Monthly Archives: luglio 2018

NewsLetter

10f6f602-1f3d-4da4-ba7a-8a303afab397Newsletter n. 105
Scegliete oggi chi volete servire (Gs 24,15)
Notizie da
Chiesa di tutti Chiesa dei poveri
Newsletter n. 105 del 31 luglio 2018

I CITTADINI, PRIMA DELLA CADUTA

Care amiche ed amici,

All’origine delle disuguaglianze

img_47251
Lo Stato non sempre è la causa delle disuguaglianze sociali

di Gianfranco Sabatini*

Luciano Pellicani, in “Il potere, la libertà e l’eguaglianza”, avanza una “teoria” riguardante l’origine e la formazione delle disuguaglianze sociali che sembra rispondere al tentativo di dimostrare la fondatezza delle tesi del neoliberismo, secondo le quali i mali dell’umanità sarebbero insorti sin dall’inizio del vivere insieme, con la formazione dello Stato.
La vera rivoluzione nella protostoria dell’umanità – afferma Pellicani, seguendo il pensiero di Pierre Clastres – non è quella compiutasi nel neolitico (considerata la prima rivoluzione agricola, tradottasi in una organizzazione tribale di esseri dediti prevalentemente ad un’attività di caccia e raccolta), bensì quella verificatasi, non con il mutamento economico (realizzato con il passaggio delle tribù stanziali di cacciatori-raccoglitori in tribù stanziali che alla caccia e alla raccolta hanno sostituito la coltivazione delle piante e l’addomesticazione degli animali), ma con l’organizzazione politica, che ha dato origine, secondo le parole di Clastres, all’”apparizione misteriosa, irreversibile, mortale”, dello Stato. Che cosa – si chiede Pellicani – poteva indurre “i membri di una società primitiva ad abbandonare il tradizionale regime di sussistenza e ad adottarne un altro dal quale non potevano ricavare che un surplus di lavoro, se non la coercizione esercitata da una forza esterna?”.
La comparsa dello Stato, secondo Pellicani, avrebbe alterato irreversibilmente la vita dell’umanità, in quanto le tribù stanziali, che attraverso di esso si organizzavano socialmente, hanno subito gli esiti negativi dell’accadimento di fatti esogeni che ne hanno alterato la struttura; all’interno di tali tribù, gli esseri umani, se tali eventi non si fossero verificati, sarebbero stati destinati ad essere per sempre uguali, in quanto insistenti all’interno di una realtà sociale statica, riproducente unicamente e semplicemente se stessa, “senza modificazioni sostanziali”. La staticità di questa forma di società tribale, sempre secondo Pellicani, sarebbe stata “il risultato di una precisa strategia”, orientata a bloccare o ad impedire qualsiasi forma di cambiamento. A causa della loro staticità e della loro chiusura verso qualsiasi tipo di innovazione, le società tribali primigenie si sarebbero, perciò, caratterizzate come “società fredde”, e non come “società calda”: le prime, incorporanti il desiderio di conservare inalterata la propria struttura di base; le seconde, sollecitate da un’elevata differenziazione dei loro componenti in caste e gruppi diversi, sempre propense a produrre “energie e divenire”.
Ciò che avrebbe caratterizzato il modo d’essere della società tribale originaria sarebbe stato il rifiuto di ogni surplus produttivo inutile e la volontà di subordinare l’attività produttiva alla sola soddisfazione del bisogno esistenziale di sopravvivenza; il risultato del rifiuto di ogni surplus inutile sarebbe stata la mancata conoscenza, da parte dei componenti di questo tipo di società, dell’attività produttiva sotto costrizione; ciò significa – afferma Pellicani – che la società tribale, in quanto società fredda, non solo non avrebbe conosciuto il dominio dell’uomo sull’uomo, ma neanche avrebbe avuto contezza di cosa fosse lo sfruttamento della forza lavoro.
Ma c’è di più, continua Pellicani; seguendo Clastres, egli afferma che la società tribale primitiva era statica perché ha voluto esserlo. Essa, con ciò, si sarebbe rifiutata di imboccare la via dello sviluppo culturale, per preservare il suo bene supremo: l’uguaglianza. La società tribale originaria, sarebbe stata perciò una società senza economia, per il rifiuto dell’economia; e, parimenti, essa sarebbe stata una società senza Stato, per rifiuto dello Stato.
