Monthly Archives: febbraio 2019
Oggi domenica 17 febbraio 2019
————-Avvenimenti&Dibattiti&Commenti&Appuntamenti———————
Autonomia differenziata: niente allarmismi, se tutti, Regioni, Governo e Parlamento, esercitano con rigore i propri poteri.
17 Febbraio 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Autonomia differenziata. Aggiornamenti. POLITICA | Di F. Q. (Il FattoQuotidiano). [segue]
E’ online il manifesto sardo duecentosettantotto
Il numero 278
Il sommario
Il nuovo numero 278 Governo: la tentazione del potere assoluto (Ottavio Olita), Autonomia o secessione? (red) La secessione dei ricchi (Massimo Dadea), Un comitato in difesa dell’unità nazionale e contro la secessione dei ricchi (red), Un centralismo regionale con il vestito di Arlecchino (Massimo Villone), Agitazione permanente per il diritto all’aborto (Gianfranca Fois), Siamo qui (Graziano Pintori), Venezuela. Petrolio e non solo (Matteo Matteuzzi), Turchia e dintorni. Essere omosessuale nella Turchia di Erdoğan (Emanuela Locci), L’ipocrisia e il cinismo al potere (Amedeo Spagnuolo), Le “professioni senza senso” nel nuovo capitalismo globale (Gianfranco Sabattini), Aggressione all’assemblea degli studenti. I fascisti difendono il governo con la violenza (red).
Solidarietà alle lotte dei pastori sardi: “Pastore non t’arrendas como” I tentativi storici di decapitare il pastore (Francesco Casula) Sardegna, latte e dintorni (Stefano Deliperi), Semus totus pastores (Valeria Casula), La soluzione dei problemi dei pastori sardi secondo la Lega Coop Sardegna (Michael Pontrelli).
Dedichiamo questo nuovo numero del nostro quindicinale alla lotta dei pastori sardi e alle mobilitazioni contro la secessione dei ricchi. (red)
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Cattolici e Politica
DIBATTITI
Un nuovo partito dei cattolici?
di Ritanna Armeni, su Rocca
Quello che si aggira per l’Italia non è, come diceva il vecchio Marx, «un fantasma», ma un dibattito vero, sentito, appassionato che ha trovato spazio soprattutto sulle colonne dell’Avvenire, giornale dei vescovi, ma che agita concretamente il grande mondo dell’associazionismo e della cultura cattolica, grande, articolato e diffuso. Come può contare di più oggi, in questa società, in questa situazione politica? Diciamo subito che non è un caso che il dibattito sia esploso ora, proprio ora che i cattolici si chiedano come intervenire nuovamente, in quanto tali, nella politica italiana. L’anniversario del discorso di Don Sturzo «sui liberi e forti» dal quale nacque il Partito popolare, è stata solo un’occasione, importante, ma pur sempre un’occasione. Come un’occasione è stato il recente discorso – pure molto politico e teso al risveglio dei cattolici – del Cardinale Bassetti, presidente della Cei.
Se oggi si parla di nuovo di partito o meglio della necessità di un intervento organizzato dei cattolici e dei loro valori nella società è perché appare evidente che la politica – gran parte della politica che si svolge nei palazzi del governo e dei mag- giori partiti – sta andando in direzione opposta, che temi e valori proposti e diffusi su accoglienza e migrazioni, non solo non sono coincidenti con quelli della Chie- sa, ma ne appaiono lontani e in contrasto. Il dibattito è particolarmente vivo e interessante perché, malgrado le spinte antisolidaristiche della politica, in Italia permane una presenza cattolica diffusa e ancora oggi importante. Non è un caso che i promotori del dibattito siano quei giornali, Avvenire e Famiglia Cristiana, che in questi ultimi mesi si sono battuti con più convinzione e fermezza, non temendo di fare scandalo contro la deriva portata avanti dai partiti di governo, in primis la Lega di Matteo Salvini. L’esigenza di una nuova organizzazione che raccolga, rafforzi, metta dei paletti, distingua, faccia battaglia, nasce in genere quando i valori della società in cui si vive appaiono incompatibili con quelli che si sostengono, anzi questi ultimi sono in pericolo e rischiano di essere travolti. E per ripararsi dalla tempesta delle nuove e nocive tendenze politiche e culturali non basta evidentemente la presenza di cattolici nelle alte cariche della politica – in Italia ce ne sono molti dal presidente della Repubblica in giù – e neppure l’associazionismo che continua a essere forte, variegato, propulsivo ed efficace. Non bastano neppure i gesti esemplari, gli interventi controcorrente, le testimonianze quotidiane, le iniziative parrocchiali, gli interventi autorevoli di uomini della Chiesa. Persino le parole di Francesco sempre chiare, nette, inequivocabili riescono a scalfire il muro della diffidenza, dell’odio per il diverso, per l’altro, della paura che pare oggi dominare la società italiana.
Allora – e in questo caso si può citare il vecchio Lenin – «Che fare?». Un partito omogeneo, dichiaratamente cattolico come fu agli inizi del secolo il Partito popolare di Don Sturzo e poi la Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi che raccolga e dia forza a chi l’ha evidentemente perduta e riconduca a sé quei cattolici che per paura o incertezza o confusione hanno scelto par- titi che non li rappresentano?
Non è una via senza dubbi. Oggi, in partiti che non si ritengono rappresentativi dei valori della Chiesa, di cattolici ce ne sono molti e pensano di essere nel giusto. Il cattolico che vota Lega non pensa di essere incoerente con i valori della Chiesa, pensa di essere realista o ritiene di essere debole e di doversi difendere. Oppure ritiene che il suo voto non sia in contrasto con i suoi valori: una cosa è la politica un’altra è la morale o la fede.
