Monthly Archives: ottobre 2016
La democrazia sempre più optional. La partecipazione un intralcio alla governabilità di tipo oligarchico. Il NO nel referendum costituzionale si oppone a questa sciagurata deriva.
Sovranità popolare, sovranismo… metropolitano e referendum costituzionale.
di Antonio Dessì*
Qualcuno forse ricorderà che sensi della Legge Regionale 4 febbraio 2016, n. 2, recante il “Riordino del sistema delle autonomie locali della Sardegna”, è stata quest’anno istituita la Città metropolitana di Cagliari.
Alcuni giorni fa si sono svolte le votazioni per il rinnovo del Consiglio della Città metropolitana, alla quale hanno preso parte i sindaci dei comuni che ne fanno parte, eleggendo l’organo tra di loro.
Fatta eccezione per i blog dei politici e per i siti dei rispettivi partiti, celebrativo ciascuno del risultato conseguito dalle relative liste (la maggioranza l’ha ottenuta una coalizione composta più o meno allo stesso modo di quella che amministra il capoluogo, centrosinistra-sovranista piu frattaglie), nemmeno la stampa cartacea si è filata l’evento, tanto la scontata logica spartitoria che lo ha caratterizzato era priva di alcun pathos politico e partecipativo.
Se penso alla baruffa di qualche mese prima tra il Nord e il Sud dell’Isola per averne due anziché una, di Città metropolitane, mi vengono in mente pensieri sarcastici.
Sassari proprio non sa cosa si è persa, ma si potrà prima o poi consolare col suo, di ente semimetropolitano di secondo grado e di seconda classe.
Ricordo che l’accesa diatriba attraversò vari temi, da quello del miraggio delle risorse aggiuntive a quello del bilanciamento del peso politico dei territori.
Già allora mi colpì il fatto che nessuno, ma proprio nessuno, si fosse posto il problema che nasceva un nuovo ente i cui organi non sono eletti dai cittadini e nemmeno avesse avanzato la preoccupazione che forme incisive di partecipazione democratica delle popolazioni interessate occorrerebbe introdurle proprio al fine di qualche bilanciamento dei poteri e per promuovere l’esercizio del controllo democratico di un’istituzione interamente consegnata all’arbitrio dei partiti.
Così infatti è accaduto che, poche settimane dopo la sua istituzione, i Sindaci della Città metropolitana di Cagliari abbiano pro forma raffazzonato uno straccio di Statuto che pare copiato dalle pubblicazioni Buffetti per l’amministrazione dei condomini, dove agli istituti partecipativi si fa riferimento vago per rinviarne la disciplina a un futuribile regolamento dell’ente (http://www.provincia.cagliari.it/…/cms/docum…/Statuto_CM.pdf).
L’articolo 5 di questo Statuto dice infatti:
“Art. 5. Trasparenza e partecipazione. 1. I procedimenti di elaborazione e revisione del Piano strategico metropolitano e del Piano Territoriale di Coordinamento Metropolitano, si ispirano al principio di trasparenza e al metodo della partecipazione, prevedendo processi di sussidiarietà e co-pianificazione con i Comuni e gli altri Enti interessati e modalità di coinvolgimento delle forze economiche e sociali.
2. Un regolamento stabilisce le modalità di partecipazione dei portatori di interesse.”.
Più o meno come fa la riforma Renzi-Boschi nei nuovi articoli 71 e 75 per l’iniziativa legislativa popolare e per i nuovi tipi di referendum, limitandosi per l’eventuale immediato a fissarne soglie di ammissibilità quasi proibitive.
La riduzione di sovranità popolare ha quindi fatto irruzione, tramite la cultura politica prevalente, nella già provata sfera delle autonomie locali e vuol trovare la sua consacrazione attraverso la proposta di modifica costituzionale.
Nel 2001, una nuova stesura dell’articolo 114 ha introdotto un principio ampiamente federalista in Costituzione, stabilendo che:
“1. La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”.
Il testo originario dell’articolo era il seguente:
“La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”.