Il passaggio dalla società tribale ugualitaria alla società caratterizzata da ineguaglianza sociale è stata la comparsa di ciò che viene indicato col nome di Stato, inteso come “atto di guerra”, a mezzo del quale un gruppo organizzato esterno ha fatto irruzione nella società ugualitaria, dando corso all’inizio della storia della civiltà. In altri termini, secondo Pellicani, con la comparsa dello Stato, la società tribale ugualitaria si sarebbe trasformata in “società gerachizzata”, nella quale la vita sociale sarebbe stata sottoposta al controllo di una “minoranza organizzata”, detentrice del monopolio degli strumenti di coercizione e che, grazie a tale monopolio, avrebbe “esonerato se stessa da ogni forma di lavoro produttivo”.
Pellicani ritiene che la conclusione di tale processo avrebbe caratterizzato “la genesi e lo sviluppo di tutte le civiltà”, con la discesa dalla libertà alla schiavitù; fatto, questo, che avrebbe segnato una “vera e propria catastrofe morale”, in quanto la transizione verso la società complessa caratterizzata dalla presenza dello Stato avrebbe significato l’abbandono della società ugualitaria e l’ingresso “nella società divisa in dominatori e dominati, padroni e servi, sfruttatori e sfruttati”. Pertanto, la comparsa dello Stato avrebbe legittimato l’affermazione secondo cui lo Stato sarebbe nato quando è stata fatta “una scoperta di fondamentale importanza per lo sviluppo delle civiltà: gli uomini potevano essere addomesticati come gli animali e la loro energia poteva essere metodicamente impiegata per scopi ad essi estranei”; tutto ciò sarebbe stato compiuto, tramite lo Stato, dalla minoranza organizzata, non attraverso la sottrazione dell’eccedenza produttiva, ma ricorrendo alla costrizione dell’attività lavorativa.
In tal modo, lo Stato avrebbe organizzato la totalità della vita di tutti i componenti la società, costringendoli a produrre “quelle eccedenze di beni indispensabili per mantenere le minoranze esentate dal lavoro”; inoltre, estirpando, con l’uso della violenza, tutte le forze che potevano “alterare” l’ordine grazie ad esso creato, lo Stato avrebbe agito come “un agente di immobilizzazione della società”. Questa, a partire dal trionfo della logica dispotica, sarebbe stata così “ingabbiata” nelle strutture statuali e condannata a muoversi indefinitamente “entro il recinto della Sacra Immutabile Tradizione”.
Cosa ha significato tutto ciò per la storia successiva dell’umanità? Per Pellicani, il fatto che la società sia stata rigidamente costretta nella “camicia di forza” delle istituzioni repressive dello Stato avrebbe vanificato qualsiasi tentativo di render meno costrittiva la vita sociale e più condivise e partecipate le regole del vivere insieme, sino a configurare come utopistico, infine, qualsiasi “progetto socialista” volto a soddisfare la pretesa, secondo le parole di José Ortega y Gasset, di “estendere il senso di comunità e la giustizia a tutta quanta la vita economica”. Persino il programma di garantire a tutti le stesse condizioni di partenza attraverso politiche di ridistribuzione – afferma Pellicani – si sarebbe rivelato “irrealizzabile” o, più precisamente, “realizzabile solo abolendo la famiglia”; ma abolire la famiglia avrebbe significato imboccare un percorso autoritario, in fondo al quale non avrebbe potuto esservi che “l’estinzione della libertà individuale”.
In sostanza, la conclusione di Pellicani non può che essere una: anche la civiltà moderna cui è pervenuta l’umanità, malgrado le tante rivoluzioni occorse (comprese le ultime, quelle capitalistica e welfarista) è basata sul lavoro servile, ovvero “sulla ingiustizia istituzionalizzata”; ciò significa che, nonostante si sostenga, in tutte le sedi e in tutte le forme, che l’ideale della società moderna è il conseguimento della “fruizione universale del diritto all’autorealizzazione”, è inevitabile che essa (la società moderna) sconti la contraddizione di assistere, nonostante l’ideale professato, alla condanna di ingenti masse dei propri cittadini a lavori obbligati, ripetitivi e alienanti.
E’ verosimile l’analisi compiuta da Pellicani sull’origine e sul ruolo dello Stato nella storia dell’umanità? Quale alternativa viene proposta per il riscatto degli uomini dalla gabbia nella quale essi sarebbero stati costretti dallo Stato? Nessuna; perché l’anali di Pellicani non è altro che una condanna, senza se e senza ma, dello Stato, ridotto a pura e semplice “gabbia”, con cui l’uomo, sin dall’inizio della storia della civiltà, è stato costretto in schiavitù. Ciò che, in particolare, non è condivisibile dell’analisi di Pellicani è il fatto che egli, seguendo Clastres, non consideri, come “fattore” dinamica jmico della la rivoluzione agricola occorsa 11-10 mila anni fa, la percezione, da parte dei soggetti che componevano la società tribale ugualitaria, di poter migliorare le proprie condizioni di sopravvivenza, con il passaggio ad una forma organizzativa del vivere insieme che avesse consentito di produrre direttamente e in modo più conveniente ciò di cui avvertivano il bisogno.
A ben considerare, la società agricola si è affermata, non a seguito del compiersi prioritariamente di una rivoluzione politica, imposta dall’esterno, implicante l’apparizione dello Stato e, con esso, della perdita dell’uguaglianza tra i componenti la società, ma come conseguenza del mutamento economico perseguibile con l’abbandono della staticità della società tribale ugualitaria. La rivoluzione politica è stata un “posterius, non un “prius”, rispetto al mutamento economico verificatosi con l’abbandono della sussistenza fondata sull’attività di caccia e raccolta. La comparsa dello Stato, in questa prospettiva è spiegabile come conseguenza dell’aumento della complessità della società agricola, che ha imposto la necessità di istituzioni volte a regolare la disuguaglianza che veniva via via formandosi a seguito del continuo aumento della popolazione, reso possibile dal miglioramento delle condizioni materiali.
Il mutamento economico, indotto dalla crescita continua della popolazione, ha prodotto, da un lato, un aumento della divisione del lavoro e, dall’altro lato, la consapevolezza dell’utilità della formazione di istituzioni che giustificassero la divisione della società in classi, alcune dedite all’esecuzione dei lavori più usuranti, altre alle attività di direzione e comando, o alle attività di “propaganda ideologica” per la conservazione dell’ordine costituito. Si è trattato di un processo durato millenni, che, pur in presenza di un continuo e lento miglioramento delle condizioni del vivere insieme, ha consolidato la disuguaglianza sociale che l’avvento delle società agricola era valsa ad affermare e a regolare con l’organizzazione politica e la nascita dello Stato.
Tuttavia, per legittimare la loro condizione, le classi egemoni (formatesi spontaneamente o anche a seguito di atti di conquista), hanno dovuto destinare una quota del prodotto sociale “estorto” alla soddisfazione degli stati di bisogno delle classi subalterne; per cui, se da un lato ciò ha concorso a reiterare la posizione subalterna delle classi sfruttate, dall’altro lato, ha contribuito ad “indebolire” la posizione delle classi alte; favorendo, man mano che aumentava la complessità della vita sociale, l’espansione della rappresentanza delle classi subalterne e consentendo a queste ultime di aumentare il loro “peso” nell’esercizio della “funzione fiscale”. Si è avvivati così all’organizzazione del moderno Stato sociale di diritto, la cui forte rappresentatività degli interessi di tutti componenti della società ha comportato che le decisioni con le quali veniva stabilito il livello della tassazione fossero molto più omogenee (o vicine) a quelle dei singoli componenti la società, di quanto non lo fossero quelle che potevano essere prese dalle classi egemoni, fossero esse rappresentate da un ex “signore della guerra”, da un Faraone, Re o Imperatore.
Lo Stato, quindi, lungi dall’essere stato la “gabbia” nella quale gli uomini sono stati costretti per subire la disuguaglianza tra classi egemoni e classi subalterne, la differenziazione sociale non è stata irreversibile ed assoluta, in quanto la società nata con la rivoluzione agricola è sempre stata caratterizzata da una dialettica che ha visto nel tempo la “società civile” contrapporsi allo Stato; contrapposizione, questa, che, nella sua forma più evoluta e moderna, aspira a conseguire attraverso la democrazia un continuo e giusto equilibrio tra libertà, uso efficiente delle risorse e equa distribuzione del prodotto sociale, al fine di rendere possibile, pur in presenza di disuguaglianze condivise, l’aspirazione di tutti all’autorealizzazione. Lo Stato, quindi non è la “gabbia” che tiene in schiavitù gli esseri umani che vivono in società organizzate politicamente; esso, al contrario, è lo strumento che, se gestito democraticamente, consente alle società civili di difendersi contro chi, per il proprio tornaconto, vorrebbe ricondurre gli uomini, attraverso l’abolizione dello Stato, all’originaria posizione di schiavitù, dalla quale essi, dopo dure lotte millenarie, sono riusciti a riscattarsi.
————
* anche su Avanti! Online.

Oggi martedì 31 luglio 2018

lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2img_4633Anpi logo nazcostat-logo-stef-p-c_2-2serpi-2ape-innovativaanna-larossa-borsaimg_6997
————Avvenimenti&Dibattiti&Commenti———————————-
Davide Casaleggio e la sinistra… senza speranza
31 Luglio 2018

Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
—————————————————-——————
OPINIONI » OPINIONISTI » NEBBIA
Lavorare fa male alla salute
di GIORGIO NEBBIA su eddyburg.
“Lavorare fa male alla salute”. E’ il titolo di un libro scritto da Jeanne Stellman e Susan Daum, pubblicato nel 1973 e subito radotto in italiano da Feltrinelli, una amara e spietata… (segue su eddyburg)
lavorare-32389237_10214955016896202_9127538281255272448_n
- https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10214955016856201&set=a.10201710505671699.1073741825.1452014508&type=3&theater
[su fb] Interessante impostazione filosofica. Grafia accurata, sui muri della via Corte d’Appello, Dipartimento di Ingegneria e Architettura. Che a scriverlo sia stato un professore? Il Magnifico indaga….
—————————————-

Dibattito sulla fase politica. Bisogno di sinistra

beato-angelico-san-pietro-martire-ingiunge-il-silenzio-dettaglio-affresco-ca-1442-lunetta-nel-chiostro-detto-di-santantonino-del-convento-di-san-marco-museoCorriere della Sera – 30 luglio 2018 – pagina 1
IDENTITÀ E OPPOSIZIONE
una scelta di sinistra: conservare

di Ernesto Galli della Loggia

In una democrazia «stare all’opposizione», «essere opposizione», può significare due cose distinte. La prima e più ovvia, non condividere il programma politico della maggioranza e contrastarlo. La seconda, invece, avere un’identità — cioè un sistema di valori e di prospettive, una visione del mondo — diversa ed opposta rispetto agli orientamenti generali dominanti nella società.
I grandi partiti della sinistra — di una sinistra quasi sempre socialista — sono stati un esempio classico di sovrapposizione tra i due aspetti di cui ho appena detto. E a seconda delle circostanze e della capacità delle loro leadership tale sovrapposizione ha prodotto risultati politicamente buoni o no. Sta di fatto, comunque, che da quando la storia ha messo fuori gioco l’identità socialista, quella sovrapposizione ormai non esiste più: e in molti Paesi il suo venir meno ha coinciso con il fortissimo indebolimento di quei partiti stessi e in generale dell’opposizione. Non a caso. Infatti, essere opposizione disponendo esclusivamente di risorse politiche — e rinunciando d’altra parte a utilizzare le risorse della demagogia come invece fanno i populisti: anzi battendosi contro costoro — è quanto mai difficile. Specie perché oggi la libertà di scelta della politica è limitata drasticamente dai vincoli dell’economia e della finanza globalizzate oltre che della tecnica, e dunque, in sostanza, una medesima gabbia di ferro tiene prigioniere in uno spazio limitato la politica e con essa la maggioranza e l’opposizione. (Segue)

Riflessioni importanti

coordinamento-democrazialampada aladin micromicroRiceviamo e volentieri pubblichiamo.
Facciamo il punto
di Mauro Beschi
Come di consueto vi inviamo alcuni articoli che riteniamo interessanti riguardo la missione del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale.

Desidero cogliere questa occasione per fare il punto sulla situazione in cui noi stiamo portando avanti la nostra azione, una azione faticosa nella quale pesano le nostre forze ridotte, pur fondate su un impegno individuale meraviglioso e disinteressato, le nostre scarsissime risorse, tutte costituite da autofinanziamento, e, soprattutto, un nuovo e pericoloso clima di stanchezza, delusione e ripiegamento che attraversa gran parte di coloro che, avendo a riferimento i valori Costituzionali, hanno visto via via scemare il ruolo delle Istituzioni e della politica verso scelte progressiste, di legalità e di solidarietà sociale.
(Segue)

Oggi lunedì 30 luglio 2018

lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2img_4633Anpi logo nazcostat-logo-stef-p-c_2-2serpi-2ape-innovativaanna-larossa-borsaimg_6997
————Avvenimenti&Dibattiti&Commenti————————

È uscito il periodico La Collina

È uscito La Collina n. 3 luglio-settembre 2018. Edito dall’Associazione “Cooperazione e confronto” della Comunità d’accoglienza La Collina fondata e guidata da don Ettore Cannavera, la rivista è diretta da Maria Francesca Chiappe.
630fba77-8861-4f5f-9758-6190e8513708

Oggi domenica 29 luglio 2018

773f1a7a-3cb8-4e0f-ba46-a3feda2f5eb3lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2img_4633Anpi logo nazcostat-logo-stef-p-c_2-2serpi-2ape-innovativaanna-larossa-borsaimg_6997
————Avvenimenti&Dibattiti&Commenti————————
Democrazia consigliare, né diretta né parlamentare
29 Luglio 2018

    Guido Liguori Il Manifesto 25-7-2018, ripreso da Democraziaoggi

.
————————————————————

Contus de Biddanoa

8a334f96-9573-4fe6-b112-dac191ce93a9O mi dorme o lo dormo .
Quando si avvicinavano le date delle riunioni pugilistiche la temperatura nel quartiere diventava caldissima, i ragazzi, fin dall’infanzia erano grandi esperti di pugilato, tifosissimi dei campioni cagliaritani che a fine anni ’50 e primi anni ’60, spopolavano in Europa, e si organizzavano per trovare il modo di assistere, senza pagare, ai combattimenti che si svolgevano nello stadio Amsicora. Nel quartiere di Villanova moltissimi ragazzi avevano trascorsi da boxeur quantomeno a livello di allievo, se non da novizio o da dilettante. Non mancava qualche professionista, anche se fra i prof i grandi campioni provenivano da altri quartieri o dalle frazioni, TONINO P. sarebbe sbocciato verso negli ultimi anni 60.
Era frequente in occasione delle riunioni all’Amsicora far precedere gli incontri fra i professionisti, con titoli italiani o europei in palio, da combattimenti “sottoclou” riservati a neo professionisti e anche a pugili dilettanti. In questi casi il massimo dell’entusiasmo era suscitato dalla presenza di qualche pugile del quartiere.
Fra quelli che hanno avuto una bella carriera a livello dilettantistico ricordo F. un bravo falegname che lavorava in una bottega della piazza. Era tesserato per la palestra Sardegna, ma i suoi allenamenti non finivano li. In quasi tutte le case c’era un paio di vecchi guantoni spesso malandati, e per i ragazzi era un punto d’orgoglio, specialmente nei giorni che precedevano i combattimenti, mettersi a disposizione di F. come sparring partner. Per non fare torti a nessuno F. si risparmiava in palestra, ma dopo il lavoro in bottega si produceva in scambi, schivate e in qualche uno-due pur senza affondare i colpi. Inutile dire la soddisfazione dei ragazzi che potevano vantarsi di aver incassato senza batter ciglio una scarica da F. che, anche in virtù di quella preparazione, aveva sbaragliato l’avversario, meglio se sassarese o continentale.
Nei giorni seguenti nel quartiere, ma soprattutto nella piazza si commentavano le varie fasi della riunione, incontro per incontro, ripresa per ripresa. Dopo aver dedicato la doverosa attenzione ai big Rollo, Manca, Burruni e altri beniamini d’ importazione come l’argentino Oracio Accavallo spacciato per oriundo sardo da un fantasioso giornalista, si passava all’analisi approfondita dei combattimenti di contorno, che tali non erano poiché avevano per protagonisti i pugili locali delle varie palestre cittadine contrapposti all’insegna di “o mi dorme o lo dormo”. (Segue)

Domani Jogos MpB in Terrazza

domenica-29-lug-18
Jogos MpB in Terrazza organizza Eutropia.
- L’evento in fb.

Oggi sabato 28 luglio 2018

lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2img_4633Anpi logo nazcostat-logo-stef-p-c_2-2serpi-2ape-innovativaanna-larossa-borsaimg_6997
————Avvenimenti&Dibattiti&Commenti————————
La fake democracy di Casaleggio jr
28 Luglio 2018

Massimo Villone Il Manifesto 25.7.2018, ripreso da Democraziaoggi.
——————————————————————-

Gli Editoriali di Aladinews

lampada aladin micromicrogenio della lampada bomeluzo- Gli Editoriali di Aladinews.

DIBATTITO. La disuguaglianza distributiva “male del secolo”, ma la cura efficace e convincente a tutt’oggi non si appalesa, se non con parzialità.

img_47251
Il “male del secolo” che gli economisti non riescono a “curare”

di Gianfranco Sabattini*

Secondo un articolo apparso su “L’Espresso” dei mesi scorsi, i dati elaborati dall’ISTAT evidenziano l’aggravarsi in Italia del “divario fra chi ha e potrà avere, e chi non ha. Mostrando come il problema abbia solo sfiorato, per ora, alcune categorie, mentre ne ha già gravemente penalizzate altre. Soprattutto i giovani. Le regioni del Sud. E le persone attorno ai 55 anni. Parti di popolazione che si stanno separando a una velocità cui la politica risponde in ritardo”; forse, è il caso di dire, non sta rispondendo affatto, visto che il divario tende ad aggravarsi.
Il fenomeno della disuguaglianza distributiva in termini di ricchezza accumulata o di reddito percepito non è solo italiano, ma comune alla maggioranza dei sistemi economici di mercato; riguardo ad esso, gli economisti non sono pervenuti ad un’univocità interpretativa, sia riguardo alle cause, che alle misure di politica economica utili al suo contenimento; anzi, una robusta corrente di pensiero fra gli addetti allo studio del funzionamento dei sistemi economici ha teorizzato l’ineliminabilità della disuguaglianza, in quanto considerata strumentale rispetto alla crescita ed allo sviluppo.
E’ interessante seguire il dibattito, sempre alimentato dagli economisti, riguardo al problema della disuguaglianza distributiva. Nel corso dell’Ottocento si è tentato di spiegare, giustificare, ma anche di criticare, la formazione in seno ai singoli sistemi economici di alti livelli di disuguaglianza distributiva. Al riguardo, due erano le posizioni che caratterizzavano il dibattito sulla natura del fenomeno; tra gli esponenti della scuola classica, ad esempio, vi era chi, come Karl Marx, parlava di sfruttamento, e chi, come Nassau Senior, considerava il fenomeno della disuguaglianza come conseguenza del “non consumo”, nel senso che chi riusciva ad “avere di più” in termini distributivi non lo doveva allo sfruttamento perpetrato ai danni di qualcuno, ma, come sottolinea Joseph Stiglitz (“Invertire la rotta. Disuguaglianza e crescita economica”), al fatto che l’”avere di più” era la conseguenza della ricompensa spettante a chi in seno al sistema sociale rinunciava a consumare.
A rimuovere l’incertezza riguardo alla natura della disuguaglianza distributiva è sopraggiunta sul finire dell’Ottocento la “teoria neoclassica della produttività marginale”, secondo la quale la “ricompensa”, o meglio la parte del prodotto sociale spettante a ciascun partecipante al processo produttivo, rappresentava la “retribuzione” riflettente il contributo di ciascun individuo alla formazione di quel prodotto. Mentre il concetto di sfruttamento suggeriva che coloro che ottenevano di più potevano farlo solo in virtù della loro alta posizione nella scala sociale, a scapito di coloro che stavano più in basso; secondo la teoria della produttività marginale – ricorda Stglitz – chi “stava in alto” otteneva il di più solo perché dava di più.
I teorici della teoria neoclassica hanno ulteriormente perfezionato la spiegazione della disuguale distribuzione del prodotto sociale, sostenendo che, laddove il processo economico si fosse svolto in presenza di un mercato competitivo, il fenomeno dello sfruttamento (dovuto, ad esempio, alla presenza nel mercato di anomalie, espresse da posizioni monopolistiche o da pratiche discriminatorie poste in essere da un operatore ai danni di altri) non sarebbe potuto durare e che gli accrescimenti della disuguaglianza, comportando l’accrescimento del capitale concentrato nella mani degli imprenditori, avrebbe provocato anche un aumento dei salari; di conseguenza, la maggiore accumulazione di risorse capitalistiche di chi “stava in alto” avrebbe portato benefici anche per chi “stava in basso”.
In termini formali, ricorda Stiglitz, la teoria della produttività marginale giustificava il fatto che tutti coloro che prendevano parte al processo produttivo ottenessero, in un mercato competitivo, una rimunerazione commisurata al valore del loro contributo alla formazione del prodotto sociale, pari “alla loro produttività marginale”. In tal modo, la stessa teoria della produttività marginale, associando una ricompensa (reddito) più elevata a un maggior contributo alla formazione del prodotto sociale, poteva giustificare anche un trattamento fiscale preferenziale per coloro che percepivano di più; ciò perché coloro i cui alti redditi fossero stati tassati sarebbero stati privati della “giusta ricompensa”, scoraggiandoli ad effettuare ulteriori investimenti in continue innovazioni produttive, a scapito di tutti.
Com’è noto, la teoria neoclassica prescindeva dalla presenza e dal ruolo delle istituzioni sociali; queste, come risulterà chiaro dall’esperienza vissuta col procedere della crescita economica, potevano con la loro azione rimuovere tutte le anomalie e le discriminazione che avessero condizionato il regolare funzionamento del mercato, quindi correggere con provvedimenti esogeni al mercato la stessa disuguaglianza distributiva, quando questa avesse assunto dimensioni tali da risultare disfunzionale rispetto all’ulteriore crescita del sistema economico. Ancora, le stesse istituzioni sociali potevano contrastare le anomalie del mercato con l’introduzione di nuove regole destinate, per esempio, a garantire un miglior funzionamento del mercato del lavoro, la realizzazione di un sistema di sicurezza e di assistenza sociale contro gli esiti delle fasi negative del ciclo economico, o un più giusto ed equo sistema fiscale.
L’esperienza è valsa a fare emergere il fatto che uno dei principali compiti della teoria economica deve essere la comprensione del ruolo delle istituzioni nella regolazione del funzionamento dei mercati, con l’assunzione di atti normativi idonei a contrastare il fenomeno della rendita. Originariamente, con questo termine venivano indicati i compensi del proprietario delle terre, in virtù del suo status di proprietario e non per il suo merito nella formazione del prodotto sociale. Il termine è stato poi utilizzato per indicare compensi che, dal punto di vista della teoria della produttività marginale, non avevano alcuna giustificazione; per questo motivo, la “ricerca della rendita” (rent seeking) esprime, dal punto di vista della teoria economica, il comportamento anomalo di chi – afferma Stiglitz – cerca di ricavare redditi, non come ricompensa per aver creato ricchezza, ma come acquisizione di una quota della ricchezza prodotta senza il suo apporto.
In questo modo, i “rentier”, sottraendo reddito ad altri, distruggono ricchezza. “Un monopolista – afferma Stiglitz – che impone un prezzo eccessivo per il suo prodotto sottrae denaro a quelli che usufruiscono di quel prodotto, e allo stesso tempo distrugge valore”, in quanto, per poter “imporre il suo prezzo di monopolio”, si deve limitare la produzione, concorrendo nel contempo ad allargare il divario tra chi ha di più e chi ha di meno.
Per ostacolare il persistere dei rentier sul mercato, nella prima metà del secolo scorso, molti Paesi hanno adottato regole antimonopolistiche; ma, a causa del disordine politico ed economico che ha caratterizzato quel periodo (due guerre mondiali, Grande Depressione, avvento di regimi politici autoritari, ricerca da parte dei singoli Stati di opportuni “spazi vitali”, ecc.), la legislazione antimonopolista adottata non ha trovato piena attuazione; anzi, sono stati creati impedimenti alla creazione di istituzioni idonee ad assicurare al sistema sociale un condiviso equilibrio tra libertà di scelta, efficienza economica nell’uso delle risorse disponibili e equità nella distribuzione del prodotto sociale.
Nel secondo dopoguerra, il ricupero della libertà economica, l’introduzione di istituzioni finalizzate ad assicurare lo stabile funzionamento dei processi produttivi e la ricostituzione del mercato internazionale hanno rilanciato il processo di crescita dei Paesi ad economia di mercato, congiuntamente all’idea che tale crescita “avrebbe portato maggior ricchezza e un tenore di vita più alto per tutte le classi sociali”. Negli anni Cinquanta e Sessanta, quest’idea è stata supportata dal fatto che tutte le classi sociali hanno migliorato la propria posizione economica e i percettori di redditi più bassi hanno progredito più in fretta degli altri; ciò è valso a riproporre anche l’assunto che una politica economica fiscalmente regressiva a favore dei percettori di redditi alti, alla lunga avrebbe favorito tutti, in quanto le maggiori risorse lasciate ai percettori di redditi alti avrebbero fatto “sgocciolare” effetti positivi al resto della popolazione.
L’assunto era l’”anima” della “teoria del trickle-down”, o dello “sgocciolamento dall’alto verso il basso”, che aveva appunto come presupposto l’idea che una crescita, se sorretta dai benefici economici corrisposti a vantaggio di coloro che hanno di più, potesse favorire automaticamente l’intera società, comprese le fasce di popolazione disagiate. Nei decenni successivi ai Settanta, però, la distribuzione del prodotto sociale ha favorito prevalentemente coloro che già percepivano alti redditi, a scapito di tutti gli altri percettori, secondo una logica distributiva che è valsa a smentire la teoria del trickle-down.
I dati relativi al processo distributivo del prodotto sociale hanno mostrato che ad avvantaggiarsi è stata una categoria di percettori: i dirigenti delle imprese. Per questi percettori, le indagini condotte su campioni di imprese, finanziarie e non, hanno evidenziato che i maggiori incrementi dei redditi percepiti dai dirigenti hanno avuto la natura della rendita, in quanto l’aumento delle loro retribuzioni non è mai stato il riflesso della loro produttività, come è stato dimostrato dalla mancata correlazione tra i compensi dei dirigenti e l’andamento economico delle imprese da loro guidate.
Inoltre, le ricerche condotte da molte istituzioni internazionali hanno dimostrato che l’aggravarsi del fenomeno della disuguaglianza distributiva dà origine a una forte instabilità economica, che danneggia l’economia in diversi modi: in primo luogo, la disuguaglianza causa un indebolimento della domanda aggregata, poiché, con la maggior parte del prodotto sociale concentrata nelle mani di una minoranza della popolazione, la maggior quota del reddito spesa da chi sta peggio non può essere compensata dalla minor quota del reddito spesa da di sta meglio; in secondo luogo, con la disuguaglianza – afferma Stiglitz- coloro che hanno di meno sono esposti a pericolo di non poter realizzare il loro “potenziale”, per cui il sistema economico “paga un prezzo”, non solo per una domanda complessiva più debole nell’immediato, ma anche per una più bassa crescita futura; in terzo luogo, infine, la disuguaglianza origina una contrazione degli investimenti pubblici, in quanto la bassa crescita non consente la realizzazione di entrate pubbliche sufficienti ad effettuare investimenti nelle aree che avrebbero il maggiore impatto sulla produttività del sistema economico, quali quelle dei trasporti pubblici, delle infrastrutture, della tecnologia e dell’istruzione.
Riguardo a tutti questi effetti negativi della disuguaglianza distributiva sulla crescita del sistema economico, Stglitz afferma che, di per sé, essi sono la dimostrazione dell’infondatezza della teoria della produttività marginale; poiché l’assunto di tale teoria è che la rimunerazione di chi riceve di più è dovuta al suo maggior merito e che il resto della società trae beneficio dalla sua attività, si sarebbe dovuto verificare che le rimunerazioni più alte per chi riceve di più dovessero essere associate a una crescita maggiore del sistema economico. Invece, in presenza della disuguaglianza distributiva, si è verificato, e continua a verificarsi, esattamente il contrario.
In conclusione, a parere di Stiglitz, per rilanciare la stabilità di funzionamento e la crescita del sistema economico, occorrerebbe l’attuazione di adeguate politiche in almeno quattro aree d’intervento, il cui unico obiettivo dovrebbe essere la riduzione del pericolo che il corpo sociale, a causa della disuguaglianza, finisca col dividersi in nuclei tra loro separati in modo irreversibile. La prima area di intervento dovrebbe essere individuata nell’eliminazione di tutte le situazioni di rendita e dei meccanismi di rimunerazione che non hanno alcuna giustificazione economica; la seconda dovrebbe riguardare i settori produttivi che concorrono a conservare la stabilità economica del sistema e ad aumentare i livelli occupazionali; la terza area dovrebbe concernere l’istruzione; la quarta, infine, la gestione del sistema fiscale, per realizzare una tassazione “equa e completa” dei redditi di capitale, con la destinazione delle entrate al finanziamento delle politiche da attuare nelle restanti aree.
Stiglitz afferma che una politica economica e finanziaria orientata secondo le linee da lui indicate sarebbe sufficiente per contrastare la disuguaglianza distributiva, considerata il “male del secolo”. Ma, nell’esposizione delle cause del “male” e nella formulazione della “ricetta” appropriata alla sua “cura”, come capita nella maggioranza delle analisi degli economisti, dopo aver prescritto le “medicine” da somministrare, Stiglitz tralascia di considerare che la sua terapia è di breve periodo; ciò significa che un un sistema sociale, operante in presenza delle condizioni economiche attuali, è costantemente esposto a possibili ricadute, sempre più gravi, nel medio-lungo periodo. La “cura del male del secolo”, perciò, non potrà essere stabilmente perseguita senza che le politiche economiche suggerite siano sorrette da cambiamenti strutturali del sistema economico, in grado di incidere durevolmente sulle istituzioni che presiedono alla distribuzione del prodotto sociale.
—————-
* anche su Avanti! online

No al razzismo

rom-2Il capro espiatorio dell’onda nera
di ALEX ZANOTELLI
Il capro espiatorio dell’onda neracomune-info.net, 19 luglio 2018, anche su eddyburg. Un atto d’accusa di Zanotelli contro Salvini e l’atavico razzismo italiano contro i Rom e Sinti, i popoli più maltrattati d’Europa. Per non rassegnarci a diventare barbari. (a.d.)
—————————

Oggi venerdì 27 luglio 2018

lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2img_4633Anpi logo nazcostat-logo-stef-p-c_2-2serpi-2ape-innovativaanna-larossa-borsaimg_6997
————Avvenimenti&Dibattiti&Commenti————————-
PD regionale: insisto per il sorteggio… anche se Mura prova il contrario
27 Luglio 2018

Amsicora su Democraziaoggi.
———————————————————