Non appare ormai efficace neppure quella «movimentista», dei cento fiori fioriscano (e qui la citazione è di Mao Tze Tung) perché di fiori ce ne sono già tanti. L’associazionismo cattolico è fiorente, sono centinaia le organizzazioni, i gruppi che ogni giorno praticano la solidarietà, portano avanti progetti di fratellanza, proclamano la necessità di un’alternativa alla società consumista e feroce nella quale ci troviamo a vivere. I movimenti possono fermarsi – e lo stanno sperimentando – di fronte ad una soglia o meglio a un vento contrario che, non basta ad annientarli, ma è sufficiente perché non vadano avanti, perché, in poche parole, l’iniziativa sociale non diventi politica, non incida nelle scelte di fondo.
Nascono allora le «terze vie»: costruire gli «Stati generali» dei movimenti, oppure dar vita a un Movimento politico che non sia un partito ma che gli assomigli. E così via. È difficile scendere nel merito delle singole proposte. Soprattutto per chi, come me, di questo mondo non fa parte anche se, nella sinistra, ha vissuto un dibattito analogo e ahimè finora senza risultato. Due cose però mi sembrano evidenti.
La prima. Nel mondo cattolico c’è un sentimento di resilienza forte. Il fatto che per il momento non incida nella politica dei partiti e del governo o incida poco, non intacca il colossale «preferirei di no» di melvilliana memoria che ancora oggi è ripetuto. La seconda. Il passato non è riproducibile. Il partito popolare, la Dc, Sturzo. De Gasperi, ma anche Moro e Zaccagnini, fa parte di una storia che può insegnare ma che non si ripete. Alla Balena Bianca manca l’acqua nella quale nuotare, non c’è più l’Italia del dopoguerra con le sue speranze e timori. E neppure quella ottimista e propulsiva degli anni sessanta e settanta. Oggi le speranze e i timori sono altri. Con questi occorre confrontarsi. Anche a costo di essere minoranza. Anzi con l’orgoglio di esserlo.
Ritanna Armeni
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I CATTOLICI E LA POLITICA
quale presenza e operatività?
di Giannino Piana, su Rocca.
Da alcuni mesi la questione della presenza dei cattolici in politica è al centro del dibattito ecclesiale (e non solo). A sollevarla sono stati una serie di interventi sia di papa Francesco che della Cei – il presidente card. Bassetti è più volte intervenuto in proposito – nonché del quotidiano cattolico «Avvenire», il quale ha ospitato una serie di interventi di vari esponenti della cultura e dell’associazionismo cattolico che hanno recato un importante contributo al dibattito, con l’offerta di significativi apporti tanto all’analisi dell’attuale situazione di crisi e delle cause che l’hanno prodotta, quanto all’individuazione delle vie da percorrere per contribuire alla sua soluzione.
A conferire particolare rilievo a questo vivace confronto ha poi concorso, in misura consistente, la celebrazione il 19 gennaio scorso del centenario dell’appello «A tutti gli uomini liberi e forti» di don Luigi Sturzo, il manifesto da cui è nato il Partito popolare. Un evento storico, quest’ultimo, di grande importanza, perché non ha segnato soltanto la fine del non expedit, ma ha soprattutto inaugurato una nuova stagione (purtroppo breve per l’avvento poco dopo del fascismo) di presenza dei cattolici in politica con un programma di profondo significato morale e civile, che conserva tuttora grande attualità.
le ragioni del ritorno di una domanda
La sollecitazione ad interrogarsi su tale presenza non è tuttavia ai nostri giorni legata a fattori contingenti o di semplice memoria storica. È, più radicalmente, motivata dalla preoccupazione per una congiuntura politica particolarmente difficile (persino drammatica), che non può non interpellare chi ha a cuore le sorti del Paese, in particolare quelle delle categorie più deboli. La gravità dei fenomeni in corso (non solo in Italia) è ben documentata dal messaggio di papa Francesco per la celebrazione della 52° giornata della pace; messaggio in cui vengono messi in luce i vizi della politica «che indeboliscono l’ideale di un’autentica democrazia, sono la vergogna della vita pubblica e mettono in pericolo la pace sociale». Un lungo elenco, quello del papa, che comprende: «la corruzione – nelle sue molteplici forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone – , la negazione del diritto, il non rispetto delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la giustificazione del potere mediante la forza col pretesto artificioso della ‘ragion di Stato’, la tendenza a perpetuarsi nel potere, la xenofobia e il razzismo, il rifiuto di prendersi cura della terra, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali in ragione del profitto immediato, il disprezzo di coloro che sono stati costretti all’esilio» (La buona politica è al servizio della pace, 1 gennaio 2019, n. 4).
Un quadro fosco e allarmante, dunque, che trova riscontro anche nel nostro Paese, dove ai mali delineati si aggiungono le spinte nazionaliste e populiste e il farsi strada di forme di vero e proprio razzismo – si pensi alla chiusura dei porti e allo smantellamento di alcuni centri di accoglienza dei migranti –, fino all’avanzare di una forma di antipolitica, che trova espressione in un dilettantismo superficiale e nel rifiuto della competenza – tutto è lasciato all’improvvisazione – nonché nel rifiuto, in nome della democrazia diretta, di ogni forma di intermediazione.
il significato di un coinvolgimento
Non si possono certo ignorare le cause che hanno prodotto tale situazione: dal disagio sociale provocato dalla crisi economica, che ha accentuato le diseguaglianze e dilatato l’area delle povertà, al crescente sviluppo tecnologico che sottrae posti di lavoro e determina il venir meno di garanzie sociali per i lavoratori; dalla paura, dovuta agli sviluppi del fenomeno migratorio, spesso artificiosamente alimentata dai media – la percezione della consistenza di tale fenomeno è di gran lunga superiore alla realtà – alle forti spinte individualiste e corporative che alimentano la lacerazione del tessuto sociale, fino agli atteggiamenti di diffidenza e di sospetto nei confronti della classe politica tradizionale per il distacco (purtroppo spesso reale) dalla vita della gente.
