Monthly Archives: settembre 2017

Referendum Catalogna

Cosa accadrà domani in Catalunya? Aladinews segue gli aggiornamenti grazie al manifesto sardo.
catalogna[Maurizio Matteuzzi]
pintor il manifesto sardo Referendum Catalogna. Il manifesto sardo pubblicherà aggiornamenti sul referendum di domani. Il governo spagnolo intensifica la repressione e le minacce, la guardia civil occupa il centro delle telecomunicazioni della Generalitat de Catalunya con la messa sotto controllo di internet (Red). Link di Aladinews a il manifesto sardo.
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Abbecedario catalano per tentare di capire
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto/ 30 settembre 2017/ Culture, Società & Politica/
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Oggi sabato 30 settembre 2017

democraziaoggiVerso il Convegno sul lavoro a Cagliari
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Il lavoro come fondamento della Repubblica
Questo il titolo del Convegno dibattito, promosso dal Comitato d’iniziativa costituzionale e Statutaria e da Europe direct Regione Sardegna, che si terrà a Cagliari il 4-5- ottobre Hotel Regina Margherita.
 Su Democraziaoggi.
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democraziaoggiIl lavoro: dono o castigo?
30 Settembre 2017
Fernando Codonesu su Democraziaoggi.

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La pagina fb dell’evento.
democraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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Insularità, referendum e venditori di orologi taroccati.
di Antonio Dessì su fb.
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Convegno sul Lavoro DOCUMENTAZIONE su Aladinews e Democraziaoggi

locandina-convegno-2- Il lavoro e l’impresa nella Costituzione, di Fernando Codonesu.
- Punti di vista, lavoro e dignità, autorganizzazione individuale, di Fernando Codonesu.
- L’ozio è l’alternativa alla “fine del lavoro”? di Gianfranco Sabattini.
- La formazione come chiave di volta nel cambiamento presente, di Fernando Codonesu.
- Un ecosistema favorevole allo sviluppo del lavoro, di Fernando Codonesu.
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john-maynard-keynesProspettive economiche per i nostri nipoti
di John Maynard Keynes
Economic Possibilities for our Grandchildren.
Prospettive economiche per i nostri nipoti.
Conferenza tenuta da Keynes a Madrid nel giugno del 1930. Ora nel nono volume dei suoi Collected Writings intitolato Essays in Persuasion, tradotta in Italia da Bollati Boringhieri (La fine del laissez faire ed altri scritti, Torino 1991). Su Aladinews.
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Tavolo tematico su Economia Sociale e Solidale
- L’economia e le politiche di welfare in tempo di crisi – Lezione magistrale di Jean-Louis Laville Video. L’economia e le politiche di welfare in tempo di crisi. Con la lezione magistrale di J.L. Laville Testo.
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logo-iaresVerso il Convegno per il Lavoro. Tavolo tematico su Economia Sociale e Solidale. Documentazione IARES: http://www.iares.it/pubblicazioni.html

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Verso il Convegno per il Lavoro

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La formazione come chiave di volta nel cambiamento presente
di Fernando Codonesu

Parlare di scuola, università e di formazione quali elemento cardine della flessibilità richiesta nel tempo moderno è per noi imprescindibile, diciamo pure che è dalla scuola che bisognerebbe far partire una strategia vincente sul tema del lavoro per l’oggi e per il domani. Ma, quando si parla di scuola, istruzione, università e ricerca corre l’obbligo di segnalare la scarsa credibilità istituzionale del paese nel suo complesso, se si ricorda che siamo nel pieno scandalo dei concorsi universitari che evidenziano l’attribuzione delle cattedre da professore ordinario o associato non in base al merito ma per appartenenza, figliolanza e nepotismo, che abbiamo avuto un ministro dell’istruzione, Università e Ricerca Scientifica (ahinoi, Mariastella Gelmini), che era convinta che fosse stato costruito un tunnel tra il CERN di Ginevra e il Gran Sasso per il passaggio dei neutrini e il ministro attualmente in carica notoriamente non ha nemmeno la laurea, è chiaro che il paese è istituzionalmente delegittimato e privo di credibilità.
Ma anche con questi personaggi e nonostante loro, è bene pensare ad una scuola dove si insegni, dove gli studenti possano trovare una eccellente formazione generale per potersi specializzare successivamente. Una ottima preparazione di base è il classico “pass partout” per la flessibilità richiesta oggi e domani: bisogna sapere e saper fare molto più di prima perché le nostre attuali società sono molto più competitive rispetto appena a qualche decennio fa. Per tale motivo non crediamo che sia accettabile una visione della scuola come luogo di formazione quasi esclusivamente dedicato ai bisogni dell’impresa. I bisogni delle imprese cambiano continuamente perché prima ci sono i mutamenti continui dei bisogni degli uomini e per tale motivo bisogna avere una preparazione di base ampia e solida su cui poter innestare via via le specializzazioni richieste dai mutamenti sociali e dai conseguenti mutamenti dei vari settori produttivi.
Giova qui ricordare che il successo dell’economia italiana dal secondo dopoguerra fino agli anni ’80 e ’90 era dovuto all’ottima formazione tecnica garantita dall’istruzione secondaria italiana, come ci ricorda Romano Prodi nel suo ultimo volume Il Piano inclinato, edito da Il Mulino. Le aziende italiane, essendo per la maggior parte, caratterizzata da piccole e medie aziende erano gestite da proprietari e manager diplomati nella scuola secondaria, periti industriali e tecnici in generale. Una scuola di alto livello, allora, altrettanto non si può dire oggi a seguito delle ultime riforme che prediligono insegnanti produttori di “report e scartoffie” e una privatizzazione sempre più marcata della formazione, con sottrazione di fondi dalla scuola statale alla scuola privata, peraltro in larga maggioranza di tipo confessionale.
Se guardiamo alla formazione universitaria, ma questi temi saranno toccati meglio nel corso del convegno, qui basti dire che la farsa del “3+2”, con laurea triennale e biennio magistrale è totalmente fallita al punto che il 98% degli studenti che conseguono la laurea triennale prosegue con il biennio successivo. Se si tiene conto che tale riforma era finalizzata a creare competenze finalizzate ad un inserimento immediato nel mondo del lavoro, il fallimento è così evidente che non c’è bisogno di aggiungere altre considerazioni.
La formazione dovrebbe caratterizzare tutta la vita dei cittadini, per questo siamo favorevoli ad una formazione di qualità, che continui in ogni fase della nostra vita e soprattutto pubblica e gratuita per tutti.

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Un ecosistema favorevole allo sviluppo del lavoro

di Fernando Codonesu
Quale lavoro e quali lavori per i giovani e per gli uomini di oggi e di domani?
Si possono rimpiazzare i lavori che si perdono con le nuove tecnologie o una parte crescente della popolazione sarà sempre più espulsa dall’organizzazione del lavoro?
E’ possibile avere un reddito indipendentemente dalla situazione lavorativa?

Quali strumenti, quale organizzazione, quale formazione dobbiamo avere in questo mondo caratterizzato dalle relazioni, dai servizi e dai bit e non più dalla proprietà, dai beni e dagli atomi?
Il convegno intende porsi queste domande con l’obiettivo di fornire alcune risposte.
E se ragioniamo sul diritto del lavoro e sullo spostamento della ricchezza dal capitale alle classi lavoratrici e viceversa, come non osservare che se abbiamo avuto un periodo di circa 40 anni subito dopo la seconda guerra mondiale di redistribuzione della ricchezza a vantaggio delle classi lavoratrici con un miglioramento della salubrità dei luoghi di lavoro e dei diritti dei lavoratori, con l’irrompere della globalizzazione, del libero commercio, della finanziarizzazione dell’economia, dell’intervento massivo delle multinazionali dell’economia digitale, del pensiero unico determinato dal liberismo abbracciato, ahinoi anche da quelli che un tempo erano conosciuti come partiti di sinistra e da alcuni sindacati, i diritti dei lavoratori sono stati attaccati, dimezzati e in taluni casi letteralmente cancellati. Si è fatta passare la precarietà per la flessibilità. Si è precarizzata la vita di un’intera generazione a cui è stato sottratto il futuro e reso impossibile vivere il presente, e di questo si è fatto un racconto come un effetto della modernizzazione della società.
Oggi in tanti settori produttivi, nonostante la conclamata modernità, si hanno contratti di lavoro al limite della semi schiavitù.
E quanto allo spostamento della ricchezza, a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso si è avuto uno spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale, dai poveri ai ricchi, con un aumento vertiginoso delle disuguaglianze come non si era mai registrato nella storia.
Anche questo è il frutto avvelenato dell’attuale sviluppo della società umana.
Per quanto riguarda l’organizzazione del convegno, è da questo quadro che è nata l’esigenza di organizzare fondamentalmente tre grandi temi di intervento:
- Il primo è l’economia sociale e solidale in quanto paradigma del periodo in cui viviamo, dove diventa sempre più forte l’esigenza di un’economia nota come terzo settore, caratterizzata dall’etica, dal riferimento ai valori umani e non al solo profitto; un’economia anche per gli ultimi, per gli strati sociali più marginali, fragili e indifesi, un’economia per tutta quella pluralità di servizi alla persona in ogni età della vita che vanno pensati, organizzati e gestiti.
- Il secondo è rappresentato dall’interrogativo sul futuro prossimo della Sardegna, con testimonianze dirette di alcuni attori dello sviluppo locale, che parleranno di filiere produttive, imprese, istituzioni, sindacati.
Abbiamo chiamato a testimoniare alcune esperienze significative che vengono svolte in quelle che azioni ascrivibili alle politiche attive del lavoro, ma soprattutto abbiamo dato spazio a una parte di quella Sardegna resistente, adattativa e resiliente su cui contiamo di più e da cui provengono forza, idee e progetti per il nostro futuro.
- Il terzo, infine, che per noi è la chiave di volta di tutto: la scuola, l’istruzione, la formazione, l’università e la ricerca, convinti come siamo che la flessibilità dei tempi attuali possa essere affrontata adeguatamente solo con una formazione larga e alta, una formazione di tipo generale, basata su fondamenta solide, con contenuti delle varie discipline così approfonditi da creare profili di uscita nei vari livelli formativi come cittadini in grado di affrontare ogni problema della vita adulta e ogni possibile occupazione offerta dal mercato del lavoro e con capacità reali di creare impresa e occupazione.
In un convegno di tale importanza non poteva mancare una riflessione più generale, che definiamo alta perché alto è il tema del lavoro, e su questo, tra altri autorevoli interventi, conosceremo e discuteremo gli autorevoli punti di vista del filosofo Silvano Tagliagambe, dell’economista Gianfranco Sabattini e del sociologo Domenico De Masi.
Quando come Comitato di Iniziativa Costituzionale Statutaria abbiamo deciso di organizzare questo convegno abbiamo pensato che dal confronto di variegate posizioni e punti vista sul tema, dalla viva voce degli attori che giorno per giorno si misurano con questo mercato del lavoro, dalla pluralità di idee che si scontrano e si incontrano nel nostro vivere quotidiano possano nascere le migliori condizioni per creare un ecosistema favorevole allo sviluppo del lavoro, in condizioni di equilibrio dinamico con l’ambiente e con le continue trasformazioni della società e del mondo.
E’ perché come esponenti della società civile, come cittadinanza attiva, sganciati da logiche di partito o di appartenenza politica, siamo convinti che non ci possano essere soluzioni individuali ai problemi posti dalla crisi, ma vadano ricercate collettivamente con il confronto delle idee, è per tali motivi che intendiamo concorrere con le nostre energie al processo di creazione di un ecosistema favorevole al lavoro, che abbiamo fortemente voluto questo convegno e abbiamo deciso di dedicarlo in particolare ai giovani che, più di altri, vedono minacciata la propria vita e il proprio futuro.

Luigi Manconi presenta “Non sono razzista, ma “

non-sono-razzista-ma-la-xenofobia-degli-italiani-e-gli-imprenditori-politici-della-pauraSabato 30 settembre alle ore 18:00 nella Comunità La Collina (località S’Otta, Serdiana) Luigi Manconi presenta “Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura” (Feltrinelli, 2017) in dialogo con Renato Soru. Introduce Ettore Cannavera, fondatore della Comunità La Collina.

Il nuovo libro di Luigi Manconi e Federica Resta illustra un meccanismo psicologico tanto elementare quanto diffuso, che mira a prendere le distanze dalle parole e dagli atti che ci tradiscono e contraddicono ciò che pensiamo di essere, o che magari vogliamo far intendere di essere. Ma ormai è entrata in crisi l’interdizione morale nei confronti di parole e atti xenofobi, che aveva costituito una sorta di presidio linguistico e culturale, ma anche sociale e politico, rispetto al ricorso a pratiche di esclusione e discriminazione. Forse davvero sta cadendo il tabù del razzismo nella società italiana. Luigi Manconi e Federica Resta lanciano un grido d’allarme in questo pamphlet: l’intolleranza etnica ha trovato spazio nel discorso pubblico e nella sfera politica, legittimando comportamenti fino a ieri censurati, grazie a figure pubbliche che fanno del proprio ruolo istituzionale una risorsa significativa di produzione e legittimazione dell’ostilità sociale nei confronti dello straniero.
- segue –

Oggi venerdì 29 settembre 2017

democraziaoggiVerso il Convegno sul lavoro a Cagliari
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Il lavoro come fondamento della Repubblica
Questo il titolo del Convegno dibattito, promosso dal Comitato d’iniziativa costituzionale e Statutaria e da Europe direct Regione Sardegna, che si terrà a Cagliari il 4-5- ottobre Hotel Regina Margherita.
 Su Democraziaoggi.
Ieri Conferenza Stampa di presentazione del Convegno presso la Mediateca del Mediterraneo a Cagliari.
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La pagina fb dell’evento.
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Come si alimenta il grande distacco dagli elettori
di ROBERTA CALVANO
Come si alimenta il grande distacco dagli elettori, il manifesto, 28 settembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Chi insiste nel produrre sistemi elettorali in cui le segreterie di partito nominano larga parte dei parlamentari ha evidentemente perso totalmente il contatto con la realtà del paese» (c.m.c)
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democraziaoggiOggi a Cagliari in un libro l’epopea delle miniere
29 Settembre 2017
Recensione di
Gianna Lai su Democraziaoggi.

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eddyburgSOCIETÀ E POLITICA » GIORNALI DEL GIORNO » ARTICOLI DEL 2017
Il crepuscolo della turbo-stabilità
di LORENZO MARSILI
il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Tra la politica dello struzzo e quella del camaleonte si sono smarriti buon senso ed equità». (p.d.).
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STUDENTI antica universita' di Bologna29 Settembre 2017
Perché l’università è ancora viva e va difesa da tagli e malcostume
di ENZO SCANDURRA
Perché l’università è ancora viva e va difesa da tagli e malcostumeil manifesto, 28 settembre 2017. «Difendere l’università come istituzione ancora sana, è un’impresa improba. Tuttavia bisogna farlo, è necessario e doveroso farlo», con postilla, su eddyburg e su aladinews.
———————————–Domani a Serdiana——————————————–
non-sono-razzista-ma-la-xenofobia-degli-italiani-e-gli-imprenditori-politici-della-pauraManconi e Resta ospiti a “La Collina” col nuovo libro sulla xenofobia
Immigrazione – Luigi Manconi e Giusi Nicolini illustrano un piano di ammissione umanitaria.
Sabato 30 settembre, alle ore 18, nella Comunità La Collina (località S’Otta, Serdiana) Luigi Manconi presenta “Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura” (Feltrinelli, 2017) in dialogo con Renato Soru. Introduce Ettore Cannavera, fondatore della Comunità La Collina. Fonte SardiniaPost.
———————————–Domani sera a Cagliari—————————————
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Yoga e Ayurveda. Con il maestro Swami Joythimayananda
Evento pubblico · Organizzato da Scuola di Meditazione
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Scuola di Meditazione

Un nuovo Piano di Rinascita della Sardegna è possibile? Sì con la forza dell’impegno e della speranza dei Sardi, contro la rassegnazione e la disperazione

sedia di VannitolaLa Sedia
di Vanni Tola.

sardegnaUN NUOVO PIANO DI RINASCITA PER LA SARDEGNA, ENDOGENO E AUTOCENTRATO

Parlare delle prospettive di lavoro e occupazione in Sardegna è possibile a condizione che si acquisiscano alcuni elementi fondamentali per rilevare la situazione attuale. Ne indicherei almeno due. Un’analisi puntuale delle caratteristiche del mancato sviluppo, dell’errata ipotesi di sviluppo che ha governato gli anni dei Piani di Rinascita. Una ricognizione accurata e non idealista delle reali potenzialità produttive e quindi occupazionali della nostra isola e in rapporto con il contesto economico e sociale della parte di mondo nella quale operiamo e con la quale dobbiamo confrontarci. Sintetizzando e rimandando, per brevità espositiva, ai numerosi e validi studi relativi agli anni della Rinascita mancata, direi che c’è un punto comune dal quale partire. Il modello di sviluppo prospettato dai Piani di Rinascita, per certi versi interno alle scelte per il contrasto del ritardo di sviluppo del meridione e quindi con elementi comuni rispetto ad altre aree geografiche dell’Italia, si è rivelato fallimentare per quanto concerneva l’incremento dell’occupazione e una migliore valorizzazione delle poche risorse isolane. Il sogno dell’industria di base (principalmente petrolchimica) concentrata nei “poli industriali”, che avrebbe dovuto generare intorno a se uno sviluppo industriale indotto e una complessiva crescita dell’economia regionale, non ha soddisfatto tali aspettative. Ha anzi concorso a drenare ingenti risorse finanziarie destinate alla Sardegna e a generare profitti che non sono stati reinvestiti nell’isola. Dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul banditismo in poi si è sviluppato un grande dibattito sulle cause del fallimento della politica della rinascita e sul fallimento dell’ipotesi di sviluppo industriale scelta dalla classe politica regionale e nazionale per la Sardegna. Tale riflessione deve costituire il punto di partenza di una nuova ipotesi di sviluppo che concentri l’attenzione e l’impiego delle risorse finanziarie nella direzione della valorizzazione delle risorse locali, prime fra tutte l’agro-pastorizia, l’industria alimentare e quella turistica. Ipotesi di sviluppo appunto, solo ipotesi, non sempre suffragate da validi studi di settore, spesso orientate a soddisfare i desideri di un immaginario collettivo piuttosto che rispondenti alle prospettive di sviluppo effettive che tali comparti produttivi sembravano indicare. Sono gli anni che mi piace definire “delle centralità ”. Una schiera infinita di analisti e tecnici di settore, per qualche decennio, non hanno fatto altro che indicare modelli di sviluppo che traessero origine dalla centralità del proprio comparto di appartenenza. E’ noto, mi si perdoni la battuta, che un cerchio, inteso come figura geometrica, ha un centro, uno solo, non si discute. In Sardegna invece si sono sprecati convegni, studi di settore, si sono scritti libri per dimostrare, di volta in volta, la centralità dell’agricoltura e della pastorizia, la centralità del turismo, la centralità della pesca, la centralità dei trasporti e via dicendo fino alla centralità della produzione di energia alternativa o della chimica verde. Tutte centralità descritte come potenzialmente in grado di innescare meccanismi di sviluppo dell’economia isolana con interessanti ricadute in termini di sviluppo, occupazione e benessere. Quando ci si è resi conto che è difficile immaginare un cerchio con molti centri si è passati alla fase degli abbinamenti tra comparti “centrali”. Sviluppare l’agricoltura per incrementare anche il turismo, sviluppare il comparto agro alimentare per creare una industria agro-alimentare in grado di trasformare i nostri prodotti e via dicendo. Va da se che ciascuna dichiarazione di centralità di un comparto celava la implicita richiesta di orientare i finanziamenti disponibili principalmente a quel comparto piuttosto che agli altri. Una triste e inconcludente lista di desideri. Nella realtà non si è andati oltre le corrette indicazioni per una ipotesi di sviluppo dell’isola che ponga al centro la valorizzazione delle risorse locali con riferimento ai nuovi contesti di politiche e scambi commerciali internazionali. Domandiamoci allora quali fattori, quali elementi hanno impedito lo sviluppo economico e socio culturale dell’isola. Cerchiamo di comprendere se la crisi occupazionale e dell’apparato industriale sardo debba essere esclusivamente attribuita a fattori congiunturali propri del contesto di crisi internazionale o alla oggettiva incapacità della politica regionale di orientare e gestire tali fantasiosi e mai realizzati proponimenti. C’è un’unica risposta da fare crescere la Sardegna e con essa l’occupazione dei Sardi, un nuovo Piano di Rinascita che un gruppo minoritario di intellettuali ha più volte indicato nei decenni passati proponendo e immaginando un Piano di sviluppo “endogeno e autocentrato”. Endogeno nel senso che deve trarre origine dalla valorizzazione delle risorse locali (quelle vere) e delle capacità di sviluppo del sistema Sardegna. Autocentrato nel senso che la sua realizzazione non dovrà rispondere a interessi di altri centri di potere che non siano quelli esistenti e operanti in Sardegna sotto un reale governo della Giunta Regionale. I vecchi Piani di Rinascita sono stati funzionali a una idea di sviluppo che ruotava intorno alla diffusione di un modello di crescita che poneva al centro lo sviluppo dei poli petrolchimici per la chimica di base, prospettando una miracolosa “discesa a valle” delle produzioni con la creazione di un indotto mai nato nell’isola.
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Oggi Conferenza Stampa di presentazione del Convegno per il Lavoro del 4-5 ottobre 2017

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Verso il Convegno per il Lavoro

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L’ozio è l’alternativa alla “fine del lavoro”?
28 Settembre 2017

di Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.

Il 4 e 5 ottobre si svolgerà a Cagliari un importante Convegno sul lavoro indetto dal Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria e da Europe direct Regione Sardegna. Il tema è intrigante perché tratta anche della robotica e della riduzione del lavoro. Sorge spontanea la domanda: l’alternativa è l’ozio? Quesito su cui si sono cimentati molti dei grandi pensatori anche della sinistra. Ecco ora una stimolante sintesi di Gianfranco Sabattini, autorevole economista dell’Ateneo cagliaritano e relatore al Convegno or ora menzionato, che già ha trattato il tema in diverse riviste a cui collabora, tra le quali Aladinews e Democraziaoggi.
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II lavoro, inteso come attività utile all’esistenzialità dell’uomo, non aveva il valore morale positivo che gli è stato attribuito dal movimento riformatore del Cristianesimo, prima, e da quello sorto, successivamente, in difesa di coloro che venivano “spogliati” dei frutti del loro impegno lavorativo. Già Aristotele esaltava il fatto che gli uomini dovessero avere tutto il tempo libero per diventare virtuosi e perché potessero adempiere i loro doveri civili. Tuttavia, il problema del valore del lavoro è, in realtà, complesso e può essere affrontato solo se considerato nella sua evoluzione storica.
Per capire il “disprezzo” con cui veniva considerato il lavoro prima dell’età moderna, bisogna tener conto del fatto che il sentimento negativo nutrito nei confronti del lavoro non era tanto riferito al lavoro in sé, quanto al rapporto di dipendenza che il lavoro stesso creava tra il lavoratore e colui che utilizzava il prodotto da lui allestito. Costruire la propria casa, i propri utensili, la propria imbarcazione, filare e tessere le stoffe per i propri abiti non aveva nulla di “disprezzabile”; ma lavorare per conto di terzi, per una contropartita, sotto qualsiasi forma, era valutato degradante, in quanto conduceva alla perdita della libertà e a dipendere da altri per la propria sussistenza.
Con l’avvento del Cristianesimo, il lavoro assume addirittura la connotazione di una punizione; nel giardino dell’Eden, il luogo in cui Dio aveva collocato tutti gli esseri viventi, Adamo ed Eva coglievano da alberi perennemente in fiore i frutti necessari alla loro sopravvivenza; dopo il peccato originale, però, Dio ha inventato la punizione del lavoro, obbligando i suoi “figli” a “guadagnarsi il pane col sudore della fronte”.
La condanna non è stata estranea alla nascita, nell’età moderna, della Riforma protestante del XVI secolo; essa, però, ha comportato che del lavoro si affermasse una valutazione positiva. Max Weber, economista, sociologo, filosofo e storico tedesco, in “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, rifacendosi allo spirito della Riforma, ha rovesciato l’originaria “punizione biblica”, considerando il lavoro come essenza del capitalismo.
La Riforma luterana era valsa ad affermare l’inefficacia delle buone opere per essere salvati e per essere “baciati dalla grazia”; la mediazione della Chiesa tra il fedele e Dio, pretesa dalla versione cattolica del cristianesimo, veniva cancellata. Ogni credente diveniva sacerdote di se stesso e nessun uomo poteva pensare di arrivare direttamente a Dio. Questa condizione risultava potenzialmente disperante per il credente che viveva intensamente la sua fede; Calvino ha offerto una “via di fuga” dalla disperazione, affermando che il segno della grazia divina poteva diventare visibile con la ricchezza e il benessere generati dal lavoro.
Anzi, il lavoro in sé acquistava il valore di vocazione religiosa; ciò, perché il lavoro assicurava il credente che Dio era con lui, che era l’eletto, il predestinato. La fede ha potuto così tradursi in spirito del capitalismo e dare luogo a un’organizzazione sociale che, per certi versi, ha trasformato il “vivere insieme” in un “campo di lavoro forzato”, perché tutti, alla ricerca della grazia, erano costantemente impegnati a lavorare per tutto il giorno senza tregua alcuna. Non tutti però, pur lavorando, avevano successo; per cui, nel tempo, all’interno dell’organizzazione sociale capitalistica, si sono formate due classi: da un lato i “baciati dalla grazia”, destinati a diventare la classe economicamente e socialmente egemone; dall’altra parte, i “condannati”, i quali, pur lavorando, sono stati invece “baciati dalla disgrazia”, mancando di acquisire meriti per il paradiso.
La società capitalistica, in tal modo, è venuta lentamente ad essere caratterizzata dalla compresenza di classi sociali antagoniste, nel senso che a quella di chi si era assicurato il paradiso, godendosi alti livelli di ricchezza, di benessere e di tempo libero, se ne è contrapposta un’altra costituita da soggetti che, nella migliore delle ipotesi, riuscivano a sopravvivere alle dipendenze della dei componenti della prima e, nella peggiore, andavano ad irrobustire il numero dei reietti. Successivamente, Marx denominerà la massa dei reietti “esercito industriale di riserva”; con ciò, volendo indicare che, nella società capitalistica, in cui il lavoro era divenuto la “scorciatoia” per il paradiso, la ricchezza, il tempo libero e l’alto livello di benessere di una classe erano stati la conseguenza della trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita di chi non era stato baciato dalla grazia.
L’”inferno in terra” dei “perdenti” sarà motivo della nascita di movimenti politici, costituitisi unicamente in funzione della difesa della causa di chi a quell’inferno era stato condannato senza colpa. Saranno i padri fondatori dell’economia, quali Adam Smith, James Stuart Mill, Alfred Marshall e altri, a sostenere che il lavoro era la fonte del riscatto dall’indigenza di tutti i componenti del sistema sociale, nonché l’attività primaria attraverso cui tutti gli uomini potevano legittimamente aspirare a plasmare il loro destino. Oltre agli economisti, altri pensatori di diverso orientamento hanno elaborato ideologie che auspicavano una più equa distribuzione del frutto del lavoro sociale; anche a loro si deve il progressivo miglioramento delle condizioni esistenziali di chi era stato penalizzato dall’ineguale distribuzione del prodotto sociale, portando a considerare il lavoro come un diritto che la stessa organizzazione sociale doveva garantire, in quanto fonte di dignità e di crescita culturale dell’uomo. Persino il Cristianesimo, nella sua versione cattolica, dopo la condanna originaria dell’uomo a versare col lavoro “lacrime, sudore e sangue”, ha pensato di poter consolare i “perdenti”, predicando che “gli ultimi saranno i primi” ad accedere al paradiso ultraterreno.
Il processo evolutivo del valore del lavoro non è stato tuttavia lineare, facendo registrare anche rivoluzioni sociali, volte a favorire un mutamento delle condizioni distributive quando l’organizzazione sociale fosse risultata totalmente chiusa all’esigenza di realizzare una più equa ripartizione del prodotto complessivo. Questo processo evolutivo si è svolto attraverso il succedersi di diverse “rivoluzioni industriali”.
A cavallo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, con la prima rivoluzione industriale, grandi masse di lavoratori hanno lasciano l’agricoltura per trasferirsi nelle fabbriche; con la seconda, le macchine e l’automazione hanno sostituito il lavoro dell’uomo; con la terza rivoluzione industriale, infine, i lavoratori hanno abbandonato le fabbriche per trasmigrare nel cosiddetto settore terziario avanzato, per la costruzione di macchine intelligenti (robot) destinate a rimpiazzare addirittura l’uomo nella conduzione dei processi produttivi, ponendo in esubero un crescente numero di lavoratori. A seguito del procedere della terza rivoluzione industriale, i lavoratori sostituiti dai robot, sono entrati, come afferma Jeremy Rifkin in “La fine del lavoro”, a far parte del “mondo della disoccupazione, senza che, nel frattempo, l’etica originaria del capitalismo subisse un benché minimo adeguamento alle nuove condizioni che caratterizzano la produzione e la sua distribuzione tra i componenti dei sistemi sociale”.
A questo punto, se il verso dell’ulteriore evoluzione del modo di produrre le condizioni di vita è quello indicato dal succedersi delle rivoluzioni industriali sinora vissute, è inevitabile che il mondo, come afferma l’antropologo americano David McDermott Hughes, in “la Fine del lavoro” (“Internazionale” del 18-24 agosto del 2017), si trovi “di fronte il dilemma di quale Eden costruire: un paradiso dell’ozio o del lavoro?” Ciò, perché buona parte del mondo, a parere di Hughes e di altri studiosi ed analisti, si sta avvicinando a quella che lo stesso Rifkin, in “la società a costo marginale zero”, considera una società in cui le macchine e i computer sostituiranno virtualmente tutti gli sforzi dell’essere umano nella produzione di beni e servizi.
A quel punto, al quale ci si sta avvicinando sempre più rapidamente, il problema che dovrà essere risolto, secondo l’antropologo Hughes, sarà quello di trovare un modo di giustificare l’ozio, inteso come il tempo libero originato dalla fine del lavoro, con la sostituzione dell’attività lavorativa intesa come fonte di identità, di dignità e di autostima dell’uomo. Al riguardo, non tutti, certo non disinteressatamente, sono d’accordo sulla ricerca di un motivo che consenta di non considerare più il lavoro come fonte della dignità umana, sostenendo, in conformità all’etica capitalistica, che il tempo libero debba essere “guadagnato”. Quest’idea, “dura a morire”, è però da tempo contestata.
Già Paul Lafargue, rivoluzionario francese e genero di Marx, nella seconda metà del secolo scorso, in “Il diritto all’ozio”, commentato favorevolmente dal suocero, ha criticato la passione per il lavoro; ciò, in quanto nella società capitalistica, secondo lui, esso era causa della degenerazione intellettuale dell’uomo. A sostegno del diritto all’ozio, Lafargue sosteneva che la passione per il lavoro era da ritenersi esiziale, per le conseguenze che essa aveva sugli uomini e sulla società nella quale vivevano. Il diritto all’ozio non era un’apologia del “dolce fare niente”, ma una requisitoria a favore del “diritto al tempo libero”.
Le idee di Lafargue, in un certo senso paradossali, possono essere comprese solo considerando la sua milizia rivoluzionaria all’interno della società capitalistica dei suoi tempi; cionondimeno, la sua critica dell’eccessivo lavoro cui l’uomo veniva sottoposto in un sistema produttivo sempre più orientato a meccanizzarsi, anziché essere fonte di dignità era invece uno dei più grandi flagelli che avesse mai colpito l’uomo lavoratore, estraniandolo da ogni senso della vita. Meno paradossali sono le idee che John Maynard Keynes ha formulato sulla società del lavoro, sia pure organizzata secondo lo spirito capitalistico di weberiana memoria.
A parere del grande economista di Cambridge, attraverso il succedersi delle rivoluzioni industriali, l’uomo si troverà di fronte al problema di cosa fare, una volta liberato dalle incombenze economiche più pressanti, ovvero del come impiegare il tempo libero che “la scienza e l’interesse composto” gli faranno guadagnare, “per vivere bene, piacevolmente e con saggezza. […] Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi – afferma Keynes – che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo, per servire noi stessi, più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d’oggi, e saremo fin troppo felici di avere limitati doveri, compiti, routines. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di questo ‘pane’ affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito tra quanta più gente possibile. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo”. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, ha affermato Keynes nel 1928, in “Possibilità economiche per i nostri nipoti”, sarebbero state sufficienti, già ai suoi tempi, per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi.
Dai tempi di Keynes le potenzialità produttive sono ulteriormente aumentate sino a prefigurare il prossimo avvento di una società che un altro “visionario” dell’Ottocento, l’economista americano Henry George, in “Progresso e libertà”, aveva previsto potesse costituirsi, in base alla considerazione, condivisa da Lev Tolstoj, che la produzione del sistema economico, attraverso il progresso scientifico e tecnologico, sarebbe stata resa possibile da un’organizzazione produttiva completamente automatizzata, e realizzata a livelli tanto alti da giustificare la liberazione dell’uomo dal lavoro. Sicuramente, man mano che l’intelligenza artificiale sostituirà l’essere umano nell’attività di produzione di tutte le cose delle quali egli ha bisogno, occorrerà che l’organizzazione sociale sposti la sua attenzione dal valore che sinora ha riservato al lavoro a quello della sua distribuzione; purché ciò non sia però l’esito di decisioni caritatevoli, sul tipo di quelle previste dall’attuale sistema di sicurezza sociale, basato sulla distribuzione di “sussidi”, idonei a garantire la sopravvivenza a chi viene espulso dal lavoro, a seguito della robotizzazione dei processi produttivi.
Il raggiungimento di questo obiettivo comporta che siano rimossi dall’etica del capitalismo, sinora prevalsa, molti pregiudizi che ancora si stenta a considerare privi di senso, quali quello che afferma che l’uomo deve “faticare e sacrificarsi, se vuole godere dei frutti del suo lavoro”, oppure quello che recita che “nella vita, nessun pasto è gratis”, e così via. Il vero problema che originerà dalla fine del lavoro, consisterà nel tenere i cittadini, non più lavoratori, impegnati in altre forme di attività, idonee ad appagarli e a consentire loro di realizzare, nella libertà di scelta, i propri progetti di vita. Lo stesso progresso tecnologico, che ha concorso a “svilire” il lavoro, dovrà essere considerato utile alla soluzione del problema, attraverso la distribuzione di un “reddito incondizionato” a tutti indistintamente i cittadini, senza che ad essi sia richiesto di sottoporsi ad un’avvilente “prova dei mezzi”.
L’accesso sicuro a un reddito incondizionato, tuttavia, risolverà solo a metà il problema; perché la soluzione sia completa, occorrerà tenere i cittadini impegnati in attività che abbiano un senso, alternative al lavoro inteso in senso tradizionale. Ciò sarà tanto più necessario, quanto più si vorrà evitare che il tempo libero motivi i cittadini ad indirizzarsi verso attività frustranti ed alienanti (quali, ad esempio, quelle praticate nei Paesi in cui esiste un welfare esteso e universale da molti disoccupati, dove molti disoccupati usano spesso gran parte dei “sussidi” ricevuti dallo Stato caritatevole in forme di consumismo degradanti; oppure quelle praticate dagli Eschimesi-Inuit, che hanno subito un’occidentalizzazione forzata realizzata mediate i “sussidi” elargiti, divenendo il popolo con il più elevato tasso di suicidi al mondo, spinto a vivere emarginato e vittima di un diffuso alcolismo).
La fine del lavoro può non comportare necessariamente “una perdita di senso, perché il senso della vita – come afferma lo storico Yuval Noah Harari in “Disoccupati e felici” (“Internazionale” del 18-24 agosto 2017) – nasce dall’immaginazione, più che dal lavoro. Il lavoro è fondamentale solo per certe ideologie e in certi stili di vita”. L’orientamento dell’immaginazione, però, comporta che sia la società politica del sistema sociale a doverlo realizzare; ciò può essere ottenuto stimolando la condivisione di una “società multiattiva”, interessata a promuovere l’impegno degli uomini liberati dal lavoro ad utilizzare il tempo libero per la cura del corpo con lo sport, per la cura e la conservazione dell’ambiente, per l’assistenza a figli e genitori, nonché per un maggior impegno nell’attività politica e nell’approfondimento della loro cultura.
Non è questo il senso dell’esaltazione del tempo libero dell’antico filosofo? Non è ancora questo il senso dell’aspirazione di economisti, quali John Stuart Mill, Alfred Marshall e John Maynard Keynes, ad assicurare agli uomini una rivoluzione nei livelli produttivi e di vita, tale da garantire all’umanità intera il riscatto dal bisogno, perché convinti, come lo era Keynes, che le idee economiche potessero trasformare il mondo, liberandolo dagli stati di necessità, più di quanto avesse consentito di realizzare l’invenzione del motore a scoppio? L’intendimento del senso degli interrogativi sarà tuttavia ostacolato da chi è rimasto schiavo del modo tradizionale di intendere il lavoro; non è casuale, il fatto che, dopo aver tentato senza successo di devastare la Costituzione repubblicana, l’ex premier governativo Matteo Renzi abbia avuto modo di dichiarare che sono le idee intorno alla possibile introduzione di un reddito incondizionato a devastare l’articolo 1 della Costituzione; con ciò, dimostrando quanto la sua cultura politica sia distante da quella che gli renderebbe possibile la comprensione dei problemi dei quali è portatore il mondo globalizzato attuale, come quello connesso alla fine del lavoro, rientrante fra i suoi possibili effetti futuri.
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Verso il Convegno per il Lavoro

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- La pagina fb dell’evento.
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Punti di vista, lavoro e dignità, autorealizzazione individuale

di Fernando Codonesu

Tutti parlano con cognizione di causa del lavoro al punto che possiamo dire che parlare del lavoro, o meglio di lavoro, è abbastanza facile. Altro è cercare di definirlo. Infatti si può dire che esistano tante definizioni quanti sono i punti di vista che si misurano sul tema. Così troviamo definizioni diverse del lavoro nell’economia, nella fisica, nell’antropologia, nelle religioni, nella giurisprudenza, nella letteratura.
Per tale motivo, anche per non far torto ai vari e validi punti di vista, quando pensiamo al lavoro ci riferiamo a quell’insieme di attività che come esseri umani affrontiamo nella nostra esistenza e che caratterizzano ogni fase della nostra vita.
Quando siamo bambini, ragazzi e giovani in quanto dipendenti dal lavoro dei nostri genitori, quando da adulti costituiamo le nostre famiglie e dipendiamo direttamente dal nostro lavoro, quando andiamo in pensione e godiamo di un assegno in base ai contributi versati in età lavorativa e purtuttavia garantito da chi continua a svolgere l’attività lavorativa anche per noi.

Nel corso del tempo e da diversi punti di vista alla parola lavoro è stata associata la dignità dell’uomo, uomo lavoratore si intende.
In ordine di tempo, forse il soggetto più autorevole che ha rimarcato tale associazione negli ultimi anni è papa Francesco. Per inciso si ricorda qui la frase detta in occasione della sua visita in Sardegna nel 2013: “il lavoro è dignità”.
Siamo sicuramente d’accordo con questa affermazione, nel senso che il lavoro concorre efficacemente alla dignità dell’uomo, ma lo fa quando il lavoro non è alienato, ultra precarizzato e al limite della schiavitù, e purtroppo questo accade anche nel nostro tempo, in forme analoghe a quelle di un passato che pensavamo non potesse più tornare.
Nell’ambito della tradizione cattolica il lavoro è soprattutto conseguenza del peccato originale a cui è seguita la cacciata dal paradiso e quindi è diventato fatica, dolore, per certi aspetti sofferenza come viatico di redenzione e di ricompensa nella vita ultraterrena. Vi è comunque nella dottrina sociale della chiesa cattolica l’associazione lavoro-dignità, rimarcata dal papa attuale.
A nostro avviso, riconoscendo e rimarcando che il lavoro è precondizione per la dignità dell’essere umano, in quanto antropologicamente necessario, affermiamo nel contempo che la sua dignità non dipende esclusivamente dal suo essere lavoratore, ma esiste a prescindere. Vi può essere dignità anche in chi non lavora e vive al di fuori dei meccanismi e sistemi dell’organizzazione del lavoro.
A dimostrazione di questo basti pensare alle società greca e latina del passato dove il lavoro veniva svolto dagli schiavi, ma ci ricordiamo solo degli uomini liberi, quelli che non lavoravano affatto, almeno nell’accezione comune di tale termine, e tra questi dei filosofi che ci hanno insegnato i valori di riferimento degli esseri umani, proprio a partire dalla dignità.
E’ possibile e auspicabile un lavoro diverso, di cui esistono tutte le condizioni. Per tale motivo abbiamo inserito nel titolo l’espressione “lavorare meglio”. Con tale espressione intendiamo un lavoro che sia il più possibile scelto da ciascuno di noi, ovvero un lavoro che ci permetta di autorealizzarci.

Al riguardo, l’attività lavorativa che distingue e rende singolare l’uomo come fondamento positivo della polis, è il lavoro che implementa l’idea trasformandola in progetto, in dispositivo, sistema, impresa, il lavoro come atto libero e liberatorio, ovvero è l’opus di latina memoria.
Per tale motivo, considerato l’attuale sviluppo dell’informatica e della robotica, la cosiddetta civiltà delle macchine, dobbiamo eliminare dal lavoro lo sforzo, la fatica, la ripetitività e l’alienazione per arrivare ad un lavoro liberato dalla necessità e dalla paura della povertà.
Il lavoro di cui parliamo, quindi, è un lavoro che promuove e rende possibile lo sviluppo delle proprie capacità, delle proprie passioni che si trasformano in progetti e professioni, un lavoro cioè che può essere anche piacere, sviluppo di potenzialità di ciascuno, autorealizzazione nell’arte, nella scienza, nelle tecnologie, un lavoro senza divisione tra mezzo e fine, tra produzione e consumo, quale fondamento dell’etica e dell’organizzazione della società. A tale riguardo bisogna ripensare il mondo in cui viviamo per costruire una società più giusta, con regole di vita che permettano l’autorealizzazione e che ci facciano vivere come individui sociali, con relazioni e affettività individuali e collettive.
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- Il primo intervento: Il lavoro e l’impresa nella Costituzione.
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democraziaoggi* anche su Democraziaoggi.
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L’ozio è l’alternativa alla “fine del lavoro”?
28 Settembre 2017
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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Oggi giovedì 28 settembre 2017

democraziaoggiVerso il Convegno sul lavoro a Cagliari
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Il lavoro come fondamento della Repubblica
Questo il titolo del Convegno dibattito, promosso dal Comitato d’iniziativa costituzionale e Statutaria e da Europe direct Regione Sardegna, che si terrà a Cagliari il 4-5- ottobre Hotel Regina Margherita.
 Su Democraziaoggi.
Oggi Conferenza Stampa di presentazione del Convegno, alle ore 10.30, nella sede dello Europe Direct Regione Sardegna che si trova presso la Mediateca del Mediterraneo a Cagliari in Via Mameli 164.
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La pagina fb dell’evento.
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images-terzo-settoreCommenti al Codice del Terzo Settore: su LabSus. labsus
—————Convegno per il Lavoro DOCUMENTAZIONE————–

Convegno sul Lavoro DOCUMENTAZIONE su Aladinews e Democraziaoggi

locandina-convegno-2- Il lavoro e l’impresa nella Costituzione, di Fernando Codonesu.
- Punti di vista, lavoro e dignità, autorganizzazione individuale, di Fernando Codonesu.
- L’ozio è l’alternativa alla “fine del lavoro”? di Gianfranco Sabattini.

I Kurdi verso l’Indipendenza?

donne-curde-voto_largedi Francesco Casula
Soffia potente il vento indipendentista. Non solo in Europa con i Catalani che il 1° ottobre prossimo sono chiamati al referendum.
Domenica scorsa 24 settembre infatti sono andati alle urne i Kurdi irakeni: 5,3 milioni di elettori per una giornata storica per questo popolo. Secondo la tv Rudaw, l’affluenza è stata massiccia, attorno al 78 per cento. Il risultato non era in discussione, ma è stato comunque un plebiscito: il 91,8 per cento ha votato a favore dell’indipendenza.
Ora l’augurio è che anche i Kurdi presenti negli altri Stati esprimano la stessa volontà di Autodeterminazion e al più presto possano avevere uno Stato indipendente.
I Kurdi infatti rappresentano storicamente un popolo sottoposto a un drammatico destino: senza diritti, deportati, incorporati coattivamente in una miriade di Stati stranieri: Iraq, Iran, Siria, Turchia e persino Libano e in alcune regioni asiatiche dell’ex URSS.
Senza Stato, con più di 30 milioni di abitanti, il popolo kurdo dal lontano 1924 ha subito una politica di discriminazione razziale che non ha esempi né precedenti in nessuna altra parte del mondo.
Gli Stati che lo opprimono, con tutti i mezzi a loro disposizione, come la stampa, la radio-TV, l’esercito, la polizia, la scuola, l’università, hanno condotto e continuano a condurre una politica mirante non solo a negare i loro diritti inalienabili, sanciti da tutte le Convenzioni internazionali e dall’Onu ma ad eliminare la loro stessa esistenza fisica.
Per quasi un secolo i kurdi non esistono: né come popolo, né come etnia, né come lingua, né come cultura.
In modo particolare in Turchia, dove non li chiamano neppure con il loro nome ma “Turchi della montagna” – ma anche gli altri Stati che li hanno incorporati non sono da meno, pensiamo solo ai massacri da parte del dittatore criminale Saddam Hussein – il popolo kurdo è soggetto a distruzione sistematica da parte di tutti i governi che si sono succeduti dal 1924.
Secondo alcuni storici dal 1924 al 1941 la politica degli stati oppressori è stata nei confronti dei kurdi di vero e proprio “etnocidio”: penso in modo particolare a J. P. Derriennic ((Le moyen Orient au XX siecle, pagina 68).
Ma non basta. Il dramma dei Kurdi è certamente quello di essere martoriati e “negati” negli Stati in cui sono attualmente incorporati ma anche quello di essere cancellati dall’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, dai media, dalla scuola.
A questo proposito mi sono preso la briga di analizzare e visionare, in modo rigoroso e puntuale ben 32 testi scolastici di storia estremamente rappresentativi e attualmente in adozione nelle Scuole italiane, rivolti ai trienni delle scuole superiori (Licei, Magistrali, Istituti tecnici e professionali).
Ebbene, dal mio studio e dalla mia indagine risulta che su 32 testi – che diventano 96 perché ogni tomo contiene tre volumi, uno per ciascuna classe del triennio – ben trenta non dedicano neppure una riga al problema kurdo: di più, il termine kurdo non viene neppure nominato!
Non ci ricorda vagamente un altro popolo?
Eppure si tratta di storici non solo noti e prestigiosi ma di ispirazione e orientamento prevalentemente cattolico, liberale, progressista ma soprattutto di sinistra. Ne ricordo solo alcuni, quelli piiù noti: G. Candeloro e R. Villari, F. Della Peruta e G. De Rosa, A. Desideri e M. Themelly, A. Giardina e G. Sabbatucci, A. Brancati e T. Pagliarani, A. Camera e R. Fabietti, A. Lepre e M. Bontempelli, C. Cartiglia e M. Matteini, F. Gaeta, P. Villani, G. De Luna.
Ahi, ahi, che brutti scherzi combinano ai “nostri” le categorie storiche statoiatriche, centralistiche, eurocentriche e occidentalizzanti!.
Sottoposti alla disintegrazione etnica-culturale (minoranze curde esistono in Libano e nelle regioni asiatiche dell’ex URSS), alla deportazione di massa da parte turca e iraqena, alla colonizzazione, i Kurdi sono stati costretti ad emigrare per evitare persecuzioni e disoccupazione. Alla loro storia nuoce non poco il fatto di abitare territori ricchi di petrolio e dunque di essere al centro di contese regionali e internazionali.
Col trattato di Sèvres fra l’impero ottomano e le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale (1918-1920), la Turchia si impegnò a favorire la formazione di un Kurdistan autonomo nella parte orientale dell’Anatolia e nella provincia di Mossul, presupposto dell’indipendenza. Il disegno delle potenze imperialistiche mirava a farne uno stato cuscinetto fra Russia e Turchia.
Ma la vittoria della rivoluzione Kemalista e il trattato di Losanna cancellarono i diritti del popolo kurdo. Ricordo che tale rivoluzione fu guidata da Ataturk, celebrato dai “nostri” storici e dall’Occidente in modo entusiastico, quando in realtà fu il più grande persecutore e massacratore del popolo curdo.
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- Nella foto: Donne di Suleymaniya testimoniano di aver votato (Reuter)

Oggi mercoledì 27 settembre 2017

donne-curde-voto_largeSOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » DEMOCRAZIA
Referendum Kurdistan, Affluenza alta alle urne. Soldati al confine
NENA News, 27 settembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Secondo i risultati provvisori, il “Sì” è al 93%. Baghdad: “Non dialogheremo con i curdi”. Il parlamento iracheno vota per il dispiegamento di soldati vicino alle aree controllate dal Krg dal 2003. Ankara minaccia l’invasione del nord dell’Iraq».
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democraziaoggiVerso il Convegno sul lavoro a Cagliari
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Il lavoro come fondamento della Repubblica

Questo il titolo del Convegno dibattito, promosso dal Comitato d’iniziativa costituzionale e Statutaria e da Europe direct Regione Sardegna, che si terrà a Cagliari il 4-5- ottobre Hotel Regina Margherita.
 
Su Democraziaoggi.
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La pagina fb dell’evento.
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lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. Rivisitare il saggio di Croce. PERCHÉ NON POSSIAMO DIRCI CRISTIANI SENZA IL CRISTIANESIMO.
L’operazione crociana, infondata ieri, non è riproponibile oggi. Comincia invece un tempo in cui le Chiese e le fedi, liberate dall’abbraccio col potere, possono ripartire dai poveri e curare le ferite di un’umanità dolente.
di Raniero La Valle
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lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. Le elezioni tedesche
OTTO PER CENTO

Si può governare facendo una politica giusta, ma se il liberismo è regime la sinistra non può vincere
di Raniero La Valle
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Convegno per il Lavoro 4 – 5 ottobre 2017

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