbattuta su di lei dopo essere uscita da una povertà che nel 1978 ancora gravava su 770 milioni di contadini, con un tasso di povertà del 97.5 per cento sulla popolazione totale (notizie ufficiali date in un libro di Zhang Yonge, “La Cina e lo sforzo propositivo per un XXI secolo dei diritti”, fatto distribuire dall’ambasciatore cinese in Italia). La Cina era tuttavia giunta oggi ad assicurare cibo e sussistenza a una popolazione di oltre 1,3 miliardi di persone, e non merita ora che il mondo invece di contribuire a soccorrerla, ne aspetti l’annichilimento allo scopo di non averla più come concorrente nel mercato mondiale.

Dunque tuttt’altro che una guerra e un Impero ci sono da fare, Né questa è una guerra dell’Italia; essa non ha più guerre né nemici da vincere. E nemmeno se ne può uscire dicendo “negoziato, negoziato”, quando l’Ucraina, che ne ha bisogno più della vita, è l’unico Paese al mondo che ha proibito il negoziato per legge. Non è la nostra guerra, e nemmeno dovrebbe essere la guerra personale di Giorgia Meloni e dei suoi alleati riluttanti. Proprio perché sovrani non si ha licenza di uccidere, non di aggredire grandi e piccini, non di espellere dal mondo la Russia e di sgominare la Cina. Il bene di esistere è per tutti, se Giorgia Meloni fosse russa oggi starebbe sotto il castello di Varsavia a manifestare contro Biden per la sua patria e contro l’idea di ridurre il mondo a un’unica misura.

In una guerra come ci sono due nemici, ci sono sempre due verità. Chi è sicuro della sua? E si possono tacciare da “azzeccagarbugli” le opinioni dissenzienti? Abbiamo giudici che giudicano dei diritti, non abbiamo quaggiù giudici della verità. O vogliamo dire, come Hobbes, come fece Bush per legittimare dopo la guerra fredda il ripristino della guerra nel Golfo: “auctoritas, non veritas facit legem”? E allora, la democrazia? In che cosa differirebbe dalle “autocrazie”?

Il pensiero d’ordinanza non mi persuade. Io insisto a metterci il naso.

Raniero La Valle
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Rocca: Europa: altro che radici cristiane. Domani: Anche in nome della civiltà, la guerra è una barbarie

62219e6c-b9fb-40f4-a444-a4ecac13bf51Europa: altro che radici cristiane
di Mariano Borgognoni*