Alla radice di tutto non è tuttavia difficile scorgere il venir meno di una proposta etico-culturale e ideologica, che consenta di fornire all’azione politica una visione progettuale capace di suscitare un consenso sempre più ampio e di concorrere alla co- struzione di una democrazia partecipata e solidale. Una proposta per la cui attuazione si esige il coinvolgimento di forze sociali e politiche di diversa estrazione, che concorrano con il loro apporto specifico – come è avvenuto in occasione della redazione della Carta costituzionale – a fornire i tasselli di un mosaico largamente rappresentativo. In questo quadro diviene comprensibile l’insistenza con cui i cattolici vengono sollecitati all’assunzione di una particolare responsabilità. Dopo una lunga stagione di presenza diretta attraverso il partito della Democrazia cristiana – dal dopoguerra agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso – la presenza dei cattolici in politica si è progressivamente attenuata. Il venir meno del partito cattolico, a seguito della vicenda di Tangentopoli, e la poca consistenza dei tentativi fatti in seguito per risuscitarlo, sia pure sotto forma diversa, hanno finito per generare uno stato di frammentazione del mondo cattolico in ambito politico, con la conseguente scarsa visibilità provocata anche da una incapacità di comunicare, in modo efficace, le proprie convinzioni.
un approccio laico alle questioni sociali e legislative
L’importanza della politica, che papa Francesco non ha esitato a definire, ricuperando una formula coniata a suo tempo da Paolo VI, «una forma eminente di carità» (ibidem, n. 2), è fuori discussione. La possibilità di farsi carico, in termini strutturali, dei bisogni sociali implica infatti l’impegno diretto nelle istituzioni pubbliche, tanto a livello amministrativo che strettamente politico. Ma il problema che affiora riguarda le condizioni secondo le quali tale impegno va esercitato.
La prima di esse è senza dubbio la laicità. Essa non comporta soltanto il rifiuto della ricostituzione del partito cattolico – il che risulterebbe oggi un anacronismo –; implica, più radicalmente, un approccio «laico» alle questioni sociali e legislative, nel rispetto del pluralismo delle diverse posizioni etico-culturali presenti nella società e nell’offerta del proprio contributo mediante il ricorso ad argomentazioni razionali, con il riferimento dunque a un’ispirazione cristiana non confessionale. Ad essere richiesta è, in altri termini, una forma di laicità, che si oppone tanto al clericalismo quanto a un laicismo di matrice radicale che non riconosce il ruolo sociale della religione. Una laicità che ha le proprie radici nel messaggio evangelico e il cui obiettivo è la costruzione di un progetto riformatore incentrato sui valori della libertà, della giustizia e della pace.
La seconda condizione è la relativizzazione della politica. In questo consiste (forse) il contributo più significativo del cristianesimo. La convinzione che non si dà un sistema perfetto di società libera infatti la politica – come scrive Marta Cartobbia – «da ogni teologia politica di schmittiana memoria, dall’irrazionalità dei miti politici e dalla pretesa salvifica delle cose mondane» (Introduzione a: Francesco Occhetta, Ricostruiamo la politica. Orientarsi nel tempo del populismo, San Paolo 2018); la mette, in altre parole, al riparo dalla tentazione di una totalizzazione ideologica che, oltre ad avere come esito l’affermarsi di regimi assolutistici di cui conosciamo le tragiche conseguenze, apre la strada al suo inserimento entro un quadro più ampio in cui entrano in gioco fattori quali le attività sociali, culturali e ricreative, che costituiscono un ineludibile fonte di arricchimento per la crescita umana.
quali prospettive
per un contributo costruttivo
Ma, accertate le condizioni che ne rendono corretta la presenza, quale contributo i cat- tolici possono offrire al rinnovamento della politica nel nostro Paese? La risposta coinvolge due diversi versanti: quello etico e culturale, nel quale sono in gioco i valori di fondo sui quali la politica va radicata, e quello della proposta operativa, dove è necessario fare i conti con la situazione reale ed individuare le priorità su cui intervenire, nonché le modalità degli stessi interventi.
il versante etico-culturale
Sul primo versante – quello etico e culturale – esiste una tradizione di pensiero del mondo cattolico, che è venuta consolidandosi nel tempo e che è riconducibile a un’antropologia – quella del personalismo sociale –, in cui personale e politico sono tra loro integrati così da superare tanto le derive individualiste che quelle collettiviste. A questa antropologia si è anzitutto rifatto il popolarismo di Sturzo, al centro del quale vi era una concezione limitata dello Stato rispettosa della persona umana e degli organismi naturali – famiglia, classi e comuni –; un popolarismo pertanto che, contrariamente all’odierno populismo incentrato sul modello della «democrazia diretta» che è la negazione della mediazione politica, si identificava – è Pierluigi Castagnetti a rilevarlo – «con il protagonismo del popolo e la capacità della politica di sentirsene espressione» (Come servire il popolo senza mai servirsene. La lezione sturziana a cento anni dall’appello ai liberi e forti, in: Avvenire, 18 gennaio 2019, p. 3).
Questa linea di tendenza, pur con gli inevitabili aggiustamenti (e alcune discutibili limitazioni), è stata, nell’immediato dopoguerra, posta al centro dell’azione politica del partito della Democrazia cristiana – è sufficiente ricordare il contributo offerto alla stesura della Carta costituzionale –, ma si è poi – purtroppo – progressivamente attenuata con il trascorrere degli anni. Ad essa occorre tornare, vincendo la tentazione di inseguire soluzioni di piccolo cabotaggio, motivate da ragioni meramente elettorali, e avviando processi di cambiamento ispirati a valori irrinunciabili e insieme capaci di incidere concretamente sulla realtà.
Molti sono gli ambiti in cui il mondo cattolico può dare in proposito un importante contributo, attingendo alle risorse del proprio patrimonio etico e civile e facendosi catalizzatore di energie morali, di competenze professionali e di esperienze particolarmente significative. Obiettivo fondamentale di tale azione deve essere la ricostruzione del tessuto sociale, favorendo la crescita di un sistema plurale di enti intermedi, capaci di rappresentare esigenze e interessi di parti diverse della società e di farle convergere verso il bene comune. Il che comporta l’instaurarsi di nuovi rapporti tra comunità civile e comunità politica, mediante lo sviluppo, da un lato, di una corretta applicazione del principio di sussidiarietà, e, dall’altro, della creazione di luoghi nei quali dare vita a un dibattito costruttivo sui temi pubblici.
proposta operativa
Il secondo versante – quello della proposta operativa – rende necessaria l’individuazione delle priorità concrete alle quali occorre dare risposta, considerando la diversa gravità delle situazioni nelle quali sono in gioco diritti soggettivi e diritti sociali e, più radicalmente, la dignità della persona umana. Muovendo da questo assunto un posto di primo piano va oggi assegnato alle questioni del lavoro e dell’occupazione, all’intervento pubblico a sostegno della famiglia, all’inserimento degli immigrati nel tessuto sociale attraverso i processi di integrazione e di interazione, alla lotta contro le crescenti diseguaglianze, al tema della sicurezza e al ridimensionamento delle paure spesso indotte dall’enfasi con cui i media dipingono la situazione. E l’elenco potrebbe continuare. Tutto questo senza trascurare le questioni più squisitamente politiche, sia di politica interna – si pensi alla questione della partecipazione democratica e della scelta della rappresentanza in una società dominata da poteri forti come quello economico-finanziario e quello della comunicazione – sia di politica internazionale, dove un ruolo di prim’ordine va assegnato al tema della pace, di cui – come ci ha ricordato papa Francesco – «la buona politica deve essere al servizio».
Queste sono, in definitiva, le modalità dell’impegno che il mondo cattolico deve fare proprie. Un impegno che, stante la situazione di difficoltà che la politica attraversa, diviene un dovere ineludibile, se si vogliono ricostruire le basi di una convivenza civile partecipata e solidale.
AladinewsEditoriali
I torti degli economisti di Gianfranco Sabattini su Aladinews.
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E’ possibile un governo democratico della globalizzazione? di Gianfranco Sabattini su Aladinews.
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Che succede?
SE LE AUTONOMIE DIFFERENZIATE AUMENTANO LE DIFFERENZE
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15 Febbraio 2019 by Forcesi | su C3dem.
Non è facile districarsi nel pasticcio della questione dell’autonomia regionale. Non drammatizza ma chiede che se ne parli in Parlamento Valerio Onida, in un’intervista a Repubblica (“La coesione sociale non è messa in discussione”) e in una al Mattino (“Sbagliato non aprire la discussione in Parlamento”). Cauto anche il punto di vista di Marco Olivetti sull’Avvenire (“Un’occasione da usare bene”), affiancato da un articolo più critico, di Francesco Gesualdi (“Un boccone avvelenato”). Critici altri giuristi: Michele Ainis su Repubblica (“La fiera degli egoismi”) e Massimo Villone sul Manifesto (“Non solo questione di soldi, in ballo c’è molto di più”). Soppesa il giudizio un altro giurista, Francesco Clementi, sul Sole 24 ore (“L’aumento delle differenze e i contrappesi da prevedere”). Tra gli economisti sono critici Massimo Bordignon, su lavoce.info (“La posta in gioco con l’autonomia del Nord”), Gianfranco Viesti, il principale accusatore del regionalismo differenziato (“Lo spacca-Italia fa pagare al Sud la quota del fisco che resta al Nord”), Il Messaggero, (“Sono solo Zaia e soci a guadagnarci, e dopo non si torna indietro”, Il Fatto), e Adriano Giannola, presidente della Svimez (“Bloccare tutto o la secessione verrà fatta dal Sud d’Italia”, La Stampa). Quanto al Pd, Stefano Ceccanti e Luigi Marattin parlano di un grande equivoco (“Dieci punti sull’autonomia regionale”), Enrico Letta sembra assai critico (“E’ una secessione mascherata”, Quotidiano nazionale), alcuni presidenti di regione sono a favore: Sergio Chiamparino (“Io dico sì, il Nord non toglie risorse al Sud”, Il Sole 24 ore), e (“Io favorevole ma nessuna regione può tenersi le tasse”, Repubblica), Stefano Bonaccini (“L’Emilia non minaccia l’unità del Paese”, Corriere della sera); altri meno: Enrico Rossi, (“Si sfascia il paese per fondare staterelli egoisti”, Repubblica).
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- La campagna per il NO di Gianfranco Viesti.
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Oggi sabato 16 febbraio 2019
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Autonomia differenziata: non serve la difesa dell’esistente
16 Febbraio 2019
Tonino Dessì su Democraziaoggi.
Continuiamo la riflessione sul tema caldo dell’autonomia differenziata con questo contributo, come sempre fuori dal coro, di Tonino Dessì.
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Autonomia, ora lo scontro è sul ruolo del Parlamento. Fico e Conte: “Sia centrale”. Ma la Lega: “E’ ora di concludere”. Da Il Fatto quotidiano.
Il presidente M5s della Camera e il premier in difesa del ruolo dell’Aula nella discussione dei ddl: le bozze circolate nelle scorse ore erano state definiti inemendabili, ovvero non modificabili, dai parlamentari. Il Carroccio però spinge per chiudere la partita in fretta. Ora anche la Campania ha fatto domanda per l’autonomia differenziata per ambiti che vanno dal lavoro al commercio con l’estero passando per tributi e istruzione.
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L’autonomia delle regioni del Nord è l’ennesima patacca gialloverde (ma il Sud piange lo stesso). Di Francesco Cancellato, direttore de LINKIESTA.
No, Lombardia e Veneto non avranno mai risorse aggiuntive. No, il Sud non ci perderà mai un centesimo. Eppure, Zaia esulta e i governatori meridionali si preparano alla guerra. Cronache da un Paese in cui il dibattito è sempre più avulso dalla realtà.
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Oggi a Selegas: presentazione del libro di Enrica Stroscio
Chi est lìllu géi infrórit. Proverbi di Selegas di Enrica Stroscio
Il libro di Enrica Stroscio “Chi est lìllu gèi infròrit” verrà presentato stasera alle 18 nei locali Sa Ziminera di Selegas. Insieme all’autrice, interverranno Maurizio Virdis, docente di linguistica sarda dell’Università di Cagliari, il sindaco Alessio Piras, il presidente della Pro loco Michele Fadda e l’editore Paolo Cossu (Grafica del Parteolla).
[Dal catalogo della Casa Editrice Parteolla] L’autrice ha raccolto direttamente dalla voce dei compaesani oltre 500 tra proverbi e modi di dire. (segue)
Quando i cittadini giustamente pretendono equità e rispetto dalla Pubblica amministrazione.
Tutti i programmi politici da tempo immemore e in tutte le scadenze elettorali (ovviamente anche quella prossima sarda) individuano tra gli obbiettivi prioritari quello di ridurre drasticamente il carico burocratico sui cittadini, sulle imprese, sulle associazioni. Nei fatti nulla si fa, anzi la selva di regole e regolette aumenta sempre più, così come aumentano le “sanzioni” che in misura perversa colpiscono i cittadini, le imprese, le associazioni che per un motivo o per un altro le hanno violate. Il meccanismo di tali normative è perverso in quanto punisce in misura apparentemente uguale tutti i “trasgressori”, in realtà in modo pesante solo i più deboli. E, come diceva don Lorenzo Milani per altre circostanze, ma qui pertinenti “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”. Per uscire dal generico, ci riferiamo a una sanzione inflitta al titolare di una micro-impresa, reo di aver depositato con circa sei mesi di ritardo il bilancio aziendale presso la Camera di Commercio e per questo “condannato” a pagare una sanzione di 284,66 euro. Così come risulta precisamente in base alla normativa di riferimento per queste vicende, come a lui comunicato dalla Camera di Commercio a due mesi dalla data riscontrata della violazione, la sanzione amministrativa prevista da 137,33 a 1.376,00 euro, è stata fissata in 274,66 euro, a cui si aggiungono le spese di notifica fino appunto a un totale di 284,66 euro. Ora il nostro amico artigiano dovrebbe pure ringraziare per tale “sconto”, pagare e chiuderla qui. Cosa che farà senz’altro, da buon cittadino e imprenditore, che paga tutte tutte le tasse, le imposte e gli oneri sociali. Ma lo fa lamentandosi del fatto che la dura norma lo costringe a versare all’Erario una somma per lui enorme, che deve sottrarre ai magri ricavi della sua micro-impresa. (Segue)
Che succede?
L’AUTONOMIA CHE SCUOTE IL PD e NON SOLO
14 Febbraio 2019 by Forcesi | su C3dem.
Ancora sulle intese sull’autonomia differenziata tra le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e lo Stato, in discussione al Consiglio dei ministri[Da Roars. Le bozze segrete del regionalismo differenziato]: Dino Martirano, “Il giorno dell’autonomia” (Corriere). Marco Cremonesi, “Quota di tasse alle regioni. Il gettito extra resta sul posto” (Corriere). Giovanni Toti, “E’ la strada giusta” (intervista al Corriere). Michele Emiliano, “Al Nord andranno molte più risorse” (intervista al Corriere). Corrado Zunino, “I prof. pagati 200 euro in più (ma solo al Nord)” (Repubblica). Daniele Bonecchi, “L’autonomia che scuote il Pd. Un altro modello è possibile?” (il Foglio). Cesare Mirabelli, “A rischio il dettato della Costituzione” (Messaggero). Giovanni Guzzetta, “Con la riforma del 2001 Stato e Regioni sono alla pari” (intervista a Italia Oggi). Ernesto Galli Della Loggia, “Il divario Nord-Sud, gli errori del regionalismo” (Corriere). Nuovo appello sul Manifesto, “In difesa dell’unità nazionale”. Piero Bevilacqua, “La resistibile ascesa della Lega al Sud” (Manifesto). Massimo Adinolfi, “Se il Nord se ne va senza discutere” (Mattino). Adolfo Pappalardo, “De Luca: per bloccarli siamo pronti a tutto” (Mattino). Marco Esposito, “Allo Stato i rischi, a noi i guadagni. Ecco i nove trucchi dei secessionisti” (Mattino). Tonio Tondo, “Regioni più responsabili, ma l’unità d’Italia resta sacra” (Gazzetta del mezzogiorno). Marco Palombi, “Oggi a Palazzo Chigi inizia la secessione dei ricchi” (Il Fatto). Innocenzo Cipolletta, “Autonomia delle regioni? Solo con tasse locali” (Sole 24 ore). Si veda anche uno studio della SVIMEZ dello scorso dicembre.
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Dal Il fatto quotidiano (14 febbraio 2019).
Autonomia, al via iter in cdm: M5s frena. Fraccaro: “Coinvolgere le Camere”. Salvini: “A breve un vertice politico”.
In consiglio dei ministri parte la discussione. Ottimista la ministra leghista agli Affari regionali Erika Stefani: “Con un giorno d’anticipo chiusa la fase tecnica”. Il deputato M5s Gallo frena: “Fretta non ha alcun senso”. Un dossier dei gruppi parlamentari pentastellati sottolinea il rischio di “cittadini di serie A e di serie B”. Il ministro dell’Interno: “Non ci saranno”. E sul mancato coinvolgimento delle Camere aggiunge: “Stiamo valutando”.
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Non sparate sul(l’) pian(econom)ista!
I torti degli economisti
di Gianfranco Sabattini
Dopo la crisi del 2007/2008, gli economisti sono diventati il bersaglio prediletto delle critiche dell’opinione pubblica, perché nonostante il loro accreditamento sociale come privilegiati “consiglieri del principe”, non hanno saputo prevedere che il nemico era giunto sotto le “mura di casa”; anzi, secondo molti, le idee che negli ultimi decenni essi avevano contribuito ad affermare e a diffondere erano all’origine della Grande Depressione, per uscire dalla quale hanno spesso suggerito, e concorso a fare accettare dalle forze politiche, l’adozione di provvedimenti di politica economica che sono valsi a produrre effetti peggiori di quelli della crisi.
Dani Rodrik, autorevole economista, professore di Economia politica internazionale alla John F. Kennedy School of Government, presso l’Università di Harvard, negli Stati Uniti, ha scritto un libro in difesa della professione di economista, nel quale però, nello stesso tempo, ha anche formulato una severa critica contro il modo d’essere di coloro che la praticano. Il libro, “Ragioni e torti dell’economia”, costituisce infatti una celebrazione e una critica della professione di economista; Rodrik difende il “nucleo centrale” della disciplina, che individua nel ruolo svolto dai modelli economici nella “creazione di conoscenza”, ma critica “la maniera in cui spesso gli economisti praticano la loro tecnica e (ab)usano dei loro modelli”. Merita attenzione il modo in cui Rodrik ha maturato gli stimoli che lo hanno condotto a scrivere il libro.
L’esperienza di docente di Economia politica che Rodrik ha vissuto ad Harvard lo ha spinto a riflettere, egli afferma, “sui punti di forza e di debolezza delle teoria economica”, stimolato dal fatto che alcuni suoi colleghi sostenessero che l’economia come scienza “fosse diventata sterile e stantia [...], perché la teoria economica aveva abbandonato la grande teorizzazione sociale nello stile di Adam Smith e Karl Marx”. Questa valutazione dell’economia era l’opposta di quella maturata da Rodrik, secondo il quale la “forza delle teoria economica” risiedeva nella “teorizzazione su piccola scala, nel tipo di pensiero contestuale che chiarisce cause ed effetto e getta luce – anche se parzialmente – sulla realtà sociale”. Una scienza modesta, praticata con umiltà, era la sua tesi, “è probabilmente più utile della ricerca di teorie universali sul funzionamento dei sistemi capitalistici o su ciò che determina la ricchezza e la povertà nel mondo”.
Le convinzioni di Rodrik sono state messe a “dura prova”, allorché egli è stato ospite per due anni, a partire dal 2013, presso l’Institute for Advanced Study di Princeton, dove la School of Social Science dello stesso Istituto era affollata da scienziati sociali i cui studi erano fondati su approcci umanistici e interpretativi che “in netto contrasto con il positivismo empirista della teoria economica”. Durante la frequentazione del nuovo ambiente, Rodrik afferma d’essere stato colpito dal “forte sottofondo di sospetto” che gli studiosi di antropologia, sociologia, storia, filosofia e scienze politiche, nutrivano nei confronti degli economisti. Per gli studiosi di queste discipline, gli economisti “o affermavano l’ovvio o si spingevano decisamente oltre il segno, applicando schemi semplici a fenomeni sociali complessi”.
Rodrik afferma d’avere talvolta avuto l’impressione che i pochi economisti che frequentavano l’Istituto di Princeton fossero trattati da “idioti sapienti”, bravi con la matematica o con la statistica, ma di poca utilità. Ciò che maggiormente lo ha colpito è stato che il tipo di atteggiamento degli studiosi di scienze sociali nei confronti degli economisti era simile a quello che egli aveva avuto modo di rinvenire, nelle Università nelle quali aveva insegnato, da parte degli economisti nei confronti di sociologi e di antropologi, considerati “poco rigorosi, indisciplinati, verbosi, non abbastanza empirici, o (alternativamente) poco preparati alle insidie dell’analisi empirica”. Tuttavia, una delle conseguenze del soggiorno a Princeton è stata, per Rodrik, quella di aver concorso a farlo “sentire meglio come economista”, perché gli ha consentito di appurare che molte delle critiche portate contro gli economisti “non colpivano il bersaglio”.
L’esperienza vissuta a Princeton è valsa infatti a convincere Rodrik che gli approcci ai problemi sociali operati dalle scienze dell’uomo potevano essere migliorati, se avessero adottato il tipo di argomentazione analitica e il ricorso all’evidenza empirica propri dell’economica; quindi, gli economisti devono biasimare solo se stessi per il giudizio negativo che scontano presso gli studiosi delle altre scienze sociali. Secondo Rodrik, il problema degli economisti “non è solo il loro senso di autogratificazione e il loro attaccamento spesso dottrinario a un modo peculiare di guardare il mondo”; è bensì il fatto che essi fanno un “pessimo lavoro”, allorché, presentando i risultati delle loro analisi e ricerche, inducono i non economisti a percepire che con tali risultati si vogliano “enunciare leggi economiche universali valide ovunque, indipendentemente dal contesto”.
Con la maggiore consapevolezza sul ruolo della professione di economista maturata durante il soggiorno a Princeton, Rodrik ha scritto il libro “Ragioni e torti dell’economia”, per formulare un doppio messaggio rivolto, da un lato, agli economisti, perché “raccontino meglio il tipo di scienza che praticano”, e dall’altro, ai non economisti, perché, pur criticando l’economia come scienza, si convincano che di essa “c’è molto da apprezzare (ed emulare)”.
Per Rodrik, la scienza economica non è che un insieme di modelli, consistenti in costrutti astratte su basi matematiche; i modelli coi quali gli economisti cercano di dare senso al mondo dei fenomeni economici, oltre ad essere ciò che fa della disciplina economica una scienza, sono però – sempre secondo Rodrik – sia il “punto di forza sia il tallone di Achille dell’economia”. La scienza economica, “piuttosto che in un singolo modello, consiste in una molteplicità di modelli; la disciplina – egli afferma – avanza espandendo la sua library di modelli e migliorando l’aderenza dei modelli al mondo reale”. La loro diversità e molteplicità “non è che il necessario contraltare della flessibilità del mondo sociale”, che dà luogo ad una pluralità di situazioni, la cui interpretazione e spiegazione richiedono la costruzione di modelli differenti, rendendo del tutto improbabile che gli economisti possano costruire “modelli universali di carattere generale”.
Molte diffidenze nei confronti dell’economia dipendono dal modo in cui chi la studia e la pratica fa in genere “un cattivo uso” del proprio lavoro; gli economisti, secondo Rodrik, devono superare questo limite sul piano della comunicazione, evitando la loro tendenza a “scambiare un modello con il modello” applicabile a tutte le situazioni e convincendosi che, quando queste cambiano, si deve scegliere tra i modelli disponibili quello che meglio si adatta all’interpretazione ed alla spiegazione dei fenomeni propri della situazione oggetto di studio. Nella misura in cui gli economisti non terranno nel debito conto la diversità delle situazioni sociali, saranno inevitabili le critiche, molte delle quali continueranno a riproporre un clichè ben noto: l’economia è semplicistica e riduttiva, perché ignora il ruolo della cultura, della storia ed è colma di giudizi di valore.
Queste critiche, a parere di Rodrik, derivano dall’incapacità di riconoscere che “l’economia è, in realtà, una collezione di diversi modelli”, che colgono, senza alcuna inclinazione ideologica, solo un aspetto della complessità dei fenomeni sociali, per cui essi non si prestano ad offrire un’unica interpretazione dei fenomeni considerati. Perciò, preso singolarmente, un modello non è “che una mappa parziale che illumina un frammento di territorio”, mentre, nel loro insieme, i “modelli degli economisti sono la nostra migliore guida cognitiva alla distesa senza fine di colline e di valli che costituiscono l’esperienza sociale”.
I modelli economici, infatti, sono delle semplificazioni, volte ad accertare l’esistenza di relazioni specifiche tra i fenomeni che connotano una data realtà sociale; essi, sulla base delle semplificazioni introdotte, consentono di cogliere il modo in cui si svolgono quelle relazioni, isolandole da altri aspetti della stessa realtà sociale che possono fare velo sulla comprensione di quelle relazioni. Gli economisti, perciò, col loro lavoro creano un “mondo artificiale che rivela un certo tipo di connessioni tra le parti del tutto: connessioni che potrebbero essere difficili da discernere se si osservasse il mondo reale in tutta la sua complessità”. Una delle ragioni della diffidenza nutrita dai non economisti nei confronti dei modelli economici è il fatto che essi, per chiarezza e coerenza, siano espressi nel linguaggio della matematica; una diffidenza in realtà giustificata, se si dimentica che la matematica ha un valore solo strumentale nella costruzione dei modelli.
Gli economisti spesso perdono di vista il fatto che i modelli, in linea di principio, non richiedono l’uso della matematica; non è quest’ultima “a rendere i modelli utili e scientifici”, come dimostra il fatto che grandi economisti, quali Karl Marx, Joseph Schumpeter e John Maynard Keynes, abbiano costruito i loro modelli in forma verbale. Cionondimeno, sottolinea Rodrik, non si può trascurare che lo strumento matematico, oltre a consentire una maggior precisione nella formulazione delle ipotesi e delle assunzioni poste alla base dei singoli modelli, assicura anche la loro coerenza interna, ovvero che le conclusioni sulla realtà oggetto di studio possano essere tratte, in termini di deduzione stretta, dalle premesse.
In conclusione, a parere di Rodrik, i modelli “sono ciò che fa dell’economia una scienza”, precisando che per sottolineare la natura scientifica dell’economia sia meglio usare il termine “modello” piuttosto che quello di ”teoria”; termine, quest’ultimo, che avrebbe in sé un “suono ambizioso”. Per comprendere la convenienza di questa distinzione, occorre porsi tre ordini di domande: quelle del tipo “che cosa?”, per spiegare, ad esempio, quale sia l’effetto dell’afflusso esterno dei capitali sul tasso di crescita di un Paese; quelle del tipo “perché?”, per spiegare il manifestarsi di un insieme di fatti e lo svolgersi di un insieme di processi, quali sono stati, ad esempio, quelli che si sono verificati con l’inizio della Rivoluzione industriale e l’affermarsi del modo capitalistico di produrre; infine, quelle che sollecitano risposte riguardanti le “grandi questioni dell’economia e delle scienze sociali”. Le risposte a queste grandi questioni costituiscono il dominio della grandi teorie.
La scienza economica contemporanea è spesso criticata perché non offre teorie sulle grandi questioni, del tipo di quelle offerte, ai loro tempi, da Adam Smith o da Karl Marx, o perché, ad esempio, non formula un’univoca teoria della distribuzione del prodotto sociale. Su quest’ultima grande questione esiste una pluralità di teorie, ma nel complesso esse danno “meno di quanto promettono”. Perché? Rodrik considera le teorie economiche generali come “un’impalcatura per contingenze empiriche. Sono un modo per organizzare i nostri pensieri, piuttosto che congegni esplicativi dotati di esistenza propria. In sé, esse hanno scarsa presa reale sul mondo. Prima di diventare utili, devono essere combinate con una valida analisi contestuale”, possibile solo attraverso la costruzione di specifici modelli.
Tuttavia, a giudicare dalla frequenza con cui in economia ricorre il termine teoria, sembrerebbe che la scienza economica sia costituita solo da un insieme di teorie (teoria dei giochi, teoria dei contratti, teoria della crescita, ecc.); in realtà, a parere di Rodrik, si tratta sempre di “particolari collezioni di modelli”, da applicare con la dovuta attenzione al contesto sociale al quale vengono riferiti. Essi (i modelli) vanno considerati come la “cassetta degli arnesi” della quale si dispone per interpretare le specifiche situazioni sociali, e non come la spiegazione dei fenomeni di tutte le possibili situazioni sociali studiate.
Perciò, la propensione a formulare teorie universali, in luogo di modelli contestualizzati, deve essere considerata inutile e sbagliata, ai fini della comprensione della contingenza e delle possibilità offerte dal mondo reale. Lo studio di quanto accade nel mondo dell’economia richiede approcci più modesti di quelli riconducibili alla formulazione di grandi teorie; quando l’”ambizione, eclissa questo intento”, non solo può essere che la realtà sociale sia fraintesa, ma può anche accadere che i provvedimenti presi sulla base di teorizzazioni generali producano effetti peggiori del male che si intende contrastare.
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Oggi venerdì 15 febbraio 2019
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Regionali: per la Sardegna sarà una lunga notte. L’opposizione ci farà rinsavire?
15 Febbraio 2019
Fernando Codonesu
- Su Democraziaoggi.
- Su Aladinews.
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Autonomia regionale differenziata, è la secessione dei ricchi.
15 Febbraio 2019
Gianfranco Viesti su Eticaeconomia, ripreso da Democraziaoggi.
Per favorire la riflessione sulla c.d. autonomia differenziata domani su Democraziaoggi un articolo fuori dal coro di Tonino Dessì. Oggi pubblichiamo questo contributo di Gianfranco Viesti dell’Università di Bari, tratto da Eticaeconomia del 4 febbraio 2019, che riassume il pensiero critico di una parte dei “meridionalisti”.
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Dibattito
Ciò che la sinistra non ha fatto
LA VERA NATURA DEL REDDITO DI CITTADINANZA
Il suo scopo non è di far sopravvivere una platea più o meno ristretta di persone che cercano e non trovano lavoro, ma di garantire il diritto all’esistenza di tutti, e la loro autodeterminazione, come prima responsabilità di uno Stato sociale, quando milioni di persone sono in povertà assoluta.
di Giuseppe Bronzini
(da “Volere la luna”)
Finalmente ha visto la luce il decreto legge istitutivo di un “reddito di cittadinanza” voluto dal Movimento 5Stelle come elemento “identitario” della sua partecipazione all’attuale governo.
[segue]
Che succede?
I NUOVI BORBONE
12 Febbraio 2019 by Forcesi | su C3dem
Rosy Bindi, “Caro Prodi, il Pd non può rinascere se non riconosce gli errori” (intervista a Repubblica). Nel presentare l’ultimo libro di Gianni Cuperlo a Mestre, “Cacciari apre ai 5stelle. No di Martina” (Gazzettino). Il voto in Abruzzo analizzato dall’Istituto Cattaneo (“Chi ha vinto e chi ha perso”). Dopo il voto, scrive Emilia Patta, “Il Pd prova a ricompattarsi. Sì a Calenda” (Sole 24 ore). Il commento al voto di Massimo Cacciari (Il dubbio). Mauro Calise, “Senza leader la sinistra resta debole” (Mattino). Marco Damilano, “Il Pd e i suoi nemici interni” (Espresso). Gianfranco Pasquino, “Come sbagliare le primarie” (il mulino.it). A proposito della protesta dei pastori sardi Leonardo Becchetti ripropone il potere dei consumatori: “Riconosciamoci ‘potere forte’” (Avvenire). Il giudizio di Sabino Cassese sul governo gialloverde: “I nuovi Borbone” (Foglio). Angelo Panebianco, “Il fascino in politica estera dei governi illiberali” (Corriere). Ernesto Galli Della Loggia, “Ho votato M5S ma ho sbagliato” (Foglio).
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Pastori sardi. Informazioni e commenti sul sito fb Lettori, amministrato da Vanni Tola.
Domande doverose
di Vanni Tola
Tutti i candidati alla presidenza della Regione sarda concordano con i pastori e si dichiarano al loro fianco nella protesta. Tra i miei neuroni cerebrali ne ho alcuni che spesso vanno controcorrente e mi pongono inquietanti quesiti. “Come mai nessuna forza politica dell’ultima legislatura regionale non è stata in grado di avviare un serio processo di ricostruzione e riorganizzazione della filiera del latte di pecora per garantire il giusto prezzo della materia prima ai pastori? Sono sinceri gli esponenti del mondo politico regionale e nazionale quando dichiarano grande attenzione alle richieste dei pastori a pochi giorni dalle elezioni regionali?” Per la verità i miei neuroni birichini mi hanno fatto anche un’altra domanda, ma non è poi così importante. Mi hanno chiesto se Salvini, che ha preannunciato di voler incontrare i pastori per esprimere solidarietà, si travestirà da Merdules, da Gigante di Monti Prama o da Poliziotto. