Editoriali

Sussidiarietà e Beni comuni

valutazione-dirinnova-pittura-palabsusIL PUNTO DI LABSUS
Come i cittadini potrebbero investire sull’amministrazione condivisa dei beni comuni
di Carlo Borzaga – 17 gennaio 2017 su Labsus.

Dalle esperienze di amministrazione condivisa e di gestione comunitaria di beni comuni o di interesse generale che si stanno moltiplicando anche in Italia, appare chiaro che la strategia che le sostiene rappresenta una delle poche vere innovazioni sociali di questi ultimi anni. Non solo e non tanto per quello che queste prime esperienze sono già state in grado di realizzare, ma per aver aperto nuove prospettive sia nel modo di concepire alcuni beni che nelle modalità di gestione.

Esse hanno infatti contribuito a superare la tradizionale classificazione dei beni basata sulle modalità di gestione secondo lo schema dicotomico pubblico-privato, a favore di una classificazione – quella di bene privato versus bene comune – che ne sottolinea piuttosto il ruolo nel consentire ad ogni cittadino il pieno godimento dei diritti fondamentali. Esse hanno così permesso di superare anche l’idea che solo la gestione pubblica è in grado di garantire l’accesso a beni fondamentali, a favore di forme di gestione condivisa e partecipata da parte dei cittadini. Mettendo di conseguenza in discussione l’approccio autoritativo tipico delle amministrazioni pubbliche e sostenendone invece uno di tipo inclusivo e cooperativo.

Un approccio orientato alla fruizione collettiva dei beni comuni

Fino ad ora tuttavia le iniziative di amministrazione condivisa hanno privilegiato interventi leggeri, basati soprattutto sulla messa a disposizione a titolo gratuito del tempo dei cittadini attivi e lasciando comunque la titolarità delle iniziative, e delle decisioni conseguenti, alle amministrazioni pubbliche. In queste fasi iniziali si è cioè cercato soprattutto di promuovere, a livello sia culturale che istituzionale, la collaborazione dei cittadini alla cura di determinati beni, senza proporre che essi ne assumano direttamente la gestione e tanto meno la proprietà, avendo come obiettivo quello di migliorare la fruizione dei beni stessi a la qualità della vita delle comunità di riferimento. Anche le ancora numericamente limitate esperienze a carattere più imprenditoriale – come le cooperative di comunità – hanno mantenuto dimensioni economiche contenute e tendono ad essere viste prevalentemente come utili solo per la conservazione o il rilancio di aree marginali.

Dalla collaborazione all’amministrazione condivisa

Nel corso di questi anni tuttavia – a seguito dell’intensificarsi della riflessione sul tema dei beni comuni, del consolidarsi di un numero crescente di iniziative dal basso e del dibattito intorno alla natura e della regolamentazione del Terzo Settore e dell’impresa sociale che ha accompagnato l’approvazione della legge n. 106 del 2016 – si è fatta strada la convinzione che sia possibile andare oltre quanto finora pensato e realizzato, passando alla gestione diretta da parte dei cittadini organizzati sia di servizi di interesse comune che di beni pubblici e privati non utilizzati o utilizzati in modo poco efficiente e, in alcuni casi, di beni e servizi attualmente a gestione pubblica ma che i Comuni o gli enti responsabili vorrebbero dare in gestione ad altri perché non in grado di fare su di essi gli interventi o gli investimenti necessari.
Definiti i beni comuni in questo modo il numero di quelli che potrebbero essere presi in gestione dai cittadini diventa quasi infinito: si va da servizi essenziali ma carenti, alla ristrutturazione, manutenzione e gestione a fini di interesse comunitario di decine di migliaia di immobili, alla gestione della fornitura di acqua fino alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.

Le risorse dei cittadini

Questa evoluzione in senso più “macro” dell’idea di amministrazione condivisa richiede però un nuovo sforzo di innovazione,sia sul piano culturale che su quello organizzativo. Per concretizzarsi essa richiede infatti investimenti di risorse finanziarie che per la loro consistenza non possono essere realizzati né ricorrendo – soprattutto in questo momento – al sistema bancario, né con le classiche raccolte di fondi né con le risorse – importanti ma finite – delle fondazioni grantmaking. Risorse che potrebbero invece essere reperite, in modo coerente con la filosofia sottostante l’idea stessa dell’amministrazione condivisa, attraverso l’impiego diretto e senza intermediari dei risparmi dei cittadini.E solo successivamente ricorrendo a risorse pubbliche o a quelle messe a disposizione dalle istituzioni finanziarie tradizionali – che stanno già manifestando qualche interesse per queste opportunità nelle forme della “finanza di impatto”. Se questa operazione riuscisse, all’impatto sociale e sulla qualità della vita che fino ad ora ha rappresentato l’obiettivo principale delle iniziative di amministrazione condivisa, si aggiungerebbe un impatto ulteriore, tutt’altro che marginale, sulla crescita economica del paese.

La stagnazione degli investimenti

Anche se nelle analisi sulla mancata ripresa si insiste molto sul ristagno dei consumi, è evidente che anche il crollo prima e il basso livello poi degli investimenti hanno avuto e continuano ad avere un ruolo importante. Dal 2008 al 2015 essi hanno infatti registrato una caduta continua passando da 304 a 273 miliardi. Nel 2014 il loro livello era inferiore a quello del 1999: fatto 100 quest’ultimo il valore del 2104 si attestava a 93 contro 125 degli Stati Uniti e 111 della Germania. Il calo degli investimenti è stato maggiore di quello del Prodotto interno lordo così che la loro incidenza sullo stesso è passata dal 23% a poco più del 16%. A questa contrazione hanno contribuito anche gli investimenti pubblici che sono passati da un peso sul Pil già basso nel 2008 – e pari al 3.5 – a poco più del 2 nel 2014.
All’origine di questi andamenti ci sono sia le scarse opportunità di investimento in attività private che i limiti imposti alla spesa pubblica. Ne sono esempio gli investimenti nel settore idrico: nonostante vi sia un riconosciuto e urgente bisogno di qualche decina di miliardi di investimenti in questo settore essi, dopo avere raggiunto il massimo di 2 miliardi e 300 milioni di euro nel 1982, sono scesi a poco più di un miliardo negli anni recenti.
Questa stagnazione degli investimenti non dipende invece in nessun modo da carenze di liquidità: all’offerta garantita dalla politica monetaria espansiva si possono aggiungere i quattro trilioni di euro di ricchezza finanziaria (al netto del patrimonio immobiliare), ricchezza che è cresciuta anche nel corso della crisi, come dimostra l’aumento di 144 miliardi di risparmi a partire dal 2008, recentemente stimato dal Censis. Ricchezza e risparmi che faticano a trovare occasioni di impiego e, anche a seguito delle perdite causate dalle crisi di alcune importanti banche nazionali, vengono sempre più spesso parcheggiati su conti correnti praticamente infruttiferi.

I cittadini potrebbero investire sui beni comuni

Secondo le tradizionali politiche fiscali,in una situazione di recessione questo eccesso di risparmio dovrebbe venire intercettato e dirottato verso investimenti in infrastrutture attraverso l’emissione di titolo del debito pubblico.
Cosa che è oggi, al contempo auspicata da molti economisti ma impedita dalle regole europee. Regole che però non impediscono che siano direttamente i privati a fare gli investimenti in quella parte di infrastrutture che rientrano nelle definizione di beni comuni o che possono essere “trasformate” in beni comuni se le amministrazioni pubbliche che ne sono proprietarie li cedono in gestione a imprese direttamente gestite dai cittadini.
Impegnandosi solo a riconoscere un contributo annuale ex post che, unitamente ad altre eventuali entrate, garantisca il recupero della spesa sostenuta in un determinato numero di anni.
Si tratta in altri termini di offrire ai cittadini una modalità alternativa di utilizzo dei propri risparmi che consiste nel metterli direttamente a disposizione di iniziative di interesse delle proprie comunità, non sotto forma di donazioni ma di veri e propri investimenti remunerati in modo adeguato, anche se comunque inferiore a quello che richiederebbe qualsiasi intermediario finanziario. Non è insensato ritenere che se la diffusione di iniziative di questo tipo avvenisse con la stessa velocità con cui si stanno diffondendo le pratiche di amministrazione condivisa ne risentirebbero positivamente e in tempi brevi non solo le comunità e i cittadini interessati, ma anche gli investimenti a livello macroeconomico e quindi il tasso di crescita.

Imprese per l’amministrazione condivisa

Ovviamente tutto questo può avvenire solo in presenza di determinate condizioni, sia culturali che istituzionali. Innanzitutto è necessario che le istituzioni pubbliche – dai partiti, agli amministratori, ai funzionari –ripongano maggiore fiducia nelle potenzialità insite nelle forme di autogestione da parte dei cittadini, oggi viste ancora troppo spesso come interessanti, utili ma sostanzialmente amatoriali. Con poco rispetto per l’articolo 43 della nostra Costituzione. Ma è necessario che anche i promotori delle forme di amministrazione condivisa e di produzione associata di beni comuni abbiano maggior fiducia in sé stessi e affianchino alla logica del “piccolo – e locale -è bello” la capacità – oggi assente – di gestire anche il “grande”, superando il timore di andare oltre il volontariato di testimonianza per diventare vere e proprie imprese. Pronti quindi a utilizzare tutti gli strumenti tipici dell’impresa, inclusi quelli destinati a raccogliere il capitale necessario a realizzare il proprio obiettivo. Nella convinzione che,se si vuole uscire da una crisi che ha sempre più una connotazione strutturale, l’impresa va considerata e gestita come un meccanismo di coordinamento di una pluralità di risorse per raggiungere qualsiasi obiettivo e non necessariamente solo o soprattutto quello del profitto.

Sul piano più tecnico occorre sia consentire alle iniziative imprenditoriali volte alla gestione di beni comuni di utilizzare tutti gli strumenti a disposizione delle imprese tradizionali – come “minibond comunitari”, “azioni solidali” o istituti come quello del socio finanziatore già previsto per la cooperative – sia prevedere o rafforzare strumenti e sostegni quali appositi fondi di garanzia a copertura dei rischi che questi investimenti comportano.

Nuovi strumenti per le imprese sociali

Qualche iniziativa in questo senso è prevista dalla legge di riforma del Terzo Settore ed è in corso di implementazione. Di particolare interesse sono: la previsione di permettere anche alle imprese sociali di accedere a forme di raccolta di capitale di rischio tramite portali telematici; agevolazioni fiscali volte a favorire gli investimenti di capitale in imprese sociali; meccanismi destinati a favorire la diffusione dei titoli di solidarietà e di altre forme di finanza sociale.Tutte iniziative e interventi che potrebbero essere coordinati, moltiplicati e favoriti dalla costituenda Fondazione Italia Sociale.
Per quanto riguarda invece l’istituzione di fondi di garanzia sarebbe utile che quelli che, secondo quanto già deliberato dal Cipe, dovrebbero coprire gli investimenti fatti dalle imprese sociali utilizzando crediti concessi dalle banche potessero garantire anche quelli finanziati direttamente dai cittadini. Siamo solo all’inizio di un percorso nuovo e per questo, nell’attesa che questi interventi di sostegno vengano meglio precisati e definiti, è importante che la riflessione sulle potenzialità dell’amministrazione condivisa dei beni comuni si intensifichi e si faccia più coraggiosa.

Carlo Borzaga è Presidente di Euricse
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La cooperazione di comunità. Azioni e politiche per consolidare le pratiche e sbloccare il potenziale di imprenditoria comunitaria
LibroBianco_Coop di comunità
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Rocca 3 2017

Sussidiarietà: un principio costituzionale da praticare

valutazione-dirinnova-pittura-paSussidiarietà & articolo 118

logo Cittadinanza attivaa cura di Cittadinanzattiva

Il principio di sussidiarietà è regolato dall’articolo 118 della Costituzione italiana il quale prevede che “Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarità”. Tale principio implica che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni necessarie per permettere alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente nello svolgimento della loro attività. L’intervento dell’entità di livello superiore, qualora fosse necessario, deve essere temporaneo e teso a restituire l’autonomia d’azione all’entità di livello inferiore.

Il principio di sussidiarietà può quindi essere visto sotto un duplice aspetto:

in senso verticale: la ripartizione gerarchica delle competenze deve essere spostata verso gli enti più vicini al cittadino e, quindi, più vicini ai bisogni del territorio;
in senso orizzontale: il cittadino, sia come singolo sia attraverso i corpi intermedi, deve avere la possibilità di cooperare con le istituzioni nel definire gli interventi che incidano sulle realtà sociali a lui più vicine.
La crescente richiesta di partecipazione dei cittadini alle decisioni e alle azioni che riguardano la cura di interessi aventi rilevanza sociale, presenti nella nostra realtà come in quella di molti altri paesi europei, ha dunque oggi la sua legittimazione nella nostra legge fondamentale. Quest’ultima prevede, dopo la riforma del Titolo V, anche il dovere da parte delle amministrazioni pubbliche di favorire tale partecipazione nella consapevolezza delle conseguenze positive che ne possono derivare per le persone e per la collettività in termini di benessere spirituale e materiale.

In effetti l’applicazione di questo principio ha un elevato potenziale di modernizzazione delle amministrazioni pubbliche in quanto la partecipazione attiva dei cittadini alla vita collettiva può concorrere a migliorare la capacità delle istituzioni di dare risposte più efficaci ai bisogni delle persone e alle soddisfazione dei diritti sociali che la Costituzione ci riconosce e garantisce.

Da un lato alcune amministrazioni pubbliche hanno già intrapreso iniziative volte a favorire la sussidiarietà orizzontale e dall’altro la società civile si è mossa nella stessa direzione con azioni concrete sostenute peraltro da una parallela attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, di ricerca e di documentazione e, più in generale, di approfondimento scientifico del fenomeno.

I cittadini attivi, applicando il principio di sussidiarietà (art. 118 ultimo comma della Costituzione), si prendono cura dei beni comuni. Entrambi, volontari e cittadini attivi, sono “disinteressati”, in quanto entrambi esercitano una nuova forma di libertà, solidale e responsabile, che ha come obiettivo la realizzazione non di interessi privati, per quanto assolutamente rispettabili e legittimi, bensì dell’interesse generale.

Quando la Costituzione afferma che i poteri pubblici “favoriscono le autonome iniziative dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”, essa legittima da un lato i volontari tradizionali, che da sempre svolgono attività che si possono definire di interesse generale, e dall’altro quei soggetti che si definiscono cittadini attivi, persone responsabili e solidali che si prendono cura dei beni comuni.

I cittadini attivi, in quanto non proprietari bensì custodi dei beni comuni, esercitano nei confronti di tali beni un diritto di cura fondato non sul proprio interesse, come nel caso del diritto di proprietà, bensì sull’interesse generale. Ciò che giustifica il loro impegno è infatti solo in parte un loro interesse diretto e immediato alla produzione, cura e sviluppo dei beni comuni. C’è anche questo, certamente (e infatti questo può essere un elemento che differenzia i volontari dai cittadini attivi) ma ciò che spinge i cittadini attivi a prendersi cura dei beni comuni è la solidarietà. In sostanza, i volontari sono “disinteressati” in quanto vanno oltre i legami di sangue per prendersi cura di estranei, i cittadini attivi sono “disinteressati” in quanto vanno oltre il diritto di proprietà per prendersi cura di beni che sono di tutti. In entrambi i casi, si tratta di un’evoluzione quanto mai positiva della specie umana, che dimostra in tal modo di saper uscire dalla ristretta cerchia familiare e dall’individualismo proprietario per aprirsi al mondo.

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Approfondimenti

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labsus
Laboratorio per la sussidiarità: Labsus.org
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Rencontres 1936
Spesso, in tutti i campi, l’innovazione non consiste tanto nella scoperta di qualcosa che nessuno aveva mai visto prima, quanto nella combinazione inedita di fattori noti. Nel caso della sussidiarietà orizzontale, essa rappresenta uno stimolo straordinario all’innovazione in campo amministrativo perché consente l’interazione di fattori noti, quali le pubbliche amministrazioni e i cittadini, in modi imprevedibili e quindi con risultati innovativi. Il risultato dell’interazione fra le risorse di cui sono portatrici le amministrazioni e quelle di cui sono portatori i cittadini non è una semplice somma aritmetica; semmai, è più simile al risultato che si ottiene mescolando fra loro i colori base. Supponendo che la pubblica amministrazione sia il giallo e i cittadini il blu, il risultato che emerge applicando il principio di sussidiarietà orizzontale non è una semplice mescolanza fra due colori, bensì è un colore nuovo, il verde. La sussidiarietà orizzontale opera nella società e nel sistema amministrativo come il pittore che sulla tavoletta mescola i colori fra di loro, con risultati ogni volta diversi; e dunque anche le tonalità, per così dire, del verde che metaforicamente emerge dalla collaborazione fra pubblico e privato saranno ogni volta diverse a seconda delle situazioni locali, delle risorse disponibili, delle modalità di interazione, e così via.
(Gregorio Arena, università di Trento)
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Gregorio Arena – Per una cultura dei beni comuni
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Rapporto Amministrazione Beni Comuni 2016
Layout 1
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Beni comuni: il regolamento della Città di Torino (REGOLAMENTO SULLA COLLABORAZIONE TRA CITTADINI E AMMINISTRAZIONE PER LA CURA, LA GESTIONE CONDIVISA E LA RIGENERAZIONE DEI BENI COMUNI URBANI
Approvato con deliberazione del Consiglio Comunale in data 11 gennaio 2016 (mecc. 2015 01778/070), esecutiva dal 25 gennaio 2016)

Toh chi si rivede: il comunismo!

copertina-inserto-comunismoComunismo17: una jam session senza nostalgia
C17: il convegno a Roma. Il fallimento del socialismo reale non coincide con il venir meno della necessità politica «del movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti»

di Luciana Castellina su il manifesto
EDIZIONE DEL 18.01.2017
PUBBLICATO il 18.1.2017, 14:54

Per un giornale che come il nostro [il manifesto] (ormai unico in Italia e raro nel mondo) si ostina a definirsi «quotidiano comunista», un grande convegno internazionale proprio a Roma che rilancia l’attualità dell’aggettivo, è buona cosa. Si terrà, iniziando nientedimeno che nei locali della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, e proseguendo anche in altre sedi (il Cinema Palazzo e Esc Atelier), dal 18 al 22 gennaio. «Un’idea di comunismo» era stato il nome delle analoghe precedenti edizioni, pensate sopratutto da Alain Badiou e Slavoj Zizek: quella di Londra del 2009, poi di Berlino, di New York, di Seul.

Questa di Roma è però speciale e infatti si chiama «Comunismo 17», perché sarà il primo evento di un centenario importante: quello della Rivoluzione d’ottobre. E già questo pone un primo interrogativo e non di poco conto: quando parliamo di comunismo in che rapporto lo poniamo con quella vicenda? Si tratta di un problema che ha a lungo travagliato il movimento operaio e però è vero che negli ultimi decenni, dopo la fine dell’Urss, è stato rimosso, difficile rintracciare un interesse per il tema nelle generazioni maturate in questo secolo, facilmente reclutate dal pensiero dominante: che si sia trattato soltanto di un altro, forse il principale, orrore del XX secolo. La giudiziosa espressione usata da Berlinguer nel 1981, al momento della definitiva rottura con il Pcus – l’ottobre ha perso la sua spinta propulsiva ma guai se non ci fosse stato – ha finito, nel migliore dei casi, come sappiamo, per esser memorizzata solo a metà. (Per la verità il ’17 è anniversario – 150 anni – anche del primo volume del Capitale, altro evento su cui chi si definisce comunista farebbe bene a meditare).
È singolare che sebbene tutt’ora si sia in (relativamente) tanti a definirci comunisti, il concetto sia sempre rimasto nebuloso. Oggi, per fortuna, si è imparato a declinarlo al plurale; e già questo aiuta. Ma non basta. Perché ci definiamo tali?
copertina-inserto-comunismo
I 100 anni che hanno sconvolto il mondo: la copertina dell’inserto de IL Manifesto
L’INDETERMINATEZZA del termine è antica, anzi originaria. Marx infatti non si è mai sognato di indicare un preciso modello di società comunista se non attraverso qualche idilliaca immaginazione di come avrebbe potuto essere la vita una volta sconfitta l’alienazione del lavoro. E proprio lui, così severo con i pasticcieri dell’avvenire, si lascia andare, nell’Ideologia tedesca, a dire: «quel che vogliamo è un mondo dove sia possibile per tutti far crescere i bambini, arredare la casa, intrattenere gli ospiti, cucinare buoni pasti, fare e ascoltare musica».

In effetti – sebbene un po’ troppo familista – non è male come obiettivo. Giustamente Herbert Marcuse aveva conferito indirettamente al progetto una sua concretezza politica con le parole dette, nell’euforia del ’68: che l’evoluzione della società contemporanea, la dinamica della produttività, ha privato la nozione di utopia del suo carattere irrealistico. Se non si possono ottenere le cose che si vogliono, non è perchè è impossibile, ma solo perché sono bloccate dai rapporti sociali di produzione del capitalismo.

Basta farli saltare, dunque. Sul perché non ci siamo ancora riusciti in realtà da tempo si è discusso poco, e temo non se ne discuterà molto nemmeno nella prossima conferenza romana: la riflessione critica e l’analisi storica sembrano essere oggi le più mortificate fra le attività cui i comunisti si sono dedicati, sebbene sia Marx che Lenin ci avessero abituato al contrario. Perché credo che se dobbiamo indicare il senso vero della parola comunismo, fra i molti che possono esserle conferiti, il più appropriato resti quello usato da Marx stesso: «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti»; e dunque conta l’esperienza storica, quella che ha coinvolto milioni di persone nel tentativo di uscire dal sistema capitalista e dalle sue miserie; quella che ha governato, nel bene e nel male, i più grandi paesi della terra, il fenomeno che ha forse più di ogni altro segnato l’intero secolo scorso. Un grande processo rivoluzionario, poi degenerato e sconfitto. Su questo, prioritariamente, credo occorrerebbe riflettere seriamente tutti.

È COMUNQUE MERITO del convegno in preparazione aver rilanciato l’ipotesi comunista, aver sdoganato il termine, contro la vulgata che ha finito negli ultimi decenni per relegarlo ad una variante del totalitarismo, un cumulo di macerie. A renderlo di nuovo attuale sono stati i tempi più recenti, che hanno riportato all’odg in forma macroscopica i peccati del capitalismo, dimostrando la sua incapacità di garantire le condizioni minime di sopravvivenza per milioni di umani. E hanno al tempio stesso reso più limpido il messaggio originario di Marx che si è sempre distinto da ogni altra critica «progressista» perché ispirato dall’idea che era necessario trasformare non solo il titolo di proprietà da privato a pubblico, ma l’insieme dei rapporti sociali, i valori individuali e collettivi, che la posta in gioco era – insomma – una vera rifondazione sociale (che è poi la distinzione fra riformismo e rivoluzione).
Ma «la maturità del comunismo», come noi de Il manifesto nelle famose nostre tesi del 1970 indicammo come il nocciolo di quanto si manifestava nel nuovo movimento di critica della modernità capitalista, non va scambiato per attualità politica (anche allora ci fu chi lo interpretò in questi termini).

Dal ’68 un tempo epocale è comunque passato: e per chi crede, come io credo, che non possa esserci un movimento capace di cambiare lo stato di cose presenti senza un soggetto collettivo e la capacità della politica di rappresentarlo coerentemente; che pensa che il drammatico impoverimento della democrazia non sia liberazione da una gabbia filistea ma il logorarsi del terreno più favorevole allo sviluppo di un lungo processo sociale, di cose da ripensare ce ne sono non poche. Conquistare la società ancor prima del potere statale – questo è stato il comunismo italiano, forse l’esperienza più ricca ancorché così travisata dalla sinistra anglosassone – implica una riflessione innanzitutto sulla attuale frantumazione sociale, determinata dalle nuove forme del lavoro, così come dalle diversificazioni culturali indotte dai processi di individualizzazione che essa ha indotto. Non sarà il capitalismo nel suo divenire che produrrà di per sé il suo becchino. Meno che mai. Proprio questa frantumazione, l’aggiungersi di contraddizioni diverse da quella capitale-lavoro, rendono la costruzione del soggetto collettivo ancor più difficile, meno spontanea, più bisognosa di una mediazione politica alta.

Tutte cose che si possono fare, naturalmente. Ha ragione il filosofo francese Alain Badiou quando dice che la scienza ci insegna che un successo è sempre preceduto da tanti fallimenti, perché questa è la ricerca. Sono anche convinta che il famoso sarto di Ulm, assunto da Bertold Brecht come apologo del comunismo, si è sì schiantato gettandosi dal campanile per dimostrare che l’uomo poteva volare, ma poi l’uomo ha effettivamente volato.

Per ora, dunque, ci siamo schiantati, ma in futuro ce la possiamo fare anche noi. Dubito però che saremo molto convincenti se non sapremo dire ai nostri compagni di avventura di quali attrezzi avremo bisogno per non subire la stessa sorte del sarto.

Che ci si debba impegnare, evitando di farsi paralizzare da TINA (there is no alternative) – il mostro del XXI secolo – è fuori discussione. Resto convinta di quanto diceva Sartre: «se l’ipotesi comunista non è valida, significa che l’umanità non è diversa dalle formiche».

“La sovranità appartiene al popolo” ?

logo CQDemocrazia, se il popolo non conta più nulla
di Angelo Cannatà su MicroMega

Quanto conta il popolo nella nostra democrazia? Molto sul piano teorico (“La sovranità appartiene al popolo”, non si poteva dir meglio); sul piano pratico, invece, nella politica e nei giochi di Palazzo, nulla, il popolo non conta nulla. Questa orribile dicotomia mostra – più di ogni cosa – la crisi in cui viviamo.

Il popolo non conta nulla 1. Perché diritti, bisogni, proteste – e i Movimenti che li rappresentano – sono tacciati di populismo e ghettizzati nell’irrilevanza: nell’universo politico delle oligarchie che affossano il Paese non c’è posto per il demos. 2. Perché dopo la vittoria del 4 dicembre – per dirla in breve – resta al governo chi ha perso e ha provato (maldestramente) a riformare la Costituzione. 3. Perché, nonostante milioni di cittadini vogliano pronunciarsi sul Jobs Act, otto membri politicizzati della Consulta glielo impediscono: qualcuno può giurare, per dire, che Amato – l’amico di Craxi – non abbia espresso un voto politico dietro lo schermo (ipocrita) del neutralismo giuridico?

A questo siamo. La Repubblica fondata sul lavoro non consente ai cittadini di pronunciarsi sulla legge che nega i diritti del lavoro. Perché? Perché la Consulta fa politica con le sentenze. Bisogna dirlo, gridarlo dai tetti. Una seconda sconfitta – questa volta sull’articolo 18 – avrebbe demolito definitivamente ogni pretesa di Renzi alla guida del Paese. Il referendum andava fermato o depotenziato: chi doveva capire ha capito e votato – nell’organismo “impolitico” – secondo i desideri della politica: della maggioranza governativa, s’intende. E i cittadini? I cahier de doléances? Proteste, referendum vinti, mobilitazioni, referendum richiesti (con milioni di voti) non contano nulla. Il popolo – teoricamente sovrano – è ignorato. E impoverito: la disoccupazione cresce (vedi dati Istat), “l’occupazione crolla sotto i 50 anni e salgono i voucher”. Camusso ha ragione: “Non c’è libertà nel lavoro senza diritti”. Di più: non c’è democrazia reale senza attenzione ai bisogni primari dei cittadini: le persone non sono numeri.

È una sentenza ingiusta, quella della Consulta, arrivata mentre il popolo è offeso anche su altri versanti: le banche, a cominciare da Montepaschi, sono state spolpate da imprenditori rapaci (che hanno abusato di Orazio: “Fai quattrini, onestamente, se puoi, e se no, come ti capita”). C’è da stupirsi se qualcuno s’incazza? Mi meraviglio piuttosto della capacità di sopportazione degli italiani. Decisivi i 5Stelle: altro che Movimento anti sistema! Contengono la protesta nei binari della legalità. La sinistra renziana, ormai, è aliena rispetto al mondo operaio: può dirsi di sinistra un partito che salva Montepaschi ma non riesce a tutelare i diritti dei lavoratori né dalle truffe bancarie né dagli illegittimi licenziamenti del Capitale?

È il nodo politico dei nostri giorni: la sinistra di governo – com’è stata ridotta – non rappresenta più l’universo del lavoro. Il M5S è percepito come il nuovo (diritti, partecipazione, democrazia diretta) ma deve evitare errori grossolani in politica estera: le giravolte dal gruppo anti all’iper europeista. Non presti il fianco a chi parla di “Setta dell’Altrove”. Non è così. Il Movimento è affidabile e combatte in Italia battaglie di civiltà, ma lo scivolone di Bruxelles c’è stato. Bisogna riconoscerlo e ripartire: con la consapevolezza che le vere “sette” nel nostro Paese hanno spolpato Montepaschi (vogliamo la lista dei grandi debitori); influenzato la Consulta sul Jobs act; costruito governi anomali; demonizzato il popolo: il M5S ha il consenso necessario per spazzare via tutto questo.

Non disperda le sue energie con scivoloni assurdi e cerchi alleanze nella società civile: ha bisogno di una classe dirigente preparata. Basta con la richiesta di denaro ai transfughi (ci sono sempre stati in tutti i partiti), il Movimento si pensi, adesso, come forza di governo. Nulla fa più paura, alla varie massonerie che ammorbano il Paese, della normalità politica conquistata/conquistabile dai pentastallati. “La moderazione – a un certo punto – diventa la tattica preferibile”.

(16 gennaio 2017)
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Verso i referendum sul Job Act
di Roberto Mirasola su il manifesto sardo

No al referendum sull’articolo 18 è questa l’inesorabile decisione che la Corte Costituzionale ha espresso mercoledì 11 gennaio. La decisione di per se lascia perplessi ma prima di poter esprimere giudizi di merito è opportuno aspettare le motivazioni della sentenza.

Ad ogni modo vengono ammessi gli altri due quesiti posti all’attenzione della suprema Corte: i voucher e la clausola di responsabilità negli appalti per le imprese appaltanti e appaltatrici. Non bisogna dunque demordere visto la pressione del governo, (e per la verità non solo la sua), intenzionato ad apportare alcune modifiche per evitare il referendum. Non bisogna dimenticare che l’ultima parola spetta alla Corte di Cassazione che se dovesse rilevare modifiche sostanziali potrebbe far saltare il previsto referendum. Insomma non bisogna mollare la presa vista l’importanza della posta in palio. Il dibattito pubblico al riguardo è già partito e le posizioni sono le più disparate possibili, ma tutte mirano a salvaguardare la normativa sui voucher, seppure con modifiche.

C’è chi vuole inserire delle quote massime di voucher in proporzione al numero degli occupati in azienda, chi ritiene che il loro utilizzo si debba limitare ad alcuni settori di attività e chi invece ritiene sia sufficiente rivedere i limiti reddituali che ciascun lavoratore può percepire in un anno. Tutti invece sono d’accordo nel ritenere che in effetti in questi anni vi è stato un abuso dello strumento legislativo nato, come ai più piace sottolineare, per far emergere il lavoro nero. La verità è che lo strumento dei voucher non è altro che l’ultima frontiera del precariato ed è scorretto parlare di abuso, visto che è stata proprio l’evoluzione normativa ad allargarne il raggio di utilizzo. Il lavoro temporaneo accessorio, meglio conosciuto con il nome di battaglia di “ voucher”, nasce per regolamentare forme di lavoro occasionale non rientranti in lavori previsti dalla contrattazione collettiva. In realtà negli anni si amplia la platea di coloro che possono utilizzare i voucher così come le prestazioni lavorative previste e vanno a riempire tutte le tipologie lavorative.

Oggi persino i professionisti possono prestare la loro opera con i voucher. Naturalmente niente accade per caso e tutto questo si è verificato perché lo strumento legislativo stesso lo consentiva. In definitiva già dall’inizio si poteva prevedere ciò che sarebbe successo in seguito. Ciò che occorre è un cambio di mentalità nel legiferare sul lavoro. È infatti dal pacchetto Treu in poi che si alimentano forme di precariato senza che si risolva il problema della disoccupazione e il motivo è molto semplice: per creare occupazione bisogna ridurre il costo del lavoro. È evidente che il carico contributivo e fiscale che un azienda oggi sostiene è fin troppo oneroso. Ma neanche questo può essere sufficiente senza una politica industriale oggi mancante.

È evidente che con salari bassi e domanda interna mai in ripresa è poco pensabile che le imprese possano pensare ad assumere. Sono dunque necessarie politiche espansive che possano far ripartire i consumi oggi legati al palo. Bisogna dire che tutto questo diventa difficile in un contesto di austerità imposta dai vertici europei. Insomma da fare ce ne sarebbe tanto, occorre però una visione politica bene chiara e soprattutto in discontinuità con i tempi. Staremo a vedere.
(16 gennaio 2017)

Fiera a mare

Una (facile) profezia. Tanto per rinfrescarci la memoria.
Fiera like Altan
CANELLES55 FIERA CA
lampadadialadmicromicroMutatis mutandis tutto ciò che si poteva fare e in grande misura si può ancora fare è tutto scritto nei documenti che di seguito riproponiamo.
Parafrasando Altan: “INTERVENIAMO O CI RISERVIAMO IL PIACERE DI DIRE CHE L’AVEVAMO DETTO?”
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Salviamo la Fiera di Cagliari. Ripensata, risanata e rilanciata nella gestione. Portata a mare e non buttata a mare! Funzionale a strategie di sviluppo della Sardegna nel Mediterraneo
Su Aladinews 15 febbraio 2016
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Cagliari Città Capitale esprime netta contrarietà alla messa in liquidazione della Fiera Internazionale della Sardegna, attualmente Azienda speciale della Camera di Commercio di Cagliari. I problemi della Fiera non sono certo recenti, risalgono invece a molti anni fa, almeno dall’anno 2000, allorquando non si imboccò la strada del suo adeguamento alle nuove esigenze dei tempi, permanendo sostanzialmente ancorata a modelli superati, che pur si erano dimostrati validi dalla sua costituzione (1949) per ben cinquant’anni. E tutto ciò nonostante la storia fiera ca 50consapevolezza dei decisori camerali che occorresse “ripensare” profondamente la Fiera, seguendo gli esempi di realtà fieristiche di successo nel panorama nazionale ed internazionale, come dimostrano i contenuti del libro “Storia di una fiera(1).
Nel tempo si è preferito apportare solo aggiustamenti che non sono riusciti ad arrestare il progressivo declino della Fiera, fino alla situazione fallimentare delle ultime edizioni. Le presenze di visitatori in Fiera nel periodo della sua apertura non hanno subito nel tempo significative contrazioni, ma la funzione innovativa della Fiera è venuta a mancare insieme con la diminuzione del numero degli espositori, del giro d’affari e con il venire meno della funzione di diffusione dell’innovazione… circostanze che hanno segnato negativamente soprattutto le ultime edizioni, nonché determinato l’accumulo di perdite economiche (ogni anno ripianate dai trasferimenti camerali). Le manifestazioni collaterali (Turisport, Fiori e Spose, Fiera Natale, etc) e gli altri eventi specifici, come pure le attività convegnistiche, pur importanti, non sono servite a compensare la progressiva crisi complessiva della Fiera, che la crisi economica generale giustifica solo in parte. Ciò che si segnala è soprattutto l’incapacità di capire i cambiamenti dei tempi e l’incapacità di modificare la propria missione e la propria organizzazione per affrontare le nuove situazioni. Responsabile di tutto ciò in primo luogo la dirigenza politica camerale degli ultimi quindici anni, anche nella misura in cui non ha saputo esprimere un management adeguato. Altra causa delle crescenti difficoltà è il sostanziale isolamento nella gestione della Camera di Commercio e della sua Azienda Fiera, praticato dalla dirigenza politica camerale, frutto della scellerata modalità dei “compartimenti stagni“, per la quale le altre Istituzioni coinvolte nella politica economica della città e della sua area vasta – particolarmente la Regione e il Comune – sono rimaste colpevolmente estranee alle vicende camerali. Comportamenti che hanno determinato e continuano a provocare ingenti danni all’economia dei territori dei Sud Sardegna. Occorre invertire la rotta, evitando la chiusura della Fiera, come condizione prima della sua auspicata riorganizzazione complessiva. Non sottovalutando il fatto che la chiusura della Fiera darebbe la stura a mai sopiti appetiti speculativi sulle preziose aree che la ospitano.
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Cagliari Città Capitale ritiene che la Fiera vada salvata per molte valide ragioni, che di seguito si elencano
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- La prima in quanto costituisce un patrimonio della città, della sua area vasta, della Sardegna. Con i suoi 68 anni di vita fa parte della memoria della città e ne ha accompagnato la sua ricostruzione e rinascita dalle macerie della guerra.
FIERA-Padiglione CASMEZ- La seconda in quanto costituisce un patrimonio in sé, fatto di aree ed edifici, tra questi ultimi ve ne sono alcuni di notevole interesse storico e architettonico e per questo protetti dai vincoli della Sovrintendenza (citiamo il Padiglione dell’Agricoltura progettato da Domenico Mezzini e da Ubaldo Badas e quello Casmez, progettato da Adalberto Libera – conosciuto anche come padiglione Figari-, che andrebbero adeguatamente risanati e ricuperati) (2).Palazzo-Agricoltura-Fiera-Cagliari
- La terza in quanto chiuderla oggi nella prospettiva di riaprirla chissà quando provocherebbe perdite rilevanti.
- La quarta in quanto esiste un futuro positivo se la si inserisce in un progetto strategico dello sviluppo della città metropolitana e della Sardegna, di cui diremo oltre.
- La quinta in quanto chiuderla significherebbe perdere 17 posti di lavoro a tempo indeterminato, a cui si aggiungono quelli dell’indotto, mentre una Fiera risanata e ripensata produrrebbe nuova occupazione.
E dunque:
- occorre innanzitutto avere la consapevolezza che la Fiera non è solo un problema-risorsa della Camera di Commercio, ma della città e della Regione, anche considerando che l’ente Regione ne è in grande parte proprietaria (aree e numerosi padiglioni);
- occorre poi definire un “piano industriale” triennale che la renda utile e produttiva. Il piano deve rispondere alle esigenze dello sviluppo economico della Sardegna, in particolare per quanto si riferisce alla promozione delle sue eccellenze (agroalimentare e turismo in primis, ma anche impresa innovativa, tra cui start up e spin off), all’apertura verso il mercato con particolare riferimento ai paesi rivieraschi del Mediterraneo, all’apertura a mare della struttura, rendendola strumento delle politiche riconducibili all’economia del mare, vera linea strategica dello sviluppo della città metropolitana. Per fare tutto ciò occorre rifarsi alle migliori esperienze similari in Italia, in Europa, nel mondo. Va ricordato come convincenti progetti di ridisegno e ampliamento del quartiere fieristico con la “discesa a mare della Fiera” sono da tempo disponibili, frutto di un apposito “concorso di idee” promosso e finanziato dalla stessa Camera di Commercio di Cagliari (2008-2009) (3). Connesso a quest’ultimo aspetto il fatto che la Camera di Commercio e il Comune hanno in tempi recenti stipulato un protocollo d’intesa per facilitare le scelte di apertura della fiera al mare, rimasto lettera morta (4);
- occorre ancora ridefinire la forma societaria e la compagine sociale più efficace, che consenta la massima autonomia e responsabilizzazione, salvaguardando i poteri di indirizzo e controllo delle Istituzioni coinvolte, facendo tesoro anche in questo caso dalle esperienze positive presenti nel panorama nazionale ed internazionale;
- occorre infine dotarla di un management professionale di alto livello.
Fuilippo Figari Fiera
I piani e le risorse
- Il piano industriale, temporalmente triennale, deve trovare copertura finanziaria attraverso gli apporti degli Enti partecipanti alla compagine societaria. Al riguardo importanti risorse possono essere, ulteriormente e in misura rilevante, reperite nei fondi strutturali europei (FESR, FSE, Agricoltura e Pesca, in particolare) e nel ricavato dalla vendita delle quote di minoranza dell’aeroporto di Elmas da parte della Camera di Commercio. La Regione sarda deve conferire all’entità Fiera Internazionale della Sardegna, così come verrà giuridicamente ridefinita, tutte le competenze attuative di natura fieristica, attualmente assurdamente centralizzate negli assessorati regionali.
- Deve essere trovata un’intesa con le Università della Sardegna su tutti gli aspetti di interesse fieristico, in particolare per gli ambiti di studio e ricerca (comunicazione, management, aspetti economici, aspetti culturali, etc) e formazione di professionalità di livello superiore. Tali interventi possono trovare copertura su fondi dedicati, fondi comunitari/regionali, legge regionale sulla ricerca scientifica e trasferimento tecnologico (L.R. 7/2007).

Da dove ripartire subito?
Da una chiamata all’assunzione di responsabilità delle Istituzioni interessate (la Regione e il Comune metropolitano, in primis, l’Università… ) che insieme alla Camera di commercio e alle Associazioni di categoria devono trovare le migliori soluzioni possibili.
L’edizione 68ma della Fiera di maggio deve svolgersi regolarmente ma entro marzo il commissario deve organizzare una conferenza con tutti gli attori pubblici e privati coinvolti per definire gli indirizzi sui quali muovere persone e risorse.
In questo quadro si situano le proposte qui avanzate da Cagliari Città Capitale.
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Note
(1) “Storia di una fiera” edito dalla Camera di Commercio per i 50 anni della Campionaria della Sardegna, curato da Paolo Fadda (1998), in particolare del capitolo intitolato “Il futuro: verso un nuovo sistema fieristico”.
(2) Si veda al riguardo il breve saggio del prof. Aldo Lino, dell’Università di Sassari – Dipartimento di Architettura, pubblicato su SardegnaSoprattutto e ripreso da Aladinews.
(3) L’amministrazione dell’Azienda possiede tutta la documentazione dei progetti, perlato presente abbondantemente in internet. Ecco alcuni link dove reperire le informazioni: – http://www.archiportale.com/news/2009/07/risultati/fiera-di-cagliari-1°-premio-ex-aequo_16008_37.html – Sito Sardarch http://www.sardarch.it/index.php/2009/concorso-fiera-internazionale-della-sardegna-cagliari/ -
- sito Architetti: http://www.architetti.com/un-ex-aequo-al-concorso-di-idee-per-la-riqualificazione-della-fiera-di-cagliari.html
(4) Il protocollo d’intesa è allegato alla Delibera della Giunta municipale di Cagliari n. 53 del 27 maggio 2014.
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Gustavo Zagrebelsky: “Da quando gli elettori disobbediscono regolarmente agli establishment, questi cercano scuse per giustificare le proprie sconfitte e per mettere le mani sull’unico medium che ancora non controllano: la Rete. Si sentono voci autorevoli domandare: ma non vorremo mica far votare gli ignoranti, anzi i “populisti”? Se lo chiedeva già Gramsci: è giusto che il voto di Benedetto Croce valga quanto quello di un pastore transumante del Gennargentu? La risposta, di Gramsci ieri e di ogni democratico oggi, è semplice: se il pastore vota senza consapevolezze, è colpa di chi l’ha lasciato nell’ignoranza; e se tanta gente vota a casaccio, è perché la politica non gli ha fornito motivazioni adeguate. Questi signori pensino a come hanno ridotto la scuola, la cultura e l’informazione: altro che il Web!”

Zagrebelsky: “Politici maggiordomi della finanza: hanno il terrore delle urne”
di Marco Travaglio su Il fatto quotidiano.
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Per la prima volta dopo la vittoria del No al referendum parla il costituzionalista: “Quei venti milioni di italiani hanno capito che c’era qualcosa sotto”.

Professor Gustavo Zagrebelsky, è trascorso più di un mese dal referendum costituzionale e lei non ha ancora detto una parola dopo la vittoria del No. Perché?
La campagna elettorale è stata lunga e faticosa. Ora è il tempo della riflessione e di qualche bilancio. Sarebbe insensato accantonare il 4 dicembre come se quel voto non avesse rivelato una realtà più dura di tutti gli slogan.

Che Italia ha incontrato, nei suoi incontri per il No?
Una realtà che non appare nei grandi media: a proposito di post-verità… I tanti che si sono impegnati hanno ricevuto centinaia di inviti da scuole, università, associazioni, circoli d’ogni genere. Soprattutto da giovani, da molti di quelli che alle elezioni politiche si astengono, ma al referendum costituzionale hanno partecipato. Si può pensare che un 20 per cento della grande affluenza sia venuta da lì. E con ciò non voglio certo dire che il No ha vinto per merito dei giuristi e dei professori.

Perché ha vinto il No?
Credo che ci siano molte ragioni e che l’errore del fronte del Sì sia stato di far leva su una sola parola, semplice ma vuota: riforme. Si sono illusi che la figura del presidente del Consiglio e del suo governo fosse attrattiva. Si era pensato a un plebiscito in cui ci si giocava tutto e così, per reazione, si è coalizzato un fronte di partiti, pezzi di partiti e movimenti tenuti insieme dal timore della vittoria totale dell’altro. Ma lo slogan inventato dai ‘comunicatori’ – “è oggi il futuro” – non era un presagio funesto, quasi un insulto, per i tanti che vivono un tragico presente? Non sottovalutiamo poi la pessima qualità della riforma. Spesso è stato sufficiente leggerne qualche brano.

Quella l’abbiamo notata in pochi…
Col senno di poi, trovo stupefacente che molti miei colleghi, politici esperti, uomini di cultura vi abbiano trovato motivi di compiacimento. Ma, forse, non avevano letto il testo. Poi quel 20 per cento di elettori di cui parlavo, e che ottusamente ci s’incaponisce a definire “antipolitici”, hanno colto l’occasione altamente “politica” per alzare la testa in nome della Costituzione. In generale, e più in profondo, credo che molti abbiano colto i veleni contenuti in tutta questa triste vicenda che ci ha tenuti inchiodati per così tanto tempo.

Quali veleni?
Quello oligarchico e quello mercantile, che hanno insospettito molti elettori. Sono stati molti cittadini a domandarsi: ma se, come martella la propaganda del Sì, la “riforma” è solo un aggiustamento tecnico – velocità e semplificazione, peraltro contraddette da norme tanto farraginose – perché mai le grandi oligarchie italiane ed estere si spendono in modo così spasmodico perché sia approvata? Ci dev’essere sotto qualcosa di ben più grosso e, se non ce lo dicono, dobbiamo preoccuparci.

Che c’era sotto?
Il disegno di restringere gli spazi di partecipazione, cioè di democrazia, per dare campo ancor più libero alle oligarchie economico-finanziarie. I cittadini hanno presenti i propri bisogni reali: giustizia sociale e dunque fiscale, uguaglianza di diritti e doveri, attenzione a emarginati e lavoro. E si sono sentiti rispondere: più velocità, più concentrazione del potere, mani più libere per pochi decisori.

Cosa hanno voluto dire i 20 milioni di elettori del No?
Voltiamo pagina dalle politiche neoliberiste e dalla svendita del patrimonio pubblico che monopolizzano il dibattito culturale, accademico, giornalistico e politico da 30 anni e hanno prodotto tanti disastri sociali. Operazione completata con la riforma costituzionale dell’articolo 81, cioè dell’equilibrio di bilancio sotto l’egida della Commissione europea, approvata in fretta e furia sotto il governo Monti da centrodestra e centrosinistra nel silenzio generale. Ecco: proponeteci un’altra politica.

Che c’è di male nell’imporre bilanci in ordine?
L’equilibrio di bilancio comporta di fatto la rinuncia alla politica keynesiana di investimenti pubblici per creare sviluppo e lavoro, cioè la pura e semplice rinuncia alla politica. In nome del primato assoluto dell’economia finanziarizzata. Come in Grecia, dove la democrazia è stata azzerata. Nei miei incontri per il No, ho colto una gran fame di politica, cioè di una sana competizione fra politica ed economia, senza il predominio della seconda sulla prima.

Si spieghi meglio.
Fare politica significa scegliere liberamente tra opzioni: se tutto è obbligato da istituzioni esterne, grandi banche e fondi d’investimento, la politica sparisce. È la dittatura del presente, un presente repulsivo per molte persone. Nella dittatura del presente la politica sparisce e la democrazia diventa una farsa. Le elezioni diventano un intralcio, a meno che le oligarchie non siano sicure del risultato. Il sale della democrazia è l’incertezza del responso popolare. Invece si preferisce uno sciapo regime del consenso.

E, dopo il referendum, ecco il governo-fotocopia.
Distinguiamo tra Gentiloni e il suo governo. Il nuovo premier, rispetto al precedente, è una novità: è educato, parla sottovoce, dice cose di buonsenso e appare poco in tv, non spacca l’Italia tra pessimisti (anzi “gufi” e “rosiconi”) e ottimisti, fra conservatori e innovatori a parole. Quando il penultimo premier lo faceva, a reti unificate, il minimo che potevi fare era cambiare canale o spegnere la tv. Ora quella finta contrapposizione è finita. Gentiloni pare dire le cose come stanno o, almeno, non dire le cose come non stanno. E il presidente Mattarella, a Capodanno, ha richiamato l’attenzione su tante cose che non vanno. Uno statista deve dire che il futuro non è oggi, ma va costruito da oggi con enormi sacrifici, e che i sacrifici devono distribuirsi tra coloro che possono sopportarli e, spesso, hanno vissuto finora da parassiti alle spalle degli altri.

Vedo che Renzi lei non lo nomina proprio… E del governo Gentiloni che dice?
È il rifiuto di guardare la realtà, una riprova dell’autoreferenzialità del politicantismo. Quasi uno sberleffo dopo il 4 dicembre. Era troppo sperare che si prendesse atto dell’enorme significato politico del referendum, del colossale voto di sfiducia che l’elettorato ha espresso nei confronti degli autori della tentata “riforma”? Non è una questione personale: saranno tutte ottime persone. Ma è una questione politica. Invece, Maria Elena Boschi, la madrina della “riforma”, è stata promossa in un ruolo-chiave nel governo e la coautrice e relatrice, Anna Finocchiaro, è diventata ministro. Mah! L’unica novità è la ministra dell’Istruzione, subito caduta sul suo titolo di studio. Per il resto, uno scambio di posti. Ma per i nostri politici, forse perché sospettano di contare poco o nulla, chiunque può fare qualunque cosa.

Non hanno capito o fingono di non capire tutti quei No?
Con i sondaggi che danno la fiducia nei partiti avviata verso il sottozero, verrebbe da credere che Dio acceca chi vuol perdere.

Che si voti ora o nel 2018, siamo comunque a fine legislatura.
Lei ne è così sicuro? Io un po’ meno. Si dice che occorre armonizzare le leggi elettorali di Camera e Senato. È giusto. Ma, se non le armonizzano entro il 2018, cioè alla naturale scadenza della legislatura, che succede? Si dirà che, per forza maggiore, per il momento, non si può ancora andare al voto?

Pensa seriamente che potrebbero farlo?
Non mi stupisco più di nulla. La continuità, ribattezzata stabilità, sembra essere diventata la super-norma costituzionale. Il governo Gentiloni non ne è una dimostrazione, in attesa che si ritorni al prima del referendum?

Dicono: non si può votare subito perché il No ha mantenuto il Senato elettivo con una legge elettorale diversa da quella della Camera.
La colpa sarebbe dunque degli elettori? E non di coloro che hanno scritto leggi con la sicumera di chi ha creduto che l’esito scontato del referendum sarebbe stato un bel Sì? Così, la riforma delle Province della legge del 2014 è stata scritta “in attesa della riforma del Titolo V della Costituzione” e l’Italicum è nato sul presupposto dell’abolizione del Senato elettivo. Si può legiferare, tanto più in materia costituzionale, “nell’attesa di…”? Che presunzione! E la colpa sarebbe dei soliti cattivi che deludono le rosee attese… Suvvia…

Napolitano e Mattarella dovevano respingere le due leggi?
Io credo che ci fosse un abbaglio generalizzato: tutti pensavano che le cose sarebbero andate inevitabilmente come poi, invece, non sono andate. Era l’ideologia delle riforme, della volta buona, dell’Italia che riparte, degli italiani in spasmodica attesa da trent’anni… Che cos’è l’ideologia, se non la presunzione di spiegare il mondo a venire tramite le proprie granitiche convinzioni e di tacitare i dissenzienti come eretici? Quelli del No tante volte, in questi due anni perduti, si sono sentiti bollare d’eresia. La verità erano le riforme e i garanti delle istituzioni, se non sono stati essi stessi tra i promotori di quella verità, come il presidente Napolitano, l’hanno probabilmente subita, come il presidente Mattarella, insieme allo stuolo di commentatori e costituzionalisti che non hanno guardato le cose con il distacco che avrebbe fatto vedere loro entrambi i lati delle possibilità. Se lei mi chiede se i garanti avrebbero dovuto aprire gli occhi e moderare l’arroganza e la vanità dei “riformatori”, la risposta è sì. Ora il peccato originale di questa legislatura presenta il conto.

Peccato originale?
Nel 2014, dopo la sentenza della Consulta sul Porcellum che delegittimava il Parlamento, pur lasciandolo provvisoriamente in vita, si sarebbe dovuto, appena possibile, tornare alle urne. Una legge uniforme per le due Camere, allora, c’era: quella uscita dalla sentenza, il cosiddetto “Consultellum”. Ma anche su questo s’è fatto finta di niente, contando sul fatto che i buoni risultati – su tutti la magica riforma costituzionale – avrebbero fatto aggio sul difetto di legittimità originaria, di cui nessuno avrebbe più parlato. Buoni risultati? Il giudizio l’ha appena dato il corpo elettorale.

Cosa si aspetta ora dalla Consulta, che il 24 si pronuncerà sull’Italicum?
Se valgono le ragioni scritte nei precedenti costituzionali, e non ragioni d’altro tipo, pare di capire che è incostituzionale anche l’Italicum: per i capilista bloccati cioè nominati, per il premio abnorme di maggioranza e per la difformità fra il sistema ipermaggioritario della Camera e il Consultellum proporzionale del Senato.

E sulla bocciatura del referendum della Cgil sull’abolizione dell’articolo 18?
Da ex giudice costituzionale, ho un obbligo di discrezione. Una sola osservazione: sono sconcertato dal fatto che escano notizie, fondate o infondate che siano, sugli schieramenti con nomi e cognomi formatisi nella camera di consiglio, dove dovrebbe regnare il riserbo assoluto.

Cosa si augura di qui alle elezioni?
Che si ricominci a fare politica, non con manovre di palazzo ma con progetti per l’avvenire che ci facciano uscire da questo tempo esecutivo che ha bandito la politica, se non come mera lotta per l’occupazione dei posti di potere. Tolto di mezzo il referendum, che è stato un fattore di congelamento anche delle idee, mi auguro un periodo di disgelo. Spero che si ricominci a progettare politicamente e, attorno ai progetti, si raccolgano le forze sociali disposte a partecipare. Il Pd, così come è stato negli ultimi tempi, è uno dei problemi. Il congelamento della politica è dipeso anche da quel partito che è apparso finora come incantato o inceppato dal suo presunto salvatore. Mi augurerei una terapia di disincantamento. Si sente l’esigenza di qualcuno che alzi gli occhi e guardi oltre il giorno per giorno.

A modo suo, sta cercando di ristrutturarsi il M5S: codice etico, scouting per la classe dirigente, programma, alleanze in Europa.
Stanno scoprendo la politica, evviva! Spero che si pongano il problema politico delle alleanze. In democrazia, le alleanze e anche i compromessi non sono affatto il demonio. La questione è con chi, a che prezzo e per che cosa. Chi stipula buoni accordi dà il segno della propria forza, più di chi si isola nella propria diversità. Così come è segno di forza dire, nel “codice etico”: non mi affido alla regoletta automatica secondo cui un avviso di garanzia comporta l’allontanamento dal movimento; ma mi assumo la responsabilità di leggere quel che c’è scritto e poi di dire: “Questa condotta è difendibile, faccio quadrato attorno a te; questa invece è indifendibile e ti mando via”. Sui fatti, non sull’avviso in sé. Altrimenti ci si mette alla mercé della denuncia d’un calunniatore o di un avversario, o del ghiribizzo d’un pm.

E la figuraccia in Europa, tra Farage e i Liberali?
Le darei meno peso politico: cattiva gestione d’un problema di tattica parlamentare, che accomuna sempre tutti coloro che stanno in un Parlamento. Sono altri i punti che i 5Stelle devono chiarire.

Per esempio?
Democrazia interna, selezione della classe dirigente, programma, politica estera, immigrazione. Sui migranti, a proposito di rimpatri, Grillo in fondo dice la stessa cosa del governo che veglia sulla nostra sicurezza, secondo la legge. Ma, non esistendo una posizione chiara o chiaramente percepita del M5S, qualunque cosa dica può essere accusato ora di deriva lepenista, ora di lassismo buonista.

I 5Stelle insistono per il referendum sull’euro.
La Costituzione non lo prevede. Ma un referendum informale per dare un’idea di massima degli orientamenti tra i cittadini, non vedo perché non sia possibile. Piuttosto, anche qui, occorre la chiarezza delle posizioni. Uscire dall’euro, come, quando e con quali conseguenze? Contestare l’Europa per distruggerla e tornare alle piccole patrie, o per rifondarla, e come? Tra tutti gli Stati attuali, o solo con il nucleo più omogeneo? E così via.

Se i 5Stelle vincono le elezioni, che succede?
Si farà di tutto per impedirglielo. Anzitutto con una legge elettorale ad hoc: quella proporzionale. Quando il Pd vinse le Europee col 41%, l’Italicum col premio di maggioranza a chi arrivava al 40% era la legge più bella del mondo. Ora che i sondaggi ipotizzano un ballottaggio vinto dal M5S, non va più bene e si vuol buttare via una legge mai usata: roba da perdere la faccia. Non per nulla la Commissione di Venezia e la Corte di Strasburgo nel 2012 (Ekoglasnost contro Bulgaria) hanno detto che non si cambia legge elettorale nell’imminenza delle elezioni. Ma anche qui arriva il conto di troppe miopie.

Quali miopie?
Dal 2013 una classe politica lungimirante avrebbe tentato di parlamentarizzare i 5Stelle. Invece li hanno demonizzati e ostracizzati. E ora non sanno più come neutralizzarli se non col proporzionale, che ci riporterà alle larghe intese Pd-Forza Italia. Nulla di scandaloso di per sé (vedi la grande coalizione tedesca). Ma in Italia il rischio è che sia l’ennesimo traffico di interessi, con fine ultimo di restare comunque a galla.

I 5Stelle non sono pronti per governare. Non le fanno paura?
Chi governa lo decidono gli elettori. Sotto certi aspetti, chiunque disponga del potere dovrebbe fare paura. A parte ciò, come già sta avvenendo dove governano i 5Stelle, le nuove responsabilità impongono loro di cambiare pelle, natura e, spero, anche toni: più oggettività e meno proclami. Se si pensa che il problema sia afferrare il potere, perché poi tutto scorra facilmente, ci si sbaglia di grosso.

Il M5S ha difeso la Costituzione dalla “riforma”, ma vuole il vincolo di mandato contro i voltagabbana, che ora vengono multati.
C’è una soluzione più semplice e costituzionale: il parlamentare è libero di cambiare partito e anche di votare come vuole, in dissenso dal suo gruppo. Ma, se lascia la maggioranza con cui è stato eletto per passare all’opposizione, o viceversa (caso molto più frequente), subito dopo deve decadere da parlamentare: perché ha tradito i propri elettori e ha stravolto il senso politico della sua elezione.

Lei vive a Torino: che gliene pare di Chiara Appendino?
Non l’ho votata, perciò posso dire in totale libertà che è una felice sorpresa. Ha detto che non tutto quel che s’è fatto prima è da buttare: ecco la forza della continuità. È più fortunata di Virginia Raggi, che a Roma ha trovato una situazione infinitamente più compromessa: lì è difficile salvare qualcosa del passato. Ma vedo che, ai 5Stelle in generale e alla Raggi in particolare, non si perdonano molte cose che si perdonano agli altri. Due pesi e due misure.

Anche a giornali e tv si perdonano bugie e falsità, mentre per il Web s’è perfino coniato il neologismo della “post-verità”.
Come se, prima del Web, l’informazione fosse il regno della verità! Da sempre la menzogna è un’arma del potere, lo teorizzava già Machiavelli. Il che non significa che la si debba accettare. Anzi, occorre combatterla, perché la verità è, invece, l’arma dei senza potere contro i prepotenti. La Verità non esiste, ma la verità sì. Almeno sui dati e sui fatti oggettivi. Poi le interpretazioni sono libere.

Si dice che il successo di Trump, della Brexit e dei 5Stelle contro gli establishment è colpa delle fake news sul Web.
Troppo facile. Le bufale del Web sono così dozzinali che chi ha un minimo di conoscenza può facilmente respingerle, perché quella è una comunicazione orizzontale: verità e bugie, spesso anonime o firmate da ignoti, non hanno autorevolezza e si elidono reciprocamente. Invece la somma delle bugie o delle reticenze diffuse dalla stampa e dalle tv sono firmate, dunque più autorevoli, ergo meno smentibili, perché quella è una comunicazione verticale. Occorrerebbe bloccare gli interventi anonimi sul Web, così sarebbe più facile distinguere chi è credibile e chi no. Se poi qualcuno diffama, si creino procedure giudiziarie rapide. La difesa della reputazione delle vittime è inconciliabile con i tempi lunghi. Ma le fake news diffuse per turbare l’ordine pubblico sono già ora materia penale. Per il resto, questa storia della post-verità mi pare un discorso falso: come se, prima, non esistesse e vivessimo nel paradiso della verità.

Che intende dire?
Da quando gli elettori disobbediscono regolarmente agli establishment, questi cercano scuse per giustificare le proprie sconfitte e per mettere le mani sull’unico medium che ancora non controllano: la Rete. Si sentono voci autorevoli domandare: ma non vorremo mica far votare gli ignoranti, anzi i “populisti”? Se lo chiedeva già Gramsci: è giusto che il voto di Benedetto Croce valga quanto quello di un pastore transumante del Gennargentu? La risposta, di Gramsci ieri e di ogni democratico oggi, è semplice: se il pastore vota senza consapevolezze, è colpa di chi l’ha lasciato nell’ignoranza; e se tanta gente vota a casaccio, è perché la politica non gli ha fornito motivazioni adeguate. Questi signori pensino a come hanno ridotto la scuola, la cultura e l’informazione: altro che il Web!

Grazie, professore.
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L’articolo e la foto sono tratte da Il fatto quotidiano online.
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democraziaoggiConsulta, basta sussurri
15 Gennaio 2017
Massimo Villone su il manifesto, articolo ripreso da Democraziaoggi.

I GIOVANI, il LAVORO, la NECESSITA’ di INVESTIRE in ISTRUZIONE/EDUCAZIONE

LAVOROIl 10 dicembre dello scorso anno presso il Seminario arcivescovile, il Vescovo di Cagliari ha convocato ventidue esponenti del mondo dell’Università, del Sindacato, della Comunicazione, delle Associazioni impegnate socialmente, delle Imprese, delle Organizzazioni della Cooperazione e del Terzo Settore, nel percorso di preparazione alla Settimana Sociale dei Cattolici italiani che si terrà a Cagliari dal 26 al 29 ottobre 2017 sul tema “Il lavoro che vogliamo: dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale”, con specifico riferimento alla situazione sarda. All’incontro ha partecipato il direttore di Aladinews. Di seguito riportiamo il suo intervento che si è articolato in due filoni di riflessione.
I GIOVANI, IL LAVORO, LA NECESSITA’ DI INVESTIRE IN CULTURA
di Franco Meloni

Prima riflessione

I GIOVANI E LA DISOCCUPAZIONE. LE SOLUZIONI NASCONO DALLA PARTECIPAZIONE

Quasi come un bollettino medico di un malato grave, i rapporti trimestrali dell’andamento dell’occupazione in Sardegna segnalano variazioni sui relativi dati, ora positive ora negative, che sostanzialmente confermano uno stato complessivo di perdurante infermità. Tra i dati, tutti disponibili sui siti dell’Istat e della Regione Sarda (Sardegna Statistiche), quello più disastroso si riferisce alla disoccupazione giovanile, stabilizzato sul 56,4% ( riferito alla popolazione di età compresa tra i 15 e i 24 anni.), che assegna alla Sardegna un posto tra le peggiori regioni dell’Unione europea (precisamente l’ottavo, in Italia al secondo posto dopo la Calabria) (1). Le serie storiche dei dati riferiti alla Sardegna mostrano una situazione di “ritardo di sviluppo” non riconducibile semplicemente all’attuale grave crisi dell’intero sistema economico a livello nazionale ed europeo, che, peraltro ne determina un aggravamento. Siamo infatti sempre più vittime dei nuovi equilibri a livello globale che si basano sulla progressiva diminuzione dell’occupazione, sulla perdita di tutele contrattuali, su un basso livello dei salari e su una distribuzione inequa del reddito, caratterizzata dall’acuirsi della forbice economica tra alti salari/rendite (concentrati nelle mani di pochi), mancanza di reddito o redditi di sussistenza (la maggioranza). Ne consegue l’aumento della povertà che colpisce sempre più vasti settori della popolazione, aggredendo anche i ceti medi, fino a qualche anno fa non colpiti. Come si è già osservato, questa situazione è generalizzata in quasi tutti gli stati a livello planetario. Limitando la nostra attenzione a quelli dell’Unione Europea, possiamo osservare diversi gradi di gravità nelle diverse regioni in cui sono articolati, in Sardegna tra i più accentuati.

Che fare allora? Per dirla con uno slogan di altri tempi, che potrebbe suonare massimalista: si può uscire dalla crisi solo se si esce dal capitalismo in crisi. Micca facile!
Se questa è la portata dei problemi, cosa possiamo fare noi, specificamente in Sardegna, che siamo piccoli e quasi irrilevanti nel mondo globalizzato? La risposta è che non dobbiamo rassegnarci, dobbiamo invece per quanto è possibile, come è realisticamente possibile, praticare al nostro livello soluzioni diverse o parzialmente diverse da quelle dominanti, che ogni giorno ci impongono con sistemi più o meno coercitivi. Come? Innanzitutto facendo resistenza sulla base dei nostri interessi di cittadini e di lavoratori. Cioè, dobbiamo partire da questi e non dalle “compatibilità” del sistema dominante. Usciamo dall’astratezza. Il lavoro è un diritto? Certo, ma è un diritto negato a vasti strati della popolazione. E allora organizziamo le leghe per il lavoro (o chiamatele come vi pare), appoggiandoci alle organizzazioni dei lavoratori (per quanto siano coinvolgibili) e alle Istituzioni più vicine ai cittadini, come i Comuni (per quanto sappiano rappresentare anche i ceti più deboli). E con queste organizzazioni difendiamo il lavoro esistente e creiamo nuovo lavoro, utilizzando tutte le possibili opportunità, per esempio quelle fornite dai fondi pubblici, specie europei, spesso inutilizzati o spesi male. Ma, si dirà, è una vecchia ricetta, che non ha dato in passato grandi risultati. E’ vero, ma il fatto nuovo, la carta vincente, è il coinvolgimento delle persone, che non devono delegare, se non in certa misura, ad altri la risoluzione dei loro problemi. E devono attivarsi in prima persona nei confronti di quanti detengono il potere, a tutti i livelli, per rivendicare politiche per il popolo. In sostanza, si tratta di praticare in tutti i campi la “partecipazione dal basso”, anche a piccoli gruppi, con il criterio delle isole che a poco a poco assumono la dimensione di arcipelaghi. Tutto ciò è riduttivo? Può darsi, ma è quanto si può fare, da subito, nella fiducia che solo il popolo salva il popolo. L’impostazione di questo nuovo protagonismo popolare, che non ci preoccupiamo possa essere irriso come “populismo”, ha un grande e credibile suggeritore: Papa Francesco, che nel solco della dottrina sociale della Chiesa, ci esorta a non rassegnarci e ad assumere iniziative creative con e per il popolo, che spiega con chiarezza nella parte dell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium dedicata alla Crisi e alla Dimensione sociale dell’Evangelizzazione.
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(1) Tre regioni italiane, la Calabria col 65,1%, la Sardegna col 56,4% e la Sicilia col 55,9%, figurano tra i dieci territori Ue col tasso di disoccupazione giovanile (riferito alla popolazione di età compresa tra i 15 e i 24 anni.) più elevato nel 2015, precedute solo dalle due ‘encalve’ spagnole in terra africana, cioè Ceuta (dove la disoccupazione giovanile è al 79,2%) e Melilla (72%). La Sardegna si trova in ottava posizione e la Sicilia è nona. Oltre alle tre italiane, nelle ‘top ten’ ci sono quattro regioni spagnole e tre greche. La media europea è al 20,4%. Il territorio che invece presenta la percentuale più bassa di disoccupazione giovanile è quello tedesco di Oberbayern (3,4%), seguito da altre nove regioni tedesche, tra queste Freiburg al secondo col 4,7%, e Mittelfranken col 5,2%. Fonte: http://www.giornaledicalabria.it/?p=47346

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Seconda riflessione

INVESTIAMO IN CULTURA, A PARTIRE DALL’ISTRUZONE E DALL’EDUCAZIONE

La presente riflessione sulla Cultura attiene soprattutto alla sua componente fondamentale “istruzione/educazione”, riferita alla situazione sarda. In questa direzione: se è vero che vogliamo che la Cultura e in essa la sua componente essenziale dell’istruzione/educazione possa operare per dare sviluppo e benessere alla Sardegna dobbiamo innanzitutto prendere atto della situazione e operare per migliorarla, riconoscendo evidentemente quanto di buono già si fa.
I pochi dati esposti nelle tabellle sotto riportate sono sufficienti a dare conto della situazione dell’istruzione in Sardegna confrontabili con i dati complessivi dell’Italia. Ci accorgiamo che i valori sono complessivamente bassi in Italia, e, ancora di più, in Sardegna, specie se confrontati con i dati dei più virtuosi paesi dell’Europa e del Mondo.
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Popolazione residente di 15 anni e oltre per titolo di studio – Sardegna e Italia
Anno 2015 – Valori assoluti in migliaia e percentuali *

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*Tratto da Sardegna in cifre 2016, Tab. 18.10 (pubblicazione del Servizio Statistiche della RAS.

Mettiamo in evidenza come in Sardegna vi siano ben 300mila persone con la sola licenza elementare o con nessun titolo di studio (il 20,6% della popolazione presa in considerazione). Anche se il livello delle conoscenze non è misurato totalmente dai titoli formali, il dato è comunque significativo e pertanto preoccupante, considerato che comunque segnala l’inadeguatezza della preparazione delle persone rispetto alle esigenze delle attività lavorative e della vita associativa.

Se poi ci riferiamo in particolare ai giovani, è pertinente definire la situazione disastrosa. Al riguardo citiamo ancora una volta il Rapporto Crenos 2016, che afferma che il tasso di abbandono scolastico è tra i più elevanti in Italia, e la percentuale di giovani inattivi, in costante crescita. Nel 2014, il 29,6% dei ragazzi e il 17% delle ragazze in età 18-24 anni ha abbandonato gli studi e oltre il 27% dei giovani tra i 15 e i 24 anni (30,6 per i ragazzi e 24,7% per le ragazze) non studia e non lavora (i c.d. NEET – Not in Education, Employment and Training).

Giustamente i recenti rapporti Caritas sulle povertà hanno inserito questi giovani tra i nuovi poveri, segnalando la necessità di robusti interventi risolutivi. I quali, peraltro, sono chiaramente proposti da più parti, ma praticati in misura decisamente insufficiente. Tra gli interventi di carattere istituzionale in corso di realizzazione è giusto ricordare per la Sardegna il Progetto Iscol@, l’efficacia del quale non è ancora possibile verificare.
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Riteniamo utile a questo punto riepilogare dette proposte, che si articolano in sette ambiti di intervento (dando atto che provengono da operatori ed esperti dell’ambito Caritas, Cnos-Fap dei Salesiani e della pastorale giovanile Cei, e che per i Neet si avvalgono delle elaborazioni del prof. Dario Nicoli, docente di sociologia dell’Università Cattolica di Brescia).

1. Lavoro e inserimento lavorativo
:
- attivare, anche attraverso incentivi economici, percorsi di inserimento lavorativo, attraverso l’avviamento d’impresa ed esperienze formative e lavorative;
- rilanciare l’istituto dell’apprendistato, in raccordo con il sistema delle imprese e i centri di formazione professionale.

2. Formazione professionale:
- prevedere un uso integrato degli strumenti disponibili: tirocini, voucher formativi, alternanza scuola-lavoro, apprendistato, ecc., per puntare alla crescita personale e professionale;
- sostenere la partecipazione ai corsi Iefp (istruzione e formazione professionale), finalizzati al conseguimento di qualifiche spendibili a livello nazionale e comunitario.

3. Scuola-educazione:
- fare in modo che la formazione scolastica sia più aderente alle necessità del mondo del lavoro, trasmettendo la cultura positiva del lavoro;
- costruire percorsi educativi, formali e informali, di aggiornamento a tutoraggio, con attenzione alle esigenze dei giovani in condizione di povertà o disagio sociale.

4. Orientamento, accompagnamento e tutoraggio:
- avviare azioni di orientamento già a partire dalla scuola media, tramite metodologie e strategie attive di orientamento professionale;
- rivolgere attenzione particolare ai territori maggiormente trascurati da progettualità investimenti, garantendo relazioni positive con genitori e famiglie.

5. Cultura, risorse e territorio:
- valorizzare la presenza dei luoghi positivi di aggregazione (oratori, istituzioni di istruzione e formazione professionale, scuole popolari, associazioni, società sportive, ecc.), creandoli laddove mancano;
- sviluppare reti territoriali tra soggetti del sistema educativo e del sistema economico, integrando politiche di istruzione, formazione e lavoro.

6. Attenzione – supporto alla persona:
- progettare interventi personalizzati di recupero dei Neet in prospettiva educativa, puntanti sulla ripresa dell’iniziativa e dell’intraprendenza personale;
- favorire esperienze di abitazione-coabitazione autonoma o altre soluzioni di “sgancio” dalla famiglia di origine, anche prevedendo forme di alleanza tra giovani.

7. Welfare – assistenza sociale:
- necessità di sostegno al reddito per favorire lo studio dei ragazzi in situazione di povertà economica;
- politiche per le famiglie, attraverso agevolazioni fiscali, borse di studio e sostegni per l’acquisto di testi o strumenti didattici.

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Riflessione finale

C’è moltissimo da fare e le energie attualmente in moto sono notevoli ma non sufficienti e pertanto da incrementare. Comunque dobbiamo riconoscere che sono in atto moltissimi interventi ascrivibili alle Istituzioni (civile e religiose), al Terzo Settore e al Volontariato libero e gratuito. Ed è proprio dalle buone pratiche che bisogna continuamente ripartire: riconoscendole, valorizzandole e diffondendole. Ma anche sapendole distinguere dalle cattive pratiche che sfruttano in modi delinquenziali le situazioni di disagio sociale e che pertanto vanno combattute senza complicità e reticenze. In conclusione: occorre sempre più lavorare “in rete”, con apertura e capacità collaborativa nei confronti di tutte le organizzazioni di qualsiasi ispirazione, purché democratiche, praticando gli obbiettivi con spirito di solidarietà intergenerazionale.
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DIBATTITO. Riscrivere lo Statuto come nuova Carta De Logu di sovranità. Ma subito una nuova legge elettorale sarda.

220px-Eleonora_di_ArboreaRiscrivere lo Statuto. Come nuova Carta De Logu di sovranità.
di Francesco Casula
Sventato – grazie al voto del 72,22% dei Sardi – il perverso tentativo neocentralistico del Governo renziano, finalizzato ad azzerare sostanzialmente le Autonomie regionali, si tratta ora di partire all’attacco. All’ordine del giorno vi è la riscrittura dello Statuto speciale della Sardegna.
Nato nel lontano 1948, già depotenziato, debole e limitato – più simile a un gatto che a un leone, secondo la colorita espressione di Lussu – lo Statuto sardo in questi circa 70 anni di storia si è rivelato, sostanzialmente, un fallimento. Molte le cause. Ad iniziare da quella che lo storico Francesco Cesare Casula individua con nettezza scrivendo: “Nello Statuto sardo non c’è nessun preambolo che supporti le ragioni dell’essere, nessuna coscienza storica che giustifichi il perché dovremmo essere trattati diversamente dalle altre 19 regioni italiane. Esso apre con un desolante titolo l: «La Sardegna con le sue isole è costituita in regione autonoma fornita di personalità giuridica entro l’unità politica della Repubblica italiana, una e indivisibile, sulla base dei principi della Costituzione e secondo il presente statuto … » “.
In altre parole, secondo il nostro più grande storico medievista “Lo Statuto sardo, difetta di un preambolo giustificativo nella contrattazione col governo centrale, ben presente nello Statuto catalano, che fonda la sua contrattazione sulla peculiarità nazionale promanante dall’antico Principato di Catalogna. Ed è quanto purtroppo manca da noi. sebbene abbiamo più ragioni dei Catalani di rifarci alla storia per una rivendicazione autonomistica non solo speciale ma particolare essendo – la nostra – la prima regione d’Italia, da cui nasce lo Stato oggi chiamato repubblica Italiana”.
Ma se pur anco i legislatori della Costituente e i padri della nostra Autonomia non avessero voluto tener conto di tutto ciò, almeno avrebbero dovuto partire, nella formulazione dello Statuto, da un dato difficilmente contestabile: essere la Sardegna una nazione, avendo una sua peculiare e specifica identità etno-storica-culturale-linguistica. In realtà i Costituenti che dotano la Sardegna di uno “Statuto speciale” questo lo sanno e lo riconoscono. Perché altrimenti uno Statuto speciale all’Isola? Per motivi economici? Ovvero per la povertà, l’arretratezza e il sottosviluppo? E come spiegare allora che non verrà concesso uno Statuto speciale a molte regioni italiane sicuramente allora più povere, arretrate e sottosviluppate? Come la Lucania o l’Abruzzo?
Il motivo economico – peraltro ben documentato dall’articolo 13, che è la cartina di tornasole della scelta politica: “Lo Stato italiano col concorso della Regione, dispone un piano organico per favorire la Rinascita economica e sociale dell’Isola” – è la foglia di fico per nascondere i veri motivi – storici-culturali-linguistici – che se riconosciuti formalmente, avrebbero dato vita a ben altro Statuto, a ben altri poteri della Regione proprio sul versante culturale-linguistico, che non a caso sono del tutto assenti.
Occorre inoltre aggiungere che in questi 70 anni ha subito un processo di progressivo svuotamento e di compressione sia dall’esterno, cioè da parte dello Stato centrale, sia dall’ interno, ovvero da parte delle forze politiche dirigenti sarde, che non sanno usare e, spesso, non vogliono utilizzare, gli stessi strumenti, possibilità e spazi che l’autonomia regionale offriva.
Basti pensare a questo proposito alla vicenda delle norme di attuazione, che avrebbero dovuto riempire di contenuti le astratte previsioni statutarie, stabilendo quali dovevano essere i poteri reali della Regione nelle materie attribuite alla sua competenza. Queste norme o vengono emanate tardi, o non vengono emanate per niente, o vengono emanate in modo eccezionalmente riduttivo. E comunque non vengono quasi mai poste in atto. Ciò per constatare come le forze politiche sarde abbiano svilito la stessa limitata autonomia statutariamente riconosciuta.
Non solo. Nato come Statuto speciale, oggi risulta dotato di meno poteri delle regioni a Statuto ordinario costituite nel ’70, e di fatto, rappresenta oramai un ostacolo alla realizzazione di una vera Autonomia, o peggio: serve solo come copertura alla gestione centralistica della Regione da parte dello Stato, di cui non ha scalfito per niente il centralismo. Paradossalmente lo ha perfino favorito, consentendo ai Sardi solo il succursalismo e l’amministrazione della propria dipendenza.
La Regione sarda di fatto, in questi 70 anni di storia, ha operato come mera struttura di decentramento e di articolazione burocratica dello Stato e come centro di raccordo e di mediazione fra gli interessi dei gruppi di potere locali e la rapina neocolonialista, soprattutto del Nord: esemplare in questo è la vicenda della industrializzazione petrolchimica..
Da tempo perciò possiamo ormai considerare consumato il suo fallimento storico contestuale a quello della Rinascita: ma fino ad oggi sono falliti miseramente anche i tentativi di un suo rilancio e rianimazione, prima attraverso la cosiddetta politica contestativa e rivendicazionistica della Regione nei confronti dello Stato degli anni ’70 e, più recentemente, attraverso una Commissione nominata ad hoc dal Consiglio Regionale.
Oggi è giunto il momento di imboccare decisamente la strada del rifacimento dello Statuto Sardo, una nuova Carta de Logu, come vera e propria Carta Costituzionale di Sovranità per la Sardegna, che ricontratti su basi federaliste il rapporto Sardegna-Stato Italiano e che, partendo dall’identità etno-nazionale dei Sardi, ne sancisca il diritto a realizzare l’autogoverno, l’autodecisione, l’autogestione economica e sociale delle proprie risorse e del territorio, il diritto a usare e valorizzare la propria lingua e cultura, a gestire la scuola, i trasporti, il credito, le finanze e l’ordine pubblico, la possibilità di controllare i grandi mezzi di comunicazione di massa e dell’informazione, di fronte alla quale oggi la Regione è totalmente disarmata e niente può fare perché essi rispondano a criteri di uso democratico e socialmente utile. Il potere infine, in settori fondamentali quali la difesa e i rapporti internazionali, di esprimere parere vincolante in merito a tutte le iniziative che tocchino gli interessi vitali della Sardegna.
Uno Statuto siffatto non garantirà automaticamente l’Indipendenza statuale dell’Isola ma ne costituirà certamente un corposo e indispensabile presupposto.

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DIBATTITO
La follia istituzionale della Giunta Pigliaru: alcune idee per rinsavire

democraziaoggiAndrea Pubusa su Democraziaoggi
Se quando ero in Consiglio regionale, a cavallo fra gli anni ‘80 e ‘90 del Novecento, qualcuno degli assessori avesse detto che Carbonia sarebbe dovuta diventare capoluogo di una provincia inesistente secondo lo Statuto speciale, ne avremmo subito disposto la cattura. Se poi costui avesse aggiunto che la circoscrizione di questa provincia sarebbe dovuta andare da costa a costa da Muravera ad Arbus, gli avremmo subito messo una camicia di forza. E se poi avesse soggiunto che la circoscrizione avrebbe dovuto corrispondere alla provincia di Cagliari prevista dallo Statuto speciale, esclusi i comuni che costituiscono la città metropolitana di Cagliari., ne avremmo disposto l’immediato internamento a Villa Clara, riaperta per l’occasione. Se poi ancora ci avesse detto che a governare questo ente non sarebbero stati organi ad elezione diretta, ne avremmo decretato la irrecuperabilità e la permanenza in manicomio, vita natural durante!
Eppure a questo sono arrivati i nostri governanti regionali, con una sgangherata sequela di referendum, leggi e leggine, senza un progetto o in’idea organica. Per rendervi conto della follia pensate che fanno capo a Carbonia Esterzili, Sadali e via pazziando. La nuova provincia comprende, dunque, i territori delle ex province di Carbonia Iglesias, Medio Campidano e restante parte della vecchia Provincia di Cagliari, oltre i Comuni di Escalaplano, Escolca, Esterzili, Gergei, Isili, Nuragus, Nurallao, Nurri, Orroli, Sadali, Serri, Seulo, Seui, Genoni e Villanovatulo. Come sarà funzionale questa nuova provincia! Sarà meglio di quella soppressa!
Per stabilire chi legare, penso vogliate sapere chi ha deciso tutto questo. L’individuazione della città capoluogo della nuova Provincia è stata deliberata dall’amministratore straordinario-podestà, Giorgio Sanna, con i poteri del consiglio provinciale [sic !], in adesione agli indirizzi forniti dall’assessore regionale degli Enti locali, Finanze e Urbanistica, Erriu. Ma le leggi e i provvedimento pregressi hanno molti padri e madri. Anche i folli, però, hanno un balume di lucidità. E così anche il podestà e il soprastante assessore si rendono conto dell’assurdità e si affrettano a precisare che la scelta è indifferibile in ragione delle follie pregresse, ma provvisoria per la sua assurdità. Ma non è che Erriu parli di sbarraccamento, no no, troppa ragionevolezza e buon senso! Sarà confermata o modificata dal futuro Consiglio provinciale, che verrà eletto ai sensi e con le modalità previste dalla legge regionale n. 2/2016 (oscuri accordi all’interno della casta locale, come si è fatto ieri in molte province italiane!). Per ora è si è seguito il criterio del comune con maggiore popolazione residente tra quelli già capoluogo di provincia, poi si vedrà. Sarà una bella carnevalata, trovare un capoluogo ragionevole a questa circoscrizione insensata. Quale riordino mirabile! Quale semplificazione! La stessa che volevano col sì realizzare a livello nazionale per iil Senato, ammomia ti arrodi!
Quelli di SEL (o ex SEL, non si capisce nulla neanche qui) si sono accorti della follia e hanno chiesto all’Assessore Erriu di rimettere alla riflessione del Consiglio regionale la revisone di questo pasticcio. Anche perché le province di Cagliari, Nuoro e Sassari sono previste nello Statuto speciale, che è la Carta costituzionale per la Sardegna, e dunque non possono essere cancellate, mentre rimane anche quella di Oristano, che pur essendo stata istituita con legge statale, non può essere soppressa dal legislatore regionale.
Ora, come sapete, gli elettori sardi hanno espresso un loro giudizio su queste ed altre follie di chi ci sgoverna. Oltre il 70% di NO sono un invito a tornare a casa senza appello per Pigliaru & C.. Sapete anche che il Comitato per il NO, pur nel silenzio omertoso della grande informazione sarda, ha contribuito in modo decisivo a questo risultato, con iniziative publiche, ma sopratutto con le idee. Abbiamo smascherato il disegno antispecialità del governo e della nostra giunta e l’insostenibilità di una riforma che oltre a formalizzare l’eliminazione del carattere rappresentativo delle province, pretendeva di toglierci il diritto di voto anche al Senato (e in Sardegna. per di più, a Statuto vigente, non consentiva, ai sensi dell’art. 27, la nomina di senatori!).
Orbene, data l’emergenza istituzionale ed economica sarda e in considerazione dell’acclarata incapacità d’intendere e di volere diella Giunta Pigliaru, il Comitato ha deciso di rimanere in campo con lo scopo di lavorare al ritorno alla razionalità istituzionale, trasformandosi così in “Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria“.
In questa prospettiva, occorre ripartire dai fondamentali per smontare l’assurdo castello costruito in questi anni e tornare alla Costituzione e allo Statuto, la nostra via maestra.
Ripartiamo da qui. Le autonomie locali sono un principio fondamentale della Costituzione, che all’art. 5 dice che la Repubblica “riconosce e promuove“, “adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia“. Ora, questa è la costituzionalizzazione delle libertà delle comunità territoriali, in aggiunta a quelle individuali di cui all’art. 2 (diritti fondamentali). “Riconosce” significa che il legislatore non crea, ma prende atto delle comunità locali come storicamente formatesi e dà loro veste istituzionale nella forma dei comuni, delle province e delle Regioni. Già da questo primo punto di vista appare fuori dalla Costituzione la individuazione di ambiti territoriali artificiosi, senza storia nelle relazioni fra le popolazioni. Nel caso di Carbonia ci troviamo addirittura dinnanzi a un capoluogo, inesistente fino a 80 anni fa! Ma quali relazioni, vie di traffico e simili ci siano state fra il centro sulcitano e le altre comunità è ben facile dire: nessuna o quasi. La prima operazione da compiere è dunque quella di tornare alle circoscrizioni storiche, a quelle risultanti dalle tre province statutarie più quella di Oristano. Tornare agli enti storici, eliminando tutto ciò che sta in mezzo!
La seconda indicazione discendente dall’art. 5 Cost. è che il termine “autonomia” evoca la capacità di esprimere un indirizzo politico-amministrativo autonomo, e questo implica il carattere elettivo-diretto almeno del Consiglio provinciale.
Posti questi due punti fermi, si può e si deve affinare la riflessione in due direzioni: anzitutto sulla eventuale articolazione delle province storiche. La Costituzione, nel suo testo originario, prevedeva la possibilità di istituire come organi di decentramento, i circondari. E’ un’idea da riempire di contenuti in relazione non solo al modulo organizzativo, ma sopratutto alle funzioni. Ed ecco la seconda questione: quali funzioni alle province? Qui bisogna partire dall’idea, anch’essa propria dell’originario disegno costituzionale e statutario, e cioé che la Regione dev’essere ente di legislazione e programmazione, non apparato amministrativo. L’amministrazione va ripartita ai diversi livelli, comunale o sovracomunale, a seconda dei beneficiari della funzione. Fatto sta che comuni e province devono impinguarsi di funzioni e la Regione svuotarsene. E’ la ricoluzione promessa dalla Carta e dallo Statuto, ma frustrata da una Regione diventata Stato verso i territori, le cui istituzioni sono state indebolite e compresse.
E’ un progetto questo di grande complessità istituzionale e di enorme difficoltà politica, in cui si possono innescare molte novità. E se ben ci pensate se ne capisce la ragione. gira, gira si torna sempre lì, alla sovranità popolare. Per inverarla non bastano i proclami, occorre che le comunità ai vari livelli siano poste nella condizione di autogovernarsi, in un continuum di assemblee e di strumenti partecipativi senza vuoti o eccezioni. Si discute tanto di sovranismo in Sardegna, mentre i governanti praticano la più spudorata genuflessione allo stato centrale, prevaricano le comunità locali, e rubano la democrazia ai sardi con una legge elettorale regionale truffa. La sovranità si invera a partire dai poteri decisionali delle comunità locali in relazione alle funzioni elementari. Possiamo ripartire da qui, dai rami apparentemente bassi, per poi salire e toccare i rami alti? Sembra poco, ma c’è molto da lavorare e da elaborare.
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DIBATTITO È arrivato il momento di praticare la Costituzione
Salvatore Lai su il manifesto sardo.
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220px-Eleonora_di_ArboreaNell’illustrazione: Eleonora d’Arborea in un dipinto di Antonio Caboni (1881)

Che il 2017 sia l’anno della democrazia diretta e della riaffermazione (e pratica dell’obbiettivo) del primato del «lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale»

Left 01 2017 coverlampada aladin micromicroRiprendiamo integrale l’editoriale di Raffaele Lupoli sul primo numero di Left del 6 gennaio 2017, di cui condividiamo ispirazione e proposte per il nuovo anno e oltre.
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Che il 2017 sia l’anno della democrazia diretta
di Raffele Lupoli, Left 6 gennaio 2017

L’anno è cominciato e noi ci rimettiamo al lavoro. Noi tutti intendo. Abbiamo chiuso il 2016 con un No importante, a una riforma della Costituzione che avrebbe consegnato definitivamente all’oligarchia (così l’ha definita Eugenio Scalfari nell’ergersi a suo difensore) il governo del Paese. Adesso dobbiamo mettere in campo tutti i Sì che, come abbiamo annunciato, erano dietro quel No. I primi, se la Consulta ce lo consentirà l’11 gennaio, saranno quelli ai referendum abrogativi su voucher, articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e sul ripristino della responsabilità dell’azienda appaltante, oltre a quella che prende l’appalto, in caso di violazione dei diritti dei lavoratori.

Dobbiamo poi difendere i Sì che abbiamo pronunciato con la mobilitazione del referendum sull’acqua pubblica del 2011. Siamo all’assurdo: la volontà espressa dal popolo scade come una bottiglia di latte. Il tempo è passato e qualche governante (si badi, non il Parlamento) può mettere in campo, assieme a un manipolo di Ceo, il progetto di tre, quattro macro-regioni in cui suddividere la torta della gestione privata puntando a controllare direttamente le sorgenti, come raccontiamo nel Primo piano. Questo si chiama gioco sporco, tradimento della volontà popolare. E purtroppo non lo abbiamo visto in pratica soltanto con l’acqua. Anche se poi, quando arriva il populista di turno a buttare a mare la democrazia rappresentativa con tutta l’acqua sporca, gridiamo allo scandalo.

C’è modo di incunearsi nel dualismo casta-populisti? Il modo è innestare elementi di democrazia diretta, sempre di più e sempre più efficaci, per ridare protagonismo ai cittadini e – perché no – ridimensionare la sfrontatezza di chi aggira i controlli democratici, decide nell’ombra, silenzia e reprime il conflitto. Eppure, se esercitato nelle forme democratiche, il conflitto è esso stesso democrazia, è il sale di una convivenza civile “funzionante”. Dai referendum svizzeri, al bilancio partecipato nato a Porto Alegre, fino alle assemblee divise per tavoli e coordinate da facilitatori che a Bruxelles hanno fatto raccomandazioni sulle grandi questioni. Gli esempi sono tanti, e concreti.

Resta da affrontare una questione ineludibile: nell’era della post-verità e delle disuguaglianze, della precarietà e della solitudine è sempre più difficile essere cittadini formati e informati, in grado di animare e alimentare i processi partecipativi. Per questo il nostro 2017 dovrà essere l’anno della democrazia diretta e allo stesso tempo, ancora una volta, quello della giustizia sociale. Non resta che rimboccarci le maniche e augurarci buon lavoro.

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Left è in edicola dal 7 gennaio con questo e molto altro.
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LAVOROPotremo raggiungere un futuro degno dei nostri giovani solo scommettendo su una vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale
Papa Francesco
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E’ online Rocca n. 2/2017
rocca 0202 0
LAVORO
In difesa dei diritti
di Fiorella Farinelli, su Rocca n.2/2017

Nello stesso anno non si possono svolgere elezioni politiche e referendum. Così, se dovessero esserci elezioni anticipate entro il 2017, il referendum su Jobs Act e dintorni promosso dalla Cgil slitterebbe inevitabilmente al 2018. Tutt’altro governo forse, e forse tutt’altro clima politico. Nel Pd sono in molti a sperarci, anche se la faccia per dirlo apertamente l’ha avuta finora solo quell’acerrimo nemico del politically correct che è il ministro Poletti.

due referendum sul lavoro

C’é probabilmente dell’imbarazzo nel dover riconoscere che se ai tempi del renzismo trionfante la proposta della Cgil poteva essere derubricata – nonostante i 3.300.000 di firme raccolte – a un quasi patetico tentativo di sfuggire all’angolo buio dell’irrilevanza, oggi la sola idea di un replay del voto del 4 dicembre fa rizzare i capelli in testa.

Non che non sia noto, ovviamente, che i referendum sul lavoro solitamente non superano la difficile prova del voto interclassista – chi non ricorda la secca sconfitta sulla scala mobile del 1984? – ma l’esito di quello sulla Costituzione dice che nel Paese il vento è cambiato. E che il popolo sovrano potrebbe di nuovo, anche al di là del merito dei quesiti referendari, mandare tutto a carte quarantotto. Il merito, del resto, questa volta lo capiscono tutti. Si tratta di difendere il lavoro. Che da anni non cresce abbastanza e che, quando c’è è sempre più spesso straprecario, sottopagato, spogliato di tanti dei diritti di una volta. Non a caso a votare No, il 4 dicembre, sono stati soprattutto i giovani che faticano a trovarlo, i disoccupati, i precari. L’antica fame di occupazione della gente del Sud. Contro il governo. Contro Matteo Renzi. Contro l’ipocrisia di chi dice che tutto sta andando per il meglio. Pericolose raffiche di populismo, come in Francia, Regno Unito, Usa? Anche questo, certo, ma a contrassegnarle, non solo in Italia, c’è un profondo e insistente disagio sociale, un impasto di frustrazioni e difficoltà reali, la rabbia per le diseguaglianze, la desertificazione dei luoghi delle identità collettive. E nel mondo politico circola la paura di rimettere troppo presto in mano agli elettori un’altra scheda referendaria.

aspettando la decisione della Corte

Alla fine di dicembre, comunque, il referendum della Cgil non è ancora certo. Superato il 9 dicembre il vaglio della Cassazione, resta infatti da superare l’esame di legittimità da parte della Corte Costituzionale, fissato per l’11 gennaio. Esame dall’esito non proprio scontato, sostengono alcuni costituzionalisti, perché il profilo abrogativo del referendum sarebbe viziato, nel quesito sull’articolo 18 che propone di reintrodurre il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento giudicato illegittimo, dalla prospettiva di estenderlo anche alle imprese con meno di 15 e più di 5 dipendenti. Demolendo così lo storico steccato che fin dallo Statuto dei Lavoratori del 1970 differenzia le imprese in quelle sopra e quelle sotto i 15 addetti, e aggiungendo quindi all’abrogazione di uno dei punti del Jobs Act un’innovazione tutt’altro che trascurabile.

Nessun dubbio di legittimità dovrebbe essere sollevato, invece, sugli altri due quesiti. Uno finalizzato all’abrogazione del dispositivo dei voucher, nati nel 2003 ma poi modificati ripetutamente fino alla smodata liberalizzazione che porta la doppia firma Renzi-Poletti. L’altro a ripristinare la responsabilità dell’azienda appaltatrice, oltre a quella che vince l’appalto, nei casi di violazione dei diritti dei lavoratori. Si saprà tra breve come andrà a finire, se il testo Cgil uscirà completamente indenne dall’esame della Corte o se perderà per strada qualche pezzo. E poi anche se, per disinnescare la mina del referendum o almeno annacquarne la portata politica, il parlamento riuscirà prima del voto a modificare in qualche aspetto significativo le norme di cui viene chiesta l’abrogazione.

il problema voucher

Per quel che riguarda i voucher, la strada sembrerebbe, se non spianata, almeno aperta. Tra le voci autorevoli sono parecchie, infatti, a dichiararsi favorevoli a ritocchi. Lo dice a chiare lettere, per esempio, Maurizio Del Conte, uno dei consulenti più stretti di Matteo Renzi che lo ha nominato presidente della neonata Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. «Sui voucher ci sono stati abusi – ammette in un’intervista al Corriere della Sera del 27 dicembre – è necessaria una stretta subito». Una stretta che a suo dire dovrebbe non suonare come una sconfessione del Jobs Act ma solo correggerne gli eccessi, recuperando l’ispirazione originaria del dispositivo – che risale al 2003 – con cui si voleva solo far emergere dal nero alcune tipologie di «lavoretti», dalle ripetizioni scolastiche degli insegnanti ai piccoli servizi domestici di infermeria o di baby sitting. Non che sia semplice una «non sconfessione» circoscritta a impedire gli abusi dal momento che è proprio a seguito della decisione del Jobs Act che i voucher, estesi anche a settori assolutamente impropri come l’edilizia, l’agricoltura, la grande distribuzione e consentiti fino a un guadagno di 7.000 Euro l’anno, vengono largamente utilizzati al posto di contratti più stabili, e in sempre più perverse combinazioni tra regolare e nero. Fino ai vistosi eccessi del Comune di Napoli, che ha previsto l’utilizzo dei voucher invece che di contratti a tempo determinato per i suoi lavori di manutenzione edilizia.

Gli abusi, insomma, non nascono dal niente, o solo dal vecchio vizio italico di aggirare le regole. Sono i numeri a dirlo, con le vecchie regole i voucher acquistati dai datori di lavoro erano mezzo milione l’anno, nel 2016 saranno 160 milioni. Uno sviluppo abnorme, un passo avanti gigantesco nella precarizzazione e frantumazione del lavoro dipendente. Lo si sapeva che le cose sarebbero andate così, il governo e i parlamentari conoscevano le preoccupazioni e le denunce dei «non allineati» – i malfamati «gufi» – ma l’arroganza anche in quella circostanza come in altre ebbe la meglio. Ed è un fatto che oggi, a far rientrare dalla finestra un refolo di buon senso, si è rivelata indispensabile la strada – in verità irrituale per un sindacato che dovrebbe vivere piuttosto di vertenze e di contrattazione – del referendum. I cui risultati però, nel clima attuale, potrebbero finire con l’essere cannibalizzati, proprio come quelli del referendum sulla Costituzione, dal movimento dei Cinque Stelle. È anche lo schema del gioco, da bipolare a tripolare, che in questa fase sta radicalmente cambiando. E non è cosa da poco, per la politica ma anche per il sindacato. Vedremo.

gli altri problemi del mondo del lavoro

I problemi del lavoro in Italia, del resto, non nascono e non si esauriscono né col Jobs Act né coi quesiti referendari della Cgil. Non solo perché entrambi riguardano il solo lavoro dipendente mentre si moltiplicano ormai da tempo, e in modo palesemente irreversibile, diverse tipologie di prestazioni lavorative (partite Iva, e non solo), ma perché problemi e talora soluzioni stanno seguendo anche altre strade. Lo si è visto nei tardivi ripensamenti del governo Renzi che, rendendosi forse conto dei rischi di una strategia di annichilimento dei corpi intermedi in uno schema di gioco in cui a centrosinistra e centrodestra si è aggiunto il terzo incomodo dei grillini, ha nell’ultima fase riacciuffato i fili del confronto con le organizzazioni sindacali approdando alle intese sul pubblico impiego e sulle pensioni. Lo si vede anche nella nomina a ministro dell’istruzione, da parte di Paolo Gentiloni, dell’ex sindacalista Cgil Valeria Fedeli, col compito specifico di recuperare consenso sulla travagliatissima e discutibile «Buona Scuola» ricostruendo un quadro di normali e fisiologiche relazioni sindacali con cui ritoccare il ritoccabile.

un compromesso ragionevole

Ma il mondo del lavoro non viene solo coinvolto da grandi e piccole manovre di significato prevalentemente tattico. La prova di una vitalità autentica e autonoma, fatta di una buona consapevolezza da entrambe le parti, quelle imprenditoriali e quelle sindacali, dei problemi attuali e futuri del lavoro manifatturiero, si è profilata molto chiaramente nel recente accordo per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Un comparto produttivo che vive tutti i problemi della crisi, e di un lavoro trasformato nella sua qualità ma anche minacciato nella sua quantità dall’uso massiccio delle nuove tecnologie.

Lo rivelano, come sempre, i numeri. L’ultimo contratto nazionale, firmato nel 2012, vedeva 300mila occupati e 1⁄4 di produzione in più di quello firmato nelle scorse settimane. Non solo, la trattativa è iniziata con la provocatoria proposta delle imprese di farsi restituire da ogni addetto i 73 euro previsti dal precedente contratto a copertura di un’inflazione che poi non c’è stata. Eppure le organizzazioni sindacali ce l’hanno fatta, con l’energia degli scioperi, l’intelligenza di una contrattazione costruttiva, e finalmente anche la capacità di fare unità dopo le tante divisioni del passato. E il risultato è per più versi innovativo, 92 euro di aumento medio pro capite, comprensivo sia di un welfare sanitario integrativo sia di benefits flessibili da contrattare a livello aziendale, dagli asili nido ai libri scolastici. E poi anche il diritto soggettivo a 24 ore di formazione continua in aggiunta alle vecchie 150 ore per il diritto allo studio. La riapertura, infine, del capitolo dell’inquadramento aziendale, mai più ritoccato dai remoti anni Settanta e quindi ormai largamente inadatto a recepire le trasformazioni dei profili e delle figure professionali di una fabbrica non più fordista.

investire sulla propria qualità professionale

Non è abbastanza, ovviamente, per l’ala più barricadiera del sindacato, ma si tratta comunque di un compromesso ragionevole e lungimirante considerati i costi di accesso al sistema sanitario nazionale, il peso sui salari delle tariffe, il fatto che le risorse stanziate nel welfare aziendale vanno interamente in tasca ai lavoratori a differenza di quelle, tartassate dal fisco, che finiscono in salario diretto. Se le imprese non possono reggere senza investimenti massicci in tecnologia, per i lavoratori non c’è possibilità di reggere all’innovazione tecnologica che «mangia» il lavoro se non investendo nella propria qualità professionale. Un contratto pragmatico, comunque, e anche aperto al futuro. Di ottimismo e di pragmatismo c’è in verità un grandissimo bisogno nell’Italia di oggi. Ed è un piccolo segnale, ma indubbiamente ottimo, che tutto ciò venga, questa volta, da uno dei comparti più tradizionali del mondo del lavoro.
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Fiorella Farinelli su Rocca n. 02-2017

Contributi al dibattito su “Crisi del Welfare ed economia civile”. Il pensiero di Pino Ferraris

ferraris pino LIBROape-innovativa Proseguiamo nel riproporre le riflessioni di Pino Ferraris (anche con la mediazione di altri che ne hanno studiato il pensiero), utilizzando la documentazione pubblicata dalla news online “Controlacrisi” per ricordarne la figura all’indomani della sua morte avvenuta il 2 febbraio 2012. I contributi teorici di Pino Ferraris mantengono una straordinaria validità per affrontare oggi la crisi che attraversiamo drammaticamente e che è crisi insanabile del capitalismo, indirizzandoci nella ricerca di soluzioni diverse anche da quelle in buona parte fallimentari dei modelli storicamente attuati del socialismo reale. Pino Ferraris negli anni 70 frequentava spesso la Sardegna, spendendosi generosamente nei movimenti della sinistra alternativa, apportando la sua capacità di teorico e ricercatore appassionato e rigoroso, maestro per molti di noi giovani (allora) militanti della nuova sinistra sarda.
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PINO FERRARIS SULLE PRATICHE DI NEO MUTUALISMO E AUTORGANIZZAZIONE

Pino Ferraris fto microConclusione di Pino Ferraris al Convegno sulla Mutualità promosso dalla Società di Mutuo Soccorso d’Ambo i Sessi “Edmondo De Amicis” di Torino –

L’ultimo intervento del rappresentante della Società Operaia di Orbassano ha portato un importante contributo di chiarezza nel dibattito in corso. Evitiamo – egli ha affermato – di identificare le Società di Mutuo Soccorso con le “mutue”.
In questo caso, di fronte alla realizzazione della riforma sanitaria come diritto dei cittadini alla salute, il loro compito sarebbe residuale, modestamente integrativo o pericolosamente sostitutivo di diritti fondamentali.
Nel corso della prima sessione del convegno intitolata “Che cosa ci insegna la storia della mutualità”, Marco Revelli ha parlato di questa esperienza come di una grande scuola di auto-organizzazione e come anello di congiunzione tra la cultura dei mestieri e i problemi degli ambiti di vita e infine come uno storico movimento di costruzione di nuove relazioni sociali basate sul principio di solidarietà. Occorre non perdere mai il senso di questa profonda ed ampia ispirazione delle società di mutuo soccorso.
Nella seconda sessione del convegno dedicata a “Crisi del Welfare ed economia civile” è stata sollevata una domanda molto pertinente: perché oggi c’è una ripresa del mutualismo? Quarant’anni fa si parlava di altre cose. Questo ritorno rappresenta soltanto un tentativo di risposta alla crisi del welfare oppure ha una valenza politica?
Revelli ha affermato che il movimento operaio del 900 ha vissuto di rendita sulla grande ondata istituente di nuove forme associative suscitate nella seconda metà dell’800: il mutuo soccorso, le leghe di resistenza, la cooperazione, le case del popolo, il partito di massa.
Il 900 non ha solo ereditato la rendita di queste risorse associative, ma a partire dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale esso ha anche operato una torsione burocratica, politicista e statalista del patrimonio del movimento operaio ottocentesco.
Qui sta la ragione principale del mancato riconoscimento storiografico del mutualismo: con esso si è rimossa la sua ispirazione autogestionaria, il suo radicalismo democratico, la sua affermazione delle autonomie del sociale.
Il ritorno del mutualismo significa anche e soprattutto ricerca di nuove vie della politica dopo la crisi di socialismi autoritari, di sistemi politici oligarchici e autoreferenziali, dopo le deviazioni del welfare verso forme di paternalismo statale selettivo e clientelare.
Dentro lo sviluppo del volontariato, di movimenti di cittadinanza attiva, di buone pratiche di cittadinanza negli anni 80 e nei primi anni 90, si aprivano possibilità di sussidiarietà circolare (Cotturri) tra istituzioni e associazioni in grado di far emergere una sfera pubblica sociale (che non è il cosiddetto privato-sociale). La stagione dei “nuovi sindaci” prometteva l’articolazione di un welfare locale. Tutto ciò sembrava rompere la rigidità, la selettività, la freddezza burocratica dell’offerta di welfare e aprire varchi all’intervento attivo, competente e propositivo della domanda sociale, rendendo visibili ed esigibili diritti negati o elusi dei cittadini.
E’ possibile rompere il nesso assistenza-dipendenza? E’ possibile che i “destinatari” dell’offerta di welfare diventino anche attori proponenti di una domanda sociale nuova e appropriata? E’ possibile che l’”oggetto” delle pratiche di tutela politica e amministrativa possa entrare sulla scena pubblica come “soggetto”?
E’ in questa ottica che per anni con altri amici e compagni abbiamo lavorato non per tamponare una “crisi” del welfare ma per realizzare un nesso tra “riforma” ed “estensione” del welfare e i valori di autonomia sociale, le pratiche di partecipazione e di solidarietà di un neo-mutualismo.
Oggi sono più prudente nel privilegiare questo rapporto neo-mutualismo e welfare. Non solo perché questo riferimento al welfare mi pare riduttivo, ma anche perché su questo terreno le strade si sono fatte oggi più strette e i percorsi quasi impraticabili.
Come si colloca il neo-mutualismo dentro quell’insieme di pratiche sociali che vengono sommariamente riassunte nella definizione del “terzo settore”?

Recentemente a Roma si è tenuto un convegno dal titolo significativo: Terzo settore, fine di un ciclo. La relazione era di don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capo d’Arco, altre relazioni erano di Giovanni Nervo, di Giuseppe De Rita, di Carniti. Concludeva Giulio Marcon.
De Rita in poche parole ha fissato la situazione: “Oggi il volontariato è in qualche modo uno spazio per anziani generosi, mentre la dimensione più giovanile e anche quella più settorializzata va verso un’altra direzione che approda alla cooperazione di servizi, alle imprese sociali, che sono una cosa molto diversa dal volontariato.”
Una riforma del Welfare richiede non solo la capacità di dare rilevanza sociale e politica al lato attivo, competente e propositivo della domanda sociale, come avvenne con il volontariato degli anni 80 e primi anni 90, ma esige in primo luogo un forte impegno politico generale nel rendere giusta la solidarietà fiscale, nel rendere equa la solidarietà assicurativa. Solo così la solidarietà quotidiana può evitare il pericolo di decadere in una supplenza di diritti negati.
Oggi vediamo invece che i cardini del welfare, scuola, sanità e previdenza, sono presi a picconate. Hanno spazio crescente le ibride macchine organizzative, che sono un misto di degradato parastato e di cattiva imprenditorialità, cui viene affidata l’esternalizzazione dei servizi sociali.
Cooperative e imprese sociali, fondazioni bancarie, iniziative caritatevoli e filantropiche accompagnano il progressivo smantellamento del sistema pubblico di garanzie e di protezione sociali.
Il cosiddetto terzo settore non ha più niente a che fare con il volontariato e con la cittadinanza attiva. L’attuale “Forum del terzo settore” rappresenta la congiunzione traversale tra la Compagnia delle Opere, la Lega delle Cooperative e le Fondazioni bancarie. Questa è la realtà. Il resto è letteratura.
Quando Vendola nella sanità pugliese internalizza migliaia di soci di pseudo-cooperative degli appalti, non attacca un sistema di solidarietà ma fa semplicemente un’opera minima, indispensabile di moralizzazione e di garanzia di efficacia della sfera pubblica.
Con ciò non dico di abbandonare la prospettiva di un welfare locale attivo, di una sussidiarietà circolare che promuova la domanda associata. Ma occorre prendere atto dello stato delle cose, degli errori fatti, ripensare il futuro e avere ben chiaro che le minoranze attive del volontariato sono nate e vivono per rendere esigibili, effettivi i diritti sociali e non per coprire ideologicamente la regressione dall’universo dei diritti alla supplenza della benevola elargizione o alla deriva del “mercato sociale”.
Detto questo vorrei riprendere un discorso più generale e di carattere storico per dire la mia opinione sul vostro dibattito circa reciprocità, fraternità, altruismo e dono.
Sul piano storico vorrei marcare con forza la valenza del mutualismo nel determinare quella rottura nella storia sociale europea determinata dalla contemporaneità genetica dell’insorgere dell’idea di solidarietà e la nascita del moderno movimento operaio e socialista. Una data simbolica: il 1848 parigino, quando i giornali operai modificano la triade libertà, uguaglianza e fraternità sostituendo quest’ultima con la parola solidarietà.
Nell’Enciclopedia di Diderot il termine “solidarietà” è illustrato in sette righe che riprendono il concetto di “obbligatio in solidum” del diritto romano. Essa è definita come “la qualità di una obbligazione nella quale più debitori si impegnano a pagare una somma che essi prendono in prestito o che debbono”.
Parecchie pagine nell’Enciclopedia sono invece dedicate alla parola “fraternità” con una ricostruzione storica che conduce questo termine a due tradizioni: quella dell’unità di sangue tra i “fratelli d’armi” e quella della fratellanza cristiana che unisce attorno al Padre divino.
Di fronte all’insorgere della questione sociale queste due tradizioni evolvono verso la sollecitazione morale all’oblazione dall’alto verso il basso in nome di una comune appartenenza: fratelli in quanto figli della patria, fratelli in quanto figli di Dio. Diventa la parola della carità cristiana e della filantropia massonica.
L’affermazione della “solidarietà” operaia avviene nel 1848 parigino in polemica con la “fraternità”: essa rivendica il valore pratico e ideale del “far da sé solidale” che si contrappone in quanto agire cooperativo al self help individualistico e si oppone, in quanto capacità del far da sé, all’oblazione filantropica e caritatevole.

La solidarietà tra i lavoratori esprime un loro interesse perchè è fondamentale eliminare la concorrenza e impegnarsi in un’azione cooperativa che sola può permettere di superare l’asimmetria di potere che essi come singoli vivono e subiscono nel lavoro e nella società.
E’ un interesse che però esprime un insieme di valori, un sentimento morale radicato in un vissuto comune e si manifesta in proprie regole di comportamento e forme associative. Il concetto e l’esperienza della solidarietà stanno alla base delle molteplici forme dell’associazionismo operaio delle seconda metà dell’800: dal mutuo soccorso alle leghe di resistenza, dal movimento cooperativo alle Case del Popolo.
Il termine di solidarietà richiama la cooperazione tra uguali nonostante la diversità: è un modo di confederare l’eterogeneo.
La prevalenza nel corso del 900 di una concezione monolitica della classe operaia fa declinare l’uso di questo termine nella seconda e terza internazionale.
Non solo non c’è conflittualità tra “diritti sociali” e mutualismo, ma vi è complementarietà. L’apporto del mutuo soccorso, nella fase aurorale dell’ascesa dei diritti sociali, è indubbio.
All’interno della cerchia dell’associazione il vincolo di reciprocità (uno per tutti, tutti per uno) faceva sì che il singolo lavoratore, di fronte alle sventure dell’esistenza, per la prima volta cessasse di rovinare nella condizione del bisognoso che implorava benevolenza verso l’alto, diventando invece un soggetto portatore del diritto al sostegno solidale da parte dell’associazione.
Revelli ha accennato al rapporto tra associazione di mestiere e mutuo soccorso.
Credo che la relazione tra mutualità e resistenza meriti un cenno ulteriore sia per comprendere l’evoluzione delle forme della solidarietà sia perché, a mio avviso, oggi si ripropongono rapporti nuovi tra sindacalismo e mutualismo.
Il primo associazionismo operaio si sviluppa come forma di autotutela rispetto ai gravissimi disagi e alle minacce che l’industrialismo faceva incombere sulle condizioni di vita dei lavoratori (il “flagello dei quattro diavoli”: disoccupazione, malattia, infortunio, vecchiaia).
Il mutuo soccorso viene prima della resistenza e dentro il mutuo soccorso si alimenta la resistenza, cioè la lotta rivendicativa negli ambiti di lavoro.
Un caso di grande ed esemplare rilevanza è la rivolta dei tessitori di Lione del 1831. All’origine di quel moto dal sicuro contenuto sindacale (i lavoratori rivendicavano un aumento delle tariffe) si collocava la presenza e l’attività della Societé du Dévoir Mutuel.
Durante i grandi scioperi biellesi del 1878, che meritarono la prima inchiesta parlamentare, fu la Società Operaia di Mutuo Soccorso dei tessitori di Crocemosso che venne sciolta come responsabile delle lotte.
Insieme a questa relazione stretta si manifesta anche una differenziazione tra la forma di solidarietà mutualistica e la forma di solidarietà sindacale. La solidarietà mutualistica è una solidarietà per, quella sindacale una solidarietà contro. La solidarietà positiva della mutualità si radicava negli ambiti di vita e tendeva a una sorta di pratica dell’obbiettivo da realizzare nel basso e nel presente, mentre la solidarietà negativa dell’azione sindacale operava nei luoghi di produzione per strappare concessioni dall’alto.
Con la statizzazione della mutualità alla coppia mutualità-resistenza si sostituì la coppia sindacato-partito, due organizzazioni di solidarietà negativa di scontro con il padronato e di lotta per la conquista dello stato. L’associazionismo operaio subisce una torsione per così dire combattentistica, in cui prevalgono momenti di centralizzazione, di disciplina e di gerarchia.
Fabbrica e Stato occupano l’orizzonte del movimento operaio mentre gli ambiti di vita (il non-lavoro) vengono abbandonati all’amministrazione pubblica e alla cura domestica delle donne.
E’ nel crollo di questo paradigma che riemerge il mutualismo con le sue pratiche di solidarietà positive, con la sua volontà di costruire nel presente contro il rinvio messianico al futuro, con il suo sforzo di crescita delle capacità di realizzare in proprio, con il suo rifiuto della passività assistita.

Oggi vedo emergere nuove possibilità di riproposizione di questo antico nesso tra mutuo soccorso e lavoro. Il movimento operaio belga della fine dell’800 aveva elaborato il modello del “sindacato ad insediamento multiplo”: nel luogo di lavoro e nella società, nella rivendicazione e nella mutualità. Ad esempio il sistema Gand di raccolta e di gestione sindacale di un fondo per la disoccupazione fu un mezzo potente di mutualità che teneva legati i disoccupati al sindacato e permetteva loro di trovare una nuova occupazione decente. Il sistema Gand (riformato) funziona in modo efficace oggi in alcuni paesi scandinavi.
Il lavoro edile da sempre è stato un caso esemplare di precarietà e di dispersione dei lavoratori: la temporaneità del cantiere che nasce e muore, i frequenti intervalli di disoccupazione, la disseminazione spaziale della mano d’opera. Tra gli edili italiani la mutualizzazione della precarietà attraverso la Cassa Edile sin dai primi anni del secolo scorso è stata uno strumento di tutela mutualistica e di rafforzamento del potere rivendicativo.
Nella attuale condizione di lavoro disperso, precario, non garantito, la mutualità può rappresentare un punto di coesione che, a partire dagli ambiti di vita, ricompone socialità e crea solidarietà dentro il lavoro.
Il sociologo americano Sennet, parlando delle esperienze associative delle segretarie di Boston e dei lavoratori della comunicazione in Gran Bretagna, dice di un “sindacalismo parallelo” (che richiama il vecchio sindacalismo a insediamento multiplo) che fa leva su forme di neo-mutualismo al fine di recuperare coesione e forza rivendicativa.
La Free Lancers Union di New York è un’associazione insieme mutualistica e sindacale di artigiani tecnologici che, mentre si assicurano reciprocamente assistenza tecnica e giuridica, difendono la qualità e le tariffe del loro lavoro.
Dall’inchiesta recentissima del vicedirettore de l’Unità Gianola sulla condizione operaia dentro la crisi attuale, apprendiamo che in provincia di Brescia Camera del lavoro e Caritas hanno attivato una società di mutuo soccorso raccogliendo tra gli iscritti della CGIL un fondo per il microcredito ai lavoratori disoccupati gestito dalla Caritas.
Questi nuovi rapporti tra lavoro e mutualità, a mio avviso, meritano molta attenzione.
Un’area nella quale i problemi del lavoro e della vita si intrecciano in modo inestricabile è quella dei lavoratori immigrati. Qui troviamo esperienze numerose e significative di neo-mutualismo.
L’esperienza friulana dell’associazione “Vicini di casa” mi sembra esemplare. Questa associazione ha trasformato l’antico patrimonio immobiliare e culturale di una rete di latterie sociali di ispirazione cattolica e socialista in un’offerta di abitazioni per operai immigrati che lavorano nei cantieri di Monfalcone. Gestisce l’affitto di 1500 piccoli appartamenti.
Anche l’esperienza dell’associazione torinese di donne immigrate Alma Mater mi sembra che si collochi in una zona intermedia tra mutualità e lavoro.
Nuovi spazi di autogestione di risorse comuni territoriali vengono aperte dalle culture e dalle pratiche ambientaliste.
L’orizzonte si amplia.
Creare esperienze di cittadinanza attiva nelle molte pieghe della società attraverso il far da sé solidaristico della mutualità significa oggi andare con fatica contro-corrente rispetto ad un sistema e ad una cultura politiche che producono passività e deleghe plebiscitarie.
Oggi è possibile creare un nesso tra la filosofia economica contemporanea della capacitazione di Amarta Sen con quello che Osvaldo Gnocchi Viani, padre della Camere del Lavoro, scriveva nello statuto della Società Umanitaria di Milano: ”Lo scopo dell’istituto è quello di mettere i diseredati in condizione di rilevarsi da se medesimi”*.
Creare la condizioni perché le persone siano capaci di sollevarsi e di camminare sulle proprie gambe: questa antica missione del mutuo soccorso resta, ancora oggi, il cuore della azione per la libertà e per la giustizia sociale.
Torino 29 ottobre 2010
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Mariuccia Salvati: L’attualità del socialismo di ieri secondo Pino Ferraris

lampadadialadmicromicro1La rivista online Controlacrisi.org in un articolo del 12 marzo 2012 ha ricordato Pino Ferraris, politico-militante della sinistra e storico scomparso nel febbraio dello stesso anno: “La scomparsa di Pino ci ha privato di un interlocutore e un punto di riferimento assai prezioso. Vi proponiamo la bella recensione dell’ultimo libro di Pino uscita sul numero di febbraio della rivista Lo Straniero diretta da Goffredo Fofi. In coda trovate il link a una registrazione di un intervento di Pino in cui riassumeva il senso profondamento politico del suo lavoro storiografico”. Riproponiamo il contributo per l’attualità delle riflessioni rispetto alle attuali problematiche.
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Partiamo dal titolo, Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, (Edizioni dell’Asino). Un titolo che richiama una traccia di lavoro di Vittorio Foa citata nell’introduzione: l’invito cioè – in tempi di amnesie e rimozioni, di nodi politici e sociali che urgono nel presente – a “sciogliere le ideologie nella storiografia”. È ciò che aveva fatto lo stesso Foa con La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento di cui Ferraris ha ripercorso la genesi nella nuova introduzione alla riedizione del libro per Einaudi del 2009 (la prima edizione era stata pubblicata da Rosenberg & Sellier nel 1985). Uscire dall’ideologia attraverso la storia. In questo c’è tutto l’atteggiamento di uno scienziato sociale, ma anche di un intellettuale che è stato militante e dirigente politico e che non fa lo storico di mestiere. Come spiega in un altro passo dell’introduzione, infatti, la sua non è una opzione asettica di un oggetto di studio, ma una scelta di campo.

Il campo prescelto ha due perimetri: un arco cronologico (racchiuso nella seconda metà dell’Ottocento, tra Comune di Parigi e crisi di fine secolo, comunque nei decenni antecedenti alla Grande Guerra e a tutto quanto ne seguì, come richiama nel finale del primo e dell’ultimo saggio) e un dilemma teorico: è esistito un momento in cui il socialismo è sembrato ai protagonisti delle lotte sociali una meta vicina, già praticabile? E, se è esistito, come è stato sconfitto e, soprattutto, perché è stato rimosso dalla memoria del movimento operaio?

Perché è questa, in sostanza egli ritiene, la ragione per cui la prospettiva socialista è scomparsa dall’orizzonte delle masse popolari in Europa.

I tre saggi che compongono il libro sono rispettivamente del 1992, 1995 e 2008. I primi due sono decisamente storici e direttamente ispirati, nelle linee di fondo, dalla Gerusalemme rimandata, il terzo (pubblicato nel quadro delle iniziative della rivista “Una città”) ha già un obiettivo più legato al presente, e costituisce, in un certo senso, la premessa della raccolta stessa. L’oggetto del primo è un quadro complessivo del sindacalismo europeo delle origini: l’ascesa e la sconfitta, in Inghilterra, Francia e Italia, di un sindacalismo (diverso dal modello tedesco) con alcune caratteristiche comuni riconducibili a quella mouvance che Pino chiama, ricollegandosi a Paolo Farneti, di “politicizzazione del e dal sociale”, mobilitazione e pratiche che si sprigionano direttamente dentro il sociale: un sindacalismo certamente politico, ma distinto dall’organizzazione del partito politico socialista, che nasce invece come depositario di una ideologia da diffondere tra le masse. Socializzare senza statizzare, conquistare sicurezza sviluppando libertà, sono parte di questa mouvance, ma, anche, critica alla democrazia, antistatalismo, localismo. Sarà sostanzialmente la guerra novecentesca a chiudere questa esperienza, introducendo i temi della nazione, della violenza e dell’organizzazione militare applicata alla produzione.

Due riflessioni vengono alla mente, a conferma e chiarificazione di questo passaggio cruciale: la prima è il richiamo, nell’arco di tempo considerato, a un aspetto nuovo e dirompente di quella fase storica, cioè la forte internazionalizzazione del lavoro (mercato, organizzazione) che si accompagna a quella parallela del capitale (non a caso gli storici hanno parlato di una vera e propria “prima mondializzazione” rispetto alla seconda di fine Novecento).

Questa internazionalizzazione è segnata, nella storia del movimento operaio, dalla nascita stessa, nel 1889, della grande organizzazione a cui aderirono tutti i partiti nazionali socialisti e laburisti europei sotto la guida del partito socialdemocratico tedesco: la cosiddetta Seconda Internazionale, per distinguerla dalla Prima, fondata nel 1864 e caratterizzata dalla battaglia vincente di Marx contro Mazzini, Proudhon e Bakunin. È sullo sfondo o dentro questa “organizzazione” (ancora oggi ben nota grazie al fondamentale studio sul partito politico di Roberto Michels, autore attentamente studiato dallo stesso Ferraris) che si svolge il decisivo dibattito tra sindacato e partito, segnato dai contrasti teorici su democrazia e capitalismo, spontaneità e organizzazione: così come è anche contro questa organizzazione (praticamente morta nell’agosto del 1914 allo scoppio della guerra) che nascerà, dopo la fine della prima guerra mondiale, la costola bolscevica e la Terza Internazionale. Il primo e massimo storico della Seconda Internazionale è stato Georges Haupt, che a questo studio ha dedicato la vita e che continuava, in anni di ortodossie contrapposte dalla guerra fredda, a difenderne la struttura tutto sommato aperta sul terreno ideologico, proprio perché egli stesso era stato una vittima della Terza (in fuga dalla Romania, approdò in Francia nel 1958: a lui è dedicato il fascicolo in uscita, 1/2012, dei “Cahiers Jaurès” ).

La seconda riflessione – sempre a conferma di quanto scrive Ferraris – si riallaccia allo studio di C.S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese. Nella sua analisi comparata del 1975 su Francia, Italia e Germania, Maier individuava proprio nella sconfitta delle rivendicazioni dei grandi scioperi del primo dopoguerra, di carattere ancora “ottocentesco”, imperniate cioè sul controllo operaio delle fabbriche (significative le parole d’ordine come: “la mine aux mineurs”, “les chemins de fer aux cheminots”…), la chiave di volta per comprendere il successo negli anni venti della rifondazione corporatista del nuovo capitalismo fordista in tutti i paesi europei, e non solo in quelli fascisti. Dal quadro di Maier è volutamente escluso il caso inglese, che conosce una storia diversa: un eccezionale lungo decennio di conflittualità sociale e di spinta operaia libertaria (1910-1920) che apre al “socialismo dei consigli”. La Gerusalemme rimandata V FoaIn quegli stessi anni, nel 1973, ricorda Ferraris nella introduzione alla Gerusalemme rimandata, Foa, che ha già in mente la ricerca sugli operai inglesi, apre il suo saggio per la Storia d’Italia (Einaudi) – Cento anni di sindacato in Italia – prendendo le mosse dagli scioperi del Biellese, investito dalla meccanizzazione del lavoro tessile. Negli scioperi del 1878 (che sono all’origine della relazione della “Commissione parlamentare di inchiesta sugli scioperi” voluta da Crispi), scrive Ferraris, “la lotta economica assume un potenziale politico dal momento in cui gli operai professionali minacciati nel loro mestiere si fanno protagonisti dell’unità con i nuovi lavoratori poco qualificati e con le donne per un comune controllo sulla prestazione del lavoro”. È la stessa ipotesi di ricerca che guida Foa nella Gerusalemme rimandata: la risposta alla taylorizzazione del lavoro, nell’Inghilterra “officina del mondo”, avviene attraverso un processo in cui la difesa corporativa del controllo del proprio mestiere da parte degli operai specializzati si ribalta in proposta unitaria offensiva di controllo operaio sulla produzione. Ma quella esperienza sarà riassorbita dal laburismo amministrativo e statalista. Si trattava dunque di una Gerusalemme rimandata o sconfitta? Questo fu il rovello di Foa, che scrive di classe operaia inglese pensando a quella italiana – e si direbbe anche di Ferraris, che scrive di ieri pensando al domani.

Il secondo dei tre saggi che compongono il libro è dedicato a Osvaldo Gnocchi-Viani, protagonista e teorico appunto di quel tipo di organizzazione che Maier vede definitivamente superata dopo le trasformazioni economico-sociali imposte dalla prima guerra mondiale, ma che già Giuliano Procacci (in un saggio per la “Rivista storica del socialismo” del 1962) considerava profondamente trasformata a seguito dello sciopero generale del 1904: l’organizzazione basata sulle Camere del Lavoro, caratterizzata dalla compresenza di segmenti diversi della classe lavoratrice, dagli artigiani agli operai ai contadini. Qui, incurante delle sconfitte della storia, e mosso da intenti non storiografici, ma ideali e politici, Pino si va a leggere i numerosi saggi di Gnocchi-Viani, anziché studiare, come è stato fatto anche in maniera meritoria da parte degli storici (Franco Della Peruta, Gastone Manacorda, Stefano Merli, Maria Grazia Meriggi), le reti organizzative. E con questo recupera davvero una memoria teorica perduta. Perché nella versione degli storici, quella lotta (guidata sostanzialmente dai tipografi, come Gnocchi-Viani o Bignami, e da un grande giornale, “La Plebe”) è destinata alla sconfitta in base a una logica della storia che la linea organizzativa ispirata a Marx sa meglio interpretare, soprattutto dopo la crisi sanguinosa di fine Ottocento e l’avvio dell’era giolittiana imperniata sui partiti e i collegi elettorali.

A Ferraris, invece, Gnocchi-Viani appare come l’interprete di un “modello italiano” particolare, basato sulla compresenza, nei movimenti sociali italiani, di lavoratori dell’industria e dell’agricoltura: un fatto che stupiva già Engels nella corrispondenza con Labriola, e più tardi Kautsky, perché in nessun paese d’Europa, eccetto che in Italia, troviamo i contadini sulla sinistra dello spettro elettorale (eccezionalità confermata dal grande affresco comparato di Stein Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti). Ora su questo protagonista dimenticato Ferraris scrive delle pagine bellissime, dedicate soprattutto al suo rapporto con i compagni di lotta, alla sua capacità di ascoltare e di accogliere le idee proprie degli operai. Seguiamo il filo dell’analisi dell’opera di Gnocchi-Viani attraverso i titoli dei paragrafi del saggio, che così si susseguono: Un intellettuale anomalo (anomalo, si osserva, per lo spazio offerto alla emancipazione delle donne e alla condizione dei fanciulli); La terza via: partire dal basso, sulla crisi della Prima Internazionale a seguito della lotta tra sette e scuole, a cui Gnocchi-Viani contrappone un sindacalismo apartitico di base; Partito politico e partito sociale: qui Ferraris rilegge attraverso le opere di Gnocchi-Viani la nascita e l’affermarsi del Partito operaio italiano (Poi), il cui scopo era “organizzare arte per arte le falangi del proletariato”: un partito “apolitico”?

Sì, ma nel senso che: “Nella bancarotta dei vecchi ‘partiti politici’ solo i nuovi ‘partiti sociali’ possono ridare idealità, speranza, progresso all’Italia” (p. 96). Altro paragrafo è dedicato a Le Camere del lavoro, cioè al dibattito su Borse o Camere e alla convinzione di Gnocchi-Viani che nelle Camere, su cui egli scommette, fosse confluita l’esperienza del Partito operaio: per lui, infatti, la Camera del Lavoro rappresentava, ben più del partito, lo strumento “per patrocinare gli interessi dei lavoratori in tutte le contingenze della vita” (p. 114). L’ultima parte del saggio è dedicata all’affermarsi del Partito socialista in Italia che, secondo Gnocchi-Viani (Appunti su socialismo germanico del 1892, lo stesso anno della fondazione del Psi), avviene in maniera troppo “precoce” rispetto allo sviluppo del proletariato moderno e del suo associazionismo economico, con il rischio di importare nel contesto italiano l’inadeguato modello tedesco, a cui rimprovera un eccesso di economicismo, di socialismo fatalista; una modalità di costruzione dall’alto verso il basso (anziché il contrario, come nel Poi).

Il terzo e ultimo breve saggio è quello più orientato a esaminare il ritorno dei movimenti sociali sulla scena globale odierna (con le loro domande di cooperazione politica, a partire dal sociale, mentre i partiti politici sembrano giunti al termine di una parabola) e a cercare nel passato (in questo caso l’esperienza di una sorta di welfare non statalista, ma di tipo cooperativo e mutualistico del Belgio di fine Ottocento) suggerimenti per una nuova politica.

Con riferimento soprattutto a quest’ultima parte del libro, propongo anche qui qualche accostamento tra la riflessione di Ferraris e la storiografia del ventennio passato: il primo e più logico è quello con la storia delle donne in Italia, che, grazie soprattutto a Annarita Buttafuoco e alla rivista “DWF”, ha fortemente rivalutato sia la figura di Anna Maria Mozzoni (la cui “Lega promotrice degli interessi femminili” fu sostenuta con convinzione da Gnocchi-Viani) che la Società Umanitaria, che ancora Gnocchi-Viani contribuisce a fondare e a dirigere tra gli anni novanta dell’Ottocento e il 1908. Quei decenni sono stati fonte di grande interesse non solo per la storia delle donne, ma anche per la storia urbana e municipale e più in generale per la storia della modernizzazione statistica e giuridico-amministrativa dell’Italia giolittiana: pensiamo al ruolo di amministratori-politici in sede locale come G. Montemartini. A. Schiavi, E. Nathan, all’intensità degli scambi tra economisti e sindacalisti riformatori al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico (si vedano gli stretti rapporti dell’Ufficio del lavoro con l’American Federation of Labor). Ma ciò che caratterizza soprattutto quel decennio iniziale del secolo, in cui si coagulano formazioni politiche diverse in una sorta di prospettiva ottimista di crescita, è la cultura delle riforme e l’emergere di una scienza sociale a scopo di riforma, la commistione tra analisi sociale, tra sociologia, diremmo oggi, e militanza progressista (su questo, rinvio a una raccolta di brevi e significativi interventi di giovani studiosi, da me curata in un clima totalmente diverso da quello odierno, nel 1993: Per una storia comparata del municipalismo e delle scienze sociali, Clueb).

Eccoci ricondotti alla figura dell’autore di questo libro, a Pino Ferraris e al titolo del suo libro, Ieri e domani. Perché infatti Pino sa cogliere l’attualità del socialismo di ieri? La risposta è semplice: per la sua grande passione politica e la sua curiosità nei confronti della conoscenza di ciò che di nuovo si muove nella società. Pino Ferraris è originario di Biella, di quelle valli in cui nasce nell’Ottocento la prima industrializzazione e insieme il primo socialismo: qui Terra e telai (titolo di un classico studio di microstoria di Franco Ramella) si mescolano, si sostengono a vicenda, sullo sfondo di una tradizione di associazioni e fratellanza, quella stessa che lui scopre nel tipografo Gnocchi-Viani. Quanto conti in Ferraris il suo essersi formato in quel contesto è rivelato da un episodio da lui narrato di recente per un volume in ricordo di Lelio Basso (curato dal figlio Piero), in corso di pubblicazione.

Nel 1962 Ferraris, chiamato quattro anni prima, a soli 24 anni, a dirigere la federazione di Biella del Partito socialista, invita – in occasione dei 70 anni del Psi e di una straordinaria mostra organizzata sul secolo di esperienze operaie e socialiste del circondario di Biella – Lelio Basso: il dirigente socialista, venuto per un giorno, si ferma due giorni, colpito dalla ricchezza della documentazione e dall’entusiasmo dei giovani: orgoglio di scoprire una passato classista e socialista mentre l’effervescenza sociale riappare, commenta Ferraris. “Scavate nel passato e scrutate nel futuro”, è il messaggio lasciato da Basso in quella circostanza. E in effetti, Ferraris studia le lotte di classe nel biellese: poi su questo stesso terreno incontra, come si è visto, Vittorio Foa, il quale, negli anni settanta, partendo dal biellese scopre l’autonomia e il potenziale politico della lotta operaia (contro lo schema secondo internazionalista della lotta operaia come corporativa) insieme alla proposta unitaria di controllo operaio del movimento inglese: entrambi mossi dalla comune speranza di riuscire a proporre – scavando nel passato – nuove forme associative all’altezza degli anni settanta-ottanta. È con questa commistione che vorrei chiudere: chiedendomi cioè se ancora oggi le scienze sociali nutrite di storia non possano fare da battistrada – come mostra il caso di questo libro o dell’altro recente di Carlo Donolo, Italia sperduta – verso una cultura diffusa delle riforme della politica.

LO STRANIERO, N.140 – Febbraio 2012
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Ascolta il discorso conclusivo di Pino Ferraris alla Festa della Parola alla Snia di Roma sabato 1 ottobre 2011
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- Approfondimenti: Il libro di Pino Ferraris
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* Fondatore dell’Umanitaria di Milano fu Prospero Moisè Loria.
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ferraris pino LIBROIeri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente
di Pino Ferraris
pp. 178

“Quando la maison institutionnelle minaccia di crollare e i saperi dell’ordinaria manutenzione non bastano più nasce l’esigenza di riportare alla luce i disegni e i progetti, i calcoli e i modelli dei costruttori […]. Ogni crisi di rifondazione chiama ed esige il recupero del punto di vista genetico. Oggi è la radicalità della crisi del sindacato e del sistema politico dell’Europa contemporanea che ci costringe a scavare dentro le origini.” I tre saggi del testo interrogano la storia del movimento operaio e socialista delle origini. Rappresentanza degli interessi e orientamento ai valori, ambiti di vita e di lavoro, autonomie confederate e centralizzazione amministrata, statalismo e “far da sé solidale”, azione sindacale e lotta politica: sono dilemmi di una storia complessa troppe volte semplificata e mistificata dentro schemi ideologici. Non rimozione o nostalgia del passato. Ma rifiuto dell’“ideologia del presente” collegando lo sguardo libero e critico sul passato all’invenzione del futuro.

Pino Ferraris è stato dal 1958 segretario della Federazione del Psi di Biella. Nella seconda metà degli anni sessanta è stato membro della direzione del Psiup e segretario della Federazione di Torino. Nei primi anni settanta è stato tra i promotori della costruzione del Pdup. Dal 1977 al 1999 ha insegnato Sociologia presso l’Università di Camerino. Ha scritto saggi di sociologia politica, sociologia del lavoro e di storia del movimento operaio.

Rassegna stampa
“I diavoli dell’Apocalisse” di Goffredo Fofi (“l’Unità” del 25 settembre 2011)
“Compagno Pino, quanto ci hai insegnato” di Valentino Parlato (“il manifesto” del 3 febbraio 2012)
Sito dell’Editore:
http://www.asinoedizioni.it/products-page/libri-necessari-2/ieri-e-domani-storia-critica-del-movimento-operaio-e-socialista-ed-emancipazione-dal-presente/

Contro il degrado verso l’arrangiarsi solitario del “cliente” o “postulante” vi è oggi solo la risposta di una cittadinanza attiva capace di associare, di fare società, capace di praticare l’obbiettivo, di incominciare a costruire con le proprie forze ciò che si rivendica, di anticipare nel presente ciò che si vuole per il futuro

uscire-dalla-crisi-o-dal-capitalismo-in-crisiape-innovativaL’articolo di Pino Ferraris, riproposto dalla news online “Controlacrisi” per ricordarne la figura all’indomani della sua morte avvenuta il 2 febbraio 2012, costituisce una profonda riflessione tuttora valida per affrontare oggi la crisi che attraversiamo drammaticamente e che è crisi insanabile del capitalismo, indirizzandoci nella ricerca di soluzioni diverse anche da quelle in buona parte fallimentari dei modelli storicamente attuati del socialismo reale. Pino Ferraris negli anni 70 frequentava spesso la Sardegna, spendendosi generosamente nei movimenti della sinistra alternativa, apportando la sua capacità di teorico e ricercatore appassionato e rigoroso, maestro per molti di noi giovani (allora) militanti della nuova sinistra sarda.
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Per un nuovo mutualismo: praticare l’obiettivo
di Pino Ferraris*
Alcune riflessioni a caldo, prendendo spunto da due interventi all’interno del dibattito che si è sviluppato, all’inizio di dicembre [2011], dai gruppi che si sono incontrati al Mammut di Napoli per discutere del “sociale”, della sua condizione, degli sviluppi che probabilmente prenderà e di quelli che sarebbe bene tentare di imprimergli.

Il primo è offerto dal racconto di Marina Galati della Comunità Progetto Sud di Lamezia Terme, che ha confrontato due episodi di mobilitazione sociale (l’occupazione dell’Azienda sanitaria per ottenere diritti negati ai disabili) concentrati nella stessa località ma in epoche diverse. In esso si sottolineano con forza i mutamenti nella configurazione della questione sociale che sono venuti avanti in questi ultimi tempi e che richiedono nuovi modi del fare società. L’esperienza riportata parla della transizione da una mobilitazione sociale di strati marginali e minoritari della società (i venti disabili che occuparono l’azienda trent’anni fa) ad una recente iniziativa che ha coinvolto più ampie fasce sociali (comprese le famiglie, gli operatori sanitari stessi e addirittura una parte della polizia municipale che hanno occupato l’azienda alla fine dello scorso anno), frutto di nuove alleanze tra aree storiche di marginalità sociale e nuove figure sociali “vulnerate” dalla crisi in atto.

Per tentare di indicare il senso generale del mutamento riprendo metafore approssimative utilizzate dalla sociologia. Nei decenni passati si parlava della “società dei due terzi” cioè di una società che vede la vasta maggioranza della popolazione integrata verso l’alto in una condizione di sicuro benessere. Solo una fascia residuale di rischio e di disagio sociali rimane nel basso. Il problema si riduce alla gestione verso l’integrazione delle aree della marginalità. Oggi si parla invece della “società dei quattro quinti”. Una fascia molto ristretta della società (un quinto) si colloca in alto con reddito elevato e sicuro, mentre il resto (i quattro quinti) appare come una platea di popolazione vulnerabile e vulnerata che circola tra occupazione a rischio, lavoro precario, disoccupazione e redditi decrescenti e incerti. La novità dirompente dei processi sociali che la crisi ha accelerato e radicalizzato è la destabilizzazione del “centro” della società, di quelli che si consideravano “ceti medi” (classe operaia garantita, piccola borghesia, aree di terziario autonomo e dipendente…). La metafora del 99% degli occupanti di Wall Street coglie in termini militanti e in una prospettiva unificante questo passaggio, mentre il “tea party” esprime una reazione chiusa e populista alla minaccia della mobilità discendente. Infatti dopo generazioni e generazioni che hanno considerato come naturale e irreversibile il movimento verso una mobilità sociale ascendente ora il futuro spaventa: non solo l’ascensore della mobilità sociale verso l’alto si è fermato, ma scende precipitosamente. Questo è lo choc della crisi che viviamo: la destabilizzazione degli stabilizzati.

In questa situazione una parte di coloro che si consideravano i “secondi dentro la società dei primi” oggi si ribellano al declassamento attraverso la loro aggressiva distinzione dagli “ultimi”. L’Europa della crisi è percorsa dalla protesta degli “indignati”, ma anche dalle proiezioni xenofobe delle destre populiste. È in questo contesto che l’esperienza calabrese che ci è stata raccontata (nella Calabria della “caccia al nero” di Rosarno) assume un carattere esemplare di costruzione di alleanza tra “marginali” e “vulnerati” che a mio avviso deve essere il cuore di ogni intervento sociale nel presente. Non basta più essere i portavoce degli emarginati ma occorre dare direttamente la voce a queste nuove convergenze. La logica associativa dell’alleanza tra i diversi mi sembra che debba essere ispirata al principio federativo che ripudia l’inquadramento burocratico dall’alto e ogni astratta pretesa omologante.

L’altro stimolo alla riflessione viene dall’esperienza degli operatori sanitari dell’associazione Jerry Masslo, sulla via Domiziana. Il racconto che abbiamo ascoltato intreccia l’illustrazione di pratiche mediche orientate al soggetto sofferente, fortemente centrate sulla gestione di un rapporto attivo tra medico e paziente con una esplicita critica di quella che possiamo chiamare la “medicina normale”. La medicina contemporanea vive una paradossale contraddizione: il massimo successo dei risultati tecnologici (farmacologia, diagnostica, chirurgia) coincide con un momento altamente critico del rapporto medico-paziente che non solo è parte integrante del processo terapeutico ma che rappresenta anche l’identità professionale del medico. La convergenza tra superbia tecnologica e aziendalismo sanitario mette in crisi una professione dai forti contenuti etici e relazionali che non riesce più a incontrare i pazienti come “soggetti”, i quali non sono solo portatori di problemi ma anche di risorse per la loro soluzione. La criticità della professione medica diventa esemplare della crisi più ampia delle attività orientate all’intervento sociale: l’azione educativa come quella assistenziale o della pubblica amministrazione. Gran parte delle attività di welfare vedono il predominio dell’offerta delle prestazioni: il destinatario è considerato come un contenitore vuoto nel quale, con crescente parsimonia, “si buttano” servizi. Credo che nella medicina come nell’educazione, come in tutti gli interventi di welfare occorra coniugare una innovazione delle pratiche con una critica e autocritica delle culture professionali oggi prevalenti. Ogni intervento sociale, a mio avviso, dovrebbe essere volto a trasformare gli “utenti” passivi di prestazioni esterne in soggetti capaci di esprimere proprie energie latenti, di riprendere iniziativa, di trovare sempre possibili spazi di autonomia.

Mi pare che problemi di efficacia, di risparmio di risorse e di espansione della cittadinanza democratica convergano nella capacità di dare rilevanza al lato attivo, competente e propositivo della domanda sociale facendo sì che l’“oggetto” delle pratiche di tutela politico-aministrativa entri sulla scena come “soggetto” portatore di risorse proprie e dei suoi taciti saperi. Direi che ciò che più manca nelle condotte sociali è l’arte dell’ascolto, l’accompagnamento al “far da sé” e il rispetto dei diritti della persona. La gestione della crisi del welfare che vediamo in atto non aiuta ad andare in questa direzione. Anzi tende ad aggravare le stesse carenze, distorsioni di ciò che abbiamo alle spalle. Da un lato il sociale diventa sempre più materia prima di attività di impresa: si tratti di business privato, di aziendalismo della sfera pubblica o della imprenditorialità del sedicente no profit.

Il nome “terzo settore” è ormai pura copertura ideologica della lobby di un sistema di “imprese” che hanno i suoi attori principali nella Lega delle cooperative e nella Compagnia delle Opere. Il diritto sociale in questi casi si deforma in capacità di accesso del “cliente” al mercato sociale. Nei vuoti crescenti lasciati dal “mercato sociale” prende spazio l’assistenza selettiva, l’attività oblativa, l’intervento caritatevole del “capitalismo compassionevole”. In questo caso i diritti sociali tendono a subire una regressione ottocentesca verso il favore concesso al bisognoso postulante. In ambedue i casi non si perde solo la dimensione del “diritto” ma la dimensione della socialità. Ciascuno, abbandonato a se stesso, deve cavarsela, deve imparare ad arrangiarsi.

Prima della affermazione dello Stato assistenziale si confrontarono due culture e pratiche del self-help: quella del “far da sé individualistico” di Samuel Smiles fondato sulla laboriosità, il risparmio, il carattere del singolo e quella del “far da sé solidaristico” come fondamento di una ascesa sociale cooperativa dei lavoratori nella trasformazione degli assetti sociali esistenti. Ambedue, senza negare un ruolo sociale dello Stato, si opponevano allo statalismo: lo Stato “padre” facilmente diventa lo Stato “padrone”. Colui che elaborò e mise in pratica in Italia il “far da sé solidaristico” fu Osvaldo Gnocchi-Viani, fondatore delle Camere del lavoro e della Società Umanitaria di Milano nei cui Statuti si affermava che “lo scopo dell’istituzione è quello di mettere i diseredati in condizione di rilevarsi da sé medesimi”. È chiaro l’intento di rompere il nesso assistenza-dipendenza e di affermare il valore irrinunciabile dell’autonomia dei soggetti. Contro il degrado verso l’arrangiarsi solitario del “cliente” o del “postulante” vi è oggi solo la risposta di una cittadinanza attiva capace di associare, di fare società, capace di praticare l’obbiettivo, di incominciare a costruire con le proprie forze ciò che si rivendica, di anticipare nel presente ciò che si vuole per il futuro. Solo se costruisco ho diritto ad avere un sostegno a costruire, solo un operare sociale che realizza una valenza pubblica può richiamarsi al principio di sussidiarietà. Se si vuole affermare questa forma di socialità antistatalista occorre opporsi in modo netto all’uso strumentale, improprio e abusivo del concetto di sussidiarietà come copertura di operazioni di esternalizzazione dall’alto di funzioni pubbliche, di appalti, sovente opachi, di sfere di intervento pubblico al cosiddetto privato-sociale. Non è un caso se accade che le iniziative di cittadinanza attiva solidale oggi si richiamino sovente all’esperienza storica del mutualismo. Il mutualismo riprende alcuni principi di fondo di grande attualità: il valore dell’autogestione, la capacità positiva di realizzare in basso e non solo rivendicare verso l’alto, il legame tra problemi degli ambiti di vita e l’esperienza di lavoro, infine l’affermazione del principio di solidarietà che si distingue sia dalle pratiche di oblazione dall’alto sia dalla pur lodevole virtù personale dell’altruismo.

C’è una contemporaneità genetica tra l’insorgere dell’idea di solidarietà e la nascita del moderno movimento operaio e socialista. Nel 1848 parigino i giornali operai modificano la triade “libertà, uguaglianza, fraternità” sostituendo quest’ultima con la parola solidarietà. Nell’Enciclopedia di Diderot il termine “solidarietà” è illustrato in poche righe che rinviano al concetto di “obbligatio in solidum” del diritto romano. Molte pagine dell’Enciclopedia sono invece dedicate alla parola fraternità con una ricostruzione storica che la riconduce a due tradizioni: quella dell’unità di sangue tra “fratelli d’arme” e quella della fratellanza cristiana che unisce intorno al Padre divino: fratelli in quanto figli della patria, fratelli in quanto figli di Dio. Di fronte all’insorgere della questione sociale, “fratellanza” diventa la parola della carità cristiana e della filantropia massonica. Nella storia della maturazione politica e associativa della società di mutuo soccorso la sostituzione del termine “fraternità” con quello di “solidarietà” intende affermare e realizzare una autonoma relazione orizzontale tra uguali rifiutando rapporti verticali di dipendenza dall’oblazione paternalistica.

Non c’è conflittualità tra diritti sociali e mutualismo. L’apporto del mutuo soccorso nella fase aurorale dell’affermazione di diritti sociali è indubbio. All’intero della cerchia dell’associazione il vincolo di reciprocità statutariamente affermato faceva sì che il singolo lavoratore di fronte alle sventure della vita per la prima volta cessasse di cadere nella condizione del bisognoso che implora benevolenza verso l’alto, diventando invece un soggetto portatore del diritto al sostegno solidale dell’associazione. Forme di nuovo mutualismo non possono quindi essere viste come interventi di supplenza di diritti negati dalla crisi e dal restringimento del welfare ma come azione diretta positiva volta a rendere esigibili diritti elusi, a promuovere nuovi diritti e, soprattutto, tesa ad affermare un rapporto radicalmente mutato tra pubblica amministrazione e società che veda emergere il protagonismo dei soggetti, il loro potere di partecipazione solidale alle scelte e alle decisioni che riguardano le loro esistenze. La società contemporanea spezza legami sociali e costruisce di fatto e ideologicamente le derive individualistiche. Vengono oscurate e impedite le insopprimibili esigenze umane di sociabilità.

Dentro il terremoto economico e la crisi dei sistemi politici irrompono oggi movimenti sociali di grande ampiezza, imprevisti e innovativi: le rivolte arabe e le agitazioni sociali all’interno di Israele, gli indignati spagnoli e gli occupanti di Wall Street. L’esperienza americana mi sembra di grandissimo interesse per la qualità politica e sociale di questo movimento. Tra i molti aspetti originali che si possono cogliere (il linguaggio, la composizione sociale, i contenuti politici) vorrei, a conclusione del mio intervento, sottolineare quello che ritengo più significativo ed esemplare. Una generazione di giovani cresciuti nell’universo virtuale e immateriale dei video-games e di internet, rovesciando criticamente l’uso delle nuove tecnologie, passa all’incontro reale, materiale. Si parla degli occupanti di Wall Street come di un movimento “corporeo”. Di gente che è trascorsa dalla connessione a distanza alla prossimità fisica: lo stare insieme sotto le tende, le lunghe conversazioni faccia a faccia, lo scaldarsi reciprocamente e il mangiare insieme…Questo transitare dal contatto immateriale alla solidarietà corporea indica, a mio avviso, una possibilità tutta nuova che apre al futuro: dentro la società della rete si utilizza la “connessione” per produrre “associazione”.
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Pino Ferraris fto micro*Questo articolo di Pino Ferraris, scomparso il 2 febbraio 2012, è tratto dalla rivista Gli asini, dedicato a “Semi di socialismo”
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. Approfondimenti su elaborazioni di Pino Ferraris.
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Buon Anno!

L'Ordine_Nuovo n 1«Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza».
(Antonio Gramsci, sul primo numero di L’Ordine Nuovo, primo maggio 1919)
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Antonio Gramsci: I QUADERNI DEL CARCERE
Quaderno 12 (XXIX)
§ (3) (Pubblicato il 6 gennaio 2015, a cura di Alberto Soave)

Quando si distingue tra intellettuali e non-intellettuali in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene conto della direzione in cui grava il peso maggiore della attività specifica professionale, se nell’elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non-intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale-cerebrale e sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un «filosofo», un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare. Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un’attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo. Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista, Perciò i giornalisti che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i «veri» intellettuali. Nel mondo moderno l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale. Su questa base ha lavorato l’«Ordine Nuovo» settimanale per sviluppare certe forme di nuovo intellettualismo e per determinarne i nuovi concetti, e questa non è stata una delle minori ragioni del suo successo, perché una tale impostazione corrispondeva ad aspirazioni latenti e era conforme allo sviluppo delle forme reali di vita. Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, «persuasore permanentemente» perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane «specialista» e non si diventa «dirigente» (specialista + politico).

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democraziaoggiLeggiamoci assieme due belle poesie di Bertolt Brecht
da Democraziaoggi.

Lode dell’imparare

Impara quel che è più semplice! Per quelli
il cui tempo è venuto
non è mai troppo tardi!
Impara l’a b c; non basta, ma
imparalo! E non ti venga a noia!
Comincia! devi sapere tutto, tu!
Tu devi prendere il potere.
Impara, uomo all’ospizio!
Impara, uomo in prigione!
Impara, donna in cucina!
Impara, sessantenne!
Tu devi prendere il potere.
Frequenta la scuola, senzatetto!
Acquista il sapere, tu che hai freddo!
Affamato, afferra il libro: è un’arma.
Tu devi prendere il potere.
Non avere paura di chiedere, compagno!
Non lasciarti influenzare,
verifica tu stesso!
Quel che non sai tu stesso,
non lo saprai.
Controlla il conto
se tu che devi pagare.
Punta il dito su ogni voce,
chiedi: e questo, perchè?
Tu devi prendere il potere.

Questa poesia proviene da: Poesia di Bertolt Brecht – Lode dell’imparare – Poesie di Bertolt Brecht – Poesie.reportonline.it http://www.poesie.reportonline.it/poesie-di-bertolt-brecht/poesia-di-bertolt-brecht-lode-dellimparare.html#ixzz4U8R4Sawd

Domande di un lettore operaio
di Bertolt Brechet

Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò? In quai case,
·di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori? Roma la grande
è piena d’archi di trionfo. Su chi
trionfarono i Cesari?
La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando
aiuto ai loro schiavi. .
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare sconfisse i galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna· pianse, quando la flotta
gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi,
oltre a lui, l’ha vinta?
Una vittoria ogni pagina.
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Quante vicende,
tante domande.

Questa poesia proviene da: Domande di un lettore operaio di Bertolt Brecht – Poesie di Bertolt Brecht – Poesie.reportonline.it http://www.poesie.reportonline.it/poesie-di-bertolt-brecht/domande-di-un-lettore-operaio-di-bertolt-brecht.html#ixzz4U8Q2PUoi
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Augurios Sardinia! Auguri Sardegna!

pablo-e-amiche SardegnaPer la Sardegna lo stesso augurio
di Raffaele Deidda
Cara Sardegna, un altro anno è quasi passato. Già non eri felice aspettando la fine del 2015, avevi pensato che sarebbe stato un anno più ricco di soddisfazioni, migliore di quello precedente, non peggiore. Avevi confidato che i tuoi amministratori avrebbero coltivato un forte senso dell’onore e dell’impegno nel servire la propria terra con competenza, onestà morale e sacrificio. Avevi creduto che la tua classe dirigente, eletta o nominata, avrebbe manifestato serietà e affidabilità, impedendo l’espandersi dello spirito di sfiducia da parte dei cittadini verso i loro rappresentanti e quindi verso le istituzioni. Avevi sperato di poter verificare un agire politico nel segno del servizio e non del potere, del bene comune e non di quello di parte, fiduciosa che la missione politica dei tuoi figli avrebbe prodotto forme di vita migliore per tutti e senso della collettività, lontana dall’autoreferenzialità.
Hai dovuto però constatare come troppi sardi non potessero pagare le bollette, come tantissime famiglie non potessero comprare i libri scolastici e come fosse aumentata la richiesta d’aiuto alla Caritas. Troppe le persone che non potevano sottoporsi a cure essenziali, troppi i padri di famiglia senza lavoro e troppo numerosi i giovani istruiti che hanno continuato ad abbandonarti per costruirsi altrove un futuro che non riescono a vedere nella loro terra.
Speravi che il 2016 sarebbe stato migliore. Hai ancora dovuto assistere, invece, alla chiusura di tante attività produttive e commerciali, alla ulteriore desertificazione di paesi e territori. Hai assistito allo sfilare delle marce per il lavoro e la salute nell’indifferenza dei responsabili che le vivono come quinte sceniche. A Roma come in terra sarda. Sei stata percorsa dalle molte manifestazioni a favore dell’ambiente contro folli progetti di sfruttamento delle tue risorse naturali eterodiretti, che arricchiscono pochi e impoveriscono irrimediabilmente la qualità del tuo territorio. Hai visto la tua classe dirigente comportarsi da ascara impegnata nei giochi di palazzo, dentro la superbia dei propri privilegi. Disponibile, per mantenerli, a sostenere riforme del Governo centrale che, se passate, avrebbero minato i fondamenti della tua autonomia. Eppure i padri della tua specialità avevano ribadito che bisogna amarla la propria terra e che bisogna usare il cuore per governarla, non l’opportunismo.
Che cosa augurarti e augurarci per il 2017 di diverso dal 2o16? Nulla, se non confermare l’auspicio che tu possa essere governata da uomini che, nella consapevolezza delle difficoltà a individuare e perseguire il bene comune, non siano supponenti e arroganti ma che, avendo avuto l’onore e la ventura di essere scelti come decisori, si assumano l’onere di farlo avendo come unico obiettivo il bene tuo e dei tuoi figli e non gli interessi propri e le volontà d’altri. Che si impegnino con rispetto e con attenzione nella gestione e soluzione dei veri problemi dell’isola. Che sappiano distinguere l’interesse proprio da quello della comunità regionale.
I migliori auguri, Sardegna.
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Chi ha paura del populismo
2016. In un mondo mai così diviso dalla profondità delle diseguaglianze, se il populismo promette l’impossibile ritorno al passato dei muri, la sinistra deve indicare una prospettiva di libertà e fratellanza che sia certo alternativa ma soprattutto credibile

Norma Rangeri
il manifesto EDIZIONE DEL 30.12.2016
Se dovessimo leggere il 2016 soltanto sotto l’aspetto politico e istituzionale, potremmo concludere che l’anno che si chiude non è stato tra i peggiori. Gli italiani hanno difeso in massa la Costituzione e l’uomo solo al comando, alla guida di un governo arrogante, ha lasciato palazzo Chigi dove ora siede Paolo Gentiloni, strano clone del renzismo.
Se invece alziamo lo sguardo oltreconfine, la violenza terroristica, la tragedia della guerra – l’immagine di Aleppo è emblematica di questo anno – come anche l’avanzata populista in Europa e soprattutto negli Stati uniti, il bilancio diventa sicuramente più complesso e preoccupante.

Come accade quasi sempre, c’è un doppio filo che lega alcuni di questi avvenimenti: la democrazia e il popolo. Negli Stati uniti come in Italia. Eppure oggi democrazia e popolo sono parole sfibrate, manipolate, traducibili facilmente e con presidenzialismo e populismo. La democrazia d’investitura e il capo sono, perfettamente coerenti, al centro della scena, mentre il parlamento è il simulacro di un sistema sociale e economico che appartiene alle società borghesi di un passato ancorato a una moneta e un territorio.

Il futuro per i populisti è un ritorno al passato. È Trump, ovvero il fantasma resuscitato della working class del carbone e del petrolio. È la Brexit che rafforza il confine e la moneta, peraltro sempre conservati. E’ Putin, protagonista del ridisegno di un assetto di potere nei paesi sotto la sua sfera d’influenza.

Eppure il populismo esiste un po’ in tutti i partiti. Perché oggi non sembra prevalere la politica per come l’abbiamo conosciuta, ma la pancia, l’istinto, l’aggressività, la paura. Che contagia tutte le formazioni politiche e trova terreno fertile e protagonisti nei social media, che da luogo di incontro, di conoscenza, di scambio, di democrazia diffusa, si stanno trasformando in un’arma, uno strumento, un mezzo mediatico per distruggere l’avversario o la vita delle singole persone.

La sinistra vive l’epoca ammaccata o sconfitta, in Europa e nel mondo.

Dove governa nei paesi del Vecchio Continente, vedi la Grecia, è alleata con la destra nazionalista, o, come in Francia, è protagonista dell’autodafé. Non riesce a interpretare né a rappresentare la società impaurita che vuole chiudersi e difendersi, che chiede risposte semplici a problemi complessi. Navigare in questo mare nero della paura è il banco di prova della sinistra al tempo dei populismi, delle guerre, del terrorismo. Una battaglia difensiva e difficile specialmente perché le accresciute e inedite diseguaglianze strappano le sue bandiere e gonfiano le vele delle democrazie dinastiche, delle democrature.

La sinistra, nella crisi di sistema, tuttavia, ha buone carte. Quelle giocate da Sanders, Corbyn, Iglesias. Certo, il suo elettorato è confuso, deluso, ma soprattutto arrabbiato, attraversato dall’ansia del domani. Come tutti. Perché tutti noi vediamo il fondo nero di un domani che spaventa. Per il futuro dei figli, per quelli che non lavorano e per quelli che l’economia globale mette a valore in qualche punto della sua catena. E oltre che pessima consigliera, la paura è anche una forza psicologica prorompente che addomestica e deforma la democrazia, travolge i vecchi corpi intermedi (parlamento compreso) per correre verso il leader che promette sicurezza e assistenza.

Naturalmente c’è anche chi pensa che parlare di post-democrazia sia sbagliato perché libertà di voto e di espressione sono ancora ben saldi, pur se continuamente attaccati, e perché la democrazia è per definizione sempre in crisi. E forte è ancora la domanda di partecipazione, nelle forme richieste dalla comunicazione della Rete e della televisione, più complicate da decifrare rispetto alla vecchia piazza dei movimenti e dei partiti. Così come è problematico definire classi, soggetti, alleanze. I lavoratori dei call-center, quelli dei voucher, dell’uberizzazione, giovani e meno giovani figure di un precariato, che convivono accanto a estese zone di un neoschiavismo migratorio. Ma la richiesta di partecipazione continua a farsi sentire e a votare, come ha dimostrato quel 70% di affluenza al referendum del 4 dicembre.

In un mondo mai così diviso dalla profondità delle diseguaglianze, se il populismo promette l’impossibile ritorno al passato dei muri, la sinistra deve indicare una prospettiva di libertà e fratellanza che sia certo alternativa ma soprattutto credibile. Negli strumenti teorici dell’analisi e nelle figure politiche di riferimento.

Di sicuro nel 2017 non sorgerà il sol dell’avvenire e la sinistra dovrà fare i conti con due destre, una neoliberale, una nazionalista. Il primo passo è ricostruire, ricollegare, riorganizzare. Poi viene il che fare, se e con chi proporre alleanze nella fase attuale. Banalizzando per l’Italia: il Pd o i5Stelle? Qual è la padella e quale la brace, è ardua sentenza, ma hic rhodus, hic salta.

AUGURIOS SARDINIA AUGURI SARDEGNA

pablo-e-amiche SardegnaPer la Sardegna lo stesso augurio
di Raffaele Deidda
Cara Sardegna, un altro anno è quasi passato. Già non eri felice aspettando la fine del 2015, avevi pensato che sarebbe stato un anno più ricco di soddisfazioni, migliore di quello precedente, non peggiore. Avevi confidato che i tuoi amministratori avrebbero coltivato un forte senso dell’onore e dell’impegno nel servire la propria terra con competenza, onestà morale e sacrificio. Avevi creduto che la tua classe dirigente, eletta o nominata, avrebbe manifestato serietà e affidabilità, impedendo l’espandersi dello spirito di sfiducia da parte dei cittadini verso i loro rappresentanti e quindi verso le istituzioni. Avevi sperato di poter verificare un agire politico nel segno del servizio e non del potere, del bene comune e non di quello di parte, fiduciosa che la missione politica dei tuoi figli avrebbe prodotto forme di vita migliore per tutti e senso della collettività, lontana dall’autoreferenzialità.
Hai dovuto però constatare come troppi sardi non potessero pagare le bollette, come tantissime famiglie non potessero comprare i libri scolastici e come fosse aumentata la richiesta d’aiuto alla Caritas. Troppe le persone che non potevano sottoporsi a cure essenziali, troppi i padri di famiglia senza lavoro e troppo numerosi i giovani istruiti che hanno continuato ad abbandonarti per costruirsi altrove un futuro che non riescono a vedere nella loro terra.
Speravi che il 2016 sarebbe stato migliore. Hai ancora dovuto assistere, invece, alla chiusura di tante attività produttive e commerciali, alla ulteriore desertificazione di paesi e territori. Hai assistito allo sfilare delle marce per il lavoro e la salute nell’indifferenza dei responsabili che le vivono come quinte sceniche. A Roma come in terra sarda. Sei stata percorsa dalle molte manifestazioni a favore dell’ambiente contro folli progetti di sfruttamento delle tue risorse naturali eterodiretti, che arricchiscono pochi e impoveriscono irrimediabilmente la qualità del tuo territorio. Hai visto la tua classe dirigente comportarsi da ascara impegnata nei giochi di palazzo, dentro la superbia dei propri privilegi. Disponibile, per mantenerli, a sostenere riforme del Governo centrale che, se passate, avrebbero minato i fondamenti della tua autonomia. Eppure i padri della tua specialità avevano ribadito che bisogna amarla la propria terra e che bisogna usare il cuore per governarla, non l’opportunismo.
Che cosa augurarti e augurarci per il 2017 di diverso dal 2o16? Nulla, se non confermare l’auspicio che tu possa essere governata da uomini che, nella consapevolezza delle difficoltà a individuare e perseguire il bene comune, non siano supponenti e arroganti ma che, avendo avuto l’onore e la ventura di essere scelti come decisori, si assumano l’onere di farlo avendo come unico obiettivo il bene tuo e dei tuoi figli e non gli interessi propri e le volontà d’altri. Che si impegnino con rispetto e con attenzione nella gestione e soluzione dei veri problemi dell’isola. Che sappiano distinguere l’interesse proprio da quello della comunità regionale.
I migliori auguri, Sardegna.
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Marcia Pace 29 12 16
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disperazione

La Cultura ci salverà

pensa toreCome affrontare la situazione sarda? Investiamo in e sulla Cultura, a partire dall’istruzione e dall’educazione
di Franco Meloni*

“La Cultura ci salverà”: salverà il Mondo, l’Europa, l’Italia, la Sardegna, le nostre città e i nostri paesi… Non automaticamente, certo, ma se ci crediamo e se ci impegneremo come persone e organizzazioni, a tutti i livelli, questa affermazione potrà/dovrà tradursi in opere e pensieri davvero salvifici. Ma cos’è la Cultura? Per i ragionamenti che seguiranno possiamo accontentarci di una sintetica e pertanto riduttiva definizione: “insieme di conoscenze e di pratiche acquisite che vengono trasmesse di generazione in generazione e che ovviamente si accrescono nel tempo”. La nostra riflessione sulla Cultura qui attiene soprattutto alla sua componente fondamentale “istruzione/educazione”, riferita alla situazione sarda. In questa direzione: se è vero che vogliamo che la Cultura e in essa la sua componente essenziale dell’istruzione/educazione possano operare per dare sviluppo e benessere alla Sardegna dobbiamo innanzitutto prendere atto della situazione e attrezzarci per migliorarla, riconoscendo evidentemente quanto di buono già si fa.
I pochi dati esposti nelle tabellle sotto riportate sono sufficienti a dare conto della situazione dell’istruzione in Sardegna confrontati con i dati complessivi dell’Italia. Ci accorgiamo che i valori sono complessivamente bassi in Italia, e, ancora di più, in Sardegna, specie se confrontati con i dati dei più virtuosi paesi dell’Europa e del Mondo.
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cultura 2 NC
Mettiamo in evidenza come in Sardegna vi siano ben 300mila persone con la sola licenza elementare o con nessun titolo di studio (il 20,6% della popolazione presa in considerazione). Anche se il livello delle conoscenze non è misurato totalmente dai titoli formali, il dato è comunque significativo e pertanto preoccupante, considerato che comunque segnala l’inadeguatezza della preparazione delle persone rispetto alle esigenze delle attività lavorative e della vita associativa.

Se poi ci riferiamo in particolare ai giovani, è pertinente definire la situazione disastrosa. Al riguardo citiamo ancora una volta il Rapporto Crenos 2016, che afferma che il tasso di abbandono scolastico è tra i più elevanti in Italia, e la percentuale di giovani inattivi, in costante crescita. Nel 2014, il 29,6% dei ragazzi e il 17% delle ragazze in età 18-24 anni ha abbandonato gli studi e oltre il 27% dei giovani tra i 15 e i 24 anni (30,6 per i ragazzi e 24,7% per le ragazze) non studia e non lavora (i c.d. NEET – Not in Education, Employment and Training).

Giustamente i recenti rapporti Caritas sulle povertà hanno inserito questi giovani tra i nuovi poveri, segnalando la necessità di robusti interventi risolutivi. I quali, peraltro, sono chiaramente proposti da più parti, ma praticati in misura decisamente insufficiente. Tra gli interventi in corso di realizzazione è giusto ricordare per la Sardegna il Progetto Iscol@, l’efficacia del quale non è ancora possibile verificare.

Riteniamo utile a questo punto riepilogare dette proposte, che si articolano in sette ambiti di intervento (informando che provengono da operatori ed esperti dell’ambito Caritas, Cnos-Fap dei Salesiani e della pastorale giovanile Cei, che per i Neet si avvalgono delle elaborazioni del prof. Dario Nicoli, docente di sociologia dell’Università Cattolica di Brescia).
1. Lavoro e inserimento lavorativo:
- attivare, anche attraverso incentivi economici, percorsi di inserimento lavorativo, attraverso l’avviamento d’impresa ed esperienze formative e lavorative;
- rilanciare l’istituto dell’apprendistato, in raccordo con il sistema delle imprese e i centri di formazione professionale.
2. Formazione professionale:
- prevedere un uso integrato degli strumenti disponibili: tirocini, voucher, alternanza scuola-lavoro, apprendistato, ecc., per puntate alla crescita personale e professionale;
- sostenere la partecipazione ai corsi Iefp (istruzione e formazione professionale), finalizzati al conseguimento di qualifiche spendibili a livello nazionale e comunitario.
3. Scuola-educazione:
- fare in modo che la formazione scolastica sia più aderente alle necessità del mondo del lavoro, trasmettendo la cultura positiva del lavoro;
- costruire percorsi educativi, formali e informali, di aggiornamento a tutoraggio, con attenzione alle esigenze dei giovani in condizione di povertà o disagio sociale.
4. Orientamento, accompagnamento e tutoraggio:
- avviare azioni di orientamento già a partire dalla scuola media, tramite metodologie e strategie attive di orientamento professionale;
- rivolgere attenzione particolare ai territori maggiormente trascurati da progettualità investimenti, garantendo relazioni positive con genitori e famiglie.
5. Cultura, risorse e territorio:
- valorizzare la presenza dei luoghi positivi di aggregazione (oratori, istituzioni di istruzione e formazione professionale, scuole popolari, associazioni, società sportive, ecc.);
- sviluppare reti territoriali tra soggetti del sistema educativo e del sistema economico, integrando politiche di istruzione, formazione e lavoro.
6. Attenzione – supporto alla persona:
- progettare interventi personalizzati di recupero dei Neet in prospettiva educativa, puntanti sulla ripresa dell’iniziativa e dell’intraprendenza personale;
- favorire esperienze di abitazione-coabitazione autonoma o altre soluzioni di “sgancio” dalla famiglia di origine, anche prevedendo forme di alleanza tra giovani.
7. Welfare – assistenza sociale:
- necessità di sostegno al reddito per favorire lo studio dei ragazzi in situazione di povertà economica;
- politiche per le famiglie, attraverso agevolazioni fiscali, borse di studio e sostegni per l’acquisto di testi o strumenti didattici.
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C’è molto da fare e le energie per intervenire non mancano: occorre organizzarle in una logica di solidarietà intergenerazionale.
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* Articolo pubblicato sul n. 23 del 25 dicembre 2016 del periodico Nuovo Cammino della Diocesi di Ales-Terralba.
Cultura 1 NC
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Marcia Pace 29 12 16
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libro scuola popolare is m