La riforma del Titolo V ha precisato, rispetto alla visione di sapore “decentrativo” del testo del 1948, un più coerente sviluppo del connotato autonomistico dell’articolo 5 della Costituzione, stabilendo che la sovranità istituzionale (almeno quella interna, rappresentativa e popolare) si distribuisce tra i diversi soggetti della Repubblica, collocati, in linea di principio, sullo stesso piano di dignità.
La nuova proposta di revisione costituzionale modifica l’articolo 114 eliminando la citazione delle Province, che si intende sopprimere definitivamente. Il loro posto nell’ordinamento locale sarà preso dalla congerie di altri enti intermedi non elettivi a geometria variabile che sono stati o che verranno istituiti Regione per Regione a macchia di leopardo, privati però di dignità costituzionale.
Si dirà che sembra cambiare poco.
In realtà cambia moltissimo.
Recenti leggi statali hanno infatti reso le Province non più rappresentative, commissariandole in attesa di soppressione: ancora non mi capacito che il giudice costituzionale non abbia impedito che uno degli enti locali in cui “si riparte la Repubblica” potesse essere privato della derivazione elettiva con semplice legge ordinaria.
Non solo: le stesse leggi hanno stabilito la non elettività diretta degli organi metropolitani, talchè, se la riforma passerà il vaglio referendario, il numero dei soggetti istituzionali non elettivi di rilevanza costituzionale aumenterà.
Si dirà che questo resterebbe anche se vincesse il NO, ma non è del tutto vero, perché nel ramo “alto” dell’ordinamento farà la sua comparsa anche un Senato non elettivo.
Nella realtà l’indebolimento del principio di sovranità popolare, che in uno Stato democratico si dispiega attraverso l’elezione diretta dei rappresentanti in ogni livello delle istituzioni, avrà con l’eventuale approvazione referendaria una conferma di ampia portata, modificando strutturalmente l’impianto della Carta.
Come mi è capitato di sottolineare altre volte, la vittoria del NO non avrà un effetto contingentemente limitato alla non approvazione delle singole norme della proposta di revisione, ma ristabilirà anche per l’interpretazione giurisprudenziale e per la legislazione ordinaria future il principio dell’intangibilità e dell’infrangibilità della sovranità e della rappresentanza.
Non mi pare cosa da poco.
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A proposito di Città metropolitana: noi l’avevamo detto…
La Città metropolitana di Cagliari si avvia con un deficit di democrazia
Città metropolitana di Cagliari. Insediato Massimo Zedda, sindaco di Cagliari eletto dai soli cagliaritani, a capo di un’entità di altri sedici Comuni. Non è certo un bell’esempio di democrazia che verrebbe ripristinata solo con l’elezione diretta del sindaco metropolitano da parte della totalità dei cittadini dei territori che ne fanno parte.
Un commento
Roberto Camagni, uno dei massimi esperti europei di Economia Urbana [nella foto], al recente Convegno sul ruolo delle città nella pianificazione strategica per lo sviluppo dei territori, tenutosi a Cagliari il 18 dicembre 2015 (vedi Aladinews https://www.aladinpensiero.it/?p=50700) ha, tra l’altro, detto: “…Attenzione non c’è buona pianificazione senza partecipazione. Per Cagliari consiglio di ripartire dal Piano strategico che era stato molto partecipato e condiviso. Nel panorama nazionale il piano di Cagliari era a mio parere il migliore…”. E, ancora: “La città metropolitana è impegnativa e non può essere gestita da sindaci a mezzo servizio. Bisogna eleggere a suffragio universale il presidente della città metropolitana… Occorre tutelare le identità del territorio; la città metropolitana deve essere un vantaggio per tutti, altrimenti meglio non farla…”. Siamo completamente d’accordo, ne tenga conto il Sindaco di Cagliari e ne tengano conto gli altri Sindaci e le forze politiche dell’area vasta
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*anche su Democraziaoggi.
Oggi lunedì 31 ottobre 2016
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Oggi lunedi 31 Ottobre, alle 17.30, con ‘Costituzione e legge elettorale, Italicum’, proseguono le Letture della Costituzione, organizzate dall’ANPI di Cagliari e dal Comitato per il NO presso l’Hostel Marina, Scalette S. Sepolcro, nella sala che sta al piano della Reception e che si affaccia sul cortile interno. Introduce Gianna Lai, dell’ANPI di Cagliari. Interviene Costantino Murgia, Docente di Diritto costituzionale comparato, presso l’Università di Cagliari.
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Lanusei: la deforma Renzi lascia senza rappresentanza gli ogliastrini, ma il NO la sommergerà .
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
– segue -
NO nel referendum: iniziativa a Sassari con Ugo De Siervo e Paolo Fois
. – Comitato iovotono di Sassari. La pagina fb dell’evento.
Terremoto
Il terremoto è morte e devastazione, è paura, panico, vite distrutte, fine di sogni e speranze. Non si intravede un futuro. “Ricostruiremo tutto come era”, si magari! Fosse possibile sarebbe bello. Il terremoto porta via qualcosa che non è fatto soltanto di pietre che si rompono e si separano. Si porta via suoni, i rumori, le chiacchiere, gli sguardi, gli incontri e i luoghi. Tutto questo non si potrà ricostruire così come era. Resta la vita per chi l’ha salvata, resta la triste disperazione degli anziani che sanno di non avere più molto tempo per ricominciare da capo. Restano i ricordi e i resti di una comunità che ormai non è più. Non resta, per chi ne ha voglia, che provare a vivere e vedere se e come sarà possibile farlo.
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- Il parere e le proposte autorevoli di Renzo Piano.
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Quando il campo era in via San Paolo, si chiamavano ancora zingari.
di Gianni Loy
Il 28 ottobre al Centro di documentazione e studi delle donne, in via Falzarego 35, si è aperta la mostra fotografica di Anna Marceddu, dal titolo “Fiori di campo” incentrata su scatti effettuati, sopratutto a bambini, nel Campo rom di via San Paolo.
La mostra rimarrà aperta sino all’11 novembre 2016 e si potrà visitare nei giorni e nelle ore di apertura del Centro di documentazione e studi delle donne.
Mattina h. 9.45-13.00 – dal martedì al venerdì
Sera h. 16.00-19.30 – martedì e giovedì .
Quando il campo era in via San Paolo, si chiamavano ancora zingari. Erano uomini, donne bambini, molti i bambini e le bambine, animavano le aie di terra battuta che separavano le baracche di legno le une dalle altre. I mestieri erano quelli di sempre, dalla raccolta dei metalli alla questua, meglio se accompagnata da un bambino o, in mancanza, da un gomitolo di stracci avvolto in una piccola coperta, in grado di trarre in inganno i passanti meno avveduti.
Quanto il campo era in via San Paolo, l’acqua veniva attinta alle fontanelle e conservata in bidoni o piccole cisterne. La luce, nel senso dell’energia elettrica, veniva dall’alto. Non dal sole, ma dai cavi che penzolavano tra i pali di legno. Mani abili sapevano attingere a quell’energia. Appendevano, non visti, i cavi che portavano la luce. Il tepore, quando non era il sole, lo portava il fuoco. Quel fuoco amico ma anche traditore, che, quando impazziva, riduceva in cenere la baracca e, talvolta, si portava via bambini che sorridevano alla vita.
Quando il campo era in via San Paolo, Negiba, era una matriarca, possedeva autorità sui propri figli e figlie. Ma i maschi e le femmine avevano capannelli diversi. Era nel capannello dei maschi, dove le donne erano ancora escluse, che si prendevano le decisioni. Essi, i maschi, rappresentavano la comunità del campo. Del resto, solo i maschi incominciavano a frequentare la scuola, anche se solo per acquisire quelle elementari abilità, la lettura e la scrittura, che incominciavano a rivelarsi utili nelle relazioni sociali.
Quando il campo era ancora in via San Paolo, erano uomini e donne arrivati da poco, in fuga dalle guerre dei Balcani. Uomini e donne, che nella terra d’origine vivevano nelle case, inventavano un nuovo modello di sopravvivenza nella periferia della città, l’unico spazio loro concesso dal pregiudizio, quello si, che già offuscava le menti di chi aveva assimilato e tramandava lo stereotipo negativo dello zingaro brutto, sporco e cattivo.
Quando il campo era ancora in via San Paolo, non risulta che nessun bambino o bambina del circondario sia stata sottratta alla propria famiglia da una zingara rapitrice. Non risulta neppure successivamente, per la verità, che qualche bambino sia scomparso per mano degli zingari.
Quando il campo era ancora in via San Paolo, gli indigeni civilizzati immaginavano di essere l’ombelico del mondo ed ostentavano superiorità. Non sapevano che anche quegli zingari, a loro volta pensavano di essere loro al centro dell’universo, che quegli zingari possedevano una visione semplificata del mondo, dove le persone si dividevano i due soli grandi gruppi, da una parte gli zingari e, dall’altra parte, senza alcuna ulteriore distinzione, tutti quelli che zingari non sono, quelli che essi continuano a chiamare, con accezione vagamente dispregiativa, i gagè, cioè i non zingari.
Quando il campo era in via San Poalo, un giorno, una donna fece portare un grande cubo di cemento proprio nel mezzo di quell’insediamento che cominciava ad essere definito come “abusivo”. Fece portare banchi, lavagne e quaderni. L’energia elettrica la fornirono, cortesemente, gli stessi abitanti del campo. Così nacque una scuola. Ma una scuola particolare, che solo le donne potevano frequentare, mentre i maschi, anche se solo per qualche ora, dovevano farsi carico dei bambini. Coi loro figli in braccio, qualche volta, si affacciavano con curiosità alle finestre della classe.
Quando il campo era in via San Paolo, quegli uomini e quelle donne, quelli che con tono vagamente dispregiativo chiamavamo zingari, continuavano a trasmettere ai loro figli ed ai loro nipoti, anche se non conoscevano la scrittura, una incomprensibile lingua dal sapore orientale. Mentre noi, gli eruditi, insegnavamo ai nostri figli una lingua affatto diversa da quella che avevamo appreso dai nostri padri.
Quando il campo era in via San Paolo, una giovane donna di nome Anna, aveva incominciato ad aggirarsi nel campo con una macchina fotografica, affascinata dalla profondità in bianco e nero di quei volti. Rubava espressioni vitali, per poi farle rivivere in una camera oscura ed esibirle in una prima mostra fotografica che, per la verità, non fu mai inaugurata.
Quando il campo era in via San Paolo, gli zingari più avveduti, o più ricchi, costruivano le loro case su due piani, ed offrivano agli ospiti un caffè già zuccherato con la mamma nel fondo. L’insediamento aveva la parvenza di una piccola comunità organizzata ed autosufficiente
Quando il campo era in via San Paolo, quell’interminabile fila di baracche offriva un’immagine indecente ai primi visitatori che, provenienti dall’aeroporto, entravano in città. Almeno così sosteneva il sindaco di allora, che decise di spostarli tutti all’interno di un unico campo, lontano dalla città, condannandoli a vivere in roulotte.
* * * * *
Ora quel campo non esiste più. Neppure gli zingari esistono più, anche se qualche volta ancora si sente l’espressione “zingaro di merda”. Adesso si chiamano rom, ma non si sa se ciò sia dovuto ad una autentica presa di coscienza o, più semplicemente, al fascino, insincero, del politicamene corretto, o del politically correct, a voler essere ancor più à la page.
Ora che quel campo non esiste più, non esiste neppure l’altro campo, quello della 554, quello dove avrebbero dovuto vivere ciascuna famiglia in una piazzola, all’interno di roulotte, perché gli amministratori fingevano che, nonostante fossero diventati rom, continuassero ad essere dei nomadi vagabondi.
Ora che quel campo non esiste più, e neppure l’altro, sono stati sparsi nel territorio, nei comuni limitrofi. Vivono, provvisoriamente, in case, sino a quando non si sa.
Ora che quel campo non esiste più quel cubo di cemento che aveva ospitato la scuola, è diventato, forse, lo spogliatoio del vicino campo di calcio, o magari il transitorio ricovero abusivo per qualche senzatetto.
Ora che quel campo non esiste più, Anna Marceddu non ha perso affatto la passione per la fotografia. Accostando al bianco e nero delle origini la nuova tecnologia del colore, continua a lavorare sui volti, soprattutto dei bambini, di persone che non sono più zingari, né nomadi, e forse neppure rom. Molti, infatti, e sempre più, sono semplicemente cittadini italiani. E siccome la nostra Costituzione, (che Dio ce la conservi) riconosce a tutti i suoi cittadini pari dignità sociale, dovrebbero essere proprio uguali a noi. Uguali, ma anche differenti, come tutti. Con tratti peculiari ed espressioni, tuttavia, che non sfuggono all’occhio di un obiettivo attento e curioso. Se proprio lo volessimo, potrebbero persino parlarci.
Gianni Loy – 28 ottobre 2016
Terremoto
Il terremoto è morte e devastazione, è paura, panico, vite distrutte, fine di sogni e speranze. Non si intravede un futuro. “Ricostruiremo tutto come era”, si magari! Fosse possibile sarebbe bello. Il terremoto porta via qualcosa che non è fatto soltanto di pietre che si rompono e si separano. Si porta via suoni, i rumori, le chiacchiere, gli sguardi, gli incontri e i luoghi. Tutto questo non si potrà ricostruire così come era. Resta la vita per chi l’ha salvata, resta la triste disperazione degli anziani che sanno di non avere più molto tempo per ricominciare da capo. Restano i ricordi e i resti di una comunità che ormai non è più. Non resta, per chi ne ha voglia, che provare a vivere e vedere se e come sarà possibile farlo.
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- In argomento: cosa dice e propone Renzo Piano.
Oggi 30 ottobre San Saturnino, patrono della città di Cagliari
Oggi SAN SATURNINO. E’ il patrono di Cagliari, oggi celebrato. Nato a Cagliari in data imprecisata, a Cagliari muore il 23 novembre del 304 (o del 303, anno di martirio di altri santi), decapitato perchè rifiuta di adorare gli dei pagani. In sardo è detto Sadurru (Saturno), ma anche Saturninu (vedi il dizionario del Porru). Le sue spoglie furono ritrovate nell’ottobre del 1621, dopo imponenti scavi archeologici ordinati da Francisco d’Esquivel, arcivescovo di Cagliari dal 1604 al 1624. L’arcivescovo fece trasferire i resti del santo nell’apposita cripta della cattedrale di Cagliari: il santuario dei Martiri, dove oltre a quelli di Saturnino, si trovano i resti di altri martiri. In tale occasione si stabilì la data del 30 ottobre per celebrare il santo. La venerazione per Saturnino dei cagliaritani data da allora. Significativo che i patrioti di Palabanda nel 1812 scelsero questa data per la loro mancata rivolta, quasi a metterla sotto la protezione del santo. (Nella foto: Cattedrale di Cagliari, statua lignea del santo, del 1759, attribuita allo scultore sardo Giuseppe Antonio Lonis di Senorbì).
Palabanda
La rivolta di Palabanda, esempio attuale di dignità
di Francesco Cocco su Democraziaoggi.
[Democraziaoggi] Ricorre nella notte del 29 di ottobre l’anniversario della rivolta di Palabanda (1812). Francesco Putzolu, sarto, e Raimondo Sorgia, conciatore, furono subito condannati e impiccati. Salvatore Cadeddu trovò rifugio nel Sulcis a Nuxis, che lo ricorda ora in uno splendido murale di Francesco del Casino. E’ doveroso ricordare quei martiri perché da loro ci viene un grande esempio di dignità che ci sollecita al rifiuto del vergognoso inganno contenuto nel referendum della cosiddetta “deforma della Costituzione”. Un attacco alla rappresentanza e alla sovranità popolare, un ritorno a un neocentralismo di vecchio stampo con la modifica del titolo V e la soppressione del Senato elettivo. I Sardi col loro “NO” sapranno dare ancora una volta una manifestazione di dignità contro le mistificazioni e gli inganni del referendum del 4 dicembre.
Quando il campo era in via San Paolo, si chiamavano ancora zingari
di Gianni Loy
Ieri (28 ottobre) al Centro di documentazione e studi delle donne, in via Falzarego 35, si è aperta la mostra fotografica di Anna Marceddu, dal titolo “Fiori di campo” incentrata su scatti effettuati, sopratutto a bambini, nel Campo rom di via San Paolo.
La mostra rimarrà aperta sino all’11 novembre 2016 e si potrà visitare nei giorni e nelle ore di apertura del Centro di documentazione e studi delle donne.
Mattina h. 9.45-13.00 – dal martedì al venerdì
Sera h. 16.00-19.30 – martedì e giovedì .
Quando il campo era in via San Paolo, si chiamavano ancora zingari. Erano uomini, donne bambini, molti i bambini e le bambine, animavano le aie di terra battuta che separavano le baracche di legno le une dalle altre. I mestieri erano quelli di sempre, dalla raccolta dei metalli alla questua, meglio se accompagnata da un bambino o, in mancanza, da un gomitolo di stracci avvolto in una piccola coperta, in grado di trarre in inganno i passanti meno avveduti.
Quanto il campo era in via San Paolo, l’acqua veniva attinta alle fontanelle e conservata in bidoni o piccole cisterne. La luce, nel senso dell’energia elettrica, veniva dall’alto. Non dal sole, ma dai cavi che penzolavano tra i pali di legno. Mani abili sapevano attingere a quell’energia. Appendevano, non visti, i cavi che portavano la luce. Il tepore, quando non era il sole, lo portava il fuoco. Quel fuoco amico ma anche traditore, che, quando impazziva, riduceva in cenere la baracca e, talvolta, si portava via bambini che sorridevano alla vita.
Quando il campo era in via San Paolo, Negiba, era una matriarca, possedeva autorità sui propri figli e figlie. Ma i maschi e le femmine avevano capannelli diversi. Era nel capannello dei maschi, dove le donne erano ancora escluse, che si prendevano le decisioni. Essi, i maschi, rappresentavano la comunità del campo. Del resto, solo i maschi incominciavano a frequentare la scuola, anche se solo per acquisire quelle elementari abilità, la lettura e la scrittura, che incominciavano a rivelarsi utili nelle relazioni sociali.
Quando il campo era ancora in via San Paolo, erano uomini e donne arrivati da poco, in fuga dalle guerre dei Balcani. Uomini e donne, che nella terra d’origine vivevano nelle case, inventavano un nuovo modello di sopravvivenza nella periferia della città, l’unico spazio loro concesso dal pregiudizio, quello si, che già offuscava le menti di chi aveva assimilato e tramandava lo stereotipo negativo dello zingaro brutto, sporco e cattivo.
Quando il campo era ancora in via San Paolo, non risulta che nessun bambino o bambina del circondario sia stata sottratta alla propria famiglia da una zingara rapitrice. Non risulta neppure successivamente, per la verità, che qualche bambino sia scomparso per mano degli zingari.
Quando il campo era ancora in via San Paolo, gli indigeni civilizzati immaginavano di essere l’ombelico del mondo ed ostentavano superiorità. Non sapevano che anche quegli zingari, a loro volta pensavano di essere loro al centro dell’universo, che quegli zingari possedevano una visione semplificata del mondo, dove le persone si dividevano i due soli grandi gruppi, da una parte gli zingari e, dall’altra parte, senza alcuna ulteriore distinzione, tutti quelli che zingari non sono, quelli che essi continuano a chiamare, con accezione vagamente dispregiativa, i gagè, cioè i non zingari.
Quando il campo era in via San Poalo, un giorno, una donna fece portare un grande cubo di cemento proprio nel mezzo di quell’insediamento che cominciava ad essere definito come “abusivo”. Fece portare banchi, lavagne e quaderni. L’energia elettrica la fornirono, cortesemente, gli stessi abitanti del campo. Così nacque una scuola. Ma una scuola particolare, che solo le donne potevano frequentare, mentre i maschi, anche se solo per qualche ora, dovevano farsi carico dei bambini. Coi loro figli in braccio, qualche volta, si affacciavano con curiosità alle finestre della classe.
Quando il campo era in via San Paolo, quegli uomini e quelle donne, quelli che con tono vagamente dispregiativo chiamavamo zingari, continuavano a trasmettere ai loro figli ed ai loro nipoti, anche se non conoscevano la scrittura, una incomprensibile lingua dal sapore orientale. Mentre noi, gli eruditi, insegnavamo ai nostri figli una lingua affatto diversa da quella che avevamo appreso dai nostri padri.
Quando il campo era in via San Paolo, una giovane donna di nome Anna, aveva incominciato ad aggirarsi nel campo con una macchina fotografica, affascinata dalla profondità in bianco e nero di quei volti. Rubava espressioni vitali, per poi farle rivivere in una camera oscura ed esibirle in una prima mostra fotografica che, per la verità, non fu mai inaugurata.
Quando il campo era in via San Paolo, gli zingari più avveduti, o più ricchi, costruivano le loro case su due piani, ed offrivano agli ospiti un caffè già zuccherato con la mamma nel fondo. L’insediamento aveva la parvenza di una piccola comunità organizzata ed autosufficiente
Quando il campo era in via San Paolo, quell’interminabile fila di baracche offriva un’immagine indecente ai primi visitatori che, provenienti dall’aeroporto, entravano in città. Almeno così sosteneva il sindaco di allora, che decise di spostarli tutti all’interno di un unico campo, lontano dalla città, condannandoli a vivere in roulotte.
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Ora quel campo non esiste più. Neppure gli zingari esistono più, anche se qualche volta ancora si sente l’espressione “zingaro di merda”. Adesso si chiamano rom, ma non si sa se ciò sia dovuto ad una autentica presa di coscienza o, più semplicemente, al fascino, insincero, del politicamene corretto, o del politically correct, a voler essere ancor più à la page.
Ora che quel campo non esiste più, non esiste neppure l’altro campo, quello della 554, quello dove avrebbero dovuto vivere ciascuna famiglia in una piazzola, all’interno di roulotte, perché gli amministratori fingevano che, nonostante fossero diventati rom, continuassero ad essere dei nomadi vagabondi.
Ora che quel campo non esiste più, e neppure l’altro, sono stati sparsi nel territorio, nei comuni limitrofi. Vivono, provvisoriamente, in case, sino a quando non si sa.
Ora che quel campo non esiste più quel cubo di cemento che aveva ospitato la scuola, è diventato, forse, lo spogliatoio del vicino campo di calcio, o magari il transitorio ricovero abusivo per qualche senzatetto.
Ora che quel campo non esiste più, Anna Marceddu non ha perso affatto la passione per la fotografia. Accostando al bianco e nero delle origini la nuova tecnologia del colore, continua a lavorare sui volti, soprattutto dei bambini, di persone che non sono più zingari, né nomadi, e forse neppure rom. Molti, infatti, e sempre più, sono semplicemente cittadini italiani. E siccome la nostra Costituzione, (che Dio ce la conservi) riconosce a tutti i suoi cittadini pari dignità sociale, dovrebbero essere proprio uguali a noi. Uguali, ma anche differenti, come tutti. Con tratti peculiari ed espressioni, tuttavia, che non sfuggono all’occhio di un obiettivo attento e curioso. Se proprio lo volessimo, potrebbero persino parlarci.
Gianni Loy – 28 ottobre 2016
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Oggi sabato 29 ottobre 2016
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OGGI SABATO 29 OTTOBRE 2016 SIT-IN CONTRO LA FABBRICA DELLE BOMBE DI DOMUSNOVAS – IN SOLIDARIETA’ CON IL POPOLO YEMENITA – INIZIATIVE DI DENUNCIA DEI CRIMINI PERPETRATI DALLA COALIZIONE A GUIDA SAUDITA NELLO YEMEN SI TERRANNO ANCHE IN DIVERSE CITTÀ EUROPEE (come LONDRA, BRUXELLES, BERLINO, STOCCOLMA, ROMA), IN CANADA (a VANCOUVER) E NELLO YEMEN.
APPUNTAMENTO DALLE ORE 10,00 PIAZZALE FABBRICA RWM – ORGANIZZA LA TAVOLA SARDA DELLA PACE – LETTURA DELL’ENCICLICA LAUDATO SI’ di PAPA FRANCESCO in COMPAGNIA di CLARA MURTAS e PIERO MARCIALIS – RAPPRESENTAZIONE TEATRALE DELLA COMPAGNIA SOTTOSUONO – POESIE E RACCONTI – DIBATTITO – FINE SIT-IN ORE 14,00. La manifestazione costituisce la prima tappa della XV Marcia Sarda per la Pace, che si terrà domenica 6 novembre 2016.
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- Oggi manifestazione contro l’inceneritore di Tossilo.
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La Regione Sarda aiuta le News online
La Regione Sarda aiuta le News online. L’assessora Claudia Firino interpella editori e direttori delle testate online per perfezionare l’iniziativa in vista del prossimo bando. Intanto è aperto un dibattito. Di seguito pubblichiamo un primo interessante intervento.
Sandro Usai: “La Regione finanzia i giornali on line, un’ottima opportunità che non può essere sprecata”. Su Vitobiolchini.it
- segue –
Oggi venerdì 28 ottobre 2016
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Gustavo Zagrebelski e la crisi della democrazia
di Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi
Ceta, la Vallonia ci ripensa
La sedia
di Vanni Tola.
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Trattato CETA: Il premier belga dichiara che c’è l’accordo per la ratifica dell’intesa Ue-Canada.
Dopo una lunga trattativa, la regione belga della Vallonia ha dato oggi il suo benestare all’accordo commerciale con il Canada. Una notizia nella quale molti speravano e che, anche a noi, era parsa probabile perché l’accordo CETA presenta notevoli e caratterizzanti differenze rispetto ai contenuti e alla logica di altri trattati analoghi e principalmente a quelli del trattato di riferimento per eccellenza, il TTIP, ampiamente contestato da un vasto movimento di opposizione. Una vicenda – questa dei grandi Trattati internazionali per gli scambi e i commerci – con la quale i cittadini europei devono confrontarsi impiegando una buona dose di disincanto e di sano realismo per formare un punto di vista obiettivo. Il capitalismo internazionale si va riorganizzando: è in atto la globalizzazione dell’economia. Questo è un dato incontrovertibile. Gli scambi commerciali tra paesi e aree geografiche anche molto vaste ne costituiscono l’asse portante. L’esigenza di regolamentare al meglio gli scambi commerciali internazionali tra Paesi e aree geografiche importanti è una necessità ineludibile. Da ciò deriva le necessità di stipulare Trattati per regolare un sistema di scambi internazionali finora regolato esclusivamente dalle leggi del cosiddetto libero mercato, che sono, di fatto, rappresentate dallo strapotere delle multinazionali dei commerci e dei servizi e da centri di potere internazionali palesi e, talvolta, occulti. Che poi i Trattati debbano essere equi ed equilibrati, tenere conto delle esigenze delle parti contraenti, salvaguardare diritti inalienabili quali la difesa della democrazia, della salute e della libertà degli individui, la difesa dell’ambiente, la sicurezza internazionale e tanto altro ancora, mi pare sia indiscutibile. Il Trattato CETA, a mio avviso, ha colto e superato molte delle gravi limitazioni imposte ai Paesi contraenti da altri trattati in fase di contrattazione e in particolare dal TTIP e, per tale motivo e pur con le necessarie cautele, appare degno di maggiore attenzione, fatte salve le necessarie verifiche e richieste di garanzie per tutti i Paesi che lo sottoscriveranno. Naturalmente, occorre ribadirlo, non si può dimenticare quella che è la natura stessa di un Trattato. Un accordo rappresenta sempre una limitazione dei diritti e dei poteri di ciascun contraente in funzione di un superiore rapporto conveniente per le parti. Fuori metafora, la posizione critica della Vallonia e di molti contestatori dei Trattati internazionali, “a prescindere”, è insostenibile quando si basa sui timori di una riduzione dell’autonomia o, meglio, della sovranità delle singole parti contraenti. Ciò è implicito nella logica di qualunque Trattato che si concluda con un accordo. Su quale sia poi il miglior modo di stipulare i Trattati nell’interesse di tutte le parti è altrettanto evidente che l’analisi, la trattativa e l’accordo debba essere il più ampio possibile.