Editoriali
Buon Anno!
«Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza».
(Antonio Gramsci, sul primo numero di L’Ordine Nuovo, primo maggio 1919)
————————————
Antonio Gramsci: I QUADERNI DEL CARCERE
Quaderno 12 (XXIX)
§ (3) (Pubblicato il 6 gennaio 2015, a cura di Alberto Soave)
Quando si distingue tra intellettuali e non-intellettuali in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene conto della direzione in cui grava il peso maggiore della attività specifica professionale, se nell’elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non-intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale-cerebrale e sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un «filosofo», un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare. Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un’attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo. Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista, Perciò i giornalisti che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i «veri» intellettuali. Nel mondo moderno l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale. Su questa base ha lavorato l’«Ordine Nuovo» settimanale per sviluppare certe forme di nuovo intellettualismo e per determinarne i nuovi concetti, e questa non è stata una delle minori ragioni del suo successo, perché una tale impostazione corrispondeva ad aspirazioni latenti e era conforme allo sviluppo delle forme reali di vita. Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, «persuasore permanentemente» perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane «specialista» e non si diventa «dirigente» (specialista + politico).
————————
Leggiamoci assieme due belle poesie di Bertolt Brecht
da Democraziaoggi.
Lode dell’imparare
Impara quel che è più semplice! Per quelli
il cui tempo è venuto
non è mai troppo tardi!
Impara l’a b c; non basta, ma
imparalo! E non ti venga a noia!
Comincia! devi sapere tutto, tu!
Tu devi prendere il potere.
Impara, uomo all’ospizio!
Impara, uomo in prigione!
Impara, donna in cucina!
Impara, sessantenne!
Tu devi prendere il potere.
Frequenta la scuola, senzatetto!
Acquista il sapere, tu che hai freddo!
Affamato, afferra il libro: è un’arma.
Tu devi prendere il potere.
Non avere paura di chiedere, compagno!
Non lasciarti influenzare,
verifica tu stesso!
Quel che non sai tu stesso,
non lo saprai.
Controlla il conto
se tu che devi pagare.
Punta il dito su ogni voce,
chiedi: e questo, perchè?
Tu devi prendere il potere.
Questa poesia proviene da: Poesia di Bertolt Brecht – Lode dell’imparare – Poesie di Bertolt Brecht – Poesie.reportonline.it http://www.poesie.reportonline.it/poesie-di-bertolt-brecht/poesia-di-bertolt-brecht-lode-dellimparare.html#ixzz4U8R4Sawd
Domande di un lettore operaio
di Bertolt Brechet
Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò? In quai case,
·di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori? Roma la grande
è piena d’archi di trionfo. Su chi
trionfarono i Cesari?
La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando
aiuto ai loro schiavi. .
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare sconfisse i galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna· pianse, quando la flotta
gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi,
oltre a lui, l’ha vinta?
Una vittoria ogni pagina.
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Quante vicende,
tante domande.
Questa poesia proviene da: Domande di un lettore operaio di Bertolt Brecht – Poesie di Bertolt Brecht – Poesie.reportonline.it http://www.poesie.reportonline.it/poesie-di-bertolt-brecht/domande-di-un-lettore-operaio-di-bertolt-brecht.html#ixzz4U8Q2PUoi
———————–
Augurios Sardinia! Auguri Sardegna!
Per la Sardegna lo stesso augurio
di Raffaele Deidda
Cara Sardegna, un altro anno è quasi passato. Già non eri felice aspettando la fine del 2015, avevi pensato che sarebbe stato un anno più ricco di soddisfazioni, migliore di quello precedente, non peggiore. Avevi confidato che i tuoi amministratori avrebbero coltivato un forte senso dell’onore e dell’impegno nel servire la propria terra con competenza, onestà morale e sacrificio. Avevi creduto che la tua classe dirigente, eletta o nominata, avrebbe manifestato serietà e affidabilità, impedendo l’espandersi dello spirito di sfiducia da parte dei cittadini verso i loro rappresentanti e quindi verso le istituzioni. Avevi sperato di poter verificare un agire politico nel segno del servizio e non del potere, del bene comune e non di quello di parte, fiduciosa che la missione politica dei tuoi figli avrebbe prodotto forme di vita migliore per tutti e senso della collettività, lontana dall’autoreferenzialità.
Hai dovuto però constatare come troppi sardi non potessero pagare le bollette, come tantissime famiglie non potessero comprare i libri scolastici e come fosse aumentata la richiesta d’aiuto alla Caritas. Troppe le persone che non potevano sottoporsi a cure essenziali, troppi i padri di famiglia senza lavoro e troppo numerosi i giovani istruiti che hanno continuato ad abbandonarti per costruirsi altrove un futuro che non riescono a vedere nella loro terra.
Speravi che il 2016 sarebbe stato migliore. Hai ancora dovuto assistere, invece, alla chiusura di tante attività produttive e commerciali, alla ulteriore desertificazione di paesi e territori. Hai assistito allo sfilare delle marce per il lavoro e la salute nell’indifferenza dei responsabili che le vivono come quinte sceniche. A Roma come in terra sarda. Sei stata percorsa dalle molte manifestazioni a favore dell’ambiente contro folli progetti di sfruttamento delle tue risorse naturali eterodiretti, che arricchiscono pochi e impoveriscono irrimediabilmente la qualità del tuo territorio. Hai visto la tua classe dirigente comportarsi da ascara impegnata nei giochi di palazzo, dentro la superbia dei propri privilegi. Disponibile, per mantenerli, a sostenere riforme del Governo centrale che, se passate, avrebbero minato i fondamenti della tua autonomia. Eppure i padri della tua specialità avevano ribadito che bisogna amarla la propria terra e che bisogna usare il cuore per governarla, non l’opportunismo.
Che cosa augurarti e augurarci per il 2017 di diverso dal 2o16? Nulla, se non confermare l’auspicio che tu possa essere governata da uomini che, nella consapevolezza delle difficoltà a individuare e perseguire il bene comune, non siano supponenti e arroganti ma che, avendo avuto l’onore e la ventura di essere scelti come decisori, si assumano l’onere di farlo avendo come unico obiettivo il bene tuo e dei tuoi figli e non gli interessi propri e le volontà d’altri. Che si impegnino con rispetto e con attenzione nella gestione e soluzione dei veri problemi dell’isola. Che sappiano distinguere l’interesse proprio da quello della comunità regionale.
I migliori auguri, Sardegna.
—————————————
Chi ha paura del populismo
2016. In un mondo mai così diviso dalla profondità delle diseguaglianze, se il populismo promette l’impossibile ritorno al passato dei muri, la sinistra deve indicare una prospettiva di libertà e fratellanza che sia certo alternativa ma soprattutto credibile
Norma Rangeri
il manifesto EDIZIONE DEL 30.12.2016
Se dovessimo leggere il 2016 soltanto sotto l’aspetto politico e istituzionale, potremmo concludere che l’anno che si chiude non è stato tra i peggiori. Gli italiani hanno difeso in massa la Costituzione e l’uomo solo al comando, alla guida di un governo arrogante, ha lasciato palazzo Chigi dove ora siede Paolo Gentiloni, strano clone del renzismo.
Se invece alziamo lo sguardo oltreconfine, la violenza terroristica, la tragedia della guerra – l’immagine di Aleppo è emblematica di questo anno – come anche l’avanzata populista in Europa e soprattutto negli Stati uniti, il bilancio diventa sicuramente più complesso e preoccupante.
Come accade quasi sempre, c’è un doppio filo che lega alcuni di questi avvenimenti: la democrazia e il popolo. Negli Stati uniti come in Italia. Eppure oggi democrazia e popolo sono parole sfibrate, manipolate, traducibili facilmente e con presidenzialismo e populismo. La democrazia d’investitura e il capo sono, perfettamente coerenti, al centro della scena, mentre il parlamento è il simulacro di un sistema sociale e economico che appartiene alle società borghesi di un passato ancorato a una moneta e un territorio.
Il futuro per i populisti è un ritorno al passato. È Trump, ovvero il fantasma resuscitato della working class del carbone e del petrolio. È la Brexit che rafforza il confine e la moneta, peraltro sempre conservati. E’ Putin, protagonista del ridisegno di un assetto di potere nei paesi sotto la sua sfera d’influenza.
Eppure il populismo esiste un po’ in tutti i partiti. Perché oggi non sembra prevalere la politica per come l’abbiamo conosciuta, ma la pancia, l’istinto, l’aggressività, la paura. Che contagia tutte le formazioni politiche e trova terreno fertile e protagonisti nei social media, che da luogo di incontro, di conoscenza, di scambio, di democrazia diffusa, si stanno trasformando in un’arma, uno strumento, un mezzo mediatico per distruggere l’avversario o la vita delle singole persone.
La sinistra vive l’epoca ammaccata o sconfitta, in Europa e nel mondo.
Dove governa nei paesi del Vecchio Continente, vedi la Grecia, è alleata con la destra nazionalista, o, come in Francia, è protagonista dell’autodafé. Non riesce a interpretare né a rappresentare la società impaurita che vuole chiudersi e difendersi, che chiede risposte semplici a problemi complessi. Navigare in questo mare nero della paura è il banco di prova della sinistra al tempo dei populismi, delle guerre, del terrorismo. Una battaglia difensiva e difficile specialmente perché le accresciute e inedite diseguaglianze strappano le sue bandiere e gonfiano le vele delle democrazie dinastiche, delle democrature.
La sinistra, nella crisi di sistema, tuttavia, ha buone carte. Quelle giocate da Sanders, Corbyn, Iglesias. Certo, il suo elettorato è confuso, deluso, ma soprattutto arrabbiato, attraversato dall’ansia del domani. Come tutti. Perché tutti noi vediamo il fondo nero di un domani che spaventa. Per il futuro dei figli, per quelli che non lavorano e per quelli che l’economia globale mette a valore in qualche punto della sua catena. E oltre che pessima consigliera, la paura è anche una forza psicologica prorompente che addomestica e deforma la democrazia, travolge i vecchi corpi intermedi (parlamento compreso) per correre verso il leader che promette sicurezza e assistenza.
Naturalmente c’è anche chi pensa che parlare di post-democrazia sia sbagliato perché libertà di voto e di espressione sono ancora ben saldi, pur se continuamente attaccati, e perché la democrazia è per definizione sempre in crisi. E forte è ancora la domanda di partecipazione, nelle forme richieste dalla comunicazione della Rete e della televisione, più complicate da decifrare rispetto alla vecchia piazza dei movimenti e dei partiti. Così come è problematico definire classi, soggetti, alleanze. I lavoratori dei call-center, quelli dei voucher, dell’uberizzazione, giovani e meno giovani figure di un precariato, che convivono accanto a estese zone di un neoschiavismo migratorio. Ma la richiesta di partecipazione continua a farsi sentire e a votare, come ha dimostrato quel 70% di affluenza al referendum del 4 dicembre.
In un mondo mai così diviso dalla profondità delle diseguaglianze, se il populismo promette l’impossibile ritorno al passato dei muri, la sinistra deve indicare una prospettiva di libertà e fratellanza che sia certo alternativa ma soprattutto credibile. Negli strumenti teorici dell’analisi e nelle figure politiche di riferimento.
Di sicuro nel 2017 non sorgerà il sol dell’avvenire e la sinistra dovrà fare i conti con due destre, una neoliberale, una nazionalista. Il primo passo è ricostruire, ricollegare, riorganizzare. Poi viene il che fare, se e con chi proporre alleanze nella fase attuale. Banalizzando per l’Italia: il Pd o i5Stelle? Qual è la padella e quale la brace, è ardua sentenza, ma hic rhodus, hic salta.
AUGURIOS SARDINIA AUGURI SARDEGNA
Per la Sardegna lo stesso augurio
di Raffaele Deidda
Cara Sardegna, un altro anno è quasi passato. Già non eri felice aspettando la fine del 2015, avevi pensato che sarebbe stato un anno più ricco di soddisfazioni, migliore di quello precedente, non peggiore. Avevi confidato che i tuoi amministratori avrebbero coltivato un forte senso dell’onore e dell’impegno nel servire la propria terra con competenza, onestà morale e sacrificio. Avevi creduto che la tua classe dirigente, eletta o nominata, avrebbe manifestato serietà e affidabilità, impedendo l’espandersi dello spirito di sfiducia da parte dei cittadini verso i loro rappresentanti e quindi verso le istituzioni. Avevi sperato di poter verificare un agire politico nel segno del servizio e non del potere, del bene comune e non di quello di parte, fiduciosa che la missione politica dei tuoi figli avrebbe prodotto forme di vita migliore per tutti e senso della collettività, lontana dall’autoreferenzialità.
Hai dovuto però constatare come troppi sardi non potessero pagare le bollette, come tantissime famiglie non potessero comprare i libri scolastici e come fosse aumentata la richiesta d’aiuto alla Caritas. Troppe le persone che non potevano sottoporsi a cure essenziali, troppi i padri di famiglia senza lavoro e troppo numerosi i giovani istruiti che hanno continuato ad abbandonarti per costruirsi altrove un futuro che non riescono a vedere nella loro terra.
Speravi che il 2016 sarebbe stato migliore. Hai ancora dovuto assistere, invece, alla chiusura di tante attività produttive e commerciali, alla ulteriore desertificazione di paesi e territori. Hai assistito allo sfilare delle marce per il lavoro e la salute nell’indifferenza dei responsabili che le vivono come quinte sceniche. A Roma come in terra sarda. Sei stata percorsa dalle molte manifestazioni a favore dell’ambiente contro folli progetti di sfruttamento delle tue risorse naturali eterodiretti, che arricchiscono pochi e impoveriscono irrimediabilmente la qualità del tuo territorio. Hai visto la tua classe dirigente comportarsi da ascara impegnata nei giochi di palazzo, dentro la superbia dei propri privilegi. Disponibile, per mantenerli, a sostenere riforme del Governo centrale che, se passate, avrebbero minato i fondamenti della tua autonomia. Eppure i padri della tua specialità avevano ribadito che bisogna amarla la propria terra e che bisogna usare il cuore per governarla, non l’opportunismo.
Che cosa augurarti e augurarci per il 2017 di diverso dal 2o16? Nulla, se non confermare l’auspicio che tu possa essere governata da uomini che, nella consapevolezza delle difficoltà a individuare e perseguire il bene comune, non siano supponenti e arroganti ma che, avendo avuto l’onore e la ventura di essere scelti come decisori, si assumano l’onere di farlo avendo come unico obiettivo il bene tuo e dei tuoi figli e non gli interessi propri e le volontà d’altri. Che si impegnino con rispetto e con attenzione nella gestione e soluzione dei veri problemi dell’isola. Che sappiano distinguere l’interesse proprio da quello della comunità regionale.
I migliori auguri, Sardegna.
—————————————
———-
La Cultura ci salverà
Come affrontare la situazione sarda? Investiamo in e sulla Cultura, a partire dall’istruzione e dall’educazione
di Franco Meloni*
“La Cultura ci salverà”: salverà il Mondo, l’Europa, l’Italia, la Sardegna, le nostre città e i nostri paesi… Non automaticamente, certo, ma se ci crediamo e se ci impegneremo come persone e organizzazioni, a tutti i livelli, questa affermazione potrà/dovrà tradursi in opere e pensieri davvero salvifici. Ma cos’è la Cultura? Per i ragionamenti che seguiranno possiamo accontentarci di una sintetica e pertanto riduttiva definizione: “insieme di conoscenze e di pratiche acquisite che vengono trasmesse di generazione in generazione e che ovviamente si accrescono nel tempo”. La nostra riflessione sulla Cultura qui attiene soprattutto alla sua componente fondamentale “istruzione/educazione”, riferita alla situazione sarda. In questa direzione: se è vero che vogliamo che la Cultura e in essa la sua componente essenziale dell’istruzione/educazione possano operare per dare sviluppo e benessere alla Sardegna dobbiamo innanzitutto prendere atto della situazione e attrezzarci per migliorarla, riconoscendo evidentemente quanto di buono già si fa.
I pochi dati esposti nelle tabellle sotto riportate sono sufficienti a dare conto della situazione dell’istruzione in Sardegna confrontati con i dati complessivi dell’Italia. Ci accorgiamo che i valori sono complessivamente bassi in Italia, e, ancora di più, in Sardegna, specie se confrontati con i dati dei più virtuosi paesi dell’Europa e del Mondo.
———–
Mettiamo in evidenza come in Sardegna vi siano ben 300mila persone con la sola licenza elementare o con nessun titolo di studio (il 20,6% della popolazione presa in considerazione). Anche se il livello delle conoscenze non è misurato totalmente dai titoli formali, il dato è comunque significativo e pertanto preoccupante, considerato che comunque segnala l’inadeguatezza della preparazione delle persone rispetto alle esigenze delle attività lavorative e della vita associativa.
Se poi ci riferiamo in particolare ai giovani, è pertinente definire la situazione disastrosa. Al riguardo citiamo ancora una volta il Rapporto Crenos 2016, che afferma che il tasso di abbandono scolastico è tra i più elevanti in Italia, e la percentuale di giovani inattivi, in costante crescita. Nel 2014, il 29,6% dei ragazzi e il 17% delle ragazze in età 18-24 anni ha abbandonato gli studi e oltre il 27% dei giovani tra i 15 e i 24 anni (30,6 per i ragazzi e 24,7% per le ragazze) non studia e non lavora (i c.d. NEET – Not in Education, Employment and Training).
Giustamente i recenti rapporti Caritas sulle povertà hanno inserito questi giovani tra i nuovi poveri, segnalando la necessità di robusti interventi risolutivi. I quali, peraltro, sono chiaramente proposti da più parti, ma praticati in misura decisamente insufficiente. Tra gli interventi in corso di realizzazione è giusto ricordare per la Sardegna il Progetto Iscol@, l’efficacia del quale non è ancora possibile verificare.
Riteniamo utile a questo punto riepilogare dette proposte, che si articolano in sette ambiti di intervento (informando che provengono da operatori ed esperti dell’ambito Caritas, Cnos-Fap dei Salesiani e della pastorale giovanile Cei, che per i Neet si avvalgono delle elaborazioni del prof. Dario Nicoli, docente di sociologia dell’Università Cattolica di Brescia).
1. Lavoro e inserimento lavorativo:
- attivare, anche attraverso incentivi economici, percorsi di inserimento lavorativo, attraverso l’avviamento d’impresa ed esperienze formative e lavorative;
- rilanciare l’istituto dell’apprendistato, in raccordo con il sistema delle imprese e i centri di formazione professionale.
2. Formazione professionale:
- prevedere un uso integrato degli strumenti disponibili: tirocini, voucher, alternanza scuola-lavoro, apprendistato, ecc., per puntate alla crescita personale e professionale;
- sostenere la partecipazione ai corsi Iefp (istruzione e formazione professionale), finalizzati al conseguimento di qualifiche spendibili a livello nazionale e comunitario.
3. Scuola-educazione:
- fare in modo che la formazione scolastica sia più aderente alle necessità del mondo del lavoro, trasmettendo la cultura positiva del lavoro;
- costruire percorsi educativi, formali e informali, di aggiornamento a tutoraggio, con attenzione alle esigenze dei giovani in condizione di povertà o disagio sociale.
4. Orientamento, accompagnamento e tutoraggio:
- avviare azioni di orientamento già a partire dalla scuola media, tramite metodologie e strategie attive di orientamento professionale;
- rivolgere attenzione particolare ai territori maggiormente trascurati da progettualità investimenti, garantendo relazioni positive con genitori e famiglie.
5. Cultura, risorse e territorio:
- valorizzare la presenza dei luoghi positivi di aggregazione (oratori, istituzioni di istruzione e formazione professionale, scuole popolari, associazioni, società sportive, ecc.);
- sviluppare reti territoriali tra soggetti del sistema educativo e del sistema economico, integrando politiche di istruzione, formazione e lavoro.
6. Attenzione – supporto alla persona:
- progettare interventi personalizzati di recupero dei Neet in prospettiva educativa, puntanti sulla ripresa dell’iniziativa e dell’intraprendenza personale;
- favorire esperienze di abitazione-coabitazione autonoma o altre soluzioni di “sgancio” dalla famiglia di origine, anche prevedendo forme di alleanza tra giovani.
7. Welfare – assistenza sociale:
- necessità di sostegno al reddito per favorire lo studio dei ragazzi in situazione di povertà economica;
- politiche per le famiglie, attraverso agevolazioni fiscali, borse di studio e sostegni per l’acquisto di testi o strumenti didattici.
———-
C’è molto da fare e le energie per intervenire non mancano: occorre organizzarle in una logica di solidarietà intergenerazionale.
————————————-
* Articolo pubblicato sul n. 23 del 25 dicembre 2016 del periodico Nuovo Cammino della Diocesi di Ales-Terralba.
————————–
——————–
Ognuno ha imparato da Cristo, senza riuscire a ripetere la lezione, scordandola, balbettandola, contraddicendola nel momento della verifica. Proveniamo da una lunga tradizione che porta il suo nome e che ha dovuto molte volte scusarsi di averlo nominato invano
Erri De Luca, intervista: “I politici non si approprino di Gesù, lui non voleva il potere per cui loro si dannano”
L’Huffington Post | di Nicola Mirenzi
25/12/2016
In principio, è una contraddizione: “Cristo è incompatibile coi poteri del mondo, con le ricchezze accumulate, con i privilegi”. Eppure, la celebrazione della sua nascita non procura scuotimenti. È un rito pacificato, assorbito dalla routine delle luci, degli alberi addobbati, delle offerte luccicanti di comete in vetrina: “Dall’imperatore Costantino in poi – racconta Erri De Luca all’Huffington Post – i poteri hanno liberamente interpretato il Cristo, censurando gli aspetti sconvenienti ai loro interessi. Lui non voleva il potere fasullo di un’ora di supremazia, di primato sugli altri, di acclamazione a furor di popolo. Non voleva quel potere per il quale si dannano i politici e i potenti di ogni età”.
Scrittore, laico, ex militante della sinistra estrema, studioso dei libri sacri: Erri De Luca non festeggia il Natale da vari anni, “da quando è morta mia madre”, dice, perché per lui è una “festa collegata alla sua presenza”.
Sente, anche da laico, lo scandalo dell’apparizione di Cristo nel mondo?
È rimasto lo stesso scandalo di prima: l’incarnazione di una divinità che attraversa tutti gli stadi dell’esperienza fisica, dalla nascita alla morte. Non scandalo, ma esempio resta la sua condotta processuale di fronte al tribunale romano. Non rinnega, né sfuma le sue convinzioni e la sua missione. È condannato per questo. Un oscuro prefetto di Roma, tale Ponzio Pilato, suicida sotto l’imperatore Caligola, è diventato indegnamente celebre per aver presieduto al dibattimento.
Chi è Gesù Cristo per lei?
Nella mia gioventù politica si prendeva in considerazione Che Guevara, simbolo di un’epoca che aveva smesso di offrire l’altra guancia all’offesa. Beati gli ultimi, la più politica frase di Cristo, andava praticata nel nostro tempo, non era rinviabile. Gli ultimi dovevano essere beati subito. Ho conosciuto in quel tempo qualche realizzazione del genere.
Cristo non aveva nulla da suggerire alla vostra contestazione?
In Gerusalemme, in quella Pasqua della sua cattura, aveva in pugno un popolo che lo acclamò al suo ingresso sulla cavalcatura regale e lo seguì nel Tempio a sgomberare i mercanti. Ma lui non volle essere capo di una rivolta contro l’occupazione militare straniera. Aveva una missione che doveva compiersi sul patibolo romano. La mia gioventù politica preferiva i combattenti.
Ma Cristo diceva: “Sono venuto a portare non pace, ma spada” (Matteo 10,34). Era un combattente.
Rinunciò a scatenare una rivolta in più in quella terra che oppose il più ostinato contrasto all’impero romano. Per secoli il monoteismo ebraico si è scontrato in armi con il politeismo di Roma, con la pretesa di divinità del suo imperatore. Di croci a migliaia erano state riempite le alture e le valli, con i corpi degli oppositori, perseguitati per la loro resistenza. Cristo voleva rinnovare le radici della fede nel Dio unico e solo. Era un messaggio interamente ebraico, incomprensibile ai romani. Non si rivolgeva al loro potere. Pretendeva di ignorarlo.
L’idea di amarsi gli uni gli altri è inconciliabile con la nuova ragione del mondo, quella di competere gli uni contro gli altri?
Amare il proprio vicino è un precetto che risale al Levitico, Libro Terzo dell’Antico Testamento. Cristo lo interpreta approfondendo la fraternità fino al sacrificio, perché amare è un’esperienza sovversiva, procura insurrezione interna in chi lo prova. Competere invece dura poco, il concorrente finisce presto fuori concorso. Cristo è incompatibile coi poteri del mondo. Date a Cesare quello che è di Cesare: dategli la tassa che esige, la moneta con il suo profilo inciso, perché è tutto quello che gli spetta, un pezzo di metallo che presto avrà un modesto valore numismatico.
Se non nell’al di là, che paradiso si può promettere in terra?
La terra, il pianeta, è un prodigio del sole, un posto di meraviglie impossibili da enumerare. La nostra presenza di recente lo va degradando a Purgatorio, con reparti di Inferno. Siamo contemporanei delle più intense e assortite intossicazioni sconosciute, diffuse dal sistema di sviluppo, che gode per questa nobile funzione di piena impunità. Prima di questo avvento moderno, la terra era il Paradiso della vita animale e vegetale. Dove altro cercarlo? Ancora qui, ancora adesso, e in nessun aldilà.
Non si rischia di ridurne l’alterità e il contrasto avvicinandolo troppo a noi?
La spada alla quale si riferiva prima, citando Matteo, non è la guerra, quella c’era già e non servivano supplementi. Leggo invece l’estrazione di una spada simbolica, che assegna i meriti e pareggia i torti, la spada di un’autorità morale che produca conversioni e ravvedimenti. Da questo punto di vista Papa Francesco è la spada sguainata di una chiesa nuova.
Francesco è andato a Lampedusa, dove arrivano i migranti, predicando di stare dalla loro parte. Molti italiani impoveriti, però, si riconoscono nelle parole: “Prima noi”.
Prima veniamo noi è un ragionamento che proclama l’evidenza: ovvio che prima vengono i residenti, i nativi, infatti sono loro i primi che possono andare a raccogliere il pomodoro, assistere agli anziani, tenere piccoli esercizi commerciali aperti ventiquattr’ore. Dopo di che, in loro assenza, rifiuto, rinuncia, arriva la supplenza dei secondi. Si tratta di supplenti, non di usurpatori di posti. Non è razzismo dire: “Prima noi”. È accanimento su qualunque soggetto più debole, in condizione di inferiorità. Il razzismo è ripudio di razza anche se fornita di censo. Da noi invece l’emigrato arabo è sospetto, l’emirato arabo è invece riverito nel più servile dei modi.
La sinistra – dalla cui storia lei viene – potrebbe imparare qualcosa da Cristo?
Vanno in Chiesa la domenica, mi sembra, gli ultimi capi di governo a guida PD. Quello che serve alla sinistra è dare sostanza di azione alla trinità laica espressa dalla Rivoluzione Francese: libertà, uguaglianza, fraternità. Su questo si misura o abdica una forza progressista.
C’è qualcosa anche da dis-imparare da Cristo e dal cristianesimo?
Ognuno ha imparato da Cristo, senza riuscire a ripetere la lezione, scordandola, balbettandola, contraddicendola nel momento della verifica. Proveniamo da una lunga tradizione che porta il suo nome e che ha dovuto molte volte scusarsi di averlo nominato invano. Io disimparo per inadeguatezza, per disattenzione, per un mucchio di deficit, che in latino vuol dire ciò che manca. Resto un lettore di storie sacre, perché quei libri hanno innalzato la forza della parola a strumento di creazione. “E disse”: è il verbo più frequente della divinità dell’Antico Testamento. La parola è l’azione più significativa della vita di Cristo.
—————————————–
- La buona Novella di Fabrizio De Andrè.
- Disco. I Vangeli apocrifi di Fabrizio De Andrè.
—————————————–
- L’illustrazione è tratta dalla pellicola Il Vangelo secondo Matteo di Pierpaolo Pasolini.
———————————————
E’ Natale!
“Oggi è nato per voi un Salvatore”
di ENZO BIANCHI, priore di Bose.
Lc 2,1-14
1 In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. 2 Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. 3 Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. 4 Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. 5 Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. 6 Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7 Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
8 C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. 9 Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, 10 ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11 oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. 12 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». 13 E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: 14 «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».
Per secoli i primi cristiani festeggiarono come festa delle feste la Pasqua di resurrezione di Gesù il primo giorno della settimana ebraica, diventato per loro “giorno del Signore” (Ap 1,10), mentre non sappiamo se in qualche comunità del Mediterraneo si ricordasse la nascita di Gesù con una festa particolare. Nel IV secolo, dopo l’editto di Costantino e la libertà di culto concessa ai credenti in Cristo, avvenne la cristianizzazione di una festa pagana introdotta poco prima dall’imperatore Aureliano (270 ca.), e celebrata a Roma come festa del Sol invictus, del “Sole vincitore”, che in quel giorno comincia ad allungare il suo tempo di luce sulla terra. Per i cristiani Gesù il Signore era “il sole di giustizia” cantato da Malachia (Ml 3,20; cf. Lc 1,78) era “la luce del mondo” proclamata dal vangelo (Gv 8,12). Ecco allora che in occidente la rinascita del Sol invictus pagano è stata cristianizzata mediante la festa del Natale, della Natività di Gesù Cristo. Parallelamente, in oriente (Egitto e Siria), dove il solstizio d’inverno cade il 6 gennaio, si assunse quella data per celebrare l’Epifania come festa della manifestazione della venuta del Figlio di Dio nella nostra umanità.
Questa l’origine della nostra festa, che da sempre ha al suo centro il vangelo della nascita di Gesù secondo Luca. Nella messa della notte, celebrata nel cuore delle tenebre, rifulge una grande luce: Gesù, partorito da Maria a Betlemme. Questo racconto non è una favola, anche se sembra scritto per i bambini, che significativamente lo ricordano per tutta la vita, ma è una pagina del vangelo, una buona notizia! Per questo Luca vuole innanzitutto situare tale evento nella grande storia del Mediterraneo, contrassegnata dal dominio dell’impero romano. Cesare Augusto decide di contare i cittadini di tutte le terre conquistate da Roma: per questo ordina un censimento, eseguito nella terra di Israele da Quirinio, governatore della Siria. Giuseppe obbedisce a quest’ordine e, insieme alla moglie Maria, lascia la sua città di Nazaret per recarsi a Betlemme, in Giudea, nel sud della terra santa, là dove aveva avuto origine la casa e la discendenza di David, il Messia, l’unto del Signore, il re di Israele.
Mentre questa coppia si trova a Betlemme, in una condizione precaria e di povertà non avendo trovato posto nel caravanserraglio, in una piccola costruzione, appena un riparo nella campagna, Maria che è incinta dà alla luce il suo figlio primogenito, annunciato a lei per rivelazione come generato dallo Spirito di Dio (cf. Lc 1,35), un Figlio che solo Dio poteva dare all’umanità tutta. Qui vi è già una forte contrapposizione, che caratterizzerà tutta la vicenda di questo neonato. Chi domina il mondo è Augusto – chiamato Divus, “Dio”; Sotér, Salvatore; Kýrios, Signore –, ma il vero Salvatore e Signore è un suo suddito, un bambino nato in una situazione povera, per il quale da subito sembra non esserci posto in questo mondo.
Conosciamo tutti bene l’icona della Natività: una capanna o una grotta, e Maria che adagia suo figlio in una mangiatoia, con accanto Giuseppe, testimone e custode di quel mistero nel quale viene coinvolto e al quale presta puntualmente obbedienza. Tutto accade nella notte, nel silenzio, nella condizione umanissima di una madre che partorisce un figlio. Nessuno conosce quella coppia, nessuno l’ha accolta, nessuno si è accorto di nulla. Ma ecco che Dio invia un suo messaggero ai pastori che si trovano sulle alture circostanti Betlemme, per alzare il velo su quell’evento: “un angelo del Signore si presentò a loro e la Gloria del Signore li avvolse di luce”. I pastori sono gente disprezzata, emarginata, neppure ritenuta degna di andare al tempio per incontrare il Signore. Ma proprio a questi ultimi della società di Giudea è rivolto l’annuncio, la buona notizia per eccellenza, che è gioia per tutto Israele, per tutto il popolo di Dio. Per la loro condizione di poveri e ultimi, i pastori sono i primi destinatari di diritto di questa buona notizia:
Oggi, nella città di David, del Messia,
è nato per voi un Salvatore, che è il Messia, il Signore.
In questo annuncio cogliamo come un anticipo della buona notizia pasquale: Gesù è il Kýrios, il Salvatore! Non Augusto, che vantava questi titoli, ma un infante appena nato riceve questi stessi titoli da parte di Dio. Così avviene la rivelazione ai piccoli, agli ultimi, dalla quale sono esclusi quanti credevano di esserne destinatari di diritto: sacerdoti, esperti della Legge, credenti militanti convinti di essere loro soli i veri figli di Abramo.
Ai pastori è dato anche un segno, un’indicazione perché possano vedere e comprendere; nulla di straordinario o di divino ma, di nuovo, una realtà umanissima: “Troverete un neonato avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. Realtà semplice e umile, senza ornamenti, senza “straordinario”. Eppure questo annuncio è dato da un coro innumerevole di creature invisibili, in una sorta di liturgia cosmica, quella liturgia del cielo che non riusciamo a vedere né ad ascoltare ma che riempie l’universo e canta la santità e la gloria di Dio, cioè proclama chi e come Dio ama. Infatti, ciò che in quel canto corale viene rivelato è la volontà di Dio: “Dio ha peso (kabod, gloria), Dio agisce nel mondo anche se è Santo ed è nel più alto dei cieli, Dio dà la pace all’umanità che egli ama”.
Ecco la buona notizia del Natale: Dio ci ama a tal punto da aver voluto essere uno di noi, tra di noi, uguale a noi, un uomo come noi.
——————————-
25 dicembre 2016
Natale, messa della notte
——
Isaia 9,1-6
Il profeta Isaia contempla la situazione del popolo di Israele nella terra promessa e donata da Dio e scorge un mistero di morte e resurrezione per la porzione del nord, quella abitata dalle tribù di Zabulon e di Neftali. Mentre egli scrive, queste terre sono desolate dopo la conquista e la deportazione ad opera degli Assiri (722 a.C.). Ma proprio questi territori periferici e umiliati un giorno saranno i primi a risorgere: vedranno una grande luce, la fine della schiavitù e della guerra, a causa della nascita di un bambino, dono di Dio al suo popolo. Un bambino chiamato con dei titoli inauditi: “Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace”. Ecco il Messia glorioso e vincitore profetizzato da Isaia.
Lettera a Tito 2,11-14
L’Apostolo ricorda in sintesi l’evento della nostra salvezza: l’incarnazione, l’umanizzazione di Dio che è epifania, manifestazione della sua grazia, del suo amore gratuito che non va mai meritato. È significativo che Girolamo traduca: “È apparsa l’humanitas, l’umanità di Dio nostro Salvatore” (Tt 3,4, Vulgata). Sì, umanità che insegna alla nostra umanità, umanità come Dio l’ha pensata, voluta, creata e pienamente realizzata in suo Figlio, che è per sempre “grande Dio e Salvatore”.
——————-
L’illustrazione in testa: auguri dei Volontari della Pro Civitate Christiana.
——————————————–
Papa Francesco Natale 2016: “Questa mondanità ci ha preso in ostaggio il Natale, bisogna liberarlo”
———————————————————-
Cristianesimo come religione civile
Quale rapporto tra cristianesimo e società in un contesto di pluralismo di fedi e di crisi di valori condivisi?
sintesi della relazione di Giannino Piana
Verbania Pallanza, 21 gennaio 2006.
- segue –
Dossier della Caritas 2016. Solidarietà e rivoluzione
Il Dossier della Caritas diocesana 2016 si inserisce pienamente nel percorso di preparazione della settimana sociale che si terrà a Cagliari nel mese di ottobre del prossimo anno e che ha per titolo “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale”. Il tema del lavoro in Sardegna rappresenta una priorità ed è fonte di grande preoccupazione perché il sistema economico continua a peggiorare.
Il contesto regionale. Secondo il rapporto Svimez (Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno), nel corso del periodo 2000 – 2015 il PIL sardo è diminuito del 3,8 per cento e praticamente tutti i principali parametri economici portano il segno negativo. Per esempio, nel settore agricolo il valore aggiunto pro capite è in drastica riduzione, dato che era di 28,7 mila euro nel 2014 e di 23,9 mila euro nel 2015. La stessa cosa si riscontra nel terziario. In questo caso cresce il valore aggiunto del settore così come cresce l’occupazione ma diminuisce il valore aggiunto pro capite che passa 49,9 mila euro a 49 mila euro. Ben più consistenti sono le negatività del comparto industriale che nell’aggregato dell’industria in senso stretto, registra un calo degli addetti a 51,1 mila erano 53,1 mila l’anno precedente e 62,3 mila nel 2000.
Ancora più pesante è la situazione delle costruzioni che relativamente agli occupati registra una flessione di 5 mila unità tra il 2014 e il 2015 e di 15 mila rispetto al 2000.
In buona sostanza l’economia non riesce a ripartire, sottolineando una certa difficoltà del sistema economico regionale a sganciarsi dalla spirale recessiva.
Il tasso di disoccupazione (aggregato maschile e femminile) raggiunge il picco massimo nel 2014 con il 18,6% che è anche punto di flesso; nel 2015 il tasso è sceso al 17,4%. Il problema dei giovani appare uno degli elementi più preoccupanti che assume per alcuni aspetti il carattere della drammaticità. Lo scoraggiante scenario di riferimento, infatti, vede aumentare il numero dei giovani, fra i 15 e i 24 anni, che decidono di non studiare, non essere occupati in attività lavorative né impegnati in attività formative: sono coloro che rientrano nella categoria NEET (neither in employment nor in education and training). Se per l’Europa (EU 27) il valore rimane attorno al 12,5% per lo stesso periodo di riferimento, 2014, per la Sardegna questo valore nell’ultimo triennio ha addirittura più che raddoppiato la media europea, raggiungendo nel 2014 un picco del 27,7% che, tradotto in numeri semplici, vuol dire che quasi un ragazzo su tre è in condizione di non impiego né formazione. Questa scarsa capacità di assorbimento si traduce in un tasso di disoccupazione giovanile in forte crescita nel periodo, passato dal 30,78% del 2010 che ha rappresentato il minimo fino al 44,27% nel 2014 che scende di 1,87 punti percentuali (42,4%) nel 2015. Sono numeri che se letti congiuntamente con i NEET e con il tasso di dispersione scolastica riportato dal MIUR per il quinquennio 2009/10-2013/14 pari al 36,2% (27,9% media italiana) danno una visione molto preoccupante per il futuro delle giovani generazioni, con una particolare gravità per coloro che posseggono un titolo di studio. Il numero di disoccupati in possesso di un titolo di laurea o superiore è passato da 1 ogni 17,8 nel 2009 – aumentando fino a 1 disoccupato laureato ogni 18,5 laureati nel 2011 – a 1 disoccupato ogni 12,8 laureati nel 2015. Sono numeri che lasciano presagire un decadimento del vantaggio competitivo del titolo di studio e della specializzazione nel mercato del lavoro isolano. Se poi si va a vedere l’ultimo rapporto Censis uscito proprio nel mese di dicembre il quadro che appare assume tinte ancora più fosche. Rispetto alla media della popolazione, oggi le famiglie dei giovani con meno di 35 anni hanno un reddito più basso del 15,1 % e una ricchezza inferiore del 41,1 %. Tutto ciò incide naturalmente sui fenomeni connessi e in particolare sulla povertà. Le persone a rischio di povertà o esclusione sociale in Sardegna sono il 36,6 % dei residenti, ben 8 punti in più della media italiana, aspetto che viene taciuto a livello politico.
All’impoverimento economico si accompagna il rischio dell’impoverimento morale, perché si cercano rimedi illusori attraverso i giochi d’azzardo legalizzati; molto opportunamente contro questa tendenza si sta impegnando da anni la Caritas attraverso la Fondazione antiusura, il Prestito della speranza, l’azione di educazione alla gestione delle risorse finanziarie.
Caratteristiche fondamentali dei soggetti assistiti dalla Caritas
In media sono circa 800 i pasti giornalieri preparati dalla Cucina Caritas, con punte di oltre mille nei momenti di maggiore difficoltà; gli assistiti nel corso del 2016 sono stati 2.259, di cui 1.098 donne (48,6%) e 1.161 uomini (51,4%).
La maggioranza degli utenti risulta essere di cittadinanza italiana, in una percentuale pari al 73,3% del totale (1.607 soggetti tra i quali sono annoverati anche coloro in possesso della doppia cittadinanza) contro il 26,7% di stranieri (pari a 584 soggetti).
Il paesi più rappresentati risultano essere la Romania (15,0%), Nigeria (13,7%), Senegal (11,9%), Mali (8,0%), Bosnia – Erzegovina (5,4%) e Marocco (5,4%).
A conferma di quanto rilevato nelle scorse edizioni, anche l’analisi al 2016 attesta che la fascia d’età prevalente nell’evidenziare situazioni di disagio comprende i soggetti di età compresa tra i 35 e 44 anni (25,5)%, seguita dalla classe 45-54 anni (23,6%).
Gli utenti transitati nei vari Centri d’Ascolto della Caritas Diocesana di Cagliari nel 2016 nella prevalenza dei casi risultano avere un domicilio (90,1%). I senza dimora rappresentano una minoranza (7,9 %).
Il titolo di studio maggiormente diffuso è la licenza media inferiore (47,6%) seguita dalla Licenza Elementare (20,1%); leggendo quindi il dato cumulato relativo ai due titoli di studio emerge che circa il 67,7% degliassistiti possiede al massimo la licenza media inferiore.
Il dato al 2016 registra inoltre che il 3,5% degli assistiti possiede una laurea (contro il 3,1% dell’anno precedente), e che aggiungendo a tale categoria i possessori di Diploma Universitario, pari allo 0,4%, si arriva a una percentuale del 3,9%. Possiamo quindi affermare che, sebbene continuino a prevalere i titoli di studio bassi, rispetto agli anni precedenti si sono registrati dei sensibili aumenti di utenti in possesso di laurea o diploma di scuola secondaria superiore.
Lo status di disoccupato caratterizza oltre il 60% degli utenti rilevati (51,8% disoccupati in cerca di un nuovo impiego e 11,5% disoccupati in cerca di prima occupazione). Aggiungendo alla quota dei disoccupati i pensionati (6,0%), gli inabili al lavoro (1,7%) e le casalinghe (9,5%) emerge come complessivamente oltre il 75% degli utenti osservati non lavora. Quanto agli assistiti in possesso di un’occupazione, questa condizione è dichiarata dal 16,7% dei maschi e dal 12,5% delle donne. La categoria dei pensionati è presente nel 7,1% delle comunicazioni dei maschi e nel 6,0% delle dichiarazioni delle donne.
I valori medi osservati evidenziano che i bisogni degli assistiti sono in prevalenza di natura economica (31,7% nel 2015 e 33,9% nel 2016), segnale importante della frequente condizione di povertà che pare colpire un terzo degli utenti dei Centri d’Ascolto.
Negli ultimi due anni osservati (2015 e 2016) le richieste dell’utenza in più dell’80% dei casi hanno riguardato il semplice ascolto (27,4% e 18,5%), i sussidi economici (24,9% e 26,5%), la necessità di beni e servizi materiali (19,7% e 22,3%) e il lavoro (13,4% e 11,5%). Il dato relativo all’orientamento indica che la quota associata è passata dal 5,3% del 2015 all’8,0% del 2016, mentre le altre casistiche hanno fatto registrare valori sotto il 4%.
Notevole è poi l’attività svolta a favore dell’immigrazione, sia da parte della Caritas, sia da parte delle cooperative, non solo attraverso i centri d’ascolto, ma anche tramite l’erogazione di numerosi tipi di servizi, come l’attività dei medici ambulatoriali, lo sportello farmaceutico, la distribuzione di pacchi alimentari, libri, giocattoli, etc., gli interventi per i senza dimora (docce, etc.). Un insieme di servizi ampio e di crescente complessità dato il continuo incremento degli individui che, in numero sempre maggiore, si rivolgono alla Caritas.
——————————
GIOVANI e FEDE
atei? un’indagine sorprendente
di Giannino Piana su Rocca 23/2016
Nonostante la grande difficoltà che si ha oggi ad interpretare il mondo giovanile, sia per le marcate differenze esistenti al suo interno che per la estrema mobilità che lo caratterizza, si può dire che il fenomeno della «non credenza» (o forse più radicalmente dell’«ateismo») è in esso in consistente crescita. A rilevare, con chiarezza, questo dato è una ricerca nazionale condotta di recente da Franco Garelli e pubblicata dall’editrice Il Mulino (Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, Bologna 2016, pp. 231) su un ampio campione di giovani dai 18 ai 29 anni, residenti nelle diverse aree geografiche della nostra penisola e appartenenti alle diverse classi sociali.
Il 28% dei giovani indagati si dichiarano infatti «non credenti» e l’aspetto più sorprendente è costituito dal tasso di accelerazione che tale fenomeno ha avuto negli ultimi anni, se si considera che l’incremento odierno è del 40% superiore rispetto al 2007, anno in cui è stata condotta, con criteri analoghi, una indagine sulla situazione religiosa in ambito giovanile. Se a questo si aggiunge che il numero dei giovani che manifestano in maniera convinta la loro fede si è ridotto negli ultimi venti anni del 30% – essi rappresentano oggi circa il 10,5% dell’intera popolazione giovanile – si ha un quadro della situazione che non può che suscitare allarme nei responsabili delle istituzioni religiose e negli operatori pastorali.
le ragioni del distacco
Il fenomeno, peraltro più contenuto rispetto ad alcune aree europee, coinvolge maggiormente le zone più avanzate del Nord e i soggetti con istruzione più elevata e riguarda – anche questo è un elemento significativo – giovani che per oltre il 90% hanno ricevuto il battesimo e fatta la prima comunione (un po’ meno la cresima) e per il 68% hanno frequentato, almeno per qualche tempo, la parrocchia e l’oratorio. Le ragioni di questo distacco, che risulta ancora più rilevante se si assomma a coloro che si professano «non credenti» il numero consistente di «atei pratici», cioè di coloro che pur dichiarandosi credenti vivono «come se Dio non esistesse», sono molte e di diversa natura. Ciò che le accomuna è tuttavia una doppia convinzione: l’impossibilità di conoscere ciò che supera la conoscenza sperimentale e la considerazione che non è necessario il ricorso a Dio per condurre una vita sensata e moralmente corretta.
Nel primo caso, ad esercitare un ruolo determinante è l’affermarsi della mentalità positivista e scientista, che induce – direbbe Gabriel Marcel – all’assunzione di un atteggiamento «problematico» con l’esclusione conseguente del «senso del mistero», che viene identificato con l’«irrazionale» o con il «magico». Nel secondo, oltre alla constatazione della scarsa testimonianza resa da coloro che si dicono «credenti», i quali ispirano spesso la loro condotta alla logica mondana, un’importanza decisiva riveste il processo di secolarizzazione, che ha reso evidente l’autonomia dell’etica dalla religione, la possibilità cioè di fondarla sulla ragione umana e perciò di condurre una vita onesta a prescindere dal riferimento religioso. In ambedue i casi ad essere messa sotto processo è la religiosità tradizionale che risulta a molti priva di una vera convinzione di fede, improntata a una visione precettistica e di facciata e basata ancora sulla immagine di un Dio giustiziere.
Ma a questi fattori che coinvolgono la significatività della fede e la sua capacità di tradursi nell’acquisizione di stili di vita umanizzanti si associano (e si assommano) fattori esterni, che hanno direttamente a che fare con il difficile rapporto con la chiesa, caratterizzato, in molti casi, da un rifiuto radicale, causato da ragioni sia ideologiche che pratiche. Alla contestazione della mediazione ecclesiale, frutto di un sentire religioso sempre più soggettivo ed autonomo, si accompagna la denuncia dell’anacronismo delle posizioni ecclesiastiche su molte questioni attuali di carattere etico – si pensi soltanto alla morale sessuale e familiare e alla bioetica – e, ancor più radicalmente, la reazione nei confronti dell’atteggiamento dogmatico, dello stretto intreccio con la politica (e con il potere in generale) e della contro testimonianza del mondo ecclesiastico: devastanti sono stati, al riguardo, gli scandali recenti provocati dal fenomeno dei preti pedofili e da Vatileaks.
Si può, in definitiva, affermare che la religione ha perso di credibilità e di funzione sociale, mentre, a sua volta, la chiesa, che registra un forte ritardo sul terreno della comunicazione, sia a causa del linguaggio arcaico della predicazione e della catechesi, sia di un vero e proprio deficit relazionale, motivato soprattutto dalla scarsa disponibilità dei sacerdoti – anche per la loro radicale riduzione numerica – a farsi trovare e ad ascoltare.
luci e ombre della situazione
In realtà, a ben vedere, l’estraneità alla fede, che i giovani non hanno oggi remore a manifestare – questo è forse uno dei motivi per cui i «non credenti» appaiono quantitativamente più numerosi del passato – è addebitabile, in ultima analisi, a un clima culturale, in cui individualismo libertario, materialismo, consumismo e logica mercantile sembrano divenuti gli unici criteri ai quali ispirare la propria condotta. Le difficoltà a vivere la fede, qualche volta persino a rendere pubblica la propria appartenenza religiosa – come osserva D. Hervieu-Léger riferendosi in particolare alla situazione francese – sono molto più accentuate che in passato. Il vangelo è oggi più che mai «segno di contraddizione»; è un messaggio controcorrente, alternativo alla logica dominante, e dunque faticoso da accettare e fare proprio, anche se grandemente liberante. Accanto alle ombre non mancano tuttavia le luci. A colpire nell’inchiesta di Garelli è, a tale proposito, la persistenza nel mondo giovanile di una consistente domanda di senso e l’ammissione da parte del 67% dei giovani interpellati che «credere in Dio» è un atteggiamento plausibile, nonché il riconoscimento che il bisogno religioso ha un carattere perenne, perché costituisce una delle risposte più autorevoli alla questione del senso. E ancora più significativa è la constatazione che la fede di quanti si definiscono credenti, lungi dal dipendere da condizionamenti ambientali o da convenzioni sociali, è la risultante di una scelta responsabile, non abitudinaria, ma radicata su convinzioni profonde, che conducono sul piano esistenziale a comportamenti maggiormente coerenti.
un nuovo modello di religiosità
La crisi della fede, d’altronde – è questo un tratto che l’analisi di Garelli non manca di rilevare – non significa abbandono di ogni forma di spiritualità, che ha tuttavia carattere eminentemente individuale e che riveste connotati strettamente immanenti, non identificandosi con il rapporto con l’Altro ma con il proprio mondo interiore. Una spiritualità, dunque, di carattere tendenzialmente orizzontale, volta a conferire armonia e benessere alla persona. A questa accezione ci si riferisce nell’inchiesta quando si parla di milieu olistico, alludendo a un contatto con il sé mediante la convergenza positiva di corpo, mente e anima. Questo giustifica anche l’accostamento alla spiritualità orientale, induista e buddista in particolare, sia pure interpretate in forme occidentali spesso vaghe e imprecise, nonché la diffusione, più in generale, di esperienze alternative, per quanto in misura ancora piuttosto ridotta.
D’altra parte, anche laddove, come in molti casi, si dà una sovrapposizione tra spiritualità e religione – quest’ultima rappresentata in primo luogo dal cattolicesimo per la persistenza piuttosto diffusa di una subcultura cattolica – l’esigenza che prevale è quella di ritagliarsi una fede su misura, rispondente alle proprie esigenze, con la tendenza perciò a vivere una credenza senza appartenenza.
Questo spiega anche come i confini tra credenti e non credenti non siano così netti; religione ed ateismo non sono categorie monolitiche e fisse, e come la spiritualità costituisca una sorta di «zona intermedia» o «terra di mezzo» tra di esse. Spiega come il mondo giovanile si presenti cioè come un mondo articolato, con una ricca gamma di posizioni intermedie e con frequenti oscillazioni tra i due poli. Ma spiega soprattutto come sussista su ambedue i fronti un senso di profonda tolleranza e di rispetto di scelte diverse e una convergenza nella critica ai modelli religiosi prevalenti e alla chiesa di cui si salvano soltanto le realtà impegnate nel sociale e nell’aiuto ai poveri.
L’indagine di Garelli non si accontenta tuttavia di descrivere la situazione presente. Lascia intravedere gli orientamenti che le diverse agenzie educative – dalla famiglia alla scuola, alla parrocchia, fino alle associazioni e ai movimenti – oggi non sempre all’altezza dei bisogni veri, devono mettere in campo, se intendono fornire ai giovani strumenti adeguati per reagire alla situazione di crisi valoriale e religiosa attuale e far maturare scelte religiose dotate di autenticità e di solidità. La posta in gioco è infatti assai alta. La fede riveste ancor oggi un ruolo di prim’ordine per la promozione della persona e per la costruzione di una società più giusta e più solidale.
————————-
—————-
GIOVANI e FEDE
atei? un’indagine sorprendente
di Giannino Piana su Rocca 23/2016
Nonostante la grande difficoltà che si ha oggi ad interpretare il mondo giovanile, sia per le marcate differenze esistenti al suo interno che per la estrema mobilità che lo caratterizza, si può dire che il fenomeno della «non credenza» (o forse più radicalmente dell’«ateismo») è in esso in consistente crescita. A rilevare, con chiarezza, questo dato è una ricerca nazionale condotta di recente da Franco Garelli e pubblicata dall’editrice Il Mulino (Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, Bologna 2016, pp. 231) su un ampio campione di giovani dai 18 ai 29 anni, residenti nelle diverse aree geografiche della nostra penisola e appartenenti alle diverse classi sociali.
Il 28% dei giovani indagati si dichiarano infatti «non credenti» e l’aspetto più sorprendente è costituito dal tasso di accelerazione che tale fenomeno ha avuto negli ultimi anni, se si considera che l’incremento odierno è del 40% superiore rispetto al 2007, anno in cui è stata condotta, con criteri analoghi, una indagine sulla situazione religiosa in ambito giovanile. Se a questo si aggiunge che il numero dei giovani che manifestano in maniera convinta la loro fede si è ridotto negli ultimi venti anni del 30% – essi rappresentano oggi circa il 10,5% dell’intera popolazione giovanile – si ha un quadro della situazione che non può che suscitare allarme nei responsabili delle istituzioni religiose e negli operatori pastorali.
le ragioni del distacco
Il fenomeno, peraltro più contenuto rispetto ad alcune aree europee, coinvolge maggiormente le zone più avanzate del Nord e i soggetti con istruzione più elevata e riguarda – anche questo è un elemento significativo – giovani che per oltre il 90% hanno ricevuto il battesimo e fatta la prima comunione (un po’ meno la cresima) e per il 68% hanno frequentato, almeno per qualche tempo, la parrocchia e l’oratorio. Le ragioni di questo distacco, che risulta ancora più rilevante se si assomma a coloro che si professano «non credenti» il numero consistente di «atei pratici», cioè di coloro che pur dichiarandosi credenti vivono «come se Dio non esistesse», sono molte e di diversa natura. Ciò che le accomuna è tuttavia una doppia convinzione: l’impossibilità di conoscere ciò che supera la conoscenza sperimentale e la considerazione che non è necessario il ricorso a Dio per condurre una vita sensata e moralmente corretta.
Nel primo caso, ad esercitare un ruolo determinante è l’affermarsi della mentalità positivista e scientista, che induce – direbbe Gabriel Marcel – all’assunzione di un atteggiamento «problematico» con l’esclusione conseguente del «senso del mistero», che viene identificato con l’«irrazionale» o con il «magico». Nel secondo, oltre alla constatazione della scarsa testimonianza resa da coloro che si dicono «credenti», i quali ispirano spesso la loro condotta alla logica mondana, un’importanza decisiva riveste il processo di secolarizzazione, che ha reso evidente l’autonomia dell’etica dalla religione, la possibilità cioè di fondarla sulla ragione umana e perciò di condurre una vita onesta a prescindere dal riferimento religioso. In ambedue i casi ad essere messa sotto processo è la religiosità tradizionale che risulta a molti priva di una vera convinzione di fede, improntata a una visione precettistica e di facciata e basata ancora sulla immagine di un Dio giustiziere.
Ma a questi fattori che coinvolgono la significatività della fede e la sua capacità di tradursi nell’acquisizione di stili di vita umanizzanti si associano (e si assommano) fattori esterni, che hanno direttamente a che fare con il difficile rapporto con la chiesa, caratterizzato, in molti casi, da un rifiuto radicale, causato da ragioni sia ideologiche che pratiche. Alla contestazione della mediazione ecclesiale, frutto di un sentire religioso sempre più soggettivo ed autonomo, si accompagna la denuncia dell’anacronismo delle posizioni ecclesiastiche su molte questioni attuali di carattere etico – si pensi soltanto alla morale sessuale e familiare e alla bioetica – e, ancor più radicalmente, la reazione nei confronti dell’atteggiamento dogmatico, dello stretto intreccio con la politica (e con il potere in generale) e della contro testimonianza del mondo ecclesiastico: devastanti sono stati, al riguardo, gli scandali recenti provocati dal fenomeno dei preti pedofili e da Vatileaks.
Si può, in definitiva, affermare che la religione ha perso di credibilità e di funzione sociale, mentre, a sua volta, la chiesa, che registra un forte ritardo sul terreno della comunicazione, sia a causa del linguaggio arcaico della predicazione e della catechesi, sia di un vero e proprio deficit relazionale, motivato soprattutto dalla scarsa disponibilità dei sacerdoti – anche per la loro radicale riduzione numerica – a farsi trovare e ad ascoltare.
luci e ombre della situazione
In realtà, a ben vedere, l’estraneità alla fede, che i giovani non hanno oggi remore a manifestare – questo è forse uno dei motivi per cui i «non credenti» appaiono quantitativamente più numerosi del passato – è addebitabile, in ultima analisi, a un clima culturale, in cui individualismo libertario, materialismo, consumismo e logica mercantile sembrano divenuti gli unici criteri ai quali ispirare la propria condotta. Le difficoltà a vivere la fede, qualche volta persino a rendere pubblica la propria appartenenza religiosa – come osserva D. Hervieu-Léger riferendosi in particolare alla situazione francese – sono molto più accentuate che in passato. Il vangelo è oggi più che mai «segno di contraddizione»; è un messaggio controcorrente, alternativo alla logica dominante, e dunque faticoso da accettare e fare proprio, anche se grandemente liberante. Accanto alle ombre non mancano tuttavia le luci. A colpire nell’inchiesta di Garelli è, a tale proposito, la persistenza nel mondo giovanile di una consistente domanda di senso e l’ammissione da parte del 67% dei giovani interpellati che «credere in Dio» è un atteggiamento plausibile, nonché il riconoscimento che il bisogno religioso ha un carattere perenne, perché costituisce una delle risposte più autorevoli alla questione del senso. E ancora più significativa è la constatazione che la fede di quanti si definiscono credenti, lungi dal dipendere da condizionamenti ambientali o da convenzioni sociali, è la risultante di una scelta responsabile, non abitudinaria, ma radicata su convinzioni profonde, che conducono sul piano esistenziale a comportamenti maggiormente coerenti.
un nuovo modello di religiosità
La crisi della fede, d’altronde – è questo un tratto che l’analisi di Garelli non manca di rilevare – non significa abbandono di ogni forma di spiritualità, che ha tuttavia carattere eminentemente individuale e che riveste connotati strettamente immanenti, non identificandosi con il rapporto con l’Altro ma con il proprio mondo interiore. Una spiritualità, dunque, di carattere tendenzialmente orizzontale, volta a conferire armonia e benessere alla persona. A questa accezione ci si riferisce nell’inchiesta quando si parla di milieu olistico, alludendo a un contatto con il sé mediante la convergenza positiva di corpo, mente e anima. Questo giustifica anche l’accostamento alla spiritualità orientale, induista e buddista in particolare, sia pure interpretate in forme occidentali spesso vaghe e imprecise, nonché la diffusione, più in generale, di esperienze alternative, per quanto in misura ancora piuttosto ridotta.
D’altra parte, anche laddove, come in molti casi, si dà una sovrapposizione tra spiritualità e religione – quest’ultima rappresentata in primo luogo dal cattolicesimo per la persistenza piuttosto diffusa di una subcultura cattolica – l’esigenza che prevale è quella di ritagliarsi una fede su misura, rispondente alle proprie esigenze, con la tendenza perciò a vivere una credenza senza appartenenza.
Questo spiega anche come i confini tra credenti e non credenti non siano così netti; religione ed ateismo non sono categorie monolitiche e fisse, e come la spiritualità costituisca una sorta di «zona intermedia» o «terra di mezzo» tra di esse. Spiega come il mondo giovanile si presenti cioè come un mondo articolato, con una ricca gamma di posizioni intermedie e con frequenti oscillazioni tra i due poli. Ma spiega soprattutto come sussista su ambedue i fronti un senso di profonda tolleranza e di rispetto di scelte diverse e una convergenza nella critica ai modelli religiosi prevalenti e alla chiesa di cui si salvano soltanto le realtà impegnate nel sociale e nell’aiuto ai poveri.
L’indagine di Garelli non si accontenta tuttavia di descrivere la situazione presente. Lascia intravedere gli orientamenti che le diverse agenzie educative – dalla famiglia alla scuola, alla parrocchia, fino alle associazioni e ai movimenti – oggi non sempre all’altezza dei bisogni veri, devono mettere in campo, se intendono fornire ai giovani strumenti adeguati per reagire alla situazione di crisi valoriale e religiosa attuale e far maturare scelte religiose dotate di autenticità e di solidità. La posta in gioco è infatti assai alta. La fede riveste ancor oggi un ruolo di prim’ordine per la promozione della persona e per la costruzione di una società più giusta e più solidale.
————————-
—————-
La Sardegna del dopo Referendum. Incombono importanti scadenze istituzionali: come affrontarle?
Verso le elezioni politiche regionali: il metodo
di Rita Cannas*
By sardegnasoprattutto/20 dicembre 2016/ Società & Politica/
Il risultato del Referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre ha decretato la vittoria incontrovertibile del No. Vittoria straordinaria in Sardegna, con un esito referendario che è andato ben oltre le più rosee aspettative: il 72% degli elettori sardi ha respinto al mittente il tentativo di riforma della costituzione che, fra i tanti effetti deleteri, avrebbe comportato una marcata riduzione dell’autonomia regionale.
Già dalle prime battute, le analisi del voto hanno ricalcato lo stesso modello di comunicazione dominante che ha imperato durante la propaganda referendaria, secondo il quale si sarebbe trattato di vittoria o di sconfitta dei partiti. L’ombelico delle analisi elettorali è stato incentrato su di loro, e se ne sono sentite di tutti i tipi, la più esilarante delle quali è stata quella della sconfitta ribaltata in vittoria.
Questo meccanismo ha mediaticamente posto in secondo piano una realtà meno rassicurante per i partiti, ovvero: che a decidere siano stati gli elettori, in piena autonomia e non telecomandati dagli apparati elettorali delle segreterie di partito, per quanto mai sino ad oggi si sia assistito a un tale massiccio bombardamento mediatico pro-governativo. Certo, il legame tra elettori e partiti resta consistente, ma è la non centralità, o la non univocità di questo legame che è emersa come elemento più significativo dal voto del 4 dicembre.
A dimostrazione di ciò si osserva l’esperienza dei tanti Comitati per il No disseminati su tutto il territorio nazionale e regionale, sorti in forme più o meno spontanee sotto l’egida di alcune organizzazioni come l’ANPI e che si sono fortemente arricchiti su base locale con la presenza di volontari di varia appartenenza politica. Il vero collante che ha tenuto insieme persone diverse per storia personale e sensibilità politica è stata la difesa della Costituzione e, nel caso sardo, la difesa dell’autonomia.
A dispetto del massiccio spiegamento di mezzi mediatici ed economici a favore della riforma, i Comitati del no sono stati capaci di arrivare agli elettori con forme più orizzontali, esperienza che ha molto da insegnare sia ai big del marketing elettorale importati per l’occasione, sia a quanti si apprestano a calcare la scena del panorama elettorale isolano.
In altre parole, lo stesso porta a porta che ha superato le forme organizzate del consenso dei grandi partiti, dovrebbe essere al centro della riflessione sugli scenari elettorali che a breve riguarderanno lo stesso governo della Sardegna. Mai come ora la modalità di coinvolgimento del cittadino elettore determinerà non solo la forma ma soprattutto la sostanza della sua partecipazione democratica. Questo hanno chiesto i Sardi con la forza di quei no.
Assodato che in Sardegna sia tempo di costruire l’alternativa ai governi di centro-destra e centro-sinistra, ci sono lezioni che sono venute dal referendum che sarebbe bene tenere a mente:
gli elettori sardi manifestano una crescente insofferenza verso i leader imposti dall’alto, selezionati all’interno di ristrette cerchie di potere. Il riconoscimento della leadership può realizzarsi solo a valle del lavoro collettivo, non gerarchico, tra soggetti diversi che operano e sono espressione di realtà territoriali diverse;
gli elettori sardi non sono più facilmente incasellabili negli schieramenti attuali. Il Referendum ha segnato un punto di non ritorno per molti di essi, specie di area del centro-sinistra, per i quali l’assalto peggiorativo alla costituzione e la presa di coscienza della necessità dell’attuazione dell’autonomia, non più ritrattabile, sono diventati fattori dirimenti nelle loro future scelte elettorali;
gli elettori sardi vogliono partecipare alla costruzione del loro destino politico: lo hanno già in parte dimostrato alle passate elezioni regionali, sostenendo la formazione politica Sardegna Possibile, che proprio sulla partecipazione imperniò la propria proposta elettorale, riportando un risultato significativo. Sardegna Possibile non ottenne rappresentanza in Consiglio regionale a seguito dell’ignobile blocco orchestrato da PDL e PD che costruirono a loro misura la legge elettorale-truffa ancora in vigore;
i partiti indipendentisti o di area autonomista, unendosi per costruire il cosiddetto quarto polo elettorale, difficilmente raggiungerebbero da soli i numeri per governare. Guardando ancora a quanto di positivo ha proposto la scorsa tornata elettorale, il successo espresso dalla terza formazione politica isolana venne non solo da elettori già schierati di area indipendentista, ma anche dai tanti che scelsero la prospettiva critica della non-dipendenza (oggi declinata in autogoverno), attratti dai contenuti innovativi della proposta e dal metodo partecipativo.
A chiusura di questo intervento, si vuol porre l’accento su un paio di considerazioni: la prima, mutuabile dal mondo scientifico, è che come la scienza progredisce per processi di accumulazione del sapere, così in politica si migliora facendo tesoro delle esperienze positive già sperimentate, al netto dei loro immancabili limiti.
Il metodo per una reale alternativa a modelli fossilizzati di governo è nella partecipazione, inclusiva, orizzontale, diffusa, predisposta da chi è capace di ascolto. Per favorire e realizzare la partecipazione è necessario, per esempio, spostare l’asse dai “dibattiti” programmati con relatori-mummia che si concedono sul finale dando il contentino a quei pochi fortunati che riescono ad esprimersi, alle forme che permettano l’incontro e lo scambio effettivo tra le persone.
Un altro tassello metodologico riguarda i luoghi: la partecipazione va favorita su tutti i territori, non solo sui centri più abitati, o su quelli che fanno eco a un qualche richiamo identitario. Mai come ora è necessaria la ricomposizione della frattura tra aree metropolitane, aree interne e isole minori, perché la Sardegna è fatta di ogni sua parte. L’alternativa si costruisce sul riconoscimento del bisogno all’ascolto e sulla stessa capacità d’ascolto.
L’auspicio è che il metodo partecipativo, la costruzione e la tessitura di relazioni orizzontali, l’emersione di leadership a valle dei processi di ascolto dei vari detentori di competenze diffuse, la condivisione delle idee, lo sforzo verso l’inclusione degli elettori sempre più emarginati da sistemi elettorali truffaldini, diventino in misura crescente patrimonio comune tra coloro che agiscono per l’autogoverno della Sardegna.
*Ricercatrice. Università di Cagliari
———————————————————————
I “Diritti Fondamentali” vengono prima del “pareggio di bilancio”
Sentenza della Corte Costituzionale: i “Diritti Fondamentali” vengono prima del “pareggio di bilancio”
La sentenza appena emessa dalla Corte Costituzionale nei confronti della Regione Abruzzo è destinata a far storia per quanto riguarda anche l’assetto della nostra Costituzione.
di Antonello Tinelli su L’Opinione pubblica.
Con la sentenza n.275/2016, in merito ad una controversia tra Regione Abruzzo e Provincia di Pescara per quanto concerne il servizio di trasporto scolastico dei disabili, la Corte ha riconosciuto che le garanzie minime per rendere effettivo il diritto allo studio e all’educazione degli alunni disabili non può essere condizionato da motivi di bilancio.
Nella fattispecie, la Regione Abruzzo aveva negato in parte il finanziamento del 50% per il servizio trasporto degli studenti disabili alla Provincia di Pescara, in quanto l’articolo 6 comma 2-bis della legge regionale n.78 del 1978, aggiunto all’art.88 comma 4 del 2004, preveda l’erogazione “nei limiti della disponibilità finanziaria determinata dalle annuali leggi di bilancio e iscritta sul pertinente capitolo di spesa”.
Nella dichiarazione di illegittimità della suddetta legge, la Consulta scrive:
11.− Non può nemmeno essere condiviso l’argomento secondo cui, ove la disposizione impugnata non contenesse il limite delle somme iscritte in bilancio, la norma violerebbe l’art. 81 Cost. per carenza di copertura finanziaria. A parte il fatto che, una volta normativamente identificato, il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivo il diritto allo studio e all’educazione degli alunni disabili non può essere finanziariamente condizionato in termini assoluti e generali, è di tutta evidenza che la pretesa violazione dell’art. 81 Cost. è frutto di una visione non corretta del concetto di equilibrio del bilancio, sia con riguardo alla Regione che alla Provincia cofinanziatrice. È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione.
La sentenza conferma ciò che da anni economisti e giuristi affermano inascoltati: la costituzionalizzazione (Governo Monti) del dogma liberista del pareggio di bilancio, e l’approvazione dei Trattati di Maastricht e Lisbona, si pongono in antitesi con i diritti fondamentali della nostra Carta costituzionale che pone l’economia al servizio dell’interesse pubblico.
Dopo la schiacciante vittoria del NO al Referendum, e alla luce della sentenza della Corte, le forze politiche che si sono battute per salvare la Costituzione dalla deforma Boschi-Renzi-Napolitano, dovrebbero iniziare una seria battaglia parlamentare al fine di abrogare l’attuale articolo 81.
Solo così, la Costituzione potrà ritornare a garantire integralmente i diritti sociali del popolo italiano.
I “Diritti Fondamentali” vengono prima del “pareggio di bilancio”
Sentenza della Corte Costituzionale: i “Diritti Fondamentali” vengono prima del “pareggio di bilancio”
La sentenza appena emessa dalla Corte Costituzionale nei confronti della Regione Abruzzo è destinata a far storia per quanto riguarda anche l’assetto della nostra Costituzione.
di Antonello Tinelli su L’Opinione pubblica.
Con la sentenza n.275/2016, in merito ad una controversia tra Regione Abruzzo e Provincia di Pescara per quanto concerne il servizio di trasporto scolastico dei disabili, la Corte ha riconosciuto che le garanzie minime per rendere effettivo il diritto allo studio e all’educazione degli alunni disabili non può essere condizionato da motivi di bilancio.
Nella fattispecie, la Regione Abruzzo aveva negato in parte il finanziamento del 50% per il servizio trasporto degli studenti disabili alla Provincia di Pescara, in quanto l’articolo 6 comma 2-bis della legge regionale n.78 del 1978, aggiunto all’art.88 comma 4 del 2004, preveda l’erogazione “nei limiti della disponibilità finanziaria determinata dalle annuali leggi di bilancio e iscritta sul pertinente capitolo di spesa”.
Nella dichiarazione di illegittimità della suddetta legge, la Consulta scrive:
11.− Non può nemmeno essere condiviso l’argomento secondo cui, ove la disposizione impugnata non contenesse il limite delle somme iscritte in bilancio, la norma violerebbe l’art. 81 Cost. per carenza di copertura finanziaria. A parte il fatto che, una volta normativamente identificato, il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivo il diritto allo studio e all’educazione degli alunni disabili non può essere finanziariamente condizionato in termini assoluti e generali, è di tutta evidenza che la pretesa violazione dell’art. 81 Cost. è frutto di una visione non corretta del concetto di equilibrio del bilancio, sia con riguardo alla Regione che alla Provincia cofinanziatrice. È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione.
La sentenza conferma ciò che da anni economisti e giuristi affermano inascoltati: la costituzionalizzazione (Governo Monti) del dogma liberista del pareggio di bilancio, e l’approvazione dei Trattati di Maastricht e Lisbona, si pongono in antitesi con i diritti fondamentali della nostra Carta costituzionale che pone l’economia al servizio dell’interesse pubblico.
Dopo la schiacciante vittoria del NO al Referendum, e alla luce della sentenza della Corte, le forze politiche che si sono battute per salvare la Costituzione dalla deforma Boschi-Renzi-Napolitano, dovrebbero iniziare una seria battaglia parlamentare al fine di abrogare l’attuale articolo 81.
Solo così, la Costituzione potrà ritornare a garantire integralmente i diritti sociali del popolo italiano.
Antonello Tinelli
Se provassimo a parlare di immigrazione e di migranti rovesciando il problema e parlando, così, di noi? Provando a rivendicare il diritto ad essere più umani o ‘di nuovo’ umani? Proviamo a rovesciare l’angolo prospettico, il punto di osservazione. Forse in fin dei conti la questione dell’immigrazione, a pensarci bene, visto da quella angolazione non esiste
In spiaggia a Pula e di immigrazione
di M.Tiziana Putzolu
By sardegnasoprattutto/ 19 dicembre 2016/ Culture/
L’estate appena trascorsa arrivo alla spiaggia de ‘Su Conventeddu’ a Pula che è un sabato mattina di fine luglio. E’ abbastanza presto. Il mare è calmo e, neppure a dirsi, bellissimo. Con la mia amica troviamo spazio in un angolo della piccola spiaggia. Niente ombrellone, solo due asciugamani stesi sulla sabbia ancora umida della rugiada della notte appena trascorsa. Piano piano iniziano ad arrivare altri bagnanti. E la spiaggia inizia a riempirsi. Forse saranno state le undici quando una famigliola cerca di trovare uno spazio proprio vicino a noi.
Puntano l’ombrellone a fianco. Posano sedie varie e borsoni intorno. Ci circondano con bambini festanti. Stendono asciugamani fino a sfiorare i miei piedi (a chi non è capitato?). Ci alziamo garbatamente e ci mettiamo sul bagnasciuga, in piedi. Sento alle mie spalle il marito che dice alla moglie forse ci siamo messi troppo vicini. E sento la moglie che risponde al marito chi se ne frega, del resto queste non sono neppure di Pula. Ci guardiamo in faccia, con la mia amica. Sorridiamo. Poi ci facciamo un lungo bagno.
Come quando quell’uomo vide la mela che cadeva dall’albero e pensò all’attrazione terrestre penso, molto, molto più modestamente, che un banale atto di maleducazione può rovesciare la prospettiva dalla quale guardare ed analizzare alcune questioni. Come la questione dell’immigrazione. Mi rendo conto infatti in quel momento di essere una migrante, a Pula. Una migrante temporanea, una migrante turistica, non una migrante economica e neppure richiedente asilo politico. Però una migrante.
Del resto sono una migrante secondo le definizioni dell’Istat, poiché non sono nata in Sardegna e quindi sono per la statistica una “migrante interna”. Sono una immigrata perché non sono cagliaritana di origine, ho vissuto nella Sardegna centrale. Chi non è di Cagliari sa quanto è difficile l’integrazione tra i cagliaritani (se esistano davvero non so ancora). Se mi guardo intorno vedo tra i miei amici e conoscenti solo migranti ed immigrati della mia fattispecie.
Con questa suggestione cerco di guardare ai dati relativi all’immigrazione in Sardegna che sto analizzando. Penso che a guardare fino in fondo, i limiti e le definizioni giuridiche, i confini territoriali sono messi lì da teorie elaborate per tentare di spiegare la complessità con argomentazioni deterministiche. Immigrati europei (anche quelli in area Schengen sono da considerarsi immigrati, secondo tali suddivisioni), ed immigrati extraeuropei (tutti gli altri).
Categorie del pensiero e non della realtà, quella che l’astronauta ci mostra dallo spazio. Una palla tonda che confina con l’infinito. Un altro e più alto dei punti di vista. Penso che il pensiero della delimitazione territoriale, la ri-costruzione ideologica del confine ci sta accompagnando lentamente verso un nuovo Medioevo. Fino alla rivendicazione di diritti di proprietà di un angolo di spiaggia per appartenenza comunale.
Viviamo con uno smartphone perennemente tra le mani a verificare ogni tre secondi se nuovi amici immaginari si sono connessi con noi da qualche parte del mondo terreno ma viviamo separati dalla sottile linea di un fiumiciattolo che per secoli divide paesi confinanti e che per secoli non si guardavano che da lontano. E si temevano. O si combattevano. La barriera, il ponte levatoio, il confine è tra noi. Sappiamolo.
Il fatto tremendamente serio, molto serio, è che questo modo di pensare è comune tra i giovanissimi. Non è colpa loro. I libri di testo dei nostri ragazzi insegnano che la Francia confina a nord a sud ad est ed ad ovest con altri stati. Che esiste l’economia della Basilicata, della Sardegna o della Liguria quando al massimo esistono le produzioni locali.
L’economia è globale, come la finanza che ridisegna il capitalismo ma chi scrive i libri di testo scolastici ci tiene a sottolineare che i confini amministrativi sono anche confini economici e politici. I bambini possono imparare l’inglese fin dalla scuola materna per poter viaggiare da grandi ma a Londra quelli che pensano di essere ancora nel Commonwealth hanno votato la Brexit pur avendo la City.
I nostri figli vengono adulti con l’idea che possono giocare con la Playstation con altri ragazzi in contemporanea in ogni parte del mondo seduti dentro un’unica stanza virtuale, ma sappiano che se vanno a Pula superano il confine della valle del Cixerri e sono considerati migranti.
Ma si da il fatto che non siamo più nel Medioevo. Oggi i nostri umani confini possiamo dialogarli con una astronauta che gira per mesi intorno alla terra e ci dimostra quanto grande è la tecnologia e quanto piccolo è il nostro pianeta. Soprattutto, a grande distanza, senza confini.
Se provassimo a parlare di immigrazione e di migranti rovesciando il problema e parlando, così, di noi? Provando a rivendicare il diritto ad essere più umani o ‘di nuovo’ umani? Proviamo a rovesciare l’angolo prospettico, il punto di osservazione. Forse in fin dei conti la questione dell’immigrazione, a pensarci bene, visto da quella angolazione non esiste.
Non esiste come questione in sé, come problema a sé stante, politico, giuridico, economico ma solo come tema del vivere umano. Da non dover necessariamente analizzare, sviscerare, comprendere nelle sue parti sezionate, nella cui scomposizione la parte più semplice si può vedere al microscopio fino al livello deterministico, oggettuale, più semplice rispetto alla grande complessità nella quale è immerso il tema. Semplicemente perché siamo tutti immigrati. O migranti. Anche in spiaggia a Pula.
_____________
Gli immigrati cosiddetti regolari in Sardegna sono 47.425, dei quali 25.808 donne e 21.617 uomini. Sono aumentati, rispetto all’anno precedente, di 2.346 unità, meno che negli anni precedenti. Il 52,6% (cioè 24.986 persone) degli immigrati proviene dall’Europa (sia come Unione europea che come Continente Europeo). Di tutta la componente europea 17.225 sono donne. Di queste 13.340 provengono dall’EU 28, delle quali 9.183 dalla Romania.
Incidono per il 2,9% sulla popolazione sarda e sono lo 0,9% di tutti gli stranieri residenti in Italia. Le quattro principali nazionalità presenti sono la Romania (13.550), il Marocco (4.390), il Senegal (4.211) e la Cina (3.208). Gli immigrati sono concentrati nella provincia di Cagliari (15.724), in quella di Olbia Tempio (11.826), in quella di Sassari (8.982), in quel di Nuoro (3.916), Oristano (2.892), Carbonia Iglesias (1.859), Medio Campidano (1.859) e Ogliastra (919).
*Per gli approfondimenti: Dossier Statistico Immigrazione 2016, IDOS.
**Lettura consigliata: Andrew Sullivan, Per tornare umani, Internazionale n. 1183, 8/15 dicembre 2016
—————————————
“Naufragium feci, bene navigavi”
“SIAMO TUTTI NAVIGANTI, E IL NAUFRAGIO CI AIUTA A CRESCERE”, DICE A POPSOPHIA REMO BODEI
Data pubblicazione: 11/07/2015
di Giovanna Renzini su POPSOPHIA
Stimolato da Umberto Curi, il noto filosofo ha ripercorso varie teorie sul tema, a partire dall’ossimoro di Erasmo da Rotterdam “Naufragium feci, bene navigavi”
PESARO – Rispetto alla navigazione, che è la filosofia, il naufragio (amoroso, individuale, sociale, ecc.) non è un passaggio negativo ma un elemento necessario, poiché solo attraversando questa esperienza, che rappresenta di fatto il cambiamento, si può davvero crescere. E’ il pensiero di molti filosofi che, a partire dall’ossimoro latino tramandato da Erasmo da Rotterdam ed interpretato da Nietzsche e Schopenhauer, “Naufragium feci, bene navigavi” (“Quando ho fatto naufragio, allora ho ben navigato”) hanno fatto arrivare fino a noi le loro teorie. Proprio su questo aspetto si è concentrata a POPSOPHIA la “Lectio Pop” di Remo Bodei, uno dei massimi filosofi italiani e organizzatore del Festival della Filosofia di Modena, incalzato da un altro grande filosofo, Umberto Curi, da sempre attento al rapporto tra filosofia e contemporaneità.
“Questa idea del naufragio – ha detto Remo Bodei – ha nel mondo antico un punto chiave, il secondo libro del De Rerum Natura di Lucrezio, secondo il quale è consolatorio osservare da terra il naufragio di altri, non per il desiderio del male altrui ma perché ci fa sentire al sicuro. Una visione fortemente contrastata da Hegel secondo il quale guardare il naufragio degli altri sulla sponda dell’egoismo vuol dire sottrarsi alla dinamica della storia, che richiede di gettarsi nelle contraddizioni del mondo”. Come sottolineato dal filosofo Umberto Curi, quella del viaggio è una delle metafore ricorrenti per descrivere l’esperienza filosofica. “La tradizione del viaggio infinito, del naufragio felice, la ritroviamo in tutta la letteratura filosofica moderna, che incoraggia l’andare nella direzione di una ricerca”.
“Il distacco da qualsiasi terraferma – ha aggiunto Bodei – è ben presente in Pascal, che diceva ‘siete imbarcati’ per evidenziare che non c’è più terraferma e che ci troviamo su orbite libere. In effetti noi siamo continuamente in viaggio, l’esperienza umana è legata al viaggio della vita, anche la terra è in continuo movimento. Siamo tutti naviganti più o meno inconsapevoli, anche se stiamo sulla terraferma”.
————————————————
È dolce, quando sul vasto mare i venti turbano le acque, assistere da terra al gran travaglio altrui, non perché sia un dolce piacere che qualcuno soffra, ma perché è dolce vedere di quali mali tu stesso sia privo. È dolce anche vedere i grandi scontri di guerra schierati nella pianura senza che tu prenda parte al pericolo. Ma nulla è più dolce che tenere saldamente gli alti spazi sereni, fortificati dalla dottrina dei sapienti, da dove tu puoi stare a guardare dall’alto gli altri, e osservarli errare qua e là e cercare smarriti la via della vita, gareggiare in qualità intellettuali, contendere in nobiltà di sangue e sfarzosi di notte e giorno, con instancabile attività, per arrivare ad una grande ricchezza e impadronirsi del potere. O misere menti degli uomini, o ciechi animi! In quali tenebre di vita e in quanti pericoli si trascorre questo poco di vita, qualunque essa sia! E come non vedere che la natura null’altro pretende per sé, se non che in quanto al corpo il dolore sia lontano, e in quanto all’anima goda di piacevoli sensazioni, priva di affanni e di timori?
Vediamo dunque che alla natura del corpo sono affatto necessarie poche cose, che tolgano il dolore, in modo che possano offrirci anche molti piaceri. Può essere talora più gradito, però la natura di per sé non lo richiede, se in casa non ci sono statue dorate di giovani che leggono con le destre fiaccole luminose, perché sia fornita la luce al notturno banchetto, e se la casa non sfavilla d’argento, né risplende d’oro, né le cetre fanno risuonare i soffitti a cassettoni e dorati, mentre tuttavia sdraiati fra amici sulla tenera erba, accanto a un ruscello, sotto i rami di un alto albero senza grandi spese ristoriamo il corpo piacevolmente, soprattutto quando il tempo sorride e la stagione cosparge di fiori le verdeggianti erbe. Né le ardenti febbri si allontanano più rapidamente dal corpo se ti agiti tra coperte ricamate e la rosa porpora che se si deve dormire con una misera coperta. Dunque poiché i tesori, la nobiltà, la gloria del regno non sono di vantaggio al nostro corpo, quanto al resto, bisogna pensare che non giovino neppure all’animo; a meno che, per caso, quando tu vedi ondeggiare le tue legioni negli spazi della pianura movendo finte battaglie rafforzate da grandi truppe ausiliarie e dal vigore della cavalleria equipaggiate di armi e parimenti animate, o quando tu vedi la flotta agitarsi febbrilmente e spiegarsi al largo, allora, sgomentate da queste cose, le paura religiose fuggono pavide dal tuo animo e i timori della morte lascino allora il petto sgombro e sciolto da affanni.
Ma se vediamo che queste cose sono ridicole e degne di scherno e che i timori degli uomini e le angosce, che non ti lasciano mai, non temono il risuonare delle armi o i dardi incalzanti, ma con audacia si aggirano in mezzo ai re e ai potenti né riveriscono il folgore che proviene dall’oro né il chiaro splendore della coperta purpurea, come dubiti che questo potere sia completamente della ragione, tanto più che tutta la vita si affanna nelle tenebre? Infatti come i fanciulli tremano e nelle cieche tenebre temono tutto, così noi, alla luce, temiamo talvolta cose che non sono per niente da temere più di quelle che i fanciulli temono nelle tenebre e si immaginano che accadranno. Pertanto questo terrore dell’animo e le sue tenebre è necessario che li rimuovano non i raggi del sole né i luminosi dardi del sole, ma l’osservazione razionale della natura.
————————-
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.
Suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
O miseras hominum mentes, o pectora caeca!
Qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
Ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint.
Gratius inter dum, neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
Nec calidae citius decedunt corpore febres,
textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
Quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,
ornatas
[fervere cum videas classem lateque vagari]
his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.
——————
Lucrezio: il proemio del libro II del “De rerum natura” ( VV.1-61)
————————–
Mostra di Licia Lisei
È dolce, quando sul vasto mare i venti turbano le acque, assistere da terra al gran travaglio altrui, non perché sia un dolce piacere che qualcuno soffra, ma perché è dolce vedere di quali mali tu stesso sia privo.
“Naufragium feci, bene navigavi”
“SIAMO TUTTI NAVIGANTI, E IL NAUFRAGIO CI AIUTA A CRESCERE”, DICE A POPSOPHIA REMO BODEI
Data pubblicazione: 11/07/2015
di Giovanna Renzini su POPSOPHIA
Stimolato da Umberto Curi, il noto filosofo ha ripercorso varie teorie sul tema, a partire dall’ossimoro di Erasmo da Rotterdam “Naufragium feci, bene navigavi”
PESARO – Rispetto alla navigazione, che è la filosofia, il naufragio (amoroso, individuale, sociale, ecc.) non è un passaggio negativo ma un elemento necessario, poiché solo attraversando questa esperienza, che rappresenta di fatto il cambiamento, si può davvero crescere. E’ il pensiero di molti filosofi che, a partire dall’ossimoro latino tramandato da Erasmo da Rotterdam ed interpretato da Nietzsche e Schopenhauer, “Naufragium feci, bene navigavi” (“Quando ho fatto naufragio, allora ho ben navigato”) hanno fatto arrivare fino a noi le loro teorie. Proprio su questo aspetto si è concentrata a POPSOPHIA la “Lectio Pop” di Remo Bodei, uno dei massimi filosofi italiani e organizzatore del Festival della Filosofia di Modena, incalzato da un altro grande filosofo, Umberto Curi, da sempre attento al rapporto tra filosofia e contemporaneità.
“Questa idea del naufragio – ha detto Remo Bodei – ha nel mondo antico un punto chiave, il secondo libro del De Rerum Natura di Lucrezio, secondo il quale è consolatorio osservare da terra il naufragio di altri, non per il desiderio del male altrui ma perché ci fa sentire al sicuro. Una visione fortemente contrastata da Hegel secondo il quale guardare il naufragio degli altri sulla sponda dell’egoismo vuol dire sottrarsi alla dinamica della storia, che richiede di gettarsi nelle contraddizioni del mondo”. Come sottolineato dal filosofo Umberto Curi, quella del viaggio è una delle metafore ricorrenti per descrivere l’esperienza filosofica. “La tradizione del viaggio infinito, del naufragio felice, la ritroviamo in tutta la letteratura filosofica moderna, che incoraggia l’andare nella direzione di una ricerca”.
“Il distacco da qualsiasi terraferma – ha aggiunto Bodei – è ben presente in Pascal, che diceva ‘siete imbarcati’ per evidenziare che non c’è più terraferma e che ci troviamo su orbite libere. In effetti noi siamo continuamente in viaggio, l’esperienza umana è legata al viaggio della vita, anche la terra è in continuo movimento. Siamo tutti naviganti più o meno inconsapevoli, anche se stiamo sulla terraferma”.
————————————————
È dolce, quando sul vasto mare i venti turbano le acque, assistere da terra al gran travaglio altrui, non perché sia un dolce piacere che qualcuno soffra, ma perché è dolce vedere di quali mali tu stesso sia privo. È dolce anche vedere i grandi scontri di guerra schierati nella pianura senza che tu prenda parte al pericolo. Ma nulla è più dolce che tenere saldamente gli alti spazi sereni, fortificati dalla dottrina dei sapienti, da dove tu puoi stare a guardare dall’alto gli altri, e osservarli errare qua e là e cercare smarriti la via della vita, gareggiare in qualità intellettuali, contendere in nobiltà di sangue e sfarzosi di notte e giorno, con instancabile attività, per arrivare ad una grande ricchezza e impadronirsi del potere. O misere menti degli uomini, o ciechi animi! In quali tenebre di vita e in quanti pericoli si trascorre questo poco di vita, qualunque essa sia! E come non vedere che la natura null’altro pretende per sé, se non che in quanto al corpo il dolore sia lontano, e in quanto all’anima goda di piacevoli sensazioni, priva di affanni e di timori?
Vediamo dunque che alla natura del corpo sono affatto necessarie poche cose, che tolgano il dolore, in modo che possano offrirci anche molti piaceri. Può essere talora più gradito, però la natura di per sé non lo richiede, se in casa non ci sono statue dorate di giovani che leggono con le destre fiaccole luminose, perché sia fornita la luce al notturno banchetto, e se la casa non sfavilla d’argento, né risplende d’oro, né le cetre fanno risuonare i soffitti a cassettoni e dorati, mentre tuttavia sdraiati fra amici sulla tenera erba, accanto a un ruscello, sotto i rami di un alto albero senza grandi spese ristoriamo il corpo piacevolmente, soprattutto quando il tempo sorride e la stagione cosparge di fiori le verdeggianti erbe. Né le ardenti febbri si allontanano più rapidamente dal corpo se ti agiti tra coperte ricamate e la rosa porpora che se si deve dormire con una misera coperta. Dunque poiché i tesori, la nobiltà, la gloria del regno non sono di vantaggio al nostro corpo, quanto al resto, bisogna pensare che non giovino neppure all’animo; a meno che, per caso, quando tu vedi ondeggiare le tue legioni negli spazi della pianura movendo finte battaglie rafforzate da grandi truppe ausiliarie e dal vigore della cavalleria equipaggiate di armi e parimenti animate, o quando tu vedi la flotta agitarsi febbrilmente e spiegarsi al largo, allora, sgomentate da queste cose, le paura religiose fuggono pavide dal tuo animo e i timori della morte lascino allora il petto sgombro e sciolto da affanni.
Ma se vediamo che queste cose sono ridicole e degne di scherno e che i timori degli uomini e le angosce, che non ti lasciano mai, non temono il risuonare delle armi o i dardi incalzanti, ma con audacia si aggirano in mezzo ai re e ai potenti né riveriscono il folgore che proviene dall’oro né il chiaro splendore della coperta purpurea, come dubiti che questo potere sia completamente della ragione, tanto più che tutta la vita si affanna nelle tenebre? Infatti come i fanciulli tremano e nelle cieche tenebre temono tutto, così noi, alla luce, temiamo talvolta cose che non sono per niente da temere più di quelle che i fanciulli temono nelle tenebre e si immaginano che accadranno. Pertanto questo terrore dell’animo e le sue tenebre è necessario che li rimuovano non i raggi del sole né i luminosi dardi del sole, ma l’osservazione razionale della natura.
————————-
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.
Suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
O miseras hominum mentes, o pectora caeca!
Qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
Ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint.
Gratius inter dum, neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
Nec calidae citius decedunt corpore febres,
textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
Quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,
ornatas
[fervere cum videas classem lateque vagari]
his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.
——————
Lucrezio: il proemio del libro II del “De rerum natura” ( VV.1-61)
————————–
Mostra di Licia Lisei
17 dicembre 2016. Papa Francesco compie oggi 80 anni. Gli auguri di Aladinews: a chentannos e prusu!
Papa Francesco ha raggiunto gli ottant’anni. Tra poco cade il quarto anniversario della sua elezione… Marco Politi su Il Fatto quotidiano.
————————————————
È dolce, quando sul vasto mare i venti turbano le acque, assistere da terra al gran travaglio altrui, non perché sia un dolce piacere che qualcuno soffra, ma perché è dolce vedere di quali mali tu stesso sia privo. È dolce anche vedere i grandi scontri di guerra schierati nella pianura senza che tu prenda parte al pericolo. Ma nulla è più dolce che tenere saldamente gli alti spazi sereni, fortificati dalla dottrina dei sapienti, da dove tu puoi stare a guardare dall’alto gli altri, e osservarli errare qua e là e cercare smarriti la via della vita, gareggiare in qualità intellettuali, contendere in nobiltà di sangue e sfarzosi di notte e giorno, con instancabile attività, per arrivare ad una grande ricchezza e impadronirsi del potere. O misere menti degli uomini, o ciechi animi! In quali tenebre di vita e in quanti pericoli si trascorre questo poco di vita, qualunque essa sia! E come non vedere che la natura null’altro pretende per sé, se non che in quanto al corpo il dolore sia lontano, e in quanto all’anima goda di piacevoli sensazioni, priva di affanni e di timori?
Vediamo dunque che alla natura del corpo sono affatto necessarie poche cose, che tolgano il dolore, in modo che possano offrirci anche molti piaceri. Può essere talora più gradito, però la natura di per sé non lo richiede, se in casa non ci sono statue dorate di giovani che leggono con le destre fiaccole luminose, perché sia fornita la luce al notturno banchetto, e se la casa non sfavilla d’argento, né risplende d’oro, né le cetre fanno risuonare i soffitti a cassettoni e dorati, mentre tuttavia sdraiati fra amici sulla tenera erba, accanto a un ruscello, sotto i rami di un alto albero senza grandi spese ristoriamo il corpo piacevolmente, soprattutto quando il tempo sorride e la stagione cosparge di fiori le verdeggianti erbe. Né le ardenti febbri si allontanano più rapidamente dal corpo se ti agiti tra coperte ricamate e la rosa porpora che se si deve dormire con una misera coperta. Dunque poiché i tesori, la nobiltà, la gloria del regno non sono di vantaggio al nostro corpo, quanto al resto, bisogna pensare che non giovino neppure all’animo; a meno che, per caso, quando tu vedi ondeggiare le tue legioni negli spazi della pianura movendo finte battaglie rafforzate da grandi truppe ausiliarie e dal vigore della cavalleria equipaggiate di armi e parimenti animate, o quando tu vedi la flotta agitarsi febbrilmente e spiegarsi al largo, allora, sgomentate da queste cose, le paura religiose fuggono pavide dal tuo animo e i timori della morte lascino allora il petto sgombro e sciolto da affanni.
Ma se vediamo che queste cose sono ridicole e degne di scherno e che i timori degli uomini e le angosce, che non ti lasciano mai, non temono il risuonare delle armi o i dardi incalzanti, ma con audacia si aggirano in mezzo ai re e ai potenti né riveriscono il folgore che proviene dall’oro né il chiaro splendore della coperta purpurea, come dubiti che questo potere sia completamente della ragione, tanto più che tutta la vita si affanna nelle tenebre? Infatti come i fanciulli tremano e nelle cieche tenebre temono tutto, così noi, alla luce, temiamo talvolta cose che non sono per niente da temere più di quelle che i fanciulli temono nelle tenebre e si immaginano che accadranno. Pertanto questo terrore dell’animo e le sue tenebre è necessario che li rimuovano non i raggi del sole né i luminosi dardi del sole, ma l’osservazione razionale della natura.
————————-
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.
Suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
O miseras hominum mentes, o pectora caeca!
Qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
Ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint.
Gratius inter dum, neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
Nec calidae citius decedunt corpore febres,
textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
Quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,
ornatas
[fervere cum videas classem lateque vagari]
his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.
——————
Lucrezio: il proemio del libro II del “De rerum natura” ( VV.1-61)
————————–
Mostra di Licia Lisei
Turbantibus aequora ventis
È dolce, quando sul vasto mare i venti turbano le acque, assistere da terra al gran travaglio altrui, non perché sia un dolce piacere che qualcuno soffra, ma perché è dolce vedere di quali mali tu stesso sia privo. È dolce anche vedere i grandi scontri di guerra schierati nella pianura senza che tu prenda parte al pericolo. Ma nulla è più dolce che tenere saldamente gli alti spazi sereni, fortificati dalla dottrina dei sapienti, da dove tu puoi stare a guardare dall’alto gli altri, e osservarli errare qua e là e cercare smarriti la via della vita, gareggiare in qualità intellettuali, contendere in nobiltà di sangue e sfarzosi di notte e giorno, con instancabile attività, per arrivare ad una grande ricchezza e impadronirsi del potere. O misere menti degli uomini, o ciechi animi! In quali tenebre di vita e in quanti pericoli si trascorre questo poco di vita, qualunque essa sia! E come non vedere che la natura null’altro pretende per sé, se non che in quanto al corpo il dolore sia lontano, e in quanto all’anima goda di piacevoli sensazioni, priva di affanni e di timori?
Vediamo dunque che alla natura del corpo sono affatto necessarie poche cose, che tolgano il dolore, in modo che possano offrirci anche molti piaceri. Può essere talora più gradito, però la natura di per sé non lo richiede, se in casa non ci sono statue dorate di giovani che leggono con le destre fiaccole luminose, perché sia fornita la luce al notturno banchetto, e se la casa non sfavilla d’argento, né risplende d’oro, né le cetre fanno risuonare i soffitti a cassettoni e dorati, mentre tuttavia sdraiati fra amici sulla tenera erba, accanto a un ruscello, sotto i rami di un alto albero senza grandi spese ristoriamo il corpo piacevolmente, soprattutto quando il tempo sorride e la stagione cosparge di fiori le verdeggianti erbe. Né le ardenti febbri si allontanano più rapidamente dal corpo se ti agiti tra coperte ricamate e la rosa porpora che se si deve dormire con una misera coperta. Dunque poiché i tesori, la nobiltà, la gloria del regno non sono di vantaggio al nostro corpo, quanto al resto, bisogna pensare che non giovino neppure all’animo; a meno che, per caso, quando tu vedi ondeggiare le tue legioni negli spazi della pianura movendo finte battaglie rafforzate da grandi truppe ausiliarie e dal vigore della cavalleria equipaggiate di armi e parimenti animate, o quando tu vedi la flotta agitarsi febbrilmente e spiegarsi al largo, allora, sgomentate da queste cose, le paura religiose fuggono pavide dal tuo animo e i timori della morte lascino allora il petto sgombro e sciolto da affanni.
Ma se vediamo che queste cose sono ridicole e degne di scherno e che i timori degli uomini e le angosce, che non ti lasciano mai, non temono il risuonare delle armi o i dardi incalzanti, ma con audacia si aggirano in mezzo ai re e ai potenti né riveriscono il folgore che proviene dall’oro né il chiaro splendore della coperta purpurea, come dubiti che questo potere sia completamente della ragione, tanto più che tutta la vita si affanna nelle tenebre? Infatti come i fanciulli tremano e nelle cieche tenebre temono tutto, così noi, alla luce, temiamo talvolta cose che non sono per niente da temere più di quelle che i fanciulli temono nelle tenebre e si immaginano che accadranno. Pertanto questo terrore dell’animo e le sue tenebre è necessario che li rimuovano non i raggi del sole né i luminosi dardi del sole, ma l’osservazione razionale della natura.
————————-
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.
Suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
O miseras hominum mentes, o pectora caeca!
Qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
Ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint.
Gratius inter dum, neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
Nec calidae citius decedunt corpore febres,
textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
Quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,
ornatas
[fervere cum videas classem lateque vagari]
his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.
——————
Lucrezio: il proemio del libro II del “De rerum natura” ( VV.1-61)
————————–
Mostra di Licia Lisei
Un paese sfiduciato. E i giovani sempre meno protagonisti. Quel che va male ma troviamo anche segnali positivi
RAPPORTO CENSIS
A chi, a cosa gli italiani danno fiducia
di Fiorella Farinelli, su Rocca 1/2017
E’ nell’ultima pagina, la 546esima del 50° Rapporto Censis, che si spiega quel suo continuo aggirarsi attorno al tema delle «giunture». Le giunture che si sono logorate e smarrite, le giunture che bisogna ricostruire contro i precipizi inquietanti di un populismo distruttivo. A chi, a cosa gli italiani di oggi danno più fiducia? In testa alla classifica ci sono due soggetti molto diversi per funzioni e gestione, e però interpreti entrambi di interessi/valori collettivi, al primo posto le forze dell’ordine col 48,7% di fiducia, al secondo le associazioni di volontariato col 42,5%. Poi, a grande distanza, il 25,1% dei più giovani che credono nelle imprese agricole, segnale di un rinnovato interesse alla terra come nuova opportunità di impiego o di iniziativa imprenditoriale. Seguono un modesto 16,7% per la Chiesa, assai al di sotto del prestigio etico e spirituale di papa Bergoglio (e dimezzato inoltre all’8,8% tra i più giovani), e un ancora più modesto 12,1% per le grandi imprese/grandi marchi che, contrariamente alla vulgata ufficiale, la dice tutta sulle delusioni di tanti rispetto al ruolo giocato per lo sviluppo e per l’occupazione. Più in basso, con una fiducia che scivola al 9,1%, ci sono le istituzioni locali, intese come Comuni (e chissà fin dove si scenderebbe se la si fosse verificata anche per le Regioni). Ancora peggio va per i sindacati, ridotti dai fasti di un tempo a un misero 6,6% e tuttavia in grande vantaggio rispetto ai partiti politici. Ma ciò che colpisce di più è che agli ultimi due posti si trovino non solo le banche (1,5%) che dal 2007 hanno in verità fatto di tutto per meritarlo, ma anche la politica, che non le supera se non per un impalpabile decimo di punto (1,6%).
distanza tra società e poteri
Eccole, dunque, le giunture che non ci sono. Il grande scollamento tra cittadini e tutto ciò che è politica, istituzioni, poteri. Lo spazio desertificato in cui scorrazza indisturbato il vento di un populismo che mina alle radici la democrazia rappresentativa e, prima ancora, la coesione sociale. Ma di populismi in verità sembrano essercene più di uno perché secondo il Censis anche il potere, per conquistare consenso, tende a rispecchiarsi nella parte di società che segue la pancia più che la testa. Il caso limite è quello di Trump negli Usa ma anche in Italia, osserva Giuseppe De Rita che del Censis è l’eterno ispiratore, non sembra esserci volontà o capacità di una politica diversa. Col rischio che «alla fine vada in scena un derby tra populisti che finisce per forza con la vittoria di un populista».
Ma com’è successo che tra società e poteri economici e politici si sia prodotta una tale distanza? Che in un paese connotato da decenni di vitale dialettica democratica non ci siano quasi più istituzioni e organizzazioni che godano di una fiducia sufficiente ad essere ritenuti interlocutori credibili da parte dei cittadini interessati a far pesare interessi non solo particolaristici? E da dove viene la crisi profonda di tutti o quasi i corpi intermedi e di tutte le rappresentanze? Ci sono, certo, gli effetti di una lunga stagione di rifiuto, da parte del potere, di ogni «intermediazione», alla ricerca di un rapporto diretto – più semplice, più efficace, e soprattutto foriero di consensi non spartibili con altri attori – con i cittadini. E poi il risultato di istituzioni da un lato svuotate del loro ruolo di intermediazione con la società da una politica che le ha asservite o le ha rese povere e quindi impotenti, dall’altro travolte per loro colpa dalla corruzione, da perverse porosità alle pressioni e agli interessi di pochi, da mix indigeribili tra inefficienze e privilegi.
un corpo sociale attivo e reattivo
Ma c’è anche un’altra narrazione, nel cinquantesimo Rapporto Censis. Che permette di riproporre, insieme alle inquietudini, anche un filo di ottimismo. Come il Censis ha del resto sempre fatto, nelle sue annuali analisi tese ad offrire al Paese una sorta di «autocoscienza collettiva».
La distanza tra società e poteri nasce anche dal fatto che il «corpo sociale» sareb- be stato capace, pur all’interno di una crisi stremante, di reagire in modo molecolare alle difficoltà, di inventare rimedi alla disoccupazione, di far leva sulle proprie risorse per trovare altri redditi, di realizzare forme inedite di sharing economy utilizzando anche i vantaggi della disintermediazione offerti dalle nuove tecnologie. Le case e i terreni che smettono di essere beni rifugio per diventare struttu- re ricettive extralberghiere, bad and bre- akfast, stanze in affitto, agriturismi. I bassi salari e le basse pensioni che vengono integrate a via di lavori e lavoretti tra il chiaro e il sommerso. La disoccupazione che viene contrastata utilizzando le opportunità del territorio e i supporti delle reti di prossimità. Le spese che vengono messe sotto controllo anche con ricicli, riusi, e-commerce, economia solidale. Le famiglie che rimediano all’impoverimento del welfare con nuovi comportamenti e nuove solidarietà. Il risparmio – e perfino l’anticipo delle eredità – che risolvono problemi di figli e nipoti. Un corpo sociale così attivo e reattivo, così capace di continuare per la sua strada nonostante tutto, così adattivo e creativo, è orgoglioso della sua tenuta e proprio per questo ha maturato una sempre maggiore distanza da istituzioni, partiti politici, sindacati, istituti di credito, sistemi di welfare incapaci di sostenerlo e di supportarlo. Oltre che, s’intende, di cambiare la situazione.
il sommerso di oggi
De Rita, in verità, ammette che l’informale, il flessibile, il sommerso oggi non funzionano più come negli anni Settanta, quando dettero luogo a nuove forme di sviluppo industriale ed imprenditoriale delocalizzato. Il sommerso di oggi è piut- tosto una forma di difesa, un fenomeno più statico che evolutivo, e senza «sistemici orientamenti di sviluppo». Basti pensare all’accumulo, dal 2007 a oggi, di una massa di denaro liquido pari a 114,3 miliardi di Euro che resta nelle cassette di sicurezza senza venire utilizzato in investimenti di lungo respiro. Senza produrre, quindi, nuova ricchezza, e tantomeno nuovo sviluppo. Un paese rentier che non investendo non costruisce futuro? Tutto ciò consente però di restare a galla, e sarebbe proprio la percezione di farcela nonostante tutto ad alimentare il diffuso di- sprezzo per una politica che invece guarda solo a se stessa, e che viene ritenuta incapace di strategie di successo. Perché condizionata dai vincoli europei, perché senza possibilità di incidere sulla globa- lizzazione economica e sull’immigrazione globale, perché senza coraggio e senza idee. Una casta, insomma, si tratti di politici, manager pubblici, grandi imprese, banche.
lavoro e welfare
C’è del vero, in questa narrazione tinta di ottimismo delle capacità del corpo sociale italiano di «ruminare» anche le peggiori difficoltà, metabolizzando criticità e novità e inventandosi modi nuovi di essere anche nelle peggiori emergenze, dai terremoti alle migrazioni. E c’è del vero anche nella segnalazione dei successi che pure continuano ad esserci, nell’export, nel manifatturiero, nella filiera agricolo- alimentare e in quella del lusso, nel turismo, in un made in Italy attrattivo in tan- te parti del mondo. E tuttavia è proprio la descrizione di tutto un insieme di fe- nomeni, soprattutto nei capitoli dedicati al lavoro e al welfare, a sbattere sul tavolo la crudezza di ciò che avviene e l’impossibilità, al momento, di uscirne per la porta principale. La disoccupazione è diminuita, tra il 2014 e il 2015 c’è stato il recupero di 186.000 occupati, gli incentivi e le detrazioni fiscali del Jobs Act hanno «fatto fibrillare il mercato del lavoro». Ma non si tratta di nuovo sviluppo, e neppure di incremento della ricchezza collettiva. Sono per lo più lavori di bassa produttività, di modesta professionalità, di breve durata, lo dicono i 277 milioni di contratti di lavoro stipulati tra il 2008 e il 2015 (pari a 83 contratti medi pro capite, tanti di pochi mesi e perfino di pochi giorni) e i 70 milioni di nuovi voucher emessi nei primi sei mesi del 2016. Ad essere particolarmente penalizzate, in questo quadro di mancato sviluppo, sono le figure professionali di livello medio-alto, i quadri, i tecnici, gli impiegati che non trovano lavoro nell’industria e nei servizi del privato e a cui è stata chiusa, causa spending review e innalzamento dell’età di pensionamento, la porta di accesso al settore pubblico. Con una sofferenza diffusa, quindi, oltre che dei giovani diplomati e laureati, anche di una parte importante del ceto medio che dall’impoverimento dei suoi figli rispetto ai coetanei di venti e trent’anni fa trae un’insicurezza profonda, foriera di comportamenti adattivi o conservativi. Il 61,4% è convinto che il proprio reddito non crescerà nei prossimi anni, il 57% è certo che figli e nipoti non vivranno meglio di loro, tutti temono che senza un nuovo sviluppo l’area delle professioni e del lavoro esperto subirà senza possibilità di recupero gli effetti di spiazzamento delle tecnologie digitali che fagocitano intere procedure, meccanismi di controllo e processi decisionali.
un paese economicamente fermo
Un paese che non fa figli. Un paese che non prepara il suo futuro. Un paese che penalizza i millennials, nati tra gli ultimi anni del secolo passato e i primi del nuovo, che hanno un reddito inferiore del 15,1% rispetto alla media dei cittadini, si sposano poco e mettono al mondo pochi figli, passano gli anni delle migliori energie nell’attesa di cambiamenti che non si vedono. La loro insicurezza si moltiplica in quella dei genitori. All’insicurezza diffusa contribuisce del resto anche l’incessante indebolirsi delle tutele dai rischi, assicurate un tempo dal welfare. Esemplare il caso della sanità. Sono 11 milioni gli italiani che nel 2016 hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie di vario tipo, odontoiatriche, specialistiche, diagnostiche. Il rientro dal disavanzo della spesa sanitaria tra il 2009 e il 2014 (da 3,5 miliardi a 275 milioni di euro) è stato pagato dagli utenti, con un incremento della spesa privata del 34,8%, pari ormai al 24% dell’intera spesa sanitaria. Mentre, nello stesso periodo, sono aumentate del 74,4% anche le spese di compartecipazione, cioè dei ticket sanitari e farmaceutici, e sono diminuiti i posti letto, dagli 11,7 milioni del 2009 ai 9,5 del 2014.
Dati noti, e dinamiche note. Che il Censis richiama per spiegare perché il nostro Paese si è seduto, perché non investe, perché accumula risparmio solo al fine di difendersi dall’insicurezza e di far galleggiare i propri figli. Un richiamo in puro spirito keynesiano al fatto che parlare di welfare non è parlare solo di assistenza e di solidarietà ma anche di sviluppo. Già, ma qual è la via maestra per uscirne? Su quali priorità, con quali strategie si dovrebbero ricostruire le giunture andate perdute? E dove sono gli attori politici capaci di farlo?
——
—————————————————————————-
Aumentano le diseguaglianze intergenerazionali
«La ripartenza? Solo per pochi. Troppe disuguaglianze e Sud al palo»
Intervista. L’ex ministro e inventore del Bes Enrico Giovannini: il benessere italiano è ancora inferirore ai livelli pre-crisi
Angelo Mastrandrea su il manifesto online EDIZIONE DEL 15.12.2016
«L’Italia sta ripartendo? Sì, se ci si basa solo sugli indicatori economici. Ma il benessere italiano è ancora lontano dai livelli del 2009, prima della crisi». Ex presidente dell’Istat e ministro del Lavoro nel governo guidato da Enrico Letta, Enrico Giovannini è l’inventore del Bes, un indice unico al mondo che misura il grado di benessere dei cittadini e non solo la ricchezza complessiva. Complementare al Pil, più che sostitutivo, ma fondamentale per comprendere più a fondo la società italiana, anche se «alcuni indicatori andrebbero resi più tempestivi, come già accade per il Pil», sostiene. «Fin da quando lavoravo all’Ocse, mi sono battuto contro la cultura del numero unico sulla quale si basa il Pil», dice. Invece, «bisogna accettare la complessità», dunque la possibilità che «alcuni parametri migliorino e altri no» o che il benessere possa essere distribuito a macchia di leopardo, perfino all’interno della stessa città. Come portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis), Giovannini è pure soddisfatto del fatto che l’Istat per la prima volta abbia adottato degli indicatori di sviluppo sostenibile, ascoltando i suggerimenti delle Nazioni Unite, «anche se avrebbero potuti essere noti prima perché fossero utilizzati per la legge di bilancio appena approvata».
Insomma, professor Giovannini, il Paese sta ripartendo e molti cittadini non se ne sono accorti?
Se ci si basa sui normali indici economici, questi dicono che c’è una ripresa, ma è contenuta e non compensa affatto gli anni della crisi. Se andiamo a guardare bene, notiamo che siamo ancora ben al di sotto dei valori del 2009. Le piccole variazioni che ci sono state non bastano a recuperare il terreno perduto. A questo va aggiunto l’aumento delle disuguaglianze, che sono fortissime.
Che tipo di disuguaglianze?
Soprattutto quelle intergenerazionali, tra gruppi sociali e territoriali. Un piccolo aumento dell’occupazione non basta a certo a compensare il divario.
Vuol dire che i giovani stanno decisamente peggio dei loro genitori e nonni e il Sud peggio del Nord?
Sì per quanto riguarda il primo punto, non necessariamente per il secondo. Ci sono aree del Nord Italia che non stanno messe meglio del Mezzogiorno, ad esempio alcune periferie di grandi città.
È il tema che si pone all’attenzione della politica pure nel resto dell’Europa e sta mettendo in crisi le élite continentali, a vantaggio dei populismi.
Certo. Se leggiamo il rapporto dell’Istat sulla soddisfazione di vita delle persone, pubblicato di recente, notiamo che esiste un forte disagio in molte città a causa del peggioramento dei servizi di trasporto. In questo caso è la qualità della vita a peggiorare, perché tutti odiano il tempo trascorso su bus, treni locali, tram e metropolitane.
Una delle poche novità, forse l’unica, del neonato governo Gentiloni è il ritorno di un ministero che dovrà occuparsi del Mezzogiorno. Senza voler scomodare la vecchia «questione meridionale», la considera una scelta che va nella giusta direzione, ossia di una riduzione del divario tra il Nord e il Sud dell’Italia?
È un segnale di attenzione, soprattutto se si pensa all’attuazione della programmazione dei nuovi fondi strutturali europei 2014-2021. Ora si tratta di realizzare il processo che abbiamo cominciato con il governo Letta e una regia centrale può spingere perché vengano utilizzati, anche se poi il compito spetta soprattutto alle regioni. Spendere questi soldi è un’assoluta necessità, perché solo in questo modo si può creare una massa critica che non si riuscirebbe a realizzare a causa dei vincoli di bilancio. Se non lo si fa, non si può nemmeno immaginare quel salto di qualità di cui abbiamo bisogno.
In ogni modo, il Sud rimane fanalino di coda in numerosi parametri.
Tutti i dati contenuti nel rapporto mostrano come il divario con il resto dell’Italia sia inaccettabile. Faccio un solo esempio: gli asili nido, che sono un elemento cruciale per la crescita delle disuguaglianze tra donne e uomini. Anche nel resto d’Europa ci sono aree che sono indietro e che stanno recuperando, penso alla Polonia. Se in Italia non riusciamo a far crescere il nostro meridione non di qualche zero virgola ma di diversi punti percentuali, non risolveremo il problema e l’intero paese non beneficerà neppure dell’effetto di trascinamento di questa crescita.
Il dossier sul Benessere equo e sostenibile dipinge un quadro non univoco. Non tutti i dati sono terribili. Come va interpretato, secondo lei?
La realtà non può essere sintetizzata in un singolo numero: lei la guiderebbe un’automobile che le indica solo la velocità e poi magari la lascia senza benzina? Quello del numero unico è un riflesso condizionato della cultura del Pil, contro la quale mi batto da tempo. Bisogna accettare la complessità e rendersi conto che alcune condizioni migliorano e altre no. Il quadro che emerge non è però contraddittorio: nonostante alcuni segnali positivi, è evidente che complessivamente la situazione del benessere è lontana dai livelli pre-crisi. Considerando la crescita delle disuguaglianze, i miglioramenti non sono percepibili allo stesso modo da tutta la popolazione.
————
Enrico Giovannini
—————————————————
Il Belpaese, società dell’incertezza permanente
Rapporto Bes/Istat. Dal quarto rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat emerge un paese in cui si parla di “benessere soggettivo”. Resta da capire come vivere i prossimi anni in uno dei paesi più diseguali d’Europa
di Roberto Ciccarelli, su il manifesto EDIZIONE DEL 15.12.2016
Dal quarto rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat emerge un paese ambivalente dove cresce il «benessere soggettivo» e l’incertezza per il futuro. Più che il timore di un peggioramento, cresce la quota di chi ritiene di vivere in una società dell’incertezza rispetto a quanto accadrà domani.
UN PAESE DIVISO I 130 indicatori del rapporto fotografano le diseguaglianze territoriali tra Centro-Nord e Sud. Nell’ultimo anno al Nord e al Centro è stato registrato un miglioramento nella gestione dell’ambiente, nella salute dei cittadini e nell’istruzione, mentre negli altri «domini» (sono dodici in tutto), come la «qualità dei servizi», il benessere economico o la sicurezza, si sta tornando ai livelli del 2010, l’ultimo anno di relativa stabilità prima che la crisi iniziasse a mordere davvero. Fatta eccezione per la qualità del lavoro, non a caso. Nel Mezzogiorno, invece, il 2010 è un anno lontano. Pesano condizioni economiche compromesse, peggiora la qualità del lavoro, insieme a un altro criterio dalla forte valenza simbolica: la «soddisfazione per la vita».
PARTECIPAZIONE La sfiducia rispetto ai partiti e alle istituzioni è alta, anche se quest’anno l’Istat sostiene di avere «avvertito» un’inversione di tendenza rispetto al Parlamento, al sistema giudiziario o alle istituzioni locali. «Ma il clima resta negativo», precisa. La partecipazione politica e civica è diminuita (dal 66,4% al 63,1%) nel 2015. In questo caso non esiste una differenza tra Nord e Sud: l’abbandono è diffuso, senza distinzioni territoriali. Interessa uomini e donne di tutte le fasce d’età e si fa sentire in particolare tra i 35 e i 59 anni.
Resta ancora stabile la quota delle persone che sostengono di svolgere attività sociali e partecipano a reti informali: l’81,7% degli interpellati conta su una rete potenziale di aiuto, il 14,8% ha finanziato associazioni, il 10,7% svolge attività di volontariato. Dal 2013, anno elettorale che ha segnato un’inversione di tendenza della presenza femminile negli organi legislativi ed esecutivi, è stato registrato un miglioramento della partecipazione delle donne alla vita istituzionale. Oggi la loro rappresentanza nel Parlamento europeo tocca il 37%, nel 2009 era il 35%. A livello nazionale supera la quota del 30%, un aumento di dieci punti dal 2009.
GIOVANI NEET Il peso delle diseguaglianze si fa sentire nell’accesso all’istruzione, al mercato del lavoro e all’economia della conoscenza. Il divario territoriale tra Nord e Sud è tradizionalmente stabile. Il tasso di abbandono scolastico è in diminuzione a livello nazionale: 14,7% nel 2015, ben al di sopra della media Ue (11%). La situazione assume tutta la sua gravità vista dai territori. L’abbandono si è attestato all’11,6% nel Centro-Nord e al 19,2% nel Mezzogiorno, dove la quota dei Neet – i ragazzi tra i 15 e i 24 anni che non studiano né lavorano – è al 35,3%. Quasi doppia rispetto al Nord (18,4%).
Con la trasformazione dell’università nell’esamificio del «3+2» e l’enfasi sulla professionalizzazione dell’istruzione secondaria, il nostro paese è riuscito a ridurre solo leggermente il basso tasso di istruzione diffuso. Tra il 2004 e il 2015 è cresciuta la quota di persone tra i 25 e i 64 anni con un diploma superiore (al 59,9%, +11%) e quella tra i 30 e i 34 anni con una laurea (25,3%, +10%).
DIPLOMATI E LAUREATI Rispetto alle medie europee, resta l’abisso. La quota di 25-64enni con almeno il diploma è di oltre 16 punti inferiore alle media europea, così come il tasso d’istruzione terziaria dei giovani 30-34enni è inferiore di oltre 13 punti e ancora molto lontano dall’obiettivo nazionale previsto da Europa 2020 (25-26%). È la prova del fallimento della ventennale strategia neoliberale che ha inteso aumentare il numero dei laureati. Oggi assistiamo a un fenomeno imprevisto per i «riformatori» del sistema: il calo degli iscritti all’università. Tra i pochi risultati positivi c’è la partecipazione alla scuola dell’infanzia che supera il 92% per i bambini tra i 4 e i 5 anni, una delle più alte in Europa.
Il taglio di 8 miliardi alla scuola e di 1,1 all’università, voluto dal governo Berlusconi nel 2008, ha prodotto conseguenze devastanti su un sistema dove gli investimenti sulla conoscenza e l’innovazione sono ben al di sotto la media Ue sulla spesa per ricerca e sviluppo, i brevetti, l’occupazione hi-tech e qualificata. Nel 2014 era all’1,38%, in aumento sul 2013, inferiore all’obiettivo dell’1,53%. Una percentuale raggiunta solo al Nord.
SERVIZI PUBBLICI Aumentano le differenze territoriali nell’erogazione dei servizi pubblici. Le politiche di austerità che hanno tagliato i fondi sociali agli enti locali, il blocco del turn-over, hanno inciso sull’offerta dei servizi socio-educativi per la prima infanzia. La spesa impegnata dai comuni è in diminuzione dal 2011. L’obiettivo è garantire il 33% dei posti in strutture pubbliche ogni 100 bambini da 0 a 2 anni.
Il divario fra le regioni del Centro e del Nord e quelle del Mezzogiorno è rilevante. Questo significa che la conciliazione tra i tempi del lavoro e quelli della vita dei genitori diventa sempre più difficile man mano che si scende da Roma in giù.
Nei servizi di pubblica utilità si registra un aumento dei black out in Sicilia: sono state più di cinque nel 2015. Altrove ci sono state 2,4 interruzioni dell’elettricità per utente, erano due nel 2014.
BENI CULTURALI I tagli hanno inciso anche sulla capacità di gestire i beni culturali in un paese che conserva il primato nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco per numero di beni iscritti: 51, pari al 4,8% del totale. La spesa pubblica destinata alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale continua a diminuire: dallo 0,3% del 2009 allo 0,2% del 2015.
Cresce – a dispetto della crisi dell’edilizia – l’abusivismo. Nel 2015 sono state realizzate venti costruzioni abusive ogni 100 autorizzate, contro le 17,6 dell’anno precedente e le 9,3 del 2008. Cresce anche la percezione del degrado paesaggistico: il 22,1% nel 2015 contro il 20,1% dell’anno precedente. E si registra anche il fenomeno opposto: diminuiscono gli italiani che considerano l’abusivismo tra i principali fattori della rovina del paesaggio: 15,7% nel 2015, 17,1% nel 2014.
SALUTE Il Belpaese resta uno dei paesi più longevi d’Europa, anche se la speranza di vita è sotto la media europea. Diminuisce l’età media, da 82,6 a 82,3 anni. L’aumento della mortalità ha fatto discutere. Per l’Istat le cause sono dovute a una combinazione di elementi: oscillazioni demografiche e fattori congiunturali di natura epidemiologica e ambientale che hanno comportato un aumento dei decessi nella popolazione più anziana. Lo stesso fenomeno è stato registrato in altri paesi europei.
L’incremento della mortalità non ha avuto conseguenze sulla qualità degli anni da vivere. Resta da capire come vivere i prossimi anni in uno dei paesi più diseguali d’Europa.