Vi ricordate? Una ventina di anni fa, fu istituita una commissione, presieduta da Giuliano Amato, per provare a definire una Costituzione europea. Si fece un gran parlare delle radici cristiane da scolpire alla base della nuova Carta. Alla fine non se ne fece nulla né delle radici, né della Costituzione. E meno male, se no l’ipocrisia avrebbe trionfato. Mi vado convincendo della necessità di una moratoria sull’uso delle grandi parole. Solo la muta pratica di buone virtù può ridarle un senso, oltre l’abuso linguistico. Come solo la pratica della giustizia può rendere autentica la preghiera. Rosari, presepi e crocefissi possono andare anche di traverso. Proprio in questi giorni abbiamo assistito all’ennesima tragedia del mare e alla successiva commedia fatta di dichiarazioni di buona volontà da parte dei vertici europei, insieme a quelle, per la verità più ignobili, del ministro degli interni italiano. Le storie di quei bambini, di quelle donne, di quei giovani uomini ci raccontano le ingiustizie del mondo: le guerre, i fondamentalismi, le depredazioni economiche, la schiavitù femminile, i bagordi di governi fantocci che succhiano il sangue dei popoli e dividono i profitti con i ricchi dei Paesi ricchi. E sempre più fortemente ci fanno avvertire l’assenza, o la marginalità, di forze e ideali che rendano praticabile un’alternativa all’economia che uccide, alla geopolitica cinica ed imperialistica, alla crescente anestesia della coscienza collettiva. Nulla si muove, di serio e concreto, rispetto  all’accoglienza di chi fugge da guerre e violazione dei diritti umani e  alle politiche migratorie, mentre si abbassa la guardia rispetto al dovere di salvare i disperati che attraversano il cimitero mediterraneo. Analogamente anche sulla guerra di aggressione russa in Ucraina, mentre la Nato assurge a vero e proprio soggetto politico, l’Europa non osa essere protagonista, neppure sul proprio territorio, di una realistica proposta di tregua e di una lungimirante politica di pace, che faccia avanzare l’idea di un mondo multipolare. Unico modo di coesistere pacificamente in una realtà internazionale profondamente cambiata. Molti interventi in questo numero di Rocca mettono a fuoco tali grandi questioni, schivando le quali, o strumentalizzandole, si fischietta o si soffia accanto ad un incendio che rischia di andare fuori controllo. E i cristiani? E le Chiese? Qualche tempo fa mi capitò tra le mani un bel testo di
Gerard Lohfink dal titolo: «Per chi vale il discorso della montagna?» Il teologo tedesco rispondeva: per tutti i cristiani, non per una specifica categoria di asceti o di martiri. Vedere ancora benedire le armi dal patriarca ortodosso Kirill ma anche da vescovi cattolici ucraini, ci pone plasticamente di fronte l’essiccarsi delle radici cristiane dell’Europa. Ma quale ut unum sint affinché il mondo creda! Anzi, al di là delle posizioni espresse da Papa Francesco, sembra di assistere nelle Chiese, anche in quella cattolica, ad un pernicioso rinculo nazionalista. Ma il cristianesimo è per vocazione e natura  «catholico», universale. Se perde questa connotazione si perde. Perde l’anima, che fa sì che in esso non ci sia né maschio né femmina, né ebreo né greco, né russo né ucraino come identità blindate e incomunicanti, ma sorelle e fratelli ricchi delle reciproche diversità, chiamati alla convivialità delle differenze. Ci sono momenti, e l’attuale è uno di quelli, nei quali ci si può sentire chiamati ad una maggiore fedeltà alla propria coscienza e alla propria fede. Dove possiamo incontrare Gesù? Non ci viene il dubbio che fosse in quella barca? La copertina di Giovanni Berti, con cui apriamo questo numero, ce lo dice in modo commovente ed efficace. Solo dopo la denuncia e l’impegno i cristiani possono e devono annunciare la speranza che sono chiamati a custodire. Prima di tutto per le vittime e gli afflitti, perché non potrà esserci vera giustizia senza la loro redenzione. Di fronte alle tragedie del presente un nostro grande amico, il Pastore Paolo Ricca, ha parlato di un drammatico fallimento del cristianesimo e delle Chiese. Altro che radici cristiane! Eppure esperienze di solidarietà e di impegno civile ci sono. Un piccolo resto tiene ancora accesa la lampada della speranza. Nel segno di una alternativa radicale alla violenza, al riarmo, all’economia che «mata» e che scarta. Siamo forse giunti ad un punto nel quale solo la profezia può dare alla buona politica quel supplemento d’anima di cui ha bisogno. ❑
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*Editoriale su ROCCA 15 Marzo 2023
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Su Domani
Anche in nome della civiltà, la guerra è una barbarie
di Roberta De Monticelli**

Pforzenheim, febbraio 1945. La Germania è già vinta. Ma la Royal Air Force, con un raid di 367 bombardieri, non rinuncia a radere al suolo questa cittadina tedesca, causando la morte di 17mila civili. Comincia così il piccolo straordinario libro di Edgar Morin, Di guerra in guerra – Dal 1940 all’Ucraina invasa, uscito in contemporanea a Parigi e a Milano (Cortina) in questi giorni.

Comincia con il moto d’orrore che il 24enne tenente Edgar Nahoum, già entrato nella resistenza a ventun anni (col nome clandestino, che gli resterà come nom de plume, di Edgar Morin) reprimerà rapidamente, ci racconta, dicendosi: «È la guerra». Nello stesso mese 1.300 bombardieri angloamericani annientano la città d’arte demilitarizzata di Dresda, facendo più di 300mila morti.

E dovevano ancora venire le centinaia di migliaia di morti civili dell’atomica, a Hiroshima e Nagasaki, nell’agosto. Il 60 per cento dei civili normanni morti durante lo sbarco in Normandia fu dovuto ai bombardamenti dei liberatori. Questa breve sequenza iniziale dà il tema di tutto il piccolo libro, che è una cura-choc contro la rimozione della barbarie che accettammo fosse scatenata in nome e per conto della civiltà e della democrazia, come di nuovo facciamo oggi. Tanto più indicibile ed estrema fu la barbarie rimossa dalla luce accecante della giusta causa.

Uno spiraglio d’aria pura

Pur di aprire uno spiraglio d’aria pura nel chiuso delle nostre coscienze inchiavardate, Morin si accusa, facendo torto a se stesso: «È molto più tardi, dopo l’invasione dell’Ucraina, che è riemersa in me la coscienza della barbarie dei bombardamenti compiuti in nome della civiltà contro la barbarie nazista». Non è vero, lo sentì fin d’allora. Ma ci voleva un uomo di 102 anni a dirci che siamo ancora in tempo a svegliarci.

Un uomo di cent’anni può parlare con la voce di un bambino. Fu un regime che era tessuto di menzogne, di gulag e di assassinii, che contribuì in modo essenziale a liberare l’Europa dal nazismo. Furono la prima disfatta tedesca davanti a Mosca e l’entrata in guerra degli Stati Uniti, l’una e l’altra nel dicembre del 1941, a indurre Hitler nel gennaio del 1942 alla decisione di sterminare tutti gli ebrei del continente. Fu un paese il cui solo nome evoca in noi le idee di libertà, eguaglianza e fraternità, a reprimere nel sangue di uno dei più grandi massacri della storia l’aspirazione alla libertà del popolo algerino. È come se, guardando al nostro passato, potessimo verificare da ogni punto di vista la verità di ciò che Vassilij Grossmann disse di Stalingrado: che fu «la più grande vittoria e la più grande sconfitta dell’umanità».

La voce del centenario e del bambino è la voce della fenomenologia: capace di far rivivere ogni cosa passata nella pienezza sensibile in cui fu vissuta, e insieme dotata della vista lunga, che afferra l’insieme e il disegno del tempo, le sue figure invarianti. Questa fenomenologia delle figure della guerra – della sua allucinata eppure apodittica coscienza – è tanto evidente quanto disarmante, come se il bambino che è in noi, in cui già Platone salutava il filosofo, sciogliesse finalmente la paura nelle parole più semplici, che mostrano il re nudo, e la sua vergogna, e la nostra. L’isteria di guerra, anzitutto. Questa «conversione di un sintomo immaginario in sintomo della realtà».

È quella che produce la totale demonizzazione del nemico, versando sul fuoco tanta benzina d’odio da bruciare le relazioni future di intere generazioni, censurare scrittori, musicisti, sportivi solo per la loro nazionalità, e infine rompere amicizie che sembravano profonde, e si ritraggono di fronte all’incomprensibile strepito delle fanfare. La menzogna di guerra, peggiore ancora se fabbricata per giustificare le guerre. La “spionite”, ovvero la credenza che il nostro campo sia infestato da spie al soldo del nemico – e ne sappiamo qualcosa dopo aver lasciato che fosse arruolato fra i putiniani chiunque abbia osato alzare il sopracciglio di un dubbio. La criminalizzazione, che è il modo in cui il fanatismo uccide la politica trasformandola in guerra, o prolungando la guerra in raffiche di menzogna e cimiteri di silenzio omertoso, come sappiamo dalla guerra fredda.

La radicalizzazione, che nel piccolo diventa distruzione dei tessuti familiari e affettivi – come avvenne con la guerra di Jugoslavia nel 1991, come avviene anche oggi ai confini fra Russia e Ucraina – e nel grande diventa escalation, come quella che nel 1945, con la rivelazione del potere di autodistruzione ormai in mano all’uomo, mutò radicalmente e una volta per tutte gli antichi argomenti in difesa della guerra giusta. Com’è strano che tante brillanti intelligenze non se ne siano accorte. E che tanti gazzettieri abbiano dimenticato quell’evidenza del male maggiore – la distruzione della civiltà umana sulla terra – che aveva portato finalmente nel secolo scorso a due conquiste morali che potevamo credere irreversibili.

Una, è l’architrave normativa della cosiddetta comunità internazionale, incarnata in numerose istituzioni eppure tanto brutalmente disattesa nella realtà: la Dichiarazione Universale dei diritti umani. L’altra è quella che Aldo Capitini, il nostro grande teorico della nonviolenza, chiamò la dismissione dei nazionalismi. Entrambe le conquiste riducono enormemente la legittimità della guerra come metodo di risoluzione delle controversie internazionali, prospettando quelle cessioni di sovranità a vantaggio di ampie democrazie sovranazionali che in parte l’Unione europea ha realizzato.

Le responsabilità di Ue e Usa

All’Unione europea del resto Morin non risparmia l’accusa di non aver voluto impedire il disastro della guerra civile jugoslava, come non risparmia a Israele quella di aver spazzato via, proclamandosi Stato ebraico, la soluzione di uno stato democratico binazionale, mentre distruggeva quella di due stati attraverso la continua espansione degli insediamenti coloniali.

E non è tenero, il gran vecchio, con «i nostri media», concentrati sull’imperialismo della Grande Russia e «muti sull’altro imperialismo che interviene ovunque sul globo contravvenendo spesso, come la Russia in Ucraina, alle convenzioni internazionali». Non stupisce che Morin lasci troneggiare sulla fine del libro la figura di Mikhail Gorbaciov, «eroe dell’umanità che fece cessare la Guerra fredda in nome di quella ‘casa comune’ che è la terra per tutti gli umani».

Infine, dopo aver distinto tre guerre in una (la continuazione della guerra interna fra potere ucraino e provincia separatista, la guerra russo-ucraina, e «una guerra politico-economica internazionalizzata antirussa dell’occidente animata dagli Stati Uniti»), Morin si sorprende che «si levino così poche voci in favore della pace nelle nazioni più esposte. È sorprendente vedere così poca coscienza e così poca volontà in Europa…. nel promuovere una politica di pace».

Tutta la vita umana è prendere posizione, aveva scritto Edmund Husserl introducendo la distinzione fra prendere partito, o schierarsi, e consentire a ciò che si ha ragione di credere vero, fino a prova contraria e indipendentemente da quello che ne pensano i sodali. Morin non porta in dote al lettore la sterminata bibliografia che pure ha alle spalle (un’ottantina di libri tradotti in una trentina di lingue), ma solo un secolo di vita vissuta prendendo posizioni che il tempo ha provato giuste e ben fondate, tutte. Vita d’azione nella sua giovinezza partigiana e nella sua maturità di pubblico intellettuale, certo, ma soprattutto vita di ricerca, infinita.

In fondo il pensiero della complessità, nonostante i sei volumi de Il metodo, in cui si dispiega a partire dalla natura fino all’etica, si distingue per la più umanistica delle aspirazioni: se cerchi il vero, cercalo tutto, anche se sai che ne conoscerai, se va bene, una piccola parte. Nella storia politica del mondo, che è “planetaria” fin dai primordi del XX secolo, questo vuol dire: non ignorare mai le ragioni di nessuna parte, e soprattutto non ignorare mai la parte di male che le tue scelte possono comportare. E il messaggio è chiaro: «Più la guerra si aggrava, più la pace è difficile e più è urgente».

** In “Domani” del 1 marzo 2023
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