Editoriali

Giustizia riparativa

patrizio-rovelli-ft2Perché intitolare ad Aldo Scardella l’Aula magna del Palazzo di Giustizia di Cagliari?
di Patrizio Rovelli*

Il nostro obiettivo è avere la certezza che nessuno dimentichi mai la tragica fine di questo giovane. Soprattutto le nuove generazioni e in particolare giudici, avvocati, pubblici ministeri e agenti e ufficiali di polizia giudiziaria che nel 1986 – l’anno in cui il 2 luglio Aldo si tolse la vita da innocente nel carcere di Buoncammino a Cagliari – non erano neppure nati o erano ancora ragazzi.
Va detto che sul tema degli errori giudiziari si gioca oggi una partita importante del futuro della Giustizia nel nostro Paese. L’articolo 24 comma 4 della Costituzione (rimasto in gran parte inattuato) stabilisce, infatti, che la legge deve determinare “le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”. E il sistema processuale è ancora sprovvisto di una disciplina che consenta agevolmente a chiunque assuma di essere stato condannato ingiustamente con sentenza irrevocabile, di far nuovamente ricorso alla giurisdizione per ottenere il riconoscimento della propria innocenza.
La Giustizia, secondo la Legge Fondamentale, può quindi sbagliare così come l’esperienza dimostra. E possono sbagliare non solo gli inquirenti (i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria), ma anche i giudici e naturalmente gli avvocati che tutelano nel processo imputati e persone offese.
La morte di Aldo è stata la conseguenza di uno degli errori giudiziari più evidenti degli ultimi cinquant’anni.
Aldo era innocente tanto che dopo la sua morte i veri autori dell’omicidio di cui era ingiustamente accusato furono arrestati e condannati.
Il sacrificio della Sua vita deve essere sempre ricordato da chiunque quotidianamente varchi la soglia di un Tribunale. Tutti dobbiamo essere consapevoli della delicatezza dei nostri ruoli e delle enormi sofferenze che gli errori giudiziari arrecano a chi li subisce e ai loro cari.
È nostro dovere provare a immaginare una giustizia penale diversa in cui l’analisi della casistica degli errori giudiziari consenta di evitarli, attraverso la riforma di tutti quegli istituti processuali che comunque incidono sulla decisione del giudice.
È certamente importante ribadire che la ragionevole durata del processo è un valore fondamentale. Ma lo è ancora di più il contenuto di verità e giustizia delle decisioni dei tribunali.
​La magistratura, l’avvocatura e soprattutto il Legislatore devono avere consapevolezza, ognuno per la parte di propria competenza, della fondamentale rilevanza di queste tematiche.
Va a questo proposito ricordato che in alcuni recenti interventi il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto ribadire, a margine del caso Palamara, come sia assolutamente necessaria una “rigenerazione etica e culturale” della magistratura italiana. Lo ha scritto nell’ottobre del 2021 in una lettera inviata al presidente della ANM; e lo ha ribadito all’inizio del 2022 nel discorso tenuto davanti alle Camere riunite in occasione del suo secondo insediamento nella più alta carica dello Stato.
In verità qualche segnale di riflessione è da ultimo venuto anche dalla magistratura che nella sua parte più sensibile ha ricordato e riconosciuto gli errori gravissimi commessi nella vicenda di Enzo Tortora.
Così come pare di poter cogliere un segnale positivo in uno degli ultimi passaggi della Mozione approvata dal 36º congresso nazionale dell’ANM tenutosi a Palermo dal 10 al 12 maggio scorso, nel cui terzultimo capoverso si legge che è auspicio della ANM che la comune cultura di giudici, avvocati e pubblici ministeri possa concorrere a rendere la giustizia “migliore e più giusta”.
Sorprende non poco a tale ultimo proposito che nei tanti progetti di riforma costituzionale presentati dal Governo e dal guardasigilli Nordio, considerato da molti un garantista, non vi sia neppure una proposta che finalmente contempli la piena attuazione dell’articolo 24 comma 4 della Costituzione.
Va in conclusione ricordato il pensiero – oggi più che mai attuale – di Francesco Carnelutti che affermava che dietro ogni sentenza di assoluzione c’è sempre un errore giudiziario. Un errore giudiziario che merita “riparazione”, secondo una corretta interpretazione e attuazione del dettato costituzionale, riconoscendo a chi è stato assolto il diritto al risarcimento per il danno subito all’immagine e al patrimonio economico e affettivo a causa della ingiusta sottoposizione al processo.

*Patrizio Rovelli
Presidente OPG – osservatorio per la Giustizia.
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Articolo apparso come Editoriale su L’Unione Sarda.
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Per opportuna correlazione ripubblichiamo il servizio su Aldo Scardella a 38 anni dalla sua morte.

Accadde 2 luglio di 38 anni fa. Per non dimenticare Aldo Scardella

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/>di Patrizio Rovelli

Il 2 luglio del 1986 nel carcere di Buoncammino moriva Aldo SCARDELLA vittima di un evidente errore giudiziario. Aveva 26 anni ed era accusato di un omicidio che non aveva commesso.
Dopo la sua morte la Procura di Cagliari arrestò gli autori di quel crimine che vennero poi condannati dalla giustizia italiana.
Di lui parlò Enzo Tortora che volle visitare la sua tomba e deporvi dei fiori.
L’Osservatorio per la Giustizia ha deciso di raccogliere le firme per intitolare ad ALDO l’aula più importante del palazzo di giustizia di Cagliari.
Perché nessuno dimentichi mai, varcando l’ingresso del tribunale della nostra città, il sacrificio della vita di questo giovane condannato a diventare un drammatico e dolorosissimo esempio di errore giudiziario.
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aldo-scardella-272024jpgQuesta mattina mi sono sentito sinceramente onorato di accompagnare Cristiano Scardella, fratello di Aldo e l’avv. Patrizio Rovelli, amico di sempre, a rendere omaggio ai Aldo Scardella morto suicida il 2 luglio del 1986 nel carcere di Buoncammino, vittima innocente di un clamoroso errore giudiziario. Con commozione abbiamo accarezzato la foto del giovane Aldo e deposto un mazzo di garofani rossi sulla sua tomba. Aldo merita molto di più dei nostri omaggi e della nostra commozione, seppure importanti perchè sinceri e per lui impegnati, merita di essere ricordato da tutti, compresi gli operatori della giustizia, quella giustizia che a lui è stata barbaramente negata. Ecco perchè la proposta dell’Osservatorio per la Giustizia di intitolare ad ALDO l’aula più importante del palazzo di giustizia di Cagliari, va appoggiata e portata avanti con convinzione e impegno corale fino alla sua accoglienza [fm].
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E’ online Rocca n. 14/2024
15 luglio 2024

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La crisi della democrazia, che oggi vede crescere al suo interno le forze che vorrebbero stravolgerla, è superabile rilanciando con determinazione i valori e l’impegno che l’hanno conquistata e questo è un problema tutto politico, di impegno, di determinazione e di lotta. Non è un problema di tecniche costituzionali ma di enorme spessore politico.

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Il sangue amaro “versato a Reggio Emilia è sangue di
noi tutti”. Dal governo Tambroni al governo Meloni

di Alfiero Grandi (1° Luglio 2024)

Il 7 luglio ricorre il 64° anniversario della manifestazione antifascista del 1960 a Reggio Emilia durante la quale la polizia sparò e uccise 5 persone, la crisi più acuta di un periodo inquietante per l’Italia. Dobbiamo ricordare anzitutto i morti in difesa delle libertà democratiche, conquistate a caro prezzo con la Liberazione del 1945.
Dice la canzone sui morti di Reggio Emilia: “Lauro Farioli è morto (uno dei 5) per riparare al torto di chi s’è già scordato di Duccio Galimberti”, eroe della Resistenza.

Rotta l’unità antifascista, era nato il governo Tambroni
Ricordare i morti di Reggio vuol dire tornare sul significato del governo Tambroni nato con l’appoggio del Movimento Sociale, partito che si richiamava al ventennio fascista. Il governo Tambroni rappresentò una grave sbandata politica della Democrazia Cristiana, che portò alla rottura dell’unità antifascista aprendo al Msi che cercava una legittimazione fino a quel momento negata.
L’antifascismo fino a Tambroni era il fondamento della nostra Repubblica democratica. In quel momento la democrazia italiana rischiò di deragliare e questo, senza parallelismi forzati, può aiutare a capire meglio alcune sfide attuali.
Il nucleo in sofferenza nel 1960 è antifascismo, Costituzione, democrazia. In modi diversi la sofferenza oggi riguarda gli stessi punti.
Non tutto quanto si muove all’estrema destra si richiama al fascismo, tuttavia ci sono organizzazioni come Casa Pound dichiaratamente fasciste che lavorano indisturbate e restano ambiguità preoccupanti in altri.
E’ più che mai necessaria una capacità di reazione politica e sociale capace di isolare, sconfiggere la parte incompatibile con la democrazia così duramente conquistata in Italia. Le rivelazioni di Fanpage su riti e raduni di Gioventù Nazionale viene sottovalutata, ridotta a folklore giovanile, ma è un errore, anche per la destra. Le giustificazioni del Ministro Ciriani in parlamento sui comportamenti di settori di Gioventù nazionale sono un inaccettabile e miope tentativo di sminuire questi episodi, che rappresenta un netto passo indietro rispetto alla svolta di Fini a Fiuggi.

La vittoria drogata delle destre
Il problema dei conti con il fascismo non è solo dichiararsi antifascisti, su cui ci sono le note difficoltà di Giorgia Meloni, ma assumere orientamenti e comportamenti che contrastino antiche tentazioni autoritarie della destra.
Oggi facciamo i conti con la vittoria elettorale delle destre nel settembre 2022 che è stata “drogata” da un premio di maggioranza del 15%, perchè le destre hanno ottenuto solo il 44% dei voti che hanno fruttato il 59% dei parlamentari, grazie ad una legge elettorale incostituzionale che altera il principio della parità di voto degli elettori. Alterazione ancora più grave perché avendo votato il 63% degli aventi diritto il 59% dei deputati e dei senatori è stato ottenuto dalle destre con il 28% del corpo elettorale.
Questa vittoria, avvenuta nel rispetto della legge vigente, avrebbe dovuto consigliare prudenza e moderazione, invece le destre, ad egemonia di Fratelli d’Italia hanno deciso di modificare la Costituzione usando in modo spregiudicato il vantaggio del premio di maggioranza per imporre le loro scelte, mettendo nel mirino la Costituzione del 1948 con l’obiettivo di introdurre una nuova fonte di legittimazione individuata nella delega ad una persona, ad un capo, a decidere.

Torniamo al luglio 1960
Il luglio 1960 è un’epoca lontana, forse sconosciuta a tanti. E’ stato un tornante importante per almeno una generazione perchè in quel periodo è entrata in sofferenza
la democrazia antifascista dell’Italia.
Nel 1960 si sono presentati pericoli che si stanno ripresentando, sia pure in forma diversa, e l’atteggiamento verso la Costituzione ne rappresenta la cartina di tornasole democratica ed antifascista.
Ad esempio: l’antifascismo è un optional o invece è effettivamente – come dovrebbe essere secondo la Costituzione – una pregiudiziale per potere governare ?
Dopo la 2° guerra mondiale e la sconfitta del nazifascismo fu eletta nel 1946 l’assemblea Costituente – per la prima volta in Italia votarono anche le donne – che ebbe il compito di elaborare una Costituzione per la Repubblica italiana, liberata dalla dittatura fascista. Inoltre il voto del 1946 scelse la Repubblica e bocciò la monarchia, compromessa con il fascismo.
La Costituzione aveva il compito di guidare la nuova Repubblica verso una società democratica dopo gli orrori e i disastri della guerra. I padri e le madri costituenti furono all’altezza del compito e scrissero una Costituzione antifascista, profondamente democratica, fondata sulla centralità del parlamento e sulla divisione dei poteri, in modo da evitare in radice il ripresentarsi il rischio di una dittatura e in particolare la dipendenza da un capo che tutto decide.
I diversi poteri dello Stato hanno garantita la loro autonomia e hanno le condizioni per impedire straripamenti degli altri poteri. Questa è la svolta rispetto alla dittatura fascista.

La Costituzione nel mirino
Anche a sinistra sulla Costituzione ci sono state troppe incertezze e tentazioni di cambiamento discutibili. Le modifiche approvate a volte hanno fatto danni come la riforma del titolo V del 2001, che ha dato vita ad un contenzioso mai visto tra Stato e Regioni e ha fornito alibi a Calderoli per l’autonomia differenziata. In sostanza ci si è fatti prendere dalla sindrome di attribuire alla Costituzione responsabilità che in realtà erano difetti ed errori della politica, cioè compiti dei governi e delle maggioranze.
Basta pensare alle promesse elettorali impossibili da mantenere per il loro impianto reazionario inadeguato a rispondere ai problemi. Per questo la Costituzione torna prepotentemente nel mirino e le vengono attribuite responsabilità e inadeguatezze che non le appartengono.
La Costituzione prevede il voto libero delle elettrici e degli elettori per il parlamento, per scegliere da chi farsi rappresentare, e lo fa salvaguardando l’equilibrio tra i poteri, ad esempio l’autonomia della magistratura, ed impedendo l’accentramento di tutto il potere nelle mani di una sola persona, chiarendo che non tutto può essere cambiato. Ad esempio la forma repubblicana non è disponibile, nemmeno se votasse diversamente la maggioranza degli elettori.
Il voto è fondamentale e deve essere libero ma non può legittimare qualunque scelta portando al deragliamento dai valori della Costituzione, come sembrava ritenere Berlusconi, che attribuiva al voto il ruolo di un salvacondotto totale.
La Costituzione italiana è un insieme di principi fondamentali come il diritto uguale per tutti alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla tutela della vita sul lavoro, ecc. e, afferma, che la Repubblica è impegnata a rimuovere gli ostacoli che impediscono a tutti di esigere il rispetto di questi ed altri diritti fondamentali.

Chi vuol sostenere le élite economiche e finanziarie?
Settori economici e finanziari, internazionali e nazionali, da tempo premono per cambiare precetti costituzionali considerati ostacoli al libero movimento dei capitali nel pianeta e alla pretesa di plasmarlo a loro piacimento. Da questo pulpito è venuta una pressione per affermare il potere e i dettami delle èlites economiche e finanziarie, per condizionare la vita delle persone, al punto da considerare privatizzabili e di mercato diritti che dovrebbero essere
invece non disponibili per la speculazione privata. Basta pensare alla salute, all’istruzione, ecc.
Le destre nella loro ansia di andare oltre la Costituzione antifascista sembrano non rendersi conto che finiscono con l’essere subalterne alle ideologie che puntano a mutuare le regole di governo accentrato ed autoritario delle imprese, rasentando il ridicolo quando affermano di
muoversi contro i poteri forti. Abbiamo visto cosa è accaduto con la vantata tassazione degli extraprofitti delle banche: ritirata totale con perdite.
La Costituzione del 1948 è stata contrastata dall’inizio da un’area politica e sociale sostanzialmente nostalgica del ventennio fascista. Il tentativo di Fini
a Fiuggi di superare definitivamente queste posizioni è purtroppo sostanzialmente fallito. Non a caso resistono a destra posizioni contro la Costituzione, le cui libertà sono viste perfino come un’occasione da usare per sovvertirne i fondamenti.
La democrazia è certamente in crisi di credibilità e forza, ma vanno distinti i tentativi di affossarla da interventi necessari per ridarle qualità e slancio e
guarda caso gli obiettivi di fondo ancora da realizzare sono proprio quelli scritti nella nostra Costituzione.

Le destre vogliono una Terza repubblica al di là della Costituzione
Le destre al governo, trainate da Fratelli d’Italia, puntano ad arrivare a qualcosa di nuovo e diverso, definito come la terza repubblica italiana, evocando un modello decisionale accentrato ed autoritario, con l’obiettivo di uscire dall’alveo della Costituzione del 1948 per trovare altre fonti di legittimazione. In questo caso un voto popolare che tutto decide, senza neppure vincoli e controlli, ed elegge un capo a cui delega tutto, senza contrappesi e contropoteri.
In sostanza l’obiettivo è costruire una vera e propria capocrazia.
La fonte di legittimazione è individuata nel voto diretto per il Presidente del Consiglio (un succedaneo del Presidenzialismo) proposta a cui la destra è stata spinta dalla grande popolarità di Mattarella che rende difficile scontrarsi con un’opinione pubblica largamente favorevole al ruolo del Presidente della Repubblica, diventato centrale nel risolvere crisi difficili. Ma se andasse in porto il premierato voluto da Giorgia Meloni la conseguenza sarebbe che il
potere concentrato nel Presidente del Consiglio renderebbe marginale il ruolo del Presidente della Repubblica.
La differenza balza agli occhi, il Presidente della Repubblica oggi punta ad evitare che la crisi di un governo, di una coalizione diventino la crisi politica della legislatura. Nel premierato di Giorgia Meloni se il capo viene sconfessato si torna a votare, il parlamento è eletto con lui e dovrebbe cadere con lui.

Una deriva che va contrastata in tutti i modi
Non è fascismo inteso come mero ritorno al passato, ma un forte accentramento autoritario sì, perché porta al superamento della divisione dei poteri e in particolare riduce il parlamento ad un ruolo subalterno e servente del governo, da cui sarebbe del tutto dipendente.
Contro queste scelte occorre usare tutte le possibilità offerte dallo stato democratico e dalla Costituzione, compreso il referendum, per contrastare una deriva che porterebbe nel tempo ad una cesura.
La crisi della democrazia, che oggi vede crescere al suo interno le forze che vorrebbero stravolgerla, è superabile rilanciando con determinazione i valori e l’impegno che l’hanno conquistata e questo è un problema tutto politico, di impegno, di determinazione e di lotta. Non è un problema di tecniche costituzionali ma di enorme spessore politico.

La ribellione di Genova, e non solo
Nel 1960 il governo Tambroni si reggeva sull’astensione del MSI che cercava una legittimazione malgrado fosse un partito che si richiamava apertamente al ventennio fascista e cercava di uscire allo scoperto con manifestazioni pubbliche e un congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, che si ribellò. Ci furono scontri e tensioni fortissime. A Bologna a fine maggio 1960 fu sciolta con la forza una manifestazione in piazza Malpighi. La parte più drammatica fu il 7 luglio con i 5 uccisi a Reggio Emilia nel corso di una manifestazione repressa con violenza dalla polizia. Episodio
figlio del clima di rivalsa della destra, dell’atteggiamento repressivo della polizia che all’epoca aveva non pochi inquinamenti del passato, di un pericoloso sbandamento della Democrazia Cristiana che pure era stata tra i fondatori della nuova Italia democratica.
Quella maggioranza e quel governo erano una rottura con la Resistenza e l’antifascismo che era la base comune delle forze che avevano dato vita alla
Costituzione e alla Repubblica.
Come altri giovani della mia generazione decisi in quei giorni di impegnarmi politicamente, di manifestare lo sdegno per quanto accaduto, contro l’antiautoritarismo e la repressione. I morti a Reggio Emilia per molti giovani furono il momento della scelta, in tanti capimmo che dovevamo impegnarci, che era in corso un duro scontro sulla democrazia che ci riguardava e che andava riconquistato il discrimine antifascista.

Torniamo ancora alla Costituzione
Il governo Tambroni dopo i morti di Reggio Emilia restò in carica poche settimane.
L’eccidio di Reggio Emilia fu uno spartiacque nella vita di tanti, portò ad un impegno politico, una scelta di vita, di partecipazione, in continuità con la convinzione che il compito di ciascuno di noi è agire come cittadini protagonisti della democrazia in Italia.
Questo ci è stato consegnato dalla democrazia conquistata a caro prezzo dalla Resistenza e questo impegno deve continuare nel tempo perché nasce da quelli che Berlinguer definiva gli ideali della sua gioventù.
Anche ora occorre tornare ai fondamenti della Repubblica, della democrazia, della Costituzione, questa è la posta in gioco, certo in forme e condizioni diverse dal 1960.
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mattarella-3Come ricordava Norberto Bobbio – le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità ed eguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine, non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che queste possano, a loro volta, divenire maggioranza.
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Intervento del Presidente della Repubblica alla cerimonia di apertura della 50^ edizione della Settimana Sociale dei Cattolici in Italia
Trieste, 03/07/2024

Rivolgo un saluto di grande cordialità al Presidente della Conferenza Episcopale, ai Vescovi presenti, al Nunzio Apostolico; alle autorità di questa splendida parte dell’Italia, il Presidente della Regione, il Sindaco, gli altri Sindaci presenti; a tutti voi, ringraziandovi per l’invito e, soprattutto, per quello che fanno le Settimane Sociali.

Democrazia.

Parola di uso comune, anche nella sua declinazione come aggettivo.
È ampiamente diffusa. Suggerisce un valore.

Le dittature del Novecento l’hanno identificata come un nemico da battere.

Gli uomini liberi ne hanno fatto una bandiera.

Insieme una conquista e una speranza che, a volte, si cerca, in modo spregiudicato, di mortificare ponendone il nome a sostegno di tesi di parte.

Non vi è dibattito in cui non venga invocata a conforto della posizione propria.

Un tessuto che gli avversari della democrazia pretenderebbero logoro.

L’interpretazione che si dà di questo ordito essenziale della nostra vita appare talora strumentale, non assunto in misura sufficiente come base di rispetto reciproco.

Si è persino giunti ad affermare che siano opponibili tra loro valori come libertà e democrazia, con quest’ultima artatamente utilizzabile come limitazione della prima.

Non è fuor di luogo, allora, chiedersi se vi sia, e quale, un’anima della democrazia.

O questa si traduce soltanto in un metodo?

Cosa la ispira?

Cosa ne fa l’ossatura che sorregge il corpo delle nostre Istituzioni e la vita civile della nostra comunità?

È un interrogativo che ha accompagnato e accompagna il progresso dell’Italia, dell’Europa.

Alexis de Tocqueville affermava che una democrazia senz’anima è destinata a implodere, non per gli aspetti formali, naturalmente, bensì per i contenuti valoriali venuti meno.

Intervenendo a Torino, alla prima edizione della Biennale della democrazia, nel 2009, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolgeva lo sguardo alla costruzione della nostra democrazia repubblicana, con la acquisizione dei principi che hanno inserito il nostro Paese, da allora, nel solco del pensiero liberal-democratico occidentale.

Dopo la “costrizione” ossessiva del regime fascista soffiava “l’alito della libertà”, con la Costituzione a intelaiatura e garanzia dei diritti dei cittadini.

L’alito della libertà, anzitutto, come rifiuto di ogni obbligo di conformismo sociale o politico, come diritto all’opposizione.

La democrazia, in altri termini, non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento, ferma restando, naturalmente, l’imprescindibilità della definizione e del rispetto delle “regole del gioco”.

Perché – come ricordava Norberto Bobbio – le condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità ed eguaglianza del diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile delle assemblee elettive e, infine, non da ultimo, limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e impedire che queste possano, a loro volta, divenire maggioranza.

È la pratica della democrazia che la rende viva, concreta, trasparente, capace di coinvolgere.

Quali le ragioni del riferimento all’alito della libertà parlando di democrazia?

Non è democrazia senza la tutela dei diritti fondamentali di libertà, che rappresentano quel che dà senso allo Stato di diritto e alla democrazia stessa.

Il tema impegnativo che avete posto al centro della riflessione di questa Settimana sociale interpella quindi, con forza, tutti.

La democrazia, infatti, si invera ogni giorno nella vita delle persone e nel mutuo rispetto delle relazioni sociali, in condizioni storiche mutevoli, senza che questo possa indurre ad atteggiamenti remissivi circa la sua qualità.

Si può pensare di contentarsi che una democrazia sia imperfetta?

Di contentarsi di una democrazia a “bassa intensità”?

Si può pensare di arrendersi, “pragmaticamente”, al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della “cosa pubblica”?

Può esistere una democrazia senza il consistente esercizio del ruolo degli elettori? Per porre mente alla defezione, diserzione, rinuncia intervenuta da parte dei cittadini in recenti tornate elettorali.

Occorre attenzione per evitare di commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare.

Occorre, piuttosto, adoperarsi concretamente affinché ogni cittadino si trovi nelle condizioni di potere, appieno, prender parte alla vita della Repubblica.

I diritti si inverano attraverso l’esercizio democratico.

Se questo si attenua, si riduce la garanzia della loro effettiva vigenza.

Democrazie imperfette vulnerano le libertà: ove si manifesta una partecipazione elettorale modesta. Oppure ove il principio “un uomo-un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori.

Ancor più le libertà risulterebbero vulnerate ipotizzando democrazie affievolite, depotenziate da tratti illiberali.

Ci soccorre anche qui Bobbio, quando ammonisce che non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di diritti “in nome del dovere di governare”.

Una democrazia “della maggioranza” sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione, per la confusione tra strumenti di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà.

Al cuore della democrazia – come qui leggiamo – vi sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra Costituzione.

Questa chiave di volta della democrazia opera e sostiene la crescita di un Paese, compreso il funzionamento delle sue Istituzioni, se al di là delle idee e degli interessi molteplici c’è la percezione di un modo di stare insieme e di un bene comune.

Se non si cede alla ossessiva proclamazione di quel che contrappone, della rivalsa, della delegittimazione.

Se l’universalità dei diritti non viene menomata da condizioni di squilibrio, se la solidarietà resta il tessuto connettivo di una economia sostenibile, se la partecipazione è viva, diffusa, consapevole del proprio valore e della propria necessità, della propria essenziale necessità.

Nel cambiamento d’epoca che ci è dato di vivere avvertiamo tutta la difficoltà, e a volte persino un certo affanno, nel funzionamento delle democrazie.

Oggi constatiamo criticità inedite, che si aggiungono a problemi più antichi.

La democrazia non è mai conquistata per sempre.

Anzi, il succedersi delle diverse condizioni storiche e delle loro mutevoli caratteristiche, ne richiede un attento, costante inveramento.

Nella complessità delle società contemporanee, a elementi critici conosciuti, che mettono a rischio la vita degli Stati e delle comunità, si aggiungono nuovi rischi epocali: quelli ambientali e climatici, sanitari, finanziari, oltre alle sfide indotte dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale.

Le nostre appaiono sempre più società del rischio, a fronteggiare il quale si disegnano, talora, soluzioni meramente tecnocratiche.

È tutt’altro che improprio, allora, interrogarsi sul futuro della democrazia e sui compiti che le sono affidati, proprio perché essa non è semplicemente un metodo, bensì costituisce lo “spazio pubblico” in cui si esprimono le voci protagoniste dei cittadini.

Nel corso del tempo, è stata più volte posta, malauguratamente, la domanda “a cosa serve la democrazia?”. La risposta è semplice: a riconoscere – perché preesistono, come indica l’art. 2 della nostra Costituzione – e a rendere effettive le libertà delle persone e delle comunità.

Karl Popper ha indicato come le forme di vita democratica realizzino, essenzialmente, quella “società aperta” che può massimizzare le opportunità di costituzione di identità sociali destinate a trasferirsi, poi, sul terreno politico e istituzionale.

La stessa esperienza italiana degli ultimi trent’anni ne è un esempio.

Nei settantotto anni dalla scelta referendaria del 1946, libertà di impronta liberale e libertà democratica hanno contribuito, al “cantiere aperto” della nostra democrazia repubblicana, con la diversità delle alternative, le realtà di vita e le differenti mobilitazioni che ne sono derivate.

La libertà di tradizione liberale ci richiama a un’area intangibile di diritti fondamentali delle persone, e alla indisponibilità di questi rispetto al contingente succedersi di maggioranze e, ancor più, a effimeri esercizi di aggregazione di interessi.

La libertà espressa nelle vicende novecentesche, con l’irruzione della questione sociale, ha messo poi a fuoco la dinamica delle aspettative e dei bisogni delle identità collettive nella società in permanente trasformazione.

È questione nota al movimento cattolico, se è vero che quel giovane e brillante componente dell’Assemblea Costituente, che fu Giuseppe Dossetti, pose il problema del “vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo quello politico, ma anche a quello economico e sociale”, con la definizione di “democrazia sostanziale”.

A segnare in tal modo il passaggio ai contenuti che sarebbero stati poi consacrati negli articoli della prima parte della nostra Costituzione. Fra essi i diritti economico-sociali.

Una riflessione impegnativa con l’ambizione di mirare al “bene comune” che non è il “bene pubblico” nell’interesse della maggioranza, ma il bene di tutti e di ciascuno, al tempo stesso; di tutti e di ciascuno, secondo quanto già la Settimana Sociale del ’45 volle indicare.

Il percorso dei cattolici – con il loro contributo alla causa della democrazia- non è stato occasionale né data di recente, eppure va riconosciuto che l’adesione dottrinaria alla democrazia fu condizionata dalla “questione romana”, con il percorso accidentato della sua soluzione.

Ma già l’ottava Settimana Sociale, a Milano, nel 1913, non aveva remore nell’affermare la fedeltà dei cattolici allo Stato e alla Patria – quest’ultima posta più in alto dello Stato – sollecitando, contemporaneamente, il diritto di respingere – come venne enunciato – ogni tentativo di “trasformare la Patria, lo Stato, la sua sovranità, in altrettante istituzioni ostili… mentre sentiamo di non essere a nessuno secondi nell’adempimento di quei doveri che all’una e all’altro ci legano”. Una espressione di matura responsabilità.

Il tema che veniva posto, era fondamentalmente un tema di libertà – anche religiosa – e questo riguardava tutta la società, non esclusivamente i rapporti tra Regno d’Italia e Santa Sede.

Ho poc’anzi ricordato la 19^ edizione della Settimana, a Firenze, nell’ottobre 1945. In quell’occasione, nelle espressioni di un giurista eminente – poi costituente – Egidio Tosato, troviamo proposto il tema dell’equilibrio tra i valori di libertà e di democrazia, con la individuazione di garanzie costituzionali a salvaguardia dei cittadini.

La democrazia come forma di governo non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: essa può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o di utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce.

Anche da questo si è fatta strada l’idea di una suprema Corte Costituzionale.

Tosato contestò l’assunto di Rousseau, in base al quale la volontà generale non poteva trovare limiti di alcun genere nelle leggi, perché la volontà popolare poteva cambiare qualunque norma o regola.

Lo fece Tosato con parole molto nette: “Noi sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo può essere, come spesso si è dimostrata, più ingiusta e oppressiva che non la volontà di un principe”. Esprimeva un fermo no, quindi, all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice.

La coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile per qualunque Istituzione, a partire dalla Presidenza della Repubblica, per una leale e irrinunziabile vitalità democratica.

Guido Gonella, personalità di primo piano del movimento cattolico italiano, e poi statista insigne nella stagione repubblicana, relatore anch’egli alla Settimana di Firenze del ’45, non ebbe esitazioni nel rinvenire nelle Costituzioni, una “forma di vita – come disse – più alta e universale”, con la presenza di elementi costanti, “categorie etiche” le definì, e di elementi variabili, secondo le “esigenze storiche”, ponendo in guardia dei rischi posti da una eccessiva rigidezza conservatrice e da una troppo facile flessibilità demagogica che avrebbe potuto caratterizzarle, con il risultato di poter passare con indifferenza dall’assolutismo alla demagogia, per ricadere indietro verso la dittatura.

Su questo si basa la distinzione tra prima e seconda parte della nostra Costituzione.

Il messaggio fu limpido: sbagliato e rischioso cedere a sensibilità contingenti, sulla spinta delle tentazioni quotidiane della contesa politica. Come avviene con la frequente tentazione di inserire richiami a temi particolari nella prima parte della Costituzione, che del resto – per effetto della saggezza dei suoi estensori – regola tutti questi aspetti comunque, in base ai suoi principi e valori di fondo.

La Costituzione seppe dare un senso e uno spessore nuovo all’unità del Paese e, per i cattolici, l’adesione ad essa ha coinciso con un impegno a rafforzare, e mai indebolire, l’unità e la coesione degli italiani.

Spirito prezioso, come ha ricordato di recente il Cardinale Zuppi, perché la condivisione intorno ai valori supremi di libertà e democrazia è il collante irrinunciabile della nostra comunità nazionale.

Pio XII, nel messaggio natalizio del 1944, era stato ricco di indicazioni importanti e feconde.

Permettetemi di soffermarmi su quel testo per richiamarne l’indicazione che, al legame tra libertà e democrazia, unisce il tema della democrazia connesso a quello della pace.

Perché la guerra soffoca, può soffocare, la democrazia.

L’ordine democratico, ricordava il Papa, include la unità del genere umano e della famiglia dei popoli. “Da questo principio – diceva – deriva l’avvenire della pace”. Con l’invocazione “guerra alla guerra” e l’appello a “bandire una volta per sempre la guerra di aggressione come soluzione legittima delle controversie internazionali e come strumento di aspirazioni nazionali”.

Un grido di pace oggi rinnovato da Papa Francesco.

Non si trattava di un dovuto “irenismo”, di uno scontato ossequio pacifista della Chiesa di fronte alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

Era, piuttosto, una ferma reazione morale che interpreta la coscienza civile, presente certamente nei credenti – e, comunque, nella coscienza dei popoli europei – destinata a incrociarsi con le sensibilità di altre posizioni ideali.

Prova ne è stata la generazione delle Costituzioni del Secondo dopoguerra, in Italia come in Germania, in Austria, in Francia.

Per l’Italia gli art. 10 e 11 della nostra Carta, volti a definire la comunità internazionale per assicurare e pervenire alla pace.

Sarebbe stato il professor Pergolesi, sempre a Firenze 1945, ad affermare il diritto del cittadino alla pace, interna ed esterna, con la proposta di inserimento di questo principio nelle Costituzioni, dando così vita a una concezione nuova dei rapporti tra gli Stati.

Se in passato la democrazia si è inverata negli Stati – spesso contrapposti e comunque con rigidi, insormontabili frontiere – oggi, proprio nel continente che degli Stati è stato la culla, si avverte l’esigenza di costruire una solida sovranità europea che integri e conferisca sostanza concreta e non illusoria a quella degli Stati membri. Che consenta e rafforzi la sovranità del popolo disegnata dalle nostre Costituzioni ed espressa, a livello delle Istituzioni comunitarie, nel Parlamento Europeo.

Il percorso democratico, avviato in Europa dopo la sconfitta del nazismo e del fascismo, ha permesso di rafforzare le Istituzioni dei Paesi membri e di ampliare la protezione dei diritti dei cittadini, dando vita a quella architrave di pace che è stata prima la Comunità europea e adesso è l’Unione.

Una più efficace unità europea – più forte ed efficiente di quanto fin qui siamo stati capaci di realizzare – è oggi condizione di salvaguardia e di progresso dei nostri ordinamenti di libertà e di uguaglianza, di solidarietà e di pace.

Tornando alla riflessione sui cardini della democrazia, va sottolineato che la democrazia comporta il principio di eguaglianza – poc’anzi richiamato dal Cardinale Zuppi – perché riconosce che le persone hanno eguale dignità.

La democrazia è strumento di affermazione degli ideali di libertà.

La democrazia è antidoto alla guerra.

Quando ci chiediamo se la democrazia possiede un’anima, quando ci chiediamo a cosa serva, troviamo agevolmente risposte chiare.

Lo sforzo che, anche in questa occasione, vi apprestate a produrre per la comunità nazionale, richiama le parole con cui il Cardinale Poletti, nel 1988, alla XXX assemblea generale Conferenza Episcopale, accompagnò, dopo vent’anni, la ripresa delle Settimane Sociali: “diaconia della Chiesa italiana al Paese”.

Con il vostro contributo avete arricchito, in questi quasi centoventi anni dalla prima edizione, il bene comune della Patria e, di questo, la Repubblica vi è riconoscente.

La nostra democrazia ha messo radici, si è sviluppata, è divenuta un tratto irrinunciabile dell’identità nazionale – mentre diveniva anche identità europea – sostenuta da partiti e movimenti, che avevano raggiunto la democrazia nel corso del loro cammino e su di essa stavano rifondando la loro azione politica nella nuova fase storica.

Oggi dobbiamo rivolgere lo sguardo e l’attenzione a quanto avviene attorno a noi, nel mondo sempre più raccolto e interconnesso.

Accanto al riproporsi di tentazioni neo-colonialistiche e neo-imperialistiche, nuovi mutamenti geopolitici sono sospinti anche dai ritmi di crescita di Stati-continente in precedenza meno sviluppati, da tensioni territoriali, etniche, religiose che, non di rado sfociano in guerre drammatiche, da andamenti demografici e giganteschi flussi migratori.

Attraversiamo fenomeni – questi e altri – che mutano profondamente le condizioni in cui si viveva in precedenza e che è impossibile illudersi che possano tornare.

Dalla dimensione nazionale dei problemi – e delle conseguenti sfere decisionali – siamo passati a quella europea e, per qualche aspetto, a quella globale.

È questa la condizione della quale siamo parte e nella quale dobbiamo far sì che a prevalere sia il futuro dei cittadini e non delle sovrastrutture formatesi nel tempo.

All’opposto della cooperazione fra eguali si presenta il ritorno alle sfere di influenza dei più forti o meglio armati – che si sta praticando e teorizzando, in sede internazionale, con la guerra, l’intimidazione, la prevaricazione – e, in altri ambiti, di chi dispone di forza economica che supera la dimensione e le funzioni degli Stati.

Risalta la visione storica e la sagacia di Alcide De Gasperi con la scelta di libertà del Patto Atlantico compiuta dalla Repubblica nel 1949 e con il suo coraggioso apostolato europeo.

Venti anni fa, a Bologna, la 44^ Settimana si poneva il tema dei nuovi scenari e dei nuovi poteri di fronte ai quali la democrazia si trovava.

È necessario misurarsi con la storia, porsi di fronte allo stato di salute delle Istituzioni nazionali e sovranazionali e dell’organizzazione politica della società.

Nuovi steccati sono sempre in agguato a minare le basi della convivenza sociale: le basi della democrazia non sono né esclusivamente istituzionali né esclusivamente sociali, interagiscono fra loro.

Cosa ci aiuta? Dare risposte che vedono diritti politici e sociali dei cittadini e dei popoli concorrere insieme alla definizione di un futuro comune.

Vogliamo riprendere per un attimo l’Enciclica “Populorum progressio” di Paolo VI: “essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, salute, una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori di ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini, godere di una maggiore istruzione, in una parola fare conoscere e avere di più per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi – diceva -, mentre un gran numero di essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio questo legittimo desiderio”.

Vi è qualcuno che potrebbe rifiutarsi di sottoscrivere queste indicazioni?

Temo di sì, in realtà, anche se nessuno avrebbe il coraggio di farlo apertamente.

Anche per questo l’esercizio della democrazia, come si è visto, non si riduce a un semplice aspetto procedurale e non si consuma neppure soltanto con la irrinunziabile espressione del proprio voto nelle urne nelle occasioni elettorali. Presuppone lo sforzo di elaborare una visione del bene comune in cui sapientemente si intreccino – perché tra loro inscindibili – libertà individuali e aperture sociali, bene della libertà e bene dell’umanità condivisa. Né si tratta di una questione limitata ad ambiti statali.

Mons. Adriano Bernareggi, nelle sue conclusioni della Settimana Sociale del ’45, – l’abbiamo poc’anzi visto nelle immagini – argomentò, citando Jacques Maritain, che una nuova cristianità si affacciava in Europa.

L’unità da raggiungere nelle comunità civili moderne non aveva più un’unica “base spirituale”, bensì un bene comune terreno, che doveva fondarsi proprio sull’intangibile “dignità della persona umana”.

Questa la consapevolezza che è stata alla base di una stagione di pace così lunga – che speriamo continui – nel continente europeo.

Continuava l’allora Vescovo di Bergamo, “la democrazia non è soltanto governo di popolo, ma governo per il popolo”.

Affrontare il disagio, il deficit democratico che si rischia, deve partire da qui.

Dal fatto che, in termini ovviamente diversi, ogni volta si riparte dalla capacità di inverare il principio di eguaglianza, da cui trova origine una partecipazione consapevole.

Perché ciascuno sappia di essere protagonista della storia.

Don Lorenzo Milani esortava a “dare la parola”, perché “solo la lingua fa eguali”. A essere, cioè, alfabeti nella società.

La Repubblica ha saputo percorrere molta strada, ma il compito di far sì che tutti prendano parte alla vita della sua società e delle sue Istituzioni non si esaurisce mai.

Ogni generazione, ogni epoca, è attesa alla prova della “alfabetizzazione”, dell’inveramento della vita della democrazia.

Prova, oggi, più complessa che mai, nella società tecnologica contemporanea.

Ebbene, battersi affinché non vi possano essere più “analfabeti di democrazia” è causa primaria e nobile, che ci riguarda tutti. Non soltanto chi riveste responsabilità o eserciti potere.

Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme.

Vi auguro, mi auguro, che si sia numerosi a ritrovarsi in questo cammino.
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Papa Francesco: “Spera e agisci con il creato”

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img_7794“Spera e agisci con il creato”: è il tema della Giornata di preghiera per la cura del creato, il prossimo 1° settembre. È riferito alla Lettera di San Paolo ai Romani 8,19-25: l’Apostolo sta chiarendo cosa significhi vivere secondo lo Spirito e si concentra sulla speranza certa della salvezza per mezzo della fede, che è vita nuova in Cristo.

1. Partiamo allora da una domanda semplice, ma che potrebbe non avere una risposta ovvia: quando siamo davvero credenti, com’è che abbiamo fede? Non è tanto perché “noi crediamo” in qualcosa di trascendente che la nostra ragione non riesce a capire, il mistero irraggiungibile di un Dio distante e lontano, invisibile e innominabile. Piuttosto, direbbe San Paolo, è perché in noi abita lo Spirito Santo. Sì, siamo credenti perché l’Amore stesso di Dio è stato «riversato nei nostri cuori» ( Rm 5,5). Perciò lo Spirito è ora, realmente, «la caparra della nostra eredità» ( Ef 1,14), come pro-vocazione a vivere sempre protesi verso i beni eterni, secondo la pienezza dell’umanità bella e buona di Gesù. Lo Spirito rende i credenti creativi, pro-attivi nella carità. Li immette in un grande cammino di libertà spirituale, non esente tuttavia dalla lotta tra la logica del mondo e la logica dello Spirito, che hanno frutti tra loro contrapposti ( Gal 5,16-17). Lo sappiamo, il primo frutto dello Spirito, compendio di tutti gli altri , è l’amore. Condotti, dunque, dallo Spirito Santo, i credenti sono figli di Dio e possono rivolgersi a Lui chiamandolo «Abbà, Padre» ( Rm 8,15), proprio come Gesù, nella libertà di chi non ricade più nella paura della morte, perché Gesù è risorto dai morti. Ecco la grande speranza: l’amore di Dio ha vinto, vince sempre e ancora vincerà. Il destino di gloria è già sicuro, nonostante la prospettiva della morte fisica, per l’uomo nuovo che vive nello Spirito. Questa speranza non delude, come ricorda anche la Bolla di indizione del prossimo Giubileo. [1]

2. L’esistenza del cristiano è vita di fede, operosa nella carità e traboccante di speranza, nell’attesa del ritorno del Signore nella sua gloria. Non fa problema il “ritardo” della parusia, della sua seconda venuta. La questione è un’altra: «il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Sì, la fede è dono, frutto della presenza dello Spirito in noi, ma è anche compito, da eseguire in libertà, nell’obbedienza al comandamento dell’amore di Gesù. Ecco la beata speranza da testimoniare: dove? quando? come? Dentro i drammi della carne umana sofferente. Se pur si sogna, ora si deve sognare a occhi aperti, animati da visioni di amore, di fratellanza, di amicizia e di giustizia per tutti. La salvezza cristiana entra nello spessore del dolore del mondo, che non coglie solo gli umani, ma l’intero universo, la stessa natura, oikos dell’uomo, suo ambiente vitale; coglie la creazione come “paradiso terrestre”, la madre terra, che dovrebbe essere luogo di gioia e promessa di felicità per tutti. L’ottimismo cristiano si fonda su una speranza viva: sa che tutto tende alla gloria di Dio, alla consumazione finale nella sua pace, alla risurrezione corporea nella giustizia, “di gloria in gloria”. Nel tempo che passa, però, condividiamo dolore e sofferenza: la creazione intera geme (cfr Rm 8,19-22), i cristiani gemono (cfr vv. 23-25) e geme lo Spirito stesso (cfr vv. 26-27). Il gemere manifesta inquietudine e sofferenza, insieme ad anelito e desiderio. Il gemito esprime fiducia in Dio e affidamento alla sua compagnia affettuosa ed esigente, in vista della realizzazione del suo disegno, che è gioia, amore e pace nello Spirito Santo.

3. Tutta la creazione è coinvolta in questo processo di una nuova nascita e, gemendo, attende la liberazione: si tratta di una crescita nascosta che matura, quasi “granello di senape che diventa albero grande” o “lievito nella pasta” (cfr Mt 13,31-33). Gli inizi sono minuscoli, ma i risultati attesi possono essere di una bellezza infinita. In quanto attesa di una nascita – la rivelazione dei figli di Dio – la speranza è la possibilità di rimanere saldi in mezzo alle avversità, di non scoraggiarsi nel tempo delle tribolazioni o davanti alla barbarie umana. La speranza cristiana non delude, ma anche non illude: se il gemito della creazione, dei cristiani e dello Spirito è anticipazione e attesa della salvezza già in azione, ora siamo immersi in tante sofferenze che San Paolo descrive come “tribolazione, angoscia, persecuzione, fame, nudità, pericolo, spada” (cfr Rm 8,35). Allora la speranza è una lettura alternativa della storia e delle vicende umane: non illusoria, ma realista, del realismo della fede che vede l’invisibile. Questa speranza è l’attesa paziente, come il non-vedere di Abramo. Mi piace ricordare quel grande visionario credente che fu Gioacchino da Fiore, l’abate calabrese “di spirito profetico dotato”, secondo Dante Alighieri [2]: in un tempo di lotte sanguinose, di conflitti tra Papato e Impero, di Crociate, di eresie e di mondanizzazione della Chiesa, seppe indicare l’ideale di un nuovo spirito di convivenza tra gli uomini, improntata alla fraternità universale e alla pace cristiana, frutto di Vangelo vissuto. Questo spirito di amicizia sociale e di fratellanza universale ho proposto in Fratelli tutti. E questa armonia tra umani deve estendersi anche al creato, in un “antropocentrismo situato” (cfr Laudate Deum, 67), nella responsabilità per un’ecologia umana e integrale, via di salvezza della nostra casa comune e di noi che vi abitiamo.

4. Perché tanto male nel mondo? Perché tanta ingiustizia, tante guerre fratricide che fanno morire i bambini, distruggono le città, inquinano l’ambiente vitale dell’uomo, la madre terra, violentata e devastata? Riferendosi implicitamente al peccato di Adamo, San Paolo afferma: «Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi» (Rm 8,22). La lotta morale dei cristiani è connessa al “gemito” della creazione, perché essa «è stata sottoposta alla caducità» (v. 20). Tutto il cosmo ed ogni creatura gemono e anelano “impazientemente”, perché possa essere superata la condizione presente e ristabilita quella originaria: infatti la liberazione dell’uomo comporta anche quella di tutte le altre creature che, solidali con la condizione umana, sono state poste sotto il giogo della schiavitù. Come l’umanità, il creato – senza sua colpa – è schiavo, e si ritrova incapace di fare ciò per cui è progettato, cioè di avere un significato e uno scopo duraturi; è soggetto alla dissoluzione e alla morte, aggravate dagli abusi umani sulla natura. Ma, in senso contrario, la salvezza dell’uomo in Cristo è sicura speranza anche per il creato: infatti «anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Sicché, nella redenzione di Cristo è possibile contemplare in speranza il legame di solidarietà tra gli esseri uomini e tutte le altre creature.

5. Nell’attesa speranzosa e perseverante del ritorno glorioso di Gesù, lo Spirito Santo tiene vigile la comunità credente e la istruisce continuamente, la chiama a conversione negli stili di vita, per resistere al degrado umano dell’ambiente e manifestare quella critica sociale che è anzitutto testimonianza della possibilità di cambiare. Questa conversione consiste nel passare dall’arroganza di chi vuole dominare sugli altri e sulla natura – ridotta a oggetto da manipolare –, all’umiltà di chi si prende cura degli altri e del creato. «Un essere umano che pretende di sostituirsi a Dio diventa il peggior pericolo per sé stesso» (Laudate Deum, 73), perché il peccato di Adamo ha distrutto le relazioni fondamentali di cui l’uomo vive: quella con Dio, con sé stesso e gli altri esseri umani e quella con il cosmo. Tutte queste relazioni devono essere, sinergicamente, ristabilite, salvate, “rese giuste”. Nessuna può mancare. Se ne manca una, tutto fallisce.

6. Sperare e agire con il creato significa anzitutto unire le forze e, camminando insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, contribuire a «ripensare alla questione del potere umano, al suo significato e ai suoi limiti.Il nostro potere, infatti, è aumentato freneticamente in pochi decenni. Abbiamo compiuto progressi tecnologici impressionanti e sorprendenti, e non ci rendiamo conto che allo stesso tempo siamo diventati altamente pericolosi, capaci di mettere a repentaglio la vita di molti esseri e la nostra stessa sopravvivenza» (Laudate Deum, 28). Un potere incontrollato genera mostri e si ritorce contro noi stessi. Perciò oggi è urgente porre limiti etici allo sviluppo dell’Intelligenza artificiale, che con la sua capacità di calcolo e di simulazione potrebbe essere utilizzata per il dominio sull’uomo e sulla natura, piuttosto che messa servizio della pace e dello sviluppo integrale (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2024).

7. «Lo Spirito Santo ci accompagna nella vita»: l’hanno capito bene i bambini e le bambine riuniti in Piazza San Pietro per la loro prima Giornata Mondiale, che ha coinciso con la domenica della Santissima Trinità. Dio non è un’idea astratta di infinito, ma è Padre amorevole, Figlio amico e redentore di ogni uomo e Spirito Santo che guida i nostri passi sulla via della carità. L’obbedienza allo Spirito d’amore cambia radicalmente l’atteggiamento dell’uomo: da “predatore” a “coltivatore” del giardino. La terra è affidata all’uomo, ma resta di Dio (cfr Lv 25,23). Questo è l’antropocentrismo teologale della tradizione ebraico-cristiana. Pertanto, pretendere di possedere e dominare la natura, manipolandola a proprio piacimento, è una forma di idolatria. È l’uomo prometeico, ubriaco del proprio potere tecnocratico che con arroganza mette la terra in una condizione “dis-graziata”, cioè priva della grazia di Dio. Ora, se la grazia di Dio è Gesù, morto e risorto, è vero quanto ha affermato Benedetto XVI: «Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore» (Lett. enc. Spe salvi, 26), l’amore di Dio in Cristo, da cui niente e nessuno potrà mai separarci (cfr Rm 8,38-39).Continuamente attratta dal suo futuro, la creazione non è statica o chiusa in sé stessa. Oggi, anche grazie alle scoperte della fisica contemporanea, il legame tra materia e spirito si presenta in maniera sempre più affascinante alla nostra conoscenza.

8. La salvaguardia del creato è dunque una questione, oltre che etica, eminentemente teologica: riguarda, infatti, l’intreccio tra il mistero dell’uomo e quello di Dio. Questo intreccio si può dire “generativo”, in quanto risale all’atto d’amore con cui Dio crea l’essere umano in Cristo. Questo atto creatore di Dio dona e fonda l’agire libero dell’uomo e tutta la sua eticità: libero proprio nel suo essere creato nell’immagine di Dio che è Gesù Cristo, e per questo “rappresentante” della creazione in Cristo stesso. C’è una motivazione trascendente (teologico-etica) che impegna il cristiano a promuovere la giustizia e la pace nel mondo, anche attraversola destinazione universale dei beni: si tratta della rivelazione dei figli di Dio che il creato attende, gemendo come nelle doglie di un parto. In gioco non c’è solo la vita terrena dell’uomo in questa storia, c’è soprattutto il suo destino nell’eternità, l’eschaton della nostra beatitudine, il Paradiso della nostra pace, in Cristo Signore del cosmo, il Crocifisso-Risorto per amore.

9.Sperare e agire con il creato significa allora vivere una fede incarnata, che sa entrare nella carne sofferente e speranzosa della gente, condividendo l’attesa della risurrezione corporea a cui i credenti sono predestinati in Cristo Signore. In Gesù, il Figlio eterno nella carne umana, siamo realmente figli del Padre. Mediante la fede e il battesimo inizia per il credente la vita secondo lo Spirito (cfr Rm 8,2), una vita santa, un’esistenza da figli del Padre, come Gesù (cfr Rm 8,14-17), poiché, per la potenza dello Spirito Santo, Cristo vive in noi (cfr Gal 2,20). Una vita che diventa canto d’amore per Dio, per l’umanità, con e per il creato, e che trova la sua pienezza nella santità. [3]

Roma, San Giovanni in Laterano, 27 giugno 2024

FRANCESCO

[1] Spes non confundit, Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025 (9 maggio 2024).
[2] Divina Commedia, Paradiso, XII, 141.

[3] Lo ha espresso poeticamente il sacerdote rosminiano Clemente Rebora: «Mentre il creato ascende in Cristo al Padre, / nell’arcana sorte / tutto è doglia del parto: / quanto morir perché la vita nasca! / pur da una Madre sola, che è divina, / alla luce si vien felicemente: / vita che l’amore produce in pianto, / e, se anela, quaggiù è poesia; / ma santità soltanto compie il canto» ( Curriculum vitae, “Poesia e santità”: Poesie, prose e traduzioni, Milano 2015, p. 297).

Ricordando padre Agostino Pirri, frate francescano OFM

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Per Agostino
di Franco Meloni

Ci saranno anche due commendatori al merito della Repubblica italiana, padre Salvatore Morittu e don Ettore Cannavera, a omaggiare padre Agostino Pirri, frate francescano minore, sacerdote – morto un anno fa a 93 anni – in un “evento laico”, venerdì 28 giugno alle 17,30, alla Fondazione di Sardegna, organizzato dagli Amici di padre Agostino in collaborazione con la Comunità La Collina. Se lo merita, eccome Agostino! Nonostante non amasse troppo le cerimonie, perché solo l’umiltà si addice ai frati e lui di maestosità riconosceva solo img_7742quella delle montagne, ovunque situate e la magnificenza delle città d’arte; in entrambi i luoghi, a costo di sacrifici personali, trascinava i suoi giovani e perfino i suoi confratelli.
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img_7745 Però, prima di tutto e tutti lui amava i suoi allievi, sempre giovani a prescindere dall’età. Sì perché Agostino, come don Milani, li amava, forse più di quanto amasse Dio (e Francesco d’Assisi). Ma Dio, come sosteneva don Lorenzo, non tiene questa contabilità perché sta scritto “tutto quello che avete fatto al vostro prossimo lo avete fatto a me”. E frate Agostino di bene ai fratelli e sorelle che ha incontrato nella sua lunga vita terrena ne ha sparso a piene mani. Tanto è che tutti lo ricordano con gratitudine e affetto, e un gruppo di suoi allievi del Movimento Studenti, del tempo a cavallo degli 60-70, lo ha fedelmente seguito, sempre, seppure con diversa gradazione di intensità:
– massima in quegli anni d’oro della giovinezza, quando la bellezza del crescere insieme si unisce alla solidarietà per i più poveri;
- ridotta, più tardi, quando i legami si allentano e gli anni con i suoi giovani diventati adulti, diventano soprattutto un bel ricordo, con sporadici incontri, magari per celebrare qualche matrimonio o, purtroppo, funerali;
- forte, bella e carica d’affetto, negli anni della sua anzianità e poi vecchiaia.
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Ed è proprio quest’ultimo tempo, non breve (oltre vent’anni ) che vogliamo qui ricordare: lo cercammo e ritrovammo nei Conventi francescani del nord Sardegna (Sassari, Bonorva, Fonni) e finalmente riallacciamo forti rapporti quando ci fu riportato a Cagliari nel img_7735Convento di Santa Rosalia-Santuario di San Salvatore da Horta. Da allora i pomeriggi di quasi ogni mercoledì quando si leggeva insieme un brano del Vangelo che lui commentava con poche sagge parole e poi: “raccontatemi di voi, della vostra vita, delle vostre famiglie, di cose tristi o divertenti… e, vi raccomando, state più vicini al Signore. Ora facciamo una preghiera, vi do la benedizione e andate via… perché ho altri impegni, o… perché voglio vedermi in santa pace una partita di calcio in Tv”. Con nostalgia ricordiamo i festeggiamenti per i compleanni, nei conventi di Santa Rosalia o, img_7739negli ultimi anni, di Sant’Antonio a Quartu. E, ancora, le “andate ad Assisi”:
nel 2014, img_7736 con la storica messa alla Porziuncola, in Santa Maria degli Angeli, dove è nato l’Ordine francescano; nel 2015, con la visita a La Verna, in cui img_7737Francesco ricevette le stimmate e Agostino benché con difficoltà di deambulazione, incurante del pericolo scese, in solitaria, allo img_7741Spicco, luogo assai impervio, per pregare laddove lo faceva Francesco, lui sfuggendo alle attenzioni dei confratelli e Agostino alle nostre. E’ evidente img_7740 come fosse sorretto dallo Spirito! Quanti altri ricordi, in tutti i luoghi dove visse San Francesco: img_7755 San Damiano, Santa Chiara, l’eremo delle carceri… fino img_7738all’ultima trasferta senza spostarci dalla terra sarda, a San Pietro di Sorres.
E così per altro tempo benedetto, fino agli ultimi anni della sua vita, allorché le gambe non lo reggevano più e tuttavia continuava a riceverci in quel di Quartu, in sedia a rotelle.
img_7748Come stai Agostino? Era la prima domanda che ti facevamo. E tu: “Bbene!”. Si, marcando quella B iniziale. “Ah, se non fosse per queste gambe che non mi reggono…”.
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Il 14 maggio dello scorso anno i confratelli ci avvisarono che era stato ricoverato all’ospedale Binaghi per Covid, ma che non era questo male a preoccupare i medici, quanto il fatto che il Covid aveva scatenato tutte le vecchie patologie fino ad allora in progressivo ma lento decorso. Alcuni di noi amici andammo a trovarlo: il Covid era stato domato ma non il resto e aveva inesorabilmente perso conoscenza. Dopo pochi giorni veniva riportato in Convento, come aveva chiesto quand’era lucido, e li serenamente morire il 21 giugno 2023.
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Caro Agostino,
nostro padre Agostino, ti credevamo eterno, anche per la tua missione spirituale così sempre vicina a Nostro Signore. Ma le nostre preghiere e, più sinceramente, il nostro egoismo non sono serviti a trattenerti ancora tra noi, dopo 93 anni di vita in parte preponderante come frate dell’ordine francescano dei minori, in missione permanente. Sei andato in pace con un sorriso, quello che ci accoglieva sempre, anche in questi ultimi anni nel Convento di Sant’Antonio, a Quartu Sant’Elena. Agostino sei stato sempre nel nostro cuore e scusaci se continuando sempre ad amarti, non abbiamo seguito tutti i tuoi consigli. Per colpa nostra, ti dicevo scherzando, non ti hanno fatto Vescovo. Si, perché la Santa Sede che fa i Vescovi aveva così ragionato: “Ma questo Agostino, frate benedetto, quanti seguaci “buoni cristiani” ha formato e quanti infedeli ha convertito? Molti, forse moltissimi, ma pochi, pochissimi, rispetto alle aspettative”. Ma ha formato tanti buon cittadini, rispettosi del bene comune! “Non basta. E poi ha allevato perfino qualche comunista e non tutti i suoi giovani sono rimasti credenti: resti frate minore, semplicemente padre!”. Sospettiamo che il Vaticano abbia indagato anche sulle nostre storie, campeggi e messe comunitarie… E così niente promozioni! Agostino ridiamo insieme, come sempre hai fatto, del resto delle cariche e dell’esteriorità non ti importava un fico secco! E così, severo con te stesso e, seppure non docile di carattere, ma sempre disponibile e immancabilmente sorridente ti pensiamo, ti vediamo, ancora, dacché che sei nella casa del Padre. Piangiamo di nascosto. Ciao Agostino. Sei e sarai una presenza importante tra tutte e tutti noi!

(Franco Meloni)
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Spes contra Spem

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Ringraziamo il nostro amico direttore di Rocca Mariano Borgognoni per l’autorizzazione a pubblicare il suo Editoriale, che condividiamo in toto, sul quindicinale del primo luglio.
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Morti e feriti sul lavoro e di lavoro: non è cambiato niente

PRESIDIO DAVANTI AL COMUNE PER LE VITTIME DELL'ESPLOSIONE ALLA EURECOUna lettera di Gianni Loy, già ordinario di Diritto del lavoro dell’Università di Cagliari.

Carissimi,
non ho il tempo per riscrivere un altro articolo sulle morti sul lavoro. Anche a cambiare il nome del morto, le considerazioni sarebbero le stesse. Non ho il tempo – anche se lo potrei recuperare – ma soprattutto non ne ho la voglia e, ahimè, la forza.
Quest’articolo, l’avevo inviato ad un quotidiano il mese scorso, dopo la morte, tragica, dei 5 di Palermo. Non è stato pubblicato, né ho ricevuto una risposta di cortesia. E’ per la delusione che non ve l’ho neppure inviato.
Il rituale è sempre lo stesso: ogni tanto riempiono le prime pagine per la morte brutale di una vittima dello sfruttamento, poi, nei giorni successivi, si giustificano le “piccole evasioni” che, se punite, metterebbero in ginocchio l’imprenditore inadempiente e metterebbero a rischio posti di lavoro!
Vi invio il vecchio articolo, senza modificare il nome dell’ucciso di stavolta. Cambierebbe poco. Ma se volete saperlo, anche quest’ultima storia era già stata scritta, sin quasi ai dettagli, in un cortometraggio di Peter Marcias. Era intitolato – è intitolato – : “Benvenuto Khalid”. L’unica differenza rispetto alla storia di oggi, è che il cadavere del lavoratore in nero, morto nel lavoro, era stata gettato sotto il ponte del Scaffa, anziché dinanzi alla casa. Il cortometraggio è di 15 anni fa. È cambiata qualcosa?
Buona giornata.

Le leggi ci sono
di Gianni Loy

Piangiamo altri morti sul lavoro, altri 5, a Palermo. Ci fermiamo a riflettere, come è giusto che sia, di fronte al dramma, senza rimedio, della morte.
Un dramma, quello della vita spezzata di altri lavoratori, che riporta alla luce una ben conosciuta tragedia quotidiana, quello dello sfruttamento, della disperazione, spesso del lavoro nero. Per poco, perché dopo il cordoglio delle autorità, una volta spenti i riflettori, sfogati la rabbia ed il dolore, la macina riprenderà a girare come se niente fosse accaduto. Come tante altre volte, dopo i tanti altri funerali che hanno accompagnato al camposanto i corpi di lavoratori e lavoratrici schiacciati dalla violazione delle leggi del lavoro, dal mancato rispetto delle misure di protezione contro i rischi. Piangiamo, anche se siamo tutti complici, in un certo senso, perché con i nostri comportamenti contribuiamo, o non ci opponiamo, alle quotidiane evasioni, o elusioni – ma che differenza fa? – di queste norme.
Probabilmente, come spesso avviene in simili occasioni, si leverà, ancora una volta, il coro di chi invoca l’inasprimento delle pene.
Ma Raffaele Guariniello, un ex magistrato, simbolo storico dell’impegno per il rispetto delle leggi sulla sicurezza nel lavoro, ha subito messo in chiaro che “le leggi ci sono”. Semplicemente in pochi si curano di farle applicare. Lo ha ricordato ieri, ma lo predicava anche 30 anni fa. Non di rado, gli ispettori del lavoro – in numero gravemente insufficiente al bisogno – sono persino umiliati, ed esposti al pubblico ludibrio, perché nello svolgere il loro compito sarebbero colpevoli di ostacolare il “regolare” funzionamento di un’economia che pretende di camminare a briglia sciolta, con il solo obiettivo di onorare il suo solo Dio: il profitto.
Anche per questo milioni di giovani e meno giovani, donne, immigrati, dovranno continuare a guadagnarsi un tozzo di pane, a pochi euri l’ora, mettendo in conto di dover esporre a repentaglio la propria sicurezza.
Storia vecchia, quasi antica. Prima ancora che ce lo ripetesse Guariniello, lo aveva urlato a gran voce un prete, don Milani, oltre mezzo secolo fa, dopo aver assistito ai funerali di altri ragazzi, Maria, Matilde, Giovanna, Antonella, Tina, che più non ricordiamo chi fossero, erano ragazzi.
“Si, le leggi ci sono. – denunciava il priore di Barbiana – La società ci ha pensato. Eppure queste quattro leggi (sulla protezione della salute nei luoghi di lavoro) e molte altre sono violate ogni giorno, in 1200 stanzoni e 4500 telai, sotto gli occhi dei tutori dell’ordine. E non c’è neanche da dire che il telaio sia una macchina che si possa nascondere. Si sente di lontano. Pare impossibile che i tutori dell’ordine non sentano quel canto disperato delle macchine che chiamano, che urlano, che accusano”.
A oltre mezzo secolo da quella verità scomoda, pare davvero impossibile che quel fenomeno non sia stato neppure scalfito, che tutto si sia modificato senza che niente, o quasi, sia cambiato.
Oggi piangiamo. Da domani, si continuerà a parlare dell’eccessiva rigidità della norme, a chiedere tolleranza.
Chi continuerà a parlare del valore del lavoro rimarrà voce clamante, forse emarginato dai luoghi sacri del sapere, perché il Diritto del lavoro, se si continua di questo passo, finirà per ritornare ad essere una dottrina sovversiva. Proprio come già accaduto – anche questo tanti anni fa – ad un altro curato di campagna, Georges Bernanos, che per aver osato proclamare dal pulpito la semplice idea, “secondo la quale il lavoro non è una merce, sottomessa alla legge della domanda e dell’offerta, che non si può speculare sui salari, sulla vita degli uomini, come sul grano lo zucchero o il caffè – come lui stesso racconta – mi hanno fatto passare per un socialista e i benpensanti mi hanno fatto cadere in disgrazia a Montreuil”.
Amen e così sia!
Gianni Loy
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img_7678Su Avvenire

Il bracciante Satnam è morto di disumanità
Poteva essere salvato, Satnam Singh? Se fosse stato portato subito all’ospedale e non invece caricato su un furgone e abbandonato davanti alla sua baracca, forse oggi potrebbe essere ancora accanto a sua moglie. Mutilato, senza un braccio, ma vivo.
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Su Avvenire
Caporalato. Nei campi dell’Agro Pontino c’è un esercito di lavoratori fantasma
Antonio Maria Mira giovedì 20 giugno 2024
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Tutto questo lo dovranno accertare le indagini, ma resta un fatto: il modo in cui è morto il bracciante indiano impiegato in nero nell’Agro Pontino è davvero quanto di più disumano si possa immaginare. La politica si indigna e si interroga, la Chiesa chiede dignità per gli immigrati, i sindacati proclamano uno sciopero… Ma secondo un esperto interpellato dal nostro Antonio Maria Mira, nella provincia di Latina, dove vivono circa 30mila immigrati asiatici, i morti di lavoro sono almeno 15 ogni anno. Anche noi consumatori qualche domanda ce la dobbiamo porre: quando acquistiamo pomodori o bottiglie di conserva a prezzi bassissimi, ci chiediamo quale sofferenza e sfruttamento potrebbero nascondersi dietro quella “convenienza”? Su Avvenire del 22/6/2024 la riflessione di Pietro Saccò
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Rocca 13/2024 e’ online
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Intelligenza artificiale

img_7616Papa Francesco al G7, il testo integrale del discorso
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[Da Vatican News] Pubblichiamo integralmente l’intervento del Pontefice oggi, 14 giugno 2024, alla sessione comune del vertice che si svolge a Borgo Egnazia, in Puglia, sul tema della intelligenza artificiale

Uno strumento affascinante e tremendo

Gentili Signore, illustri Signori!
Mi rivolgo oggi a Voi, Leader del Forum Intergovernativo del G7, con una riflessione sugli effetti dell’intelligenza artificiale sul futuro dell’umanità.
«La Sacra Scrittura attesta che Dio ha donato agli uomini il suo Spirito affinché abbiano “saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro” (Es 35,31)» [1]. La scienza e la tecnologia sono dunque prodotti straordinari del potenziale creativo di noi esseri umani [2].
Ebbene, è proprio dall’utilizzo di questo potenziale creativo che Dio ci ha donato che viene alla luce l’intelligenza artificiale.
Quest’ultima, come è noto, è uno strumento estremamente potente, impiegato in tantissime aree dell’agire umano: dalla medicina al mondo del lavoro, dalla cultura all’ambito della comunicazione, dall’educazione alla politica. Ed è ora lecito ipotizzare che il suo uso influenzerà sempre di più il nostro modo di vivere, le nostre relazioni sociali e nel futuro persino la maniera in cui concepiamo la nostra identità di esseri umani [3].
Il tema dell’intelligenza artificiale è, tuttavia, spesso percepito come ambivalente: da un lato, entusiasma per le possibilità che offre, dall’altro genera timore per le conseguenze che lascia presagire. A questo proposito si può dire che tutti noi siamo, anche se in misura diversa, attraversati da due emozioni: siamo entusiasti, quando immaginiamo i progressi che dall’intelligenza artificiale possono derivare, ma, al tempo stesso, siamo impauriti quando constatiamo i pericoli inerenti al suo uso [4].
Non possiamo, del resto, dubitare che l’avvento dell’intelligenza artificiale rappresenti una vera e propria rivoluzione cognitivo-industriale, che contribuirà alla creazione di un nuovo sistema sociale caratterizzato da complesse trasformazioni epocali. Ad esempio, l’intelligenza artificiale potrebbe permettere una democratizzazione dell’accesso al sapere, il progresso esponenziale della ricerca scientifica, la possibilità di delegare alle macchine i lavori usuranti; ma, al tempo stesso, essa potrebbe portare con sé una più grande ingiustizia fra nazioni avanzate e nazioni in via di sviluppo, fra ceti sociali dominanti e ceti sociali oppressi, mettendo così in pericolo la possibilità di una “cultura dell’incontro” a vantaggio di una “cultura dello scarto”.
La portata di queste complesse trasformazioni è ovviamente legata al rapido sviluppo tecnologico dell’intelligenza artificiale stessa.
Proprio questo vigoroso avanzamento tecnologico rende l’intelligenza artificiale uno strumento affascinante e tremendo al tempo stesso ed impone una riflessione all’altezza della situazione.
In tale direzione forse si potrebbe partire dalla costatazione che l’intelligenza artificiale è innanzitutto uno strumento. E viene spontaneo affermare che i benefici o i danni che essa porterà dipenderanno dal suo impiego.
Questo è sicuramente vero, poiché così è stato per ogni utensile costruito dall’essere umano sin dalla notte dei tempi.
Questa nostra capacità di costruire utensili, in una quantità e complessità che non ha pari tra i viventi, fa parlare di una condizione tecno-umana: l’essere umano ha da sempre mantenuto una relazione con l’ambiente mediata dagli strumenti che via via produceva. Non è possibile separare la storia dell’uomo e della civilizzazione dalla storia di tali strumenti. Qualcuno ha voluto leggere in tutto ciò una sorta di mancanza, un deficit, dell’essere umano, come se, a causa di tale carenza, fosse costretto a dare vita alla tecnologia [5]. Uno sguardo attento e oggettivo in realtà ci mostra l’opposto. Viviamo una condizione di ulteriorità rispetto al nostro essere biologico; siamo esseri sbilanciati verso il fuori-di-noi, anzi radicalmente aperti all’oltre. Da qui prende origine la nostra apertura agli altri e a Dio; da qui nasce il potenziale creativo della nostra intelligenza in termini di cultura e di bellezza; da qui, da ultimo, si origina la nostra capacità tecnica. La tecnologia è così una traccia di questa nostra ulteriorità.
Tuttavia, l’uso dei nostri utensili non sempre è univocamente rivolto al bene. Anche se l’essere umano sente dentro di sé una vocazione all’oltre e alla conoscenza vissuta come strumento di bene al servizio dei fratelli e delle sorelle e della casa comune (cfr Gaudium et spes, 16), non sempre questo accade. Anzi, non di rado, proprio grazie alla sua radicale libertà, l’umanità ha pervertito i fini del suo essere trasformandosi in nemica di sé stessa e del pianeta [6]. Stessa sorte possono avere gli strumenti tecnologici. Solo se sarà garantita la loro vocazione al servizio dell’umano, gli strumenti tecnologici riveleranno non solo la grandezza e la dignità unica dell’essere umano, ma anche il mandato che quest’ultimo ha ricevuto di “coltivare e custodire” (cfr Gen 2,15) il pianeta e tutti i suoi abitanti. Parlare di tecnologia è parlare di cosa significhi essere umani e quindi di quella nostra unica condizione tra libertà e responsabilità, cioè vuol dire parlare di etica.
Quando i nostri antenati, infatti, affilarono delle pietre di selce per costruire dei coltelli, li usarono sia per tagliare il pellame per i vestiti sia per uccidersi gli uni gli altri. Lo stesso si potrebbe dire di altre tecnologie molto più avanzate, quali l’energia prodotta dalla fusione degli atomi come avviene sul Sole, che potrebbe essere utilizzata certamente per produrre energia pulita e rinnovabile ma anche per ridurre il nostro pianeta in un cumulo di cenere.
L’intelligenza artificiale, però, è uno strumento ancora più complesso. Direi quasi che si tratta di uno strumento sui generis. Così, mentre l’uso di un utensile semplice (come il coltello) è sotto il controllo dell’essere umano che lo utilizza e solo da quest’ultimo dipende un suo buon uso, l’intelligenza artificiale, invece, può adattarsi autonomamente al compito che le viene assegnato e, se progettata con questa modalità, operare scelte indipendenti dall’essere umano per raggiungere l’obiettivo prefissato [7].
Conviene sempre ricordare che la macchina può, in alcune forme e con questi nuovi mezzi, produrre delle scelte algoritmiche. Ciò che la macchina fa è una scelta tecnica tra più possibilità e si basa o su criteri ben definiti o su inferenze statistiche. L’essere umano, invece, non solo sceglie, ma in cuor suo è capace di decidere. La decisione è un elemento che potremmo definire maggiormente strategico di una scelta e richiede una valutazione pratica. A volte, spesso nel difficile compito del governare, siamo chiamati a decidere con conseguenze anche su molte persone. Da sempre la riflessione umana parla a tale proposito di saggezza, la phronesis della filosofia greca e almeno in parte la sapienza della Sacra Scrittura. Di fronte ai prodigi delle macchine, che sembrano saper scegliere in maniera indipendente, dobbiamo aver ben chiaro che all’essere umano deve sempre rimanere la decisione, anche con i toni drammatici e urgenti con cui a volte questa si presenta nella nostra vita. Condanneremmo l’umanità a un futuro senza speranza, se sottraessimo alle persone la capacità di decidere su loro stesse e sulla loro vita condannandole a dipendere dalle scelte delle macchine. Abbiamo bisogno di garantire e tutelare uno spazio di controllo significativo dell’essere umano sul processo di scelta dei programmi di intelligenza artificiale: ne va della stessa dignità umana.
Proprio su questo tema permettetemi di insistere: in un dramma come quello dei conflitti armati è urgente ripensare lo sviluppo e l’utilizzo di dispositivi come le cosiddette “armi letali autonome” per bandirne l’uso, cominciando già da un impegno fattivo e concreto per introdurre un sempre maggiore e significativo controllo umano. Nessuna macchina dovrebbe mai scegliere se togliere la vita ad un essere umano.
C’è da aggiungere, inoltre, che il buon uso, almeno delle forme avanzate di intelligenza artificiale, non sarà pienamente sotto il controllo né degli utilizzatori né dei programmatori che ne hanno definito gli scopi originari al momento dell’ideazione. E questo è tanto più vero quanto è altamente probabile che, in un futuro non lontano, i programmi di intelligenze artificiali potranno comunicare direttamente gli uni con gli altri, per migliorare le loro performance. E, se in passato, gli esseri umani che hanno modellato utensili semplici hanno visto la loro esistenza modellata da questi ultimi – il coltello ha permesso loro di sopravvivere al freddo ma anche di sviluppare l’arte della guerra – adesso che gli esseri umani hanno modellato uno strumento complesso vedranno quest’ultimo modellare ancora di più la loro esistenza [8].
Il meccanismo basilare dell’intelligenza artificiale
Vorrei ora soffermarmi brevemente sulla complessità dell’intelligenza artificiale. Nella sua essenza l’intelligenza artificiale è un utensile disegnato per la risoluzione di un problema e funziona per mezzo di un concatenamento logico di operazioni algebriche, effettuato su categorie di dati, che sono raffrontati per scoprire delle correlazioni, migliorandone il valore statistico, grazie a un processo di auto-apprendimento, basato sulla ricerca di ulteriori dati e sull’auto-modifica delle sue procedure di calcolo.
L’intelligenza artificiale è così disegnata per risolvere dei problemi specifici, ma per coloro che la utilizzano è spesso irresistibile la tentazione di trarre, a partire dalle soluzioni puntuali che essa propone, delle deduzioni generali, persino di ordine antropologico.
Un buon esempio è l’uso dei programmi disegnati per aiutare i magistrati nelle decisioni relative alla concessione dei domiciliari a detenuti che stanno scontando una pena in un istituto carcerario. In questo caso, si chiede all’intelligenza artificiale di prevedere la probabilità di recidiva del crimine commesso da parte di un condannato a partire da categorie prefissate (tipo di reato, comportamento in prigione, valutazione psicologiche ed altro), permettendo all’intelligenza artificiale di avere accesso a categorie di dati inerenti alla vita privata del detenuto (origine etnica, livello educativo, linea di credito ed altro). L’uso di una tale metodologia – che rischia a volte di delegare de facto a una macchina l’ultima parola sul destino di una persona – può portare con sé implicitamente il riferimento ai pregiudizi insiti alle categorie di dati utilizzati dall’intelligenza artificiale.
L’essere classificato in un certo gruppo etnico o, più prosaicamente, l’aver commesso anni prima un’infrazione minore (il non avere pagato, per esempio, una multa per una sosta vietata), influenzerà, infatti, la decisione circa la concessione dei domiciliari. Al contrario, l’essere umano è sempre in evoluzione ed è capace di sorprendere con le sue azioni, cosa di cui la macchina non può tenere conto.
C’è da far presente poi che applicazioni simili a questa appena citata subiranno un’accelerazione grazie al fatto che i programmi di intelligenza artificiale saranno sempre più dotati della capacità di interagire direttamente con gli esseri umani (chatbots), sostenendo conversazioni con loro e stabilendo rapporti di vicinanza con loro, spesso molto piacevoli e rassicuranti, in quanto tali programmi di intelligenza artificiale saranno disegnati per imparare a rispondere, in forma personalizzata, ai bisogni fisici e psicologici degli esseri umani.
Dimenticare che l’intelligenza artificiale non è un altro essere umano e che essa non può proporre principi generali, è spesso un grave errore che trae origine o dalla profonda necessità degli esseri umani di trovare una forma stabile di compagnia o da un loro presupposto subcosciente, ossia dal presupposto che le osservazioni ottenute mediante un meccanismo di calcolo siano dotate delle qualità di certezza indiscutibile e di universalità indubbia.
Questo presupposto, tuttavia, è azzardato, come dimostra l’esame dei limiti intrinseci del calcolo stesso. L’intelligenza artificiale usa delle operazioni algebriche da effettuarsi secondo una sequenza logica (per esempio, se il valore di X è superiore a quello di Y, moltiplica X per Y; altrimenti dividi X per Y). Questo metodo di calcolo – il cosiddetto “algoritmo” – non è dotato né di oggettività né di neutralità [9]. Essendo infatti basato sull’algebra, può esaminare solo realtà formalizzate in termini numerici [10].
Non va dimenticato, inoltre, che gli algoritmi disegnati per risolvere problemi molto complessi sono così sofisticati da rendere arduo agli stessi programmatori la comprensione esatta del come essi riescano a raggiungere i loro risultati. Questa tendenza alla sofisticazione rischia di accelerarsi notevolmente con l’introduzione di computer quantistici che non opereranno con circuiti binari (semiconduttori o microchip), ma secondo le leggi, alquanto articolate, della fisica quantistica. D’altronde, la continua introduzione di microchip sempre più performanti è diventata già una delle cause del predominio dell’uso dell’intelligenza artificiale da parte delle poche nazioni che ne sono dotate.
Sofisticate o meno che siano, la qualità delle risposte che i programmi di intelligenza artificiale forniscono dipendono in ultima istanza dai dati che essi usano e come da questi ultimi vengono strutturati.
Mi permetto di segnalare, infine, un ultimo ambito in cui emerge chiaramente la complessità del meccanismo della cosiddetta intelligenza artificiale generativa (Generative Artificial Intelligence). Nessuno dubita che oggi sono a disposizione magnifici strumenti di accesso alla conoscenza che permettono persino il self-learning e il self-tutoring in una miriade di campi. Molti di noi sono rimasti colpiti dalle applicazioni facilmente disponibili on-line per comporre un testo o produrre un’immagine su qualsiasi tema o soggetto. Particolarmente attratti da questa prospettiva sono gli studenti che, quando devono preparare degli elaborati, ne fanno un uso sproporzionato.
Questi alunni, che spesso sono molto più preparati e abituati all’uso dell’intelligenza artificiale dei loro professori, dimenticano, tuttavia, che la cosiddetta intelligenza artificiale generativa, in senso stretto, non è propriamente “generativa”. Quest’ultima, in verità, cerca nei big data delle informazioni e le confeziona nello stile che le è stato richiesto. Non sviluppa concetti o analisi nuove. Ripete quelle che trova, dando loro una forma accattivante. E più trova ripetuta una nozione o una ipotesi, più la considera legittima e valida. Più che “generativa”, essa è quindi “rafforzativa”, nel senso che riordina i contenuti esistenti, contribuendo a consolidarli, spesso senza controllare se contengano errori o preconcetti.
In questo modo, non solo si corre il rischio di legittimare delle fake news e di irrobustire il vantaggio di una cultura dominante, ma di minare altresì il processo educativo in nuce. L’educazione che dovrebbe fornire agli studenti la possibilità di una riflessione autentica rischia di ridursi a una ripetizione di nozioni, che verranno sempre di più valutate come inoppugnabili, semplicemente in ragione della loro continua riproposizione [11].
Rimettere al centro la dignità della persona in vista di una proposta etica condivisa
A quanto già detto va ora aggiunta un’osservazione più generale. La stagione di innovazione tecnologica che stiamo attraversando, infatti, si accompagna a una particolare e inedita congiuntura sociale: sui grandi temi del vivere sociale si riesce con sempre minore facilità a trovare intese. Anche in comunità caratterizzate da una certa continuità culturale, si creano spesso accesi dibattiti e confronti che rendono difficile produrre riflessioni e soluzioni politiche condivise, volte a cercare ciò che è bene e giusto. Oltre la complessità di legittime visioni che caratterizzano la famiglia umana, emerge un fattore che sembra accomunare queste diverse istanze. Si registra come uno smarrimento o quantomeno un’eclissi del senso dell’umano e un’apparente insignificanza del concetto di dignità umana [12]. Sembra che si stia perdendo il valore e il profondo significato di una delle categorie fondamentali dell’Occidente: la categoria di persona umana. Ed è così che in questa stagione in cui i programmi di intelligenza artificiale interrogano l’essere umano e il suo agire, proprio la debolezza dell’ethos connesso alla percezione del valore e della dignità della persona umana rischia di essere il più grande vulnus nell’implementazione e nello sviluppo di questi sistemi. Non dobbiamo dimenticare infatti che nessuna innovazione è neutrale. La tecnologia nasce per uno scopo e, nel suo impatto con la società umana, rappresenta sempre una forma di ordine nelle relazioni sociali e una disposizione di potere, che abilita qualcuno a compiere azioni e impedisce ad altri di compierne altre. Questa costitutiva dimensione di potere della tecnologia include sempre, in una maniera più o meno esplicita, la visione del mondo di chi l’ha realizzata e sviluppata.
Questo vale anche per i programmi di intelligenza artificiale. Affinché questi ultimi siano strumenti per la costruzione del bene e di un domani migliore, debbono essere sempre ordinati al bene di ogni essere umano. Devono avere un’ispirazione etica.
La decisione etica, infatti, è quella che tiene conto non solo degli esiti di un’azione, ma anche dei valori in gioco e dei doveri che da questi valori derivano. Per questo ho salutato con favore la firma a Roma, nel 2020, della Rome Call for AI Ethics [13] e il suo sostegno a quella forma di moderazione etica degli algoritmi e dei programmi di intelligenza artificiale che ho chiamato “algoretica” [14]. In un contesto plurale e globale, in cui si mostrano anche sensibilità diverse e gerarchie plurali nelle scale dei valori, sembrerebbe difficile trovare un’unica gerarchia di valori. Ma nell’analisi etica possiamo ricorrere anche ad altri tipi di strumenti: se facciamo fatica a definire un solo insieme di valori globali, possiamo però trovare dei principi condivisi con cui affrontare e sciogliere eventuali dilemmi o conflitti del vivere.
Per questa ragione è nata la Rome Call: nel termine “algoretica” si condensano una serie di principi che si dimostrano essere una piattaforma globale e plurale in grado di trovare il supporto di culture, religioni, organizzazioni internazionali e grandi aziende protagoniste di questo sviluppo.
La politica di cui c’è bisogno
Non possiamo, quindi, nascondere il rischio concreto, poiché insito nel suo meccanismo fondamentale, che l’intelligenza artificiale limiti la visione del mondo a realtà esprimibili in numeri e racchiuse in categorie preconfezionate, estromettendo l’apporto di altre forme di verità e imponendo modelli antropologici, socio-economici e culturali uniformi. Il paradigma tecnologico incarnato dall’intelligenza artificiale rischia allora di fare spazio a un paradigma ben più pericoloso, che ho già identificato con il nome di “paradigma tecnocratico” [15]. Non possiamo permettere a uno strumento così potente e così indispensabile come l’intelligenza artificiale di rinforzare un tale paradigma, ma anzi, dobbiamo fare dell’intelligenza artificiale un baluardo proprio contro la sua espansione.
Ed è proprio qui che è urgente l’azione politica, come ricorda l’Enciclica Fratelli tutti. Certamente «per molti la politica oggi è una brutta parola, e non si può ignorare che dietro questo fatto ci sono spesso gli errori, la corruzione, l’inefficienza di alcuni politici. A ciò si aggiungono le strategie che mirano a indebolirla, a sostituirla con l’economia o a dominarla con qualche ideologia. E tuttavia, può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?» [16].
La nostra risposta a queste ultime domande è: no! La politica serve! Voglio ribadire in questa occasione che «davanti a tante forme di politica meschine e tese all’interesse immediato […] la grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine. Il potere politico fa molta fatica ad accogliere questo dovere in un progetto di Nazione e ancora di più in un progetto comune per l’umanità presente e futura» [17].
Gentili Signore, illustri Signori!
Questa mia riflessione sugli effetti dell’intelligenza artificiale sul futuro dell’umanità ci conduce così alla considerazione dell’importanza della “sana politica” per guardare con speranza e fiducia al nostro avvenire. Come ho già detto altrove, «la società mondiale ha gravi carenze strutturali che non si risolvono con rattoppi o soluzioni veloci meramente occasionali. Ci sono cose che devono essere cambiate con reimpostazioni di fondo e trasformazioni importanti. Solo una sana politica potrebbe averne la guida, coinvolgendo i più diversi settori e i più vari saperi. In tal modo, un’economia integrata in un progetto politico, sociale, culturale e popolare che tenda al bene comune può “aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo” (Laudato si’, 191)» [18].
Questo è proprio il caso dell’intelligenza artificiale. Spetta ad ognuno farne buon uso e spetta alla politica creare le condizioni perché un tale buon uso sia possibile e fruttuoso.
Grazie.

NOTE
[1] Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 1.
[2] Cfr ibid.
[3] Cfr ivi, 2.
[4] Questa ambivalenza fu già scorta da Papa San Paolo VI nel suo Discorso al personale del “Centro Automazione Analisi Linguistica” dell’Aloysianum, del 19 giugno 1964.
[5] Cfr A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano 1983, 43.
[6] Lett. enc Laudato si’ (24 maggio 2015), 102-114.
[7] Cfr Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 3.
[8] Le intuizioni di Marshall McLuhan e di John M. Culkin sono particolarmente pertinenti alle conseguenze dell’uso dell’intelligenza artificiale.
[9] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.
[10] Cfr Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, 4.
[11] Cfr ivi, 3 e 7.
[12] Cfr Dicastero per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Dignitas infinita circa la dignità umana (2 aprile 2024).
[13] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.
[14] Cfr Discorso ai partecipanti al Convegno “Promoting Digital Child Dignity – From Concet to Action”, 14 novembre 2019; Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 28 febbraio 2020.
[15] Per una più ampia esposizione, rimando alla mia Lettera Enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune del 24 maggio 2015.
[16] Lettera enc. Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale (3 ottobre 2020), 176.
[17] Ivi, 178.
[18] Ivi, 179.

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Europa, Europa

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E’ ARRIVATA L’ONDATA DI DESTRA, MA REGGONO I FRANGIFLUTTI
di GIANCARLO INFANTE su PoliticaInsieme.
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Jun 10, 2024 – 07:26:33 – CEST – PoliticaInsieme

Così è arrivata l’ondata di destra, ma, al di là di alcuni risultati eclatanti come in Francia e in Germania, non riesce a superare i frangiflutti europeisti.

Il risultato finale dovrebbe far trovare alle destre un po’ più di 130 seggi nel Parlamento di Strasburgo che, però, ne ha 720 [dato relativo alla legislatura 2024-2029]. I conservatori della Meloni crescono di un solo seggio. 9 in più per quelli della Le Pen e Salvini. Troppo poco per scalfire l’attuale maggioranza.

Si è trattato di un’ondata controversa e dipendente dalle situazioni nazionali. I conservatori della Meloni non avanzano dappertutto e lo stesso è accaduto all’altra destra della Le Pen e Salvini. Per non parlare dello schiaffone ricevuto a casa sua da Orban. Cui, poveretto, si è aggiunta la beffa di vedere eletta a Strasburgo quella Ilaria Salis detenuta in Ungheria in maniera davvero barbara.

Bisognerà attendere i numeri finali della distribuzione dei seggi per capire esattamente quali le conseguenze concrete sulla spiaggia. In più, c’è da considerare l’incertezza determinata dal fatto che un consistente numero degli eletti sarà formato da quelli che non indossano alcune casacca di una delle grandi famiglie politiche europee. In ogni caso, dopo l’abbuffata elettorale, in tanti dovranno tornare con i piedi per terra e a ragionare sulle cose realmente imposte dai numeri, più che dai titoli dei giornali o dalle speculazioni espresse nel corso dei nostri dibattiti televisivi.

L’onda della destra viene comunque da lontano. Sin da quando molto centro e molta sinistra si sono messi a seguire e compiacere le politiche della finanziarizzazione a scapito dell’economia reale. Così, oggi, si pagano le abdicazioni a condurre politiche sociale e a riprendere quel percorso europeo caratterizzato soprattutto dallo spirito della solidarietà, della coesione e dell’inclusione.

Certo, molto hanno influito la stagione del Covid e l’invitabile conseguente distruzione dell’economia mondiale e la vera e propria esplosione dell’inflazione. Poi, la guerra d’Ucraina. Nel futuro, gli studiosi di sociologia e gli storici dell’antropologia ci diranno quanto questi fattori hanno contribuito, e contribuiranno ancora, a determinare un clima simile a quello che ci fu tra le due guerre mondiali del secolo scorso, caratterizzato da un’analoga ondata di destra.

E il problema dell’emigrazione, mal gestito, ha avuto pure la sua parte. Sia pure soprattutto, per la gran parte, in una dimensione psicologica e molto strumentalizzata dalla destra più estrema e xenofoba.

Oggi, tutto questo ha presentato il conto. Soprattutto a Macron e ai socialdemocratici tedeschi. Il primo, addirittura, ha deciso di sciogliere l’Assemblea nazionale ed andare ad elezioni anticipate perché convinto che la Francia non sia ancora pronta per dare un piena maggioranza interna alla Le Pen.

Comunque, la sinistra , più che mai e un po’ dappertutto, dovrà davvero decidere cosa fare nel futuro. E riflettere sui tanti perché di una sconfitta che non ammette repliche.

Il risultato di questa settimana di voto chiamerà ad una grande responsabilità soprattutto il Partito popolare europeo confermato come la principale formazione nel Parlamento di Strasburgo.

Il dato elettorale ci dice che i suoi più diretti competitori non sono solamente i socialisti, ma anche l’estrema destra. Nei prossimi giorni, allora, il Ppe dovrà esprimere il meglio della propria tradizione democratica, di equilibrio e di lungimiranza. Ben ha fatto Ursula von der Leyen ad assicurare l’intenzione di voler contrastare tutti gli estremisti, di destra e di sinistra. Dalle sue prime dichiarazioni si è avuta la conferma che vuole andare avanti con la stessa coalizione che cinque anni fa prese il suo nome: “Ursula”. Ha parlato di una coalizione la più ampia possibile e, dunque, le si porrà il problema del veto che socialisti e verdi hanno chiaramente espresso verso ogni forma di coinvolgimento delle destre, conservatori della Giorgia Meloni compresi.

Resta, in conclusione, la valutazione del voto italiano. Non è cambiato nulla riguardo un tema che non interessa a nessuno, ma che, invece, vale la pena sempre di sottolineare: l’elettorato è andato al mare. E non solo per il bel tempo. Si è tenuto lontano dalle urne, con ben il 52% di astenuti. Soprattutto per il voto europeo, visto che qualcuno in più si è presentato ai seggi per partecipare al concomitante rinnovo regionale in Piemonte e di numerosi comuni. Si rinnova, insomma, il forte, diffuso e generalizzato giudizio negativo per l’intera nostra classe politica, in generale, ma anche per chi è al governo, in particolare. Sappiamo che nessuno ne farà tesoro perché l’importante è festeggiare una vittoria che, stando ai dati sull’affluenza, con buona ragione possiamo definire “dimezzata”.

La mancata partecipazione ha confermato, dunque, una generale disaffezione per il “bipolarismo” e di tutto ciò che esso comporta, e cioè una politica rissosa e non costruttiva. Al tempo stesso, ha continuato paradossalmente a premiare quelli che di bipolarismo vivono e ne traggono i principali vantaggi, a scapito degli “assenti”. Così, i Fratelli d’Italia consolidano i risultati delle ultime politiche, ma il Pd cresce e diventa addirittura uno dei più consistenti nella sinistra di Strasburgo. Il defunto Terzo polo è più che mai tale e quelli che furono i suoi esponenti si confermano del tutto ininfluenti.

Come abbiamo già scritto numerose volte, resta il fatto che Giorgia Meloni deve fare i conti con ciò che conta davvero in Europa e soprattutto considerare che se, in Italia tiene, a Bruxelles non conterà perché leader di Fratelli d’Italia, bensì solo perché è alla guida del nostro Governo nazionale. Giacché l’ondata da lei promessa per tutto il Vecchio continente è stata fermata dai frangiflutti…

Giancarlo Infante
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ape-innovativaMentanamente
di Aladin 10/6/2024
Ieri notte Mentana a La7 ha fatto il “terrorista”. Sembrava che l’Europa fosse stata vinta al Totoelezioni dai nazi-fascisti. E mostrava una malcelata soddisfazione! E’ una sorta di raptus irrefrenabile che prende i giornalisti quando credono di essere arrivati per primi nel comunicare un evento, bello o brutto che sia. In realtà è vero che la destra avanza in tutta Europa, ma nonostante la situazione della Francia e della Germania (Macron e Scholz son stati puniti perché guerrafondai), l’Unione Europea e il suo Parlamento restano sotto il controllo delle forze democratiche di centro, liberali, verdi e di sinistra.
Non v’è dubbio, infatti, che il prossimo Parlamento Europeo potrà godere di una maggioranza solida, la medesima che ha governato l’Europa negli ultimi 5 anni. Infatti insieme i Popolari, i Liberali e i Socialisti europei possono contare su più di 400 seggi su un totale di 720. Ovviamente speriamo che l’Unione Europea possa abbandonare la politica guerrafondaia che purtroppo l’ha caratterizzata negli ultimi anni, per avere un ruolo decisivo nell’avviare processi di pace con riferimento alle guerre Ucraina-Russia e Israele-Palestina.
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L’Europa di Altiero Spinelli ha un futuro? Federare i paesi europei, eliminando l’assoluta sovranità degli Stati e i nazionalismi…
10 Giugno 2024 ripubblicato su Democraziaoggi.

di Maria Paola Patuelli – Ravennanotizie

L’Europa di Altiero Spinelli avrà un futuro? Non è un interrogativo retorico. È un interrogativo che mi pongo, quando l’esito delle elezioni europee ci dirà quale sarà il futuro dell’Europa. Una Europa che vede, fra i paesi aderenti, governi che sono in Europa con un disegno politico opposto a quello disegnato da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, nel Manifesto scritto a Ventotene, dove si trovavano confinati, perché antifascisti militanti.
Anche in paesi, come il nostro, che all’Europa, per quanto ancora incompiuta, hanno dato fiducia, sono in crescita forze ostili all’unità europea. Credo che un ritorno fra di noi di Spinelli lo vedrebbe incredulo, smarrito. Cosa vogliono? L’Ungheria, per esempio, perché fa parte dell’Unione europea? Mi unirei a lui in questo interrogativo, e chissà, con la sua lucida intelligenza, forse potremmo venirne a capo. Perché io, da sola, ho grandi difficoltà a trovare una riposta che mi soddisfi. Che soddisfi il mio europeismo. Mi sento profondamente europea. Non solo perché è un dato di fatto, geografico. Ma perché sono convinta – e per questo sono europeista, significato distinto da europea – che quella di Spinelli non sia stata una infondata profezia, ma un programma politico di valore non inferiore alla nostra Costituzione.
L’Europa di oggi è sotto i nostri occhi. Le opinioni sullo stato dell’Europa sono inevitabilmente plurali. Ma è necessario che dell’Europa si abbia presente anche il percorso storico, di assai lunga durata. Un percorso raramente presente nel discorso pubblico. E questo è un guaio. Perché l’Europa non è nata ieri, né, tantomeno, con l’euro. Tempo fa, in occasione di alcuni incontri, ho ricostruito un po’di questa storia. … Per avvicinarci al nodo, da dove viene l’Europa? Quale la sua storia? […]

Elezioni, elezioni

elezioniRiflessioni sulle scadenze elettorali e sul ruolo delle autonomie territoriali e della “capitale” della Sardegna.

di Franco Meloni

Le elezioni, come gli esami, non finiscono mai. Abbiamo votato il 25 febbraio per il rinnovo del Consiglio regionale e eletto Alessandra Todde prima presidente donna della storia dell’Autonomia Sarda, mentre nella scadenza unificata dell’8 e 9 giugno siamo chiamati alle urne per il rinnovo dei rappresentanti italiani nel Parlamento europeo, nonché in 27 Comuni sardi per le elezioni amministrative (374.412 elettori). Le elezioni europee sono cruciali per il futuro dell’Unione Europea, che vorremo sempre più entità politica dei popoli e delle persone, non solo comunità economica. Le elezioni amministrative sono importanti per il rinnovo gestionale di tutti i paesi interessati, ma è evidente come l’attenzione dei media e del mondo politico sia puntata soprattutto su Cagliari e Sassari, le due principali città sarde (Cagliari con 133.499 elettori, Sassari con 107.073 elettori), che potrebbero andare ciascuna al ballottaggio tra i due candidati più votati, il 23 e 24 giugno. Così come per le città più piccole con più di 15000 abitanti: Alghero, Monserrato e Sinnai. Il grosso degli elettori si concentra dunque nelle Città metropolitane di Cagliari e di Sassari, che hanno soppiantato sostanzialmente le due vecchie Province, affiancandosi alle restanti sei, con la ridefinizione dei relativi confini. Gli statuti di queste entità intermedie tra Regione e Comuni non prevedono attualmente l’elezione diretta degli organi di governo da parte dei cittadini, nonostante le leggi istitutive lo consentano, limitandosi alla nomina dei rappresentanti da parte dei Comuni: un sistema francamente anti democratico da superare quanto prima.
Una riflessione sembra opportuna sulla recente istituzione della Città metropolitana di Sassari, dopo quella di Cagliari: questo nuovo assetto territoriale contribuisce a togliere ogni ragione di rivalità tra le due più grandi città sarde, frutto di antiche vicende che appartengono al passato, piuttosto che problema reale dei rispettivi abitanti. Certo è che per Cagliari le elezioni ripropongono il dibattito sul suo ruolo rispetto alla Sardegna. Noi sardi nell’intimo serbiamo un sentimento nazionalitario e a prescindere dalle appartenenze politiche, ci sentiamo sardi prima che Italiani ed Europei. Consideriamo la nostra regione quasi uno stato indipendente, non per niente godiamo di un’Autonomia Speciale nell’ambito dello Stato Italiano. Ecco perché nonostante l’attribuzione amministrativa di Cagliari sia “capoluogo” regionale, preferiamo definirla come “capitale” della Sardegna. img_6679E’ un titolo prestigioso, che merita nella misura in cui realizza una missione di servizio nei confronti della Sardegna intera,img_6656 che ritroviamo declinata nelle iscrizioni sulle facciate laterali del Palazzo municipale di Cagliari: “Fortitudo totius insulae” (Coraggio di tutta l’isola), “Insulae decor” (Bellezza dell’isola), “Insulae clavis et robur” (Chiave e forza dell’isola). Ne deriva un impegno programmatico di ampio respiro per il Sindaco metropolitano e gli amministratori comunali di Cagliari, nonché per gli altri Sindaci e amministratori sardi, tra i quali quelli espressi dalle prossime elezioni amministrative.
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Elezioni

di Giorgio Gaber
Generalmente mi ricordo
una domenica di sole
una mattina molto bella
un’aria già primaverile
in cui ti senti più pulito

Anche la strada è più pulita
senza schiamazzi e senza suoni
chissà perché non piove mai
quando ci sono le elezioni

Una curiosa sensazione
che rassomiglia un po’ a un esame
di cui non senti la paura
ma una dolcissima emozione

E poi la gente per la strada
li vedo tutti più educati
sembrano anche un po’ più buoni
ed è più bella anche la scuola
quando ci sono le elezioni

Persino nei carabinieri
c’è un’aria più rassicurante
ma mi ci vuole un certo sforzo
per presentarmi con coraggio

C’è un gran silenzio nel mio seggio
un senso d’ordine e di pulizia
democrazia

Mi danno in mano un paio di schede
e una bellissima matita
lunga sottile marroncina
perfettamente temperata

E vado verso la cabina
volutamente disinvolto
per non tradire le emozioni

E faccio un segno
sul mio segno
come son giuste le elezioni

E’ proprio vero che fa bene
un po’ di partecipazione
con cura piego le due schede

e guardo ancora la matita
così perfetta e temperata
io quasi quasi me la porto via
democrazia.
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https://www.google.com/url?q=https://m.youtube.com/watch%3Fv%3DV5vQTVYFl9E&sa=U&ved=2ahUKEwjVgLSt9ciGAxWdhv0HHUSCJjoQwqsBegQIFBAG&usg=AOvVaw0tfIFu1blUugdxip5SHMnp
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Verso le elezioni europee e amministrative

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Aladinpensiero ospiterà gratuitamente materiali elettorali dei candidati alle elezioni europee e amministrative (soprattutto) appartenenti alla sinistra, al campo largo e ad altre formazioni che si ispirano alla Costituzione democratica ed antifascista.
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Ecco le dieci liste che sostengono Massimo Zedda sindaco di Cagliari alle elezioni dell’8 e 9 giugno (dalle 15 alle 23 e domenica 9 giugno, dalle 7 alle 23). L’eventuale turno di ballottaggio è previsto domenica 23 e lunedì 24 giugno. Di seguito le liste con tutti i nomi dei candidati.

Partito democratico: Alessandra Burgio, Marco Benucci, Elena Fontanarossa, Emanuele Boi, Paoletta Garau, Alessandro Cao, Ombretta Ladu, Davide Carta, Marta Mereu, Franco Carucci, Rita Piludu, Sergio Cassanello, Rita Polo, Stefano Deidda, Elsa Girolama Ranno, Carlo Floris, Barba Serra (nota Bibi), Andrea Locci, Laura Soma, Giuseppe Macciotta, Federica Trudu, Massimo Alberto (noto Massimo) Mattana, Desdemona (nota Daisy) Vargiu, Davide Medda, Carlo Augusto Melis Costa, Daniele Melis, Filippo Petrucci, Fabio Pireddu, Mauro Pistis, Marcello Sollai, Vincenzo (noto Enzo) Strazzera, Riccardo Vacca, Sergio Vacca.

Sinistra Futura: Lucia Baiocchi, Michele Boero, Valter Alberto (noto Valter) Campana, Antonello Carai, Emanuele Cioglia, Massimo Delrio, Milena Falqui, Maria Grazia Frailis, Stefano Incani, Roberta Laconi, Sebastiana (nota Tania) Lai, Marianna Ligas, Cesira Loi, Francesca Loriga, Pierpaolo Marras, Donatella Masala, Consolata (nota Consuelo) Melis, Valtere (noto Valter) Merella, Roberto Mirasola, Patrizia Mocci, Asim Vaveed, Francesco Nonnis, Federico (noto Kikko) Orrù, Maria Germana Antonia (nota Germana) Orrù, Giovanni Giulio (noto Giangi) Pala, Maria Silvia Petricci, Maurizio Piludu, Antonella Pinna, Laura Pinna, Simone Piredda, Francesco Pisano, Carlo Serra, Laura Stochino, Silvia Usai.

Progressisti: Matteo Massa, Anna Puddu, Alessio Alias, Alessandra Bertocchi, Fabio Accalai, Lucia Casu, Jacopo Arrais, Chiara Cocco, Ciro Auriemma, Maria Francesca Chiappe, Mauro Cadoni, Antonella De Montis, Alessandro Cao, Federica Diana, Pierluigi Locci, Martina Dotta, Enrico Mele, Susanna Fortunata Fornera, Valerio Piga, Daniela Latti, Michele Pipia (noto Pippia), Federica Laura Maggio, Dietrich Steinmetz, Rosario Mayores Magmanlac, Mariano Strazzeri, Maria Francesca Marrocu, Roberto Tramaloni, Valentina Mereu, Carlo Usai, Flora Missoni, Donatella Mulas, Paola Mura, Anna Rughinis, Anna Rosa Zedda.

Orizzonte Comune: Marzia Cilloccu, Gianluca Aresu, Giada Atzei, Angelica Baldus, Martina Benoni, Donatella Carboni, Isabella Carta, Carla Cuccu, Bruno Demuru, Carla Deplano, Maurizio Fuccaro, Elena Garau, Antonio Gaudino, Marco Ghiani, Sonia Lai, Giovanna Liccardi, Luigi Loi, Raimondo Mandis, Paolo Masala, Simone (noto Canepa) Mereu, Marco Milia, Fabio (noto Mulliri) Mulleri, Monica Mureddu, Alessandro Olisterno, Alberto Perla, Kety Piras, Emiliano Pisano, Marcello Polastri, Alberto Tosini.

Cagliari che vorrei: Adolfo Costa noto Ciccio, Andrea Cardia, Vasco Cogotti noto Vasco, Roberto Zorcolo, Mauro Toffolon, Valentina Pischedda, Antonio Gregorini noto Antonello, Fabio Peara, Maria Grazia Loddo, Roberto Lilliu, Alessia Ibba, Stefania Donaera, Antonio Camboli, Alessandro Pedroni noto Pedro, Stefania Mercurio, Katia Coccoi, Maria Cristina Guarino, Stefania Sanna, Carla Cardia, Francesca Lai, Ilaria Licheri, Giovanni Piano, Cristina Maria Soriga, Silvia Tinti, Rosa Casella nota Rossella, Valter Gerina.

Cagliari Europea (Psi-Pri-Fortza Paris): Gianfranco Accocci, Giuseppe Aquila noto Pino, Federica Avagnano, Roberto Bertone, Raffaele Bistrussu noto Lino, Carla Caffarena, Luciano Caboni, Manuela Chia, Pierpaolo Congiu noto Paoletto, Gianfranco Damiani, Gianluca Deidda, Francesco Delussu, Sara Dessì, Ottavio Di Grezia, Daniele Figus, Giovanni Fois, Pierpaolo Frau, Enrico Edoardo Gavassino, Michela Ibba, Francesco Loi, Elisabetta Macis, Roberto Marras, Valentina Orgiana, Rosa Putzu, Elisabeth Rijo, Giuseppe Serpionano noto Serpi, Antonio Serra noto Nuccio.

Alleanza Verdi Sinistra: Giulia Andreozzi, Mania Brundu, Dario Cabboi, Valter Canavese, Marco Cocco Norfo, Roberta Colizzi, Luisa Colomo, Anna Luisa De Giorgio nota Lula, Sara Didaci, Michela Garofalo, Alessandra Geddo Lehmann nota Sandra, Rita Guglielmo, Leonello Lai noto Lello, Giampaolo Graziano Ledda, Maurizio Loi, Rossano Mameli, Silvana Meloni, Andrea Moi, Francesca Mulas, Alessandro Murgia, Giacomo Angelo Pala, Helena Pes, Enrico Piano, Amalia Picinelli, Giambattista Piga, Marianna Piras, Carlo Quesada, Andrea Scano, Marta Scanu, Pietro Scanu, Corrado Sorrentino, Guido Spano, Lucia Testagrossa, Emanuela Vigo.

Movimento 5 stelle: Peppino Calledda noto Pino, Luisa Giua Marassi, Luciano Congiu, Juliana Vivian Carone nota Giuliana, Cristian Verderame, Giuseppa Alessandra Piras, Michele Bardino, Serena Racis, Walter Zedda, Emanuele Addari, Gabriele Caredda, Laura Bruni, Carlo Poerio, Pierpaola Collu, Mario Spina noto Gemello, Stefano Spina, Simone Barrago, Graziella Pisu, Patrizia Serra, Michelangelo Serra, Margherita Falqui, Francesca Dettori, Amelia Monni, Michele Ortu, Elisabetta Manella, Giovanni Vargiu noto Gianni, Antonio Sandro Friargiu noto Sandro, Monica Masala, Luca Vadilonga, Andrea Murgia, Antonio Farina.

Cagliari Avanti: Carlo Acquas , Patrizio Anedda, Luca Atzori noto Bebeto, Maurizio Battelli, Giampiero Buttafuoco, Paolo Casu, Simonetta Concas, Elio Curreli, Alessandro Di Martino, Simona Fontanarosa, Mohammed Hosfer, Barbara Masala, Francesca Melis, Debora Monteverde, Roberto Mucelli, Claudia Nossardi, Silvia Orefice, Francesca Orrù, Giuseppe Ortu, Oscar Palmas, Fabio Carlo Pinna, Emanuela Piredda, Gianfrancesco Piscitelli noto Gianfranco, Emanuele Piseddu, Giovanni Porrà, Giuseppe Raffone, Claudia Rizzo, Matteo Rocca, Gianluigi Santoni, Elisabetta Serra, Sandeep Singh, Francesco Spanu, CarlaVacca.

A Innantis: Simone Anedda, Stefano Arca, Maurizio Bonetti, Massimo Calabrese, Federico Cincotti, Orietta Corrias, Franco Cuccu, Luisa Demelas, Ornella Demuru, Alessandro Desogus, Moreno Floris, Francesco Ledda, Luca Salvatore Loddo, Paola Manca, Massimo Marini, Maria Carmen Masala, Andrea Mereu, Alessio Mura, Marco Murgia, Dante Olianas, Rossana Sassu, Cristiana Velluti, Martina Melas, Marco Vargiu, Francesco Sedda noto Franciscu.

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Verso l’election day: europee e amministrative

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Aladinpensiero ospiterà gratuitamente materiali elettorali dei candidati alle elezioni europee e amministrative (soprattutto) appartenenti alla sinistra, al campo largo e ad altre formazioni che si ispirano alla Costituzione democratica ed antifascista.
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Lettera all’Unione Europea del Card. Matteo Maria Zuppi, Presidente della CEI, e di Mons. Mariano Crociata, Presidente della COMECE, in occasione della Giornata dell’Europa 2024 e in vista delle prossime elezioni

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Lettera all’Unione Europea

[Dal sito web della CEI] Pubbichiamo la Lettera all’Unione Europea del Card. Matteo Maria Zuppi, Presidente della CEI, e di Mons. Mariano Crociata, Presidente della COMECE, in occasione della Giornata dell’Europa 2024 [9 maggio 2024] e in vista delle prossime elezioni europee [8-9 giugno 2024] .

Cara Unione Europea,

darti del tu è inusuale, ma ci viene naturale perché siamo cresciuti con te. Sei una, sei “l’Europa”, eppure abbracci ben 27 Paesi, con 450 milioni di abitanti, che hanno scelto liberamente di mettersi insieme per formare l’Unione che sei diventata. Che meraviglia! Invece di litigare o ignorarsi, conoscersi e andare d’accordo! Lo sappiamo: non sempre è facile, ma quanto è decisivo, invece di alzare barriere e difese, cancellarle e collaborare. Tu sei la nostra casa, prima casa comune. In questa impariamo a vivere da “Fratelli Tutti”, come ha scritto un tuo figlio i cui genitori andarono fino alla “fine del mondo” per cercare futuro.

Nel cuore un desiderio

Ti scriviamo perché abbiamo nel cuore un desiderio: che si rafforzi ciò che rappresenti e ciò che sei, che tutti impariamo a sentirti vicina, amica e non distante o sconosciuta. Ne hai bisogno perché spesso si parla male di te e tanti si scordano quante cose importanti fai! Durante il COVID lo abbiamo visto: solo insieme possiamo affrontare le pandemie. Purtroppo, lo capiamo solo quando siamo sopraffatti dalle necessità, per poi dimenticarlo facilmente! Così, quando pensiamo che possiamo farcela da soli finiamo tutti contro tutti.

Dagli inizi ad oggi

Non possiamo dimenticare come prima di te, per secoli, abbiamo combattuto guerre senza fine e milioni di persone sono state uccise. Tutti i sogni di pace si sono infranti sugli scogli di guerre, le ultime quelle mondiali, che hanno portato immense distruzioni e morte. Proprio dalla tragedia della Seconda guerra mondiale – che ha toccato il male assoluto con la Shoah e la minaccia alla sopravvivenza dell’umanità intera con la bomba atomica – è nato il germe della comunità di Paesi sovrani che oggi è l’Unione Europea. C’è stato chi ha creduto che le nazioni non fossero destinate a combattersi, che dopo tanto odio si potesse imparare a vivere assieme. Tra quelli che ti hanno pensata e voluta non possiamo dimenticare Robert Schuman, francese, Konrad Adenauer, tedesco, e Alcide De Gasperi, italiano: animati dalla fede cristiana, essi hanno sentito la chiamata a creare qualcosa che rendesse impossibile il ritorno della guerra sul suolo europeo. Hanno pensato con intelligenza, ambizione e coraggio. Non sono mancati momenti difficili, ma la forza che viene dall’unità ha mostrato il valore del cammino intrapreso e la possibilità di correggere, aggiustare, intendersi.
La Comunità Europea venne concepita nel 1951 attorno al carbone e all’acciaio, materie allora indispensabili per fare la guerra, per prevenire ogni velleità di farne uso ancora una volta l’uno contro l’altro. In realtà quei tre grandi uomini, e tanti altri con loro, hanno cercato di più, e cioè la riconciliazione tra i popoli e la cancellazione degli odi e delle vendette.
Trovare qualcosa su cui lavorare insieme, anche solo sul piano economico, come dimostrano i Trattati firmati a Roma nel 1957, è stato l’inizio di un cammino che ha visto poco alla volta nuovi popoli entrare nella Comunità e, dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, il cambiamento del nome, nel 1992, in Unione Europea, e l’allargamento, nel 2004, ai Paesi dell’allora Patto di Varsavia, ben dieci in una volta. I problemi non sono mancati, ma quanto sono stati importanti la moneta unica e l’abbattimento delle barriere nazionali per la libera circolazione delle persone e delle merci! Ultimo, l’accordo sulla riforma con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009.

Il senso dello stare insieme

Cara Unione Europea, sei un organismo vivo, perciò forse viene il momento per nuove riforme istituzionali che ti rendano sempre più all’altezza delle sfide di oggi. Ma non puoi essere solo una burocrazia, pur necessaria per far funzionare organizzazioni così complesse come quella che sei diventata. Direttive e regolamenti da soli non fanno crescere la coesione. Serve un’anima! In questi anni abbiamo visto compiere passi avanti significativi, quando per esempio hai accompagnato alcuni Paesi a superare le crisi economiche, ma abbiamo anche dovuto registrare fasi di stallo e difficoltà. E queste crescono quando smarriamo il senso dello stare insieme, la visione del nostro futuro condiviso, o facciamo resistenza a capire che il destino è comune e che bisogna continuare a costruire un’Europa unita.

Il ritorno della guerra

Perciò, qualche volta ci chiediamo: Europa, dove sei? Che direzione vuoi prendere? Sono questi anche gli interrogativi del Papa: «Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente?» (Discorso, Lisbona, 2 agosto 2023).
In tutti questi anni siamo molto cambiati e facciamo fatica a capire e a tenere vivo lo spirito degli inizi. Dopo un così lungo periodo di pace abbiamo pensato che una guerra su territorio europeo sarebbe stata ormai impossibile. E invece gli ultimi due anni ci dicono che ciò che sembrava impensabile è tornato. Abbiamo bisogno di riprendere in mano il progetto dei padri fondatori e di costruire nuovi patti di pace se vogliamo che la guerra contro l’Ucraina finisca, e che finisca anche la guerra in corso in Medio Oriente, scoppiata a seguito dell’attacco terroristico del 7 ottobre scorso contro Israele, e con essa l’antisemitismo, mai sconfitto e ora riemergente. Lo dice così bene anche la nostra Costituzione italiana: è necessario combattere la guerra e ripudiarla per davvero!
Se non si ha cura della pace, rischia sempre di tornare la guerra. Lo diceva Robert Schuman nella sua Dichiarazione del 9 maggio 1950, che ha dato avvio al processo di integrazione europea: «L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra». Egli si riferiva al passato, ma le sue parole valgono anche oggi. L’unità va cercata come un compito sempre nuovo e urgente. Non dobbiamo aspettare l’esplosione di un altro conflitto per capirlo!

Il ruolo internazionale e la tentazione dei nazionalismi

Che ruolo giochi, Europa, nel mondo? Vogliamo che tu incida e porti la tua volontà di pace, gli strumenti della tua diplomazia, i tuoi valori. Risveglia la tua forza così da far sentire la tua voce, così da stabilire nuovi equilibri e relazioni internazionali. Le tue divisioni interne non ti permettono di assumere quel ruolo che dalla tua statura storica e culturale ci si aspetterebbe. Non vedi il rischio che le tue contrapposizioni intestine indeboliscano non solo il tuo peso internazionale ma anche la capacità di far fronte alle attese dei tuoi popoli?
Tanti pensano di potere usufruire dei benefici che tu hai indubbiamente portato, come se fossero scontati e niente possa comprometterli. La pandemia o le periodiche proteste, ultima quella degli agricoltori, ci procurano uno sgradevole risveglio. Capiamo che tanti vantaggi acquisiti potrebbero svanire. Il senso della necessità però non basta a spingere sempre e tutti a superare le divisioni. Alcuni vogliono far credere che isolandosi si starebbe meglio, quando invece qualunque dei tuoi Paesi, anche grande, si ridurrebbe fatalmente al proverbiale vaso di coccio tra vasi di ferro. Per stare insieme abbiamo bisogno di motivazioni condivise, di ideali comuni, di valori apprezzati e coltivati. Non bastano convenienze economiche, poiché alla lunga devono essere percepite le ragioni dello stare insieme, le uniche capaci di far superare tensioni e contrasti che proprio gli interessi economici portano con sé nel loro fisiologico confrontarsi.
Ha detto Papa Francesco: «In questo frangente storico l’Europa è fondamentale. Perché essa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico. È dunque essenziale ritrovare l’anima europea» (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).
Vorremmo che tutti sentissimo l’orgoglio di appartenerti, Europa. Oggi appare distante, a volte estraneo, tutto ciò che sta oltre i confini del proprio Paese. Eppure, le due appartenenze, quella nazionale e quella europea, si implicano a vicenda. La tua è stata fin dall’inizio l’Unione di Paesi liberi e sovrani che rinunciavano a parte della loro sovranità a favore di una, comune, più forte. Perciò non si tratta di sminuire l’identità e la libertà di alcuno, ma di conservare l’autonomia propria di ciascuno in un rapporto organico e leale con tutti gli altri.

Valori europei e fede cristiana

Le nostre idee e i nostri valori definiscono il tuo volto, cara Europa. Anche in questo la fede cristiana ha svolto un ruolo importante, tanto più che dal suo sentire è uscito il progetto e il disegno originario della tua Unione. Come cristiani continuiamo a sentirne viva responsabilità; e del resto troviamo in te tanta attenzione alla dignità della persona, che il Vangelo di Cristo ha seminato nei cuori e nella tua cultura. Soffriamo non poco, perciò, nel vedere che hai paura della vita, non la sai difendere e accogliere dal suo inizio alla sua fine, e non sempre incoraggi la crescita demografica.
«Penso – dice il Papa – a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli. […] Che bello invece costruire un’Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia […], dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno» (Discorso, Budapest, 28 aprile 2023).

Il tema dei migranti e le sue implicazioni

Cara Europa, tu non puoi guardare solo al tuo interno. Non si può vivere solo per stare bene, ma stare bene per aiutare il mondo, combattere l’ingiustizia, lottare contro le povertà. Ormai da decenni sei il punto di arrivo, il sogno di tante persone migranti che da diversi continenti cercano entro i tuoi confini una vita migliore. Tanti vogliono raggiungerti perché sono alla ricerca disperata di un futuro. E molti, con il loro lavoro, non ti aiutano forse già a prepararne uno migliore? Non si tratta di accogliere tutti, ma che nessuno perda la vita nei “viaggi della speranza” e tanti possano trovare ospitalità. Chi accoglie genera vita! L’Italia è spesso lasciata sola, come se fosse un problema solo suo o di alcuni, ma non per questo deve chiudersi. Prima o poi impareremo che le responsabilità, comprese quelle verso i migranti, vanno condivise, per affrontare e risolvere problemi che in realtà sono di tutti.
Tu rappresenti un punto di riferimento per i Paesi mediterranei e africani, un bacino immenso di popoli e di risorse nella prospettiva di un partenariato tra uguali. Compito essenziale perché in realtà un soggetto sovranazionale come l’Unione non può sussistere al di fuori di una reciprocità di relazioni internazionali che ne dicano il riconoscimento e il compito storico, e che promuovano il comune progresso sociale ed economico nel segno dell’amicizia e della fraternità.

Compiti e sfide

Cara Europa, è tempo di un nuovo grande rilancio del tuo cammino di Unione verso una integrazione sempre più piena, che guardi a un fisco europeo che sia il più possibile equo; a una politica estera autorevole; a una difesa comune che ti permetta di esercitare la tua responsabilità internazionale; a un processo di allargamento ai Paesi che ancora non ne fanno parte, garanzia di una forza sempre più proporzionata all’unità che raccogli ed esprimi. Le esigenze di innovazione economica e tecnica (pensiamo all’Intelligenza Artificiale), di sicurezza, di cura dell’ambiente e di custodia della “casa comune”, di salvaguardia del welfare e dei diritti individuali e sociali, sono alcune delle sfide che solo insieme potremo affrontare e superare. Non mancano purtroppo i pericoli, come quelli che vengono dalla disinformazione, che minaccia l’ordinato svolgimento della vita democratica e la stessa possibilità di una memoria e di una storia non falsate.
Insieme alle riforme istituzionali democraticamente adottate, c’è bisogno di far crescere un sentire comune, un apprezzamento condiviso dei valori che stanno alla base della nostra convivenza nell’Unione Europea. Ci vuole un nuovo senso della cittadinanza, un senso civico di respiro europeo, la coscienza dei popoli del continente di essere un unico grande popolo. Ne siamo convinti: è innanzitutto questo senso di comunità di cittadini e di popoli che ci chiedi di fare nostro, cara Europa.

Le prossime elezioni

Le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo e la nomina della Commissione Europea sono l’occasione propizia e irripetibile, da cogliere senza esitazione. Purtroppo, a farsi valere spesso sono le paure e il senso di insicurezza di fronte alle difficoltà. Anche questo andrebbe raccolto e ascoltato per mostrare come proprio tu sia lo strumento e il luogo per affrontare e vincere paure e minacce.
Facciamo appello, perciò, a tutti, candidati e cittadini, a cominciare dai sedicenni che per la prima volta in alcuni Paesi andranno a votare, perché sentano quanto sia importante compiere questo gesto civico di partecipazione alla vita e alla crescita dell’Unione. Non andare a votare non equivale a restare neutrali, ma assumersi una precisa responsabilità, quella di dare ad altri il potere di agire senza, se non addirittura contro, la nostra libertà. L’assenteismo ha l’effetto di accrescere la sfiducia, la diffidenza degli uni nei confronti degli altri, la perdita della possibilità di dare il proprio contributo alla vita sociale, e quindi la rinuncia ad avere capacità e titolo per rendere migliore lo stare insieme nell’Unione Europea.
L’augurio che ti facciamo, cara Unione Europea, è che questa tornata elettorale diventi davvero un’occasione di rilancio, un risveglio di entusiasmo per un cammino comune che contiene già, in sé e nella visione che proietta, un senso vivo di speranza e di impegno motivato e convinto da parte dei tuoi cittadini.

Un nuovo umanesimo europeo

Sogniamo perciò ancora con Papa Francesco: «Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, “un costante cammino di umanizzazione”, cui servono “memoria, coraggio, sana e umana utopia”» (Discorso, Vaticano, 6 maggio 2016).

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Elezioni europee e amministrative: votiamo consapevoli

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Aladinpensiero ospiterà gratuitamente materiali elettorali dei candidati alle elezioni europee e amministrative (soprattutto) appartenenti alla sinistra, al campo largo e ad altre formazioni che si ispirano alla Costituzione democratica ed antifascista.
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Sa Die de Sa Sardigna: Bona festa, a tottus, a is chi funt accanta e a is chi funt attesu, massimmamenti a is giòvunus chi prenint custa sala e a tottus is piccioccus e piccioccas chi si preparant a arregòllirri s’erentzia de custa terra nosta.

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Pubblichiamo di seguito l’intervento di Gianni Loy in Consiglio regionale in occasione della manifestazione celebrativa de Sa Die de Sa Sardigna. In precedenza nello spazio editoriale avevamo dato atto del saluto del presidente del Consiglio Piero Comandini e pubblicato una sintesi dell’intervento della presidente della Regione Alessandra Todde.
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img_6980 Testo in lingua sarda

Sa Die de sa Sardigna
– 28 de arbili de su 2024 –

IS SINNUS DE S’IDENTIDADE
Gianni Loy

Bona festa, a tottus, a is chi funt accanta e a is chi funt attesu,

massimmamenti a is giòvunus chi prenint custa sala e a tottus is piccioccus e piccioccas chi si preparant a arregòllirri s’erentzia de custa terra nosta.

E Bona festa a chini – pensu chi siais medas, a dolu mannu, – no podit cumprèndiri, a doveri, unu de is sìmbulus prus importantis de su pòpulu nostru – sa limba chi seu umperendu, – po curpa de s’imbriaghera, de su macchìmini de is generatzionis de prima, chi hant truncau sa costumantzia – una lei naturali – de candu is babbus tramittiant a is fillus sa matessi limba ch’iant imparau de is babbus insoru. Giai de unas cantu generatzionis, medas babbus e mammas hant incumentzau a bos si chistionai cun un’àtera limba, sa limba italiana. Po mori ‘e cussu, bos hant privau de unu de is sinnus prus importantis po unu pòpulu.
D’hant fattu con mei purur, ma mi seu arrenegau, d’happu imparada, e immmoi cun is fillus mius, de candu funt nascius, chistionu, solu e unicamenti, sa limba sarda.

Is istitutzionis, làicas e de sa cresia, po parti insoru, si fiant postu in conca chi a chistionai in sardu fessit cosa mali fatta, finas a erribai a du proibiri in is scolas e in sa liturgia, mancai sa fidi, comenti non imparat Papa Frantziscu – issu che’est istettiu pesau cun su dialettu piemontesu – si podit trasmìttiri fetti cun su dialettu etotu, cun sa limba materna.

Po mori ‘e custu, medas de bosàterus, po cumprèndiri custus fueddus, si depint agiudai cun sa tradutzioni a s’italianu.

Cun tottu, in su matessi tempus, teneis sa furtuna de pigai parti, oi, a una celebratzioni chena prus sa sudditantzia de su passau; giai chi sa bregungia no si da seus lassada a palas e pigat pei – fintzas in is istitutzionis – su recùperu de sa dignidadi de sa limba nosta e sa cuscièntzia de cantu custu sinnu de identidadi siat importanti.

Sa Sardigna tenit una bandera, unu stemma, eredau de una storia chi benit de attesu, mancai su certificau de nascimentu non siat seguru. Sa lei, oi, pretzettada chi sa conca de is cuatru morus depit èssiri bendada e sa cara depit mirai faccias a s’ala de sa pertia chi aguantada sa bandera.

Sa Sardigna tenit un innu, chi su pòpulu hat scioberau de sei, umperendudeddu, fattu fattu, de prus de cent’annusu: su componimentu de Frantziscu Ignatziu Mannu “Su patriota sardu a sos feudatarios“, chi conosceus cun is fueddus de su primu versu: Procurade ‘e moderare.

E sa Sardigna tenit fintzas una festa cosa sua: Sa Die de sa Sardigna, sa dì de oi.
Una festa chi arregodat sa pesada de is casteddaius, chi nci hant stuppau a su visurrei e a is funtzionarius piemontesus.

Ma sa festa no est sa cunseguentzia de cussu fattu. Prus a prestu, rappresèntada s’accabbu de unu camminu – incumentzau in is annus 70 de su sèculu passau – chi hat portau, a primu, a su disigiu e, a pustis, a sa decisioni de istituiri una dì de reflessioni, e de festa, de su pòpulu sardu.

Un processu chi s’accapiada cun sa chistioni, ancora oberta, a pitzus de s’autonomismu chi, a cumentzai de insandus, hat torrau a biri una crèscida manna de su sentimentu de s’identidadi. Sentimentu chi hat deppiu cumbàttiri contras de unu sistema de centralizatzioni politica contraria a is manifestatzionis de sa cultura nosta, tanti chi, a bortas, das hat proibias, atras bortas dis hat postu trampas o das’hat allacanadas is su campu de su sterereòtipu o de su folklori.

Tandu, po cantu a is sinnus de s’identidadi, iaus a deppir’èssiri a postu! Ma is cosas – a dolu mannu – no funt propriu de aicci.

Sa situatzioni de oi de su populu sardu si podit rapresentai cun un’immàgini:
A pustis de su tempus de su peccau – candu, prim’ancora chi su caboniscu cantèssidi, eus arrenegau sa matessi istoria nosta – biveus sa temporada de s’arripentimentu. S’arredimeus a pagu a pagu, cumentzendu a cumprèndiri, a assaborai, a promòviri is sinnus de s’identidadi nosta, de pòpulu, e a nd’èssiri orgogliosus. Su Conciliu plenariu sardu de su 2001, po sa parti chi di toccat, hat torrau a pretziai sa limba sarda comenti “singolare strumento comunicativo della fede” e hat augurau de d’avvalorai in sa liturgia.

Ma non funt is sinnus de foras – is chi castiant a sa forma – sa cosa prus importanti.

Sa pregunta est cali sianta is sinnus, is simbulus de s’dentidadi de anintru. Ita bogliat nai, a sa torrada de is contus, a èssiri unu pòpulu.

Non est tanti sa bandera po issa etotu, a èssiri importanti. Prus a prestu, est su fattu chi sempri de prus, hòminis e fèminas tengiant su disigiu de da bentulai cussa bandera, in dogna logu, in tottu su mundu – siat in is arrugas de is cursas de bicicletta, siat in su sagrau de Santu Perdu in Roma – poita nce dus pappat su pinsighingiu, de du tzerriai a boxi manna chi appartenint a unu pòpulu e disigiant chi tottu su mundu du scipada.

Ma comenti si podit certificai candu una persona fait parti de su pòpulu sardu?
De seguru no poit’esistint un’innu e una bandera, ma po su prexiu, po sa passioni po su gosu etotu de is chi bèntulanta cussa bandera o càntanta cuss’innu.

Si podit nai – forsis – chi siant sardus tottus is chi funt nascius, o bivint, in cust’isula, de sèmpiri vagabunda in su mari mediterraneu? O hant’èssiri is filamentus de su Dna a scoviai chini est sardu de averas e chini nono? O s’artaria, su colori de is pilus, o sa “u” in s’acabbu de su fueddu? O su fattu de sciri chistionai una limba de su logu. O hat a podit èssiri s’origini de s’areu? chi, a bortas, s’attobiat in su sangunau?

Nudda de tottu custu. In primis: non est sa cittadinantzia a definiri unu pòpulu, mancai su fueddu “populu” s’umperit comenti equivalenti de cittadinu de un’Istadu.

Unu populu podit esìstiri, e mantènniri s’identidadi cosa sua, finas anintru de unu sistema statali prus mannu. A bias, comenti capitat a sa Sardigna, s’Istadu etotu podit arreconòsciri sa specialidadi e cuncèdiri poderis de autonomia.

Unu populu, podit esìstiri fintzas chen’e territoriu, coment’est istettiu po Israele, spainau po tottu su mundu, chi hat mantènniu s’identidadi, chena de Istadu, o comenti is pòpulus opprimius de oi, is kurdus, il palestinesus e àterus meda, chi sighint a mantènniri s’dentidadi de pòpulu, cun tottu chi no dis permittinti de creai un’Istadu in su territoriu aunia bìvinti. Calegunu pòpulu, comenti is Rom, spainau po tottu su mundu, sighid’ a mantènniri s’identidadi sua, mancai no tèngiada, e mancu du pretendada, unu territoriu po fundai un’Istadu.

Sa manera de esercitai su dominiu a pitzus de is pòpulus chi reclamant su rispettu de is dirittus insoru, po furtuna, no sèmpiri lompit a su livellu de ferocidadi e de disumanidadi – chi est cosa de non creiri – chi a dì de oi s’umperat contra de su populu palestinesu, tanti de ndi ndi deppiri tènniri bregungia.

Su pòpulu sardu est fattu de personas chi, castiendu a sa terra e a sa storia de sa Sardigna, cundivìdinti sa fatiga de biviri, cundivìdint s’isperantzia in su tempus c’hat a bènniri; cundivìdint sa solidariedadi, funt cuscientis de appartènniri a una collettividadi e trabagliant imparis po su progressu de tottus.

Eccu, su sinnu prus importanti est propriu custu: su coru: m’intendu in coru chi sardu seu!

Nudda nos appartenit. Seus nosus chi appartenus a custa terra, a sa natzione sarda, a su pòpulu sardu. De nosus tottus – francu caleguna rara eccetzioni – su mundu si nd’hat a iscarèsciri prestu meda, e nd’hant erribai àterus, e s’hant a sètziri in su postu chi eus lassaus.

Cun tottu, po su tempus chi feus parti de custa patria nosta – is hòminis e is fèminas tenint duas patrias: una est sa domu insoru e s’atera est su mundu intreu – po custu tempus teneus s’opportunidadi de operai, po beni o po mali, alloghendu e arrichendu su territoriu, oppuru degogliendudeddu; teneus s’opporunidadi de arricai s’istoria sua, oppuru de d’impoberai; teneus s’oportunidadi de agiudai a sa crèscida econòmica, a su benèssiri de tottus, oppure de sdorrobai po cuntentai s’egoismu de dognunu de nosus.

Tottus podint èssiri parti de su pòpulu sardu: tottus is chi – chen’e ponniri in contu de cali corrunconi de su mundu ndi siant erribaus, de su colori de sa peddi, de calichisiat differentzia personali, – pigant parti cun su trabagliu, cun is fainas, cun sa cultura insoru, a su progressu de sa terra chi dus arrìcidi.

In sa storia de sa Sardigna, in contus funt sèmpiri andaus aicci: un’ammistura de personas, de cambaradas, de comunidadis, – a bortas, a su cumentzu, fiant issus etotu invasoris, – ma chi a pustis hant donau s’adesioni a su pattu – no iscrittu – ch’est a fundamentu de su pòpulu nostu.

Sa dì de sa festa de su pòpulu sardu est, e depit sighiri a èssiri s’occasioni po arrenovai cussu pattu de cunbivimentu, s’impegnu a trasmìttiri, a is fillus, sa sienda arricia de is babbus nostus, chena si scarèsciri chi sa cultura e sa limba funt parti inseparabili de s’ambienti naturali chi teneus su doveri de trasmìttiri, intreu, e mancai ammellorau, a is generatzionis chi – o prima o a pustis – hant a pigai su postu nostu.

Sempri chi su coru nos si du cumandit
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Testo in lingua italiana

Sa Die de sa Sardigna
– 28 aprile 2024 –

I SEGNI DELL’IDENTITÀ
Gianni Loy

Buona Festa, a tutti, vicini e lontani,

soprattutto, ai giovani presenti in questa occasione, e a tutti i giovani, e le giovani, che si accingono ad ereditare questa terra.

E buona festa a quanti- penso che siate in molti, purtroppo – non sono in grado di capire, come si deve, uno dei più importanti simboli del nostro popolo, la lingua, la lingua sarda, in tutte le sue varianti, perché una dissennata ubriacatura delle generazioni precedenti ha interrotto l’eterna costumanza – derivata da una legge naturale – per cui i genitori tramettevano ai propri figli la stessa lingua appresa dai loro genitori, semplicemente parlando con essi con la loro lingua – come si fa dappertutto – ed hanno incominciato a parlar loro con un’altra lingua, la lingua italiana, privandoli, così, di una conoscenza, di una risorsa, di uno dei segni più importanti di un popolo.
Una violenza che ho subito anch’io. Ma mi sono ribellato, ho avuto la fortuna di poterla apprendere ugualmente ed è ora l’unica e sola lingua con la quale comunico, sin dal gionro in cui sono nati, con i figli miei.

Le, istituzioni, laiche o religiose, a loro volta, hanno ritenuto disdicevole utilizzare la propria lingua, sino a vietarla nelle scuole, a proibirla nelle celebrazioni religiose, nonostante, come insegna Papa Francesco, cresciuto nel dialetto piemontese, la fede solo si può tramettere nel proprio dialetto, nella lingua materna.

È per questo che una parte di voi, giovani, per comprendere la vostra stessa lingua, in questa occasione, dovrete ricorrere ad una traduzione all’Italiano

Allo stesso tempo, tuttavia, avete oggi la fortuna di partecipare ad una celebrazione che avviene senza più la sudditanza del passato, avendo superato la vergogna, mentre avanza, anche nelle istituzioni, il recupero della dignità della nostra lingua e la consapevolezza di quanto sia importate questo segno di identità del popolo sardo.

La Sardegna ha una sua bandiera, un suo stemma, ereditati da una storia lontana, privi di sicuro certificato di nascita. Pur in presenza di qualche divergenza di opinioni, la legge ribadisce, che la testa di ciascun moro deve apparire bendata e rivolta verso il lato che si fissa all’asta.

La Sardegna ha un suo inno, scelto spontaneamente dal popolo mediante l’uso, e ratificato, e reso inno ufficiale della regione Sardegna, nel 2018, con la legge regionale n. 14 che ha anche individuato le strofe da eseguire nelle cerimonie ufficiali: il componimento di Francesco Ignazio Mannu: “Su patriota sardu a sos feudatarios“, che da oltre un secolo ci tramandiamo con le parole del primo verso: “Procurare e moderare”.

E la Sardegna ha una sua festa, Sa die de sa Sardigna, il 28 aprile, istituita con la legge regionale n. 44 del 1993.

La festa cade nel giorno della rivolta dei cagliaritani – che costrinse alla fuga il viceré e i funzionari sabaudi – ma non è la conseguenza naturale di quell’episodio.

Essa rappresenta, piuttosto, la conclusione simbolica di un percorso, avviatosi negli anni 70 del secolo scorso, sfociato prima nella aspirazione, e poi nella decisione di istituire una giornata di riflessione, di festa, del popolo sardo.

Un processo che si inserisce nella lungo dibattito sull’autonomismo della Sardegna che, a partire da quegli anni, ha visto una forte ripresa del sentimento identitario. Sentimento ostacolato da un processo di centralizzazione politica e culturale che impediva l’espressione delle culture del popolo sardo, vietandole – a volte – ostacolandole, o confinandole all’esteriorità dello stereotipo o del folklore.

Quanto ai simboli della nostra identità abbiamo quindi le carte in regola. Ma le cose – purtroppo – non sono così semplici.

L’attuale situazione del popolo sardo può essere rappresentta con un’immagine: Dopo la stagione del peccato – durante la quale, prima ancora che il gallo cantasse, abbiamo ripetutamente rinnegato la nostra stessa storia – viviamo la stagione del pentimento. Ci redimiamo, a poco a poco, imparando a capire, ad assaporare, a promuovere i segni della nostra identità di popolo, e ad andarne orgogliosi. Il Concilio plenario sardo del 2001 ha rivalutato la lingua sarda quale “singolare strumento comunicativo della fede” e ne ha auspicato la valorizzazione nella liturgia.

Ma non sono i segni esterni, quelli formali, la cosa più importante. Dobbiamo chiederci quali siano i segni, i simboli interiori dell’identità. Cosa significa, in definitiva, essere sardi, essere popolo

Non è la bandiera in sé, ad essere importante. Ma il fatto che, sempre più spesso, uomini e donne avvertano il bisogno di sventolarla, quella bandiera, nelle più disparate manifestazioni , in tutto il mondo, dalle strade delle corse ciclistiche al sagrato di piazza San Pietro, per un bisogno – che viene da dentro – quello di rappresentare la propria appartenenza ad un popolo, di farsi riconoscere e di voler essere riconosciuti.

Ma come può esser certificata l’appartenenza al popolo sardo?
Non certo per l’esistenza di un inno o di una bandiera; semmai per il gusto, la passione e la gioia, di quanti sventolano quella bandiera o cantano quelle strofe.

Sardi sono forse tutti coloro che risiedono in quest’isola che, da sempre, vagabonda nel Mar mediterraneo? O quanti in quell’isola sono nati? O saranno i filamenti del DNA a rivelare chi veramente è sardo e chi non lo è? O saranno la bassa statura, il colore dei capelli, la “u” nella finale delle parole, o la capacità di esprimersi in una delle lingue locali? O potrà essere l’albero genealogico, a volte rappresentato dal cognome?

Niente di tutto ciò. In primo luogo: soprattutto, non è la cittadinanza a definire un popolo, anche se il temine popolo viene usato anche come equivalente dei cittadini di uno Stato.

Un popolo può esistere e mantenere la propria identità culturale anche all’interno di una più ampia realtà statale; a volte, come per la Sardegna, con il riconoscimento da parte dello Stato della sua specialità e l’attribuzione di alcuni poteri di autonomia.

Un popolo può esistere persino in assenza di territorio, come è stato per il popolo di Israele, che ha mantenuto la propria identità di popolo anche senza essere Stato; o come i popoli oppressi, kurdi, palestinesi e tanti altri, vivi e vitali, nonostante venga loro negato il diritto costituire un’entità statale nei territori in cui vivono. Alcuni popoli mantengono la loro forte identità, come i Rom, nonostante neppure abbiano un territorio da rivendicare.

I gradi di esercizio del dominio sui popoli che reclamano i propri diritti, per fortuna, non sempre, raggiungono gli inauditi livelli di ferocia e di inumanità che oggi – con il silenzio complice di troppe persone e troppi Stati, – si consuma contro il popolo palestinese, e che dovrebbe farci vergognare.

Nessuno viene iscritto, d’ufficio, al popolo sardo. Il popolo sardo, è costituito dalle persone che, in riferimento ideale alla terra ed alla storia della Sardegna, condividono la fatica di vivere, condividono la speranza nel futuro, condividono la solidarietà, hanno coscienza di appartenere ad una collettività e collaborano per il suo progresso.

Ecco, il segno più importante è proprio questo: il cuore.
M’intendu in coru chi sardu seu!

Niente ci appartiene, siamo noi ad appartenere alla nostra terra, alla nazione sarda, al popolo sardo. La stragrande maggioranza di noi sarà dimenticata ed altri verranno a prendere il nostro posto.

Tuttavia, per tutto il tempo in cui continuiamo ad appartenere a questa nostra patria – l’uomo ha due patrie: una è la sua casa e altra è il mondo! – abbiamo l’opportunità di operare, nel bene e nel male: conservando ed arricchendo il suo territorio, oppure devastandolo; abbiamo l’opportunità di arricchire la sua storia e la sua cultura, oppure di immiserirla; abbiamo l’opportunità di contribuire alla sua crescita economica e al benessere della collettività, oppure di sottrarre risorse per il nostro egoismo.

Tutti possono far parte del popolo sardo: tutti coloro che, indipendentemente dalla terra d’origine, dal colore della pelle e di ogni altra differenza, hanno eletto la Sardegna quale loro terra e contribuiscono con il lavoro, con le opere, con la loro cultura, al progresso della terra che li accoglie.

Così è sempre stato nella storia della Sardegna: un crogiolo di persone, di gruppi, di comunità, non di rado essi stessi invasori, inizialmente, che hanno poi aderito al patto costitutivo, non scritto, del nostro popolo.

Il giorno della Festa del popolo sardo è, e dovrà continuare ad essere, un’ occasione per rinnovare il patto di convivenza, l’impegno a trasmettere l’eredità ricevuta, ricordando che la cultura e la lingua sono parti inseparabili dell’ambiente naturale che abbiamo il dovere di tramettere intatto, e se possibile migliorato, alle future generazioni.

Se il cuore ce lo comanda.
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Sa Die de Sa Sardinia – La celebrazione in Consiglio regionale

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[Dal sito web della RAS] Cagliari, 28 aprile 2024 – La presidente della Regione Alessandra Todde ha partecipato oggi, in Consiglio regionale, alle celebrazioni della Sa Die de sa Sardigna.
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Di seguito la traccia del suo intervento.

Presidente Comandini, consigliere e consiglieri, ragazzi e ragazze, noi sardi abbiamo diritto a festeggiare noi stessi e la nostra storia. Ed è con emozione che prendo la parola per celebrare con voi “Sa Die de sa Sardigna”. Per troppo tempo ci siamo raccontati che di storia non ne avevamo, dando per buono che il nostro passato fosse solo un susseguirsi di dominazioni, un vuoto di vera storia, quella con la S maiuscola, quella prodotta da soggetti attivi che lottano, creano, sognano. Oggi siamo qui a ricordare a noi stessi, e a chiunque ami questa terra, che abbiamo avuto una storia nostra, imbevuta di mondo, intessuta di grandi aspirazioni, certo complicata da cadute ma anche ricca di momenti alti. Siamo un popolo che ha affrontato contraddizioni ma anche depositario di grandi potenzialità che ancora dobbiamo dispiegare totalmente. Conoscendo questa storia, condividendola, meditandola, traducendola giorno dopo giorno noi costruiamo gli strumenti per alimentare il nostro desiderio di unità, libertà e prosperità. Per questo dobbiamo festeggiarci senza incensarci: Sa Die non è e non deve essere un giorno di parole roboanti a compensazione degli altri 364 giorni dell’anno. Sa Die non è e non deve essere una sbornia di fierezza o di rivalsa che ci esime dal fare i conti con la nostra coscienza e la nostra azione politica ogni giorno dell’anno. Sa Die non è il fine ma è un impegno. L’impegno a conoscerci, a fare i conti con noi stessi. Per migliorarci, per agire in modo differente. L’autodeterminazione, lo abbiamo detto, cammina sulle spalle di un popolo istruito. Un popolo consapevole di sé. La nostra coscienza nazionale di sardi è un compito, e Sa Die è l’occasione per assumere l’impegno a svolgere questo compito con slancio rinnovato, costante, convinto, chiamando alla partecipazione ogni donna e uomo di Sardegna. A maggior ragione lo dico parlando a voi giovani, che siete i costruttori del presente e del prossimo futuro.
img_6973Il nostro patto generazionale si è rotto e possiamo ricostruirlo attraverso la conoscenza della nostra storia che ci aiuti a creare una nuova comune coscienza collettiva. Sa Die non è un giorno solitario: non lo fu allora e non deve esserlo oggi. Gli eventi che commemoriamo non iniziarono e non finirono in quel 28 Aprile 1794. Quella giornata di sollevazione – che la parte più timorosa della classe dirigente immediatamente bollò come “emozione popolare” – affondava le sue radici alla metà del Settecento, nella riscoperta da parte dei sardi della loro diversità nazionale, così come nella crescente consapevolezza popolare di una condizione di ingiustizia di cui il feudalesimo era il segno più appariscente. Questa corrente, alimentata carsicamente dalla nostra lunghissima storia di sovranità, testimoniata dal rifiorire della lingua sarda, si alimentava al contempo delle correnti di pensiero illuministe, riformiste, rivoluzionarie che attraversavano l’Europa. Per questo Sa Die fu più di una ribellione estemporanea. Per questo il suo culmine non è la cacciata temporanea della classe dirigente sabauda e la sua esemplarità non risiede nello spirito di rivendicazione che innerva le “cinque domande” che la classe dirigente sarda rivolse con ingenua fiducia al sovrano sabaudo. Sa Die ci parla di tempi costituenti. Tempi in cui un parlamento riprende vita, la virtù patriottica accende gli animi, le nostre comunità sperimentano patti federativi per liberarsi dal giogo feudale, una parte importante della classe dirigente sarda pone la felicità e la dignità della Nazione sarda come suo obbiettivo. “Un Regno non mai Colonia d’alcun altra Nazione, ma separato ed indipendente dalli Stati di Terraferma”, così si esprime il Parlamento sardo una volta autoconvocato nel 1793. “La Nazione Sarda contiene in sé stessa delle grandi risorse per potere sviluppare una grande forza coattiva, onde fare rispettare la sua costituzione politica”, così recita L’Achille della Sarda Liberazione, uno dei pamphlet simbolo del triennio rivoluzionario sardo. Non è questa l’occasione per discutere su come e perché questo spirito si sia infranto, tanto da arrivare a noi offuscato se non completamente dimenticato. L’occasione odierna è piuttosto quella di guardarci nello specchio della storia e capire insieme se, proprio grazie a questa storia, possiamo fare di più e meglio per la nostra gente e la nostra terra. Se possiamo trovare in essa alimento per delle sfide enormi, come quelle di chi deve affrontare le molteplici crisi che sembrano condannare la Sardegna a un destino di spopolamento e spoliazione. Nel 1798, nel suo Essai sur la Sardaigne indirizzato da Parigi al Parlamento Sardo, il grande giurista sassarese Domenico Alberto Azuni scriveva: “Il mio unico scopo è ricordare alla Nazione lo studio dell’economia politica, e di stimolarla a mettere ogni cura nel commercio, nell’industria, nelle manifatture, nella navigazione. La posizione dell’isola al centro del Mediterraneo, tra i due grandi continenti d’Africa e d’Europa; la molteplicità delle sue produzioni, le cui considerevoli eccedenze possono essere annualmente esportate; la sicurezza dei suoi porti; la ricchezza dei suoi mari, dovrebbero renderla consapevole che essa è destinata dalla Natura ad avere un rango distinto fra le Nazioni commercianti dell’Universo”. Nel 1799, nel suo Memoriale scritto dall’esilio, il leader della Sarda Rivoluzione, Giovanni Maria Angioy, diceva: “Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa”. Queste parole di fiducia forse suonano lontane. E ancor più lontano suona forse il loro presupposto: “testimoniare pubblicamente l’attaccamento alla patria”, contribuire alla “felicità della Nazione sarda”, fare della Sardegna uno Stato d’Europa. Il punto non è risolvere la distanza fra noi e quel passato in un giorno, tantomeno con un discorso. Il punto è non aver paura a ricordare queste parole e quello spirito, anche queste parole e quello spirito, per cui tanti sacrificarono la loro vita. Se avremo la forza di fare i conti, da domani, nel nostro concreto operare – come Governo, come Parlamento, come classe dirigente, come società sarda nella sua interezza -, con questo lascito, allora apriremo davvero una via, difficile ma necessaria, ad una diversità consapevole, effettiva, produttiva. In altre parole, mentre celebriamo, abbiamo l’occasione di domandarci se sia meglio proseguire con una storia di rivendicazione, in cui noi sardi chiediamo ad altri di farsi carico dei nostri problemi e delle loro soluzioni, o se non sia il caso di entrare in una fase di reale autodeterminazione, in cui plasmare una nuova politica sarda, in cui costruire con tutta la passione e l’intelligenza possibile delle istituzioni al pieno servizio dei sardi e della Sardegna. Il primo modo per cambiare la propria storia è raccontarla in modo diverso. È raccontarci in modo diverso. Anche a costo di mettere in discussione quegli stereotipi e quell’orgoglioso senso di identità che dietro un velo di confortante abitudinarietà nasconde la difficoltà a darsi valori alti e obbiettivi chiari. Motivi di unità. Motivi per avanzare. Da troppo tempo siamo intrappolati in un racconto che è “contro”. Un racconto in cui altri hanno il potere di decidere della nostra vita e a noi non rimane che ribellarci per rivendicare un trattamento meno opprimente. Ma questa non è la nostra storia. Non è l’unica che il nostro passato ci ha lasciato in eredità. Non è la migliore che possiamo raccontare a noi stessi e, soprattutto, ai nostri figli e alle nostre figlie. C’è una storia di autodeterminazione tutta da scrivere, tutta da fare. E allora quando cantiamo le strofe di ‘Su patriota sardu a sos feudatarios”, scritto da Francesco Ignazio Mannu nel 1795, durante i moti rivoluzionari e dal 2018 inno della Sardegna,
img_6974img_6975andiamo oltre la rivendicazione e sforziamoci di costruire, progettare, inventare ciò che vogliamo la nostra isola diventi.
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Sa Die de Sa Sardigna è l’occasione per ricordarlo a noi stessi.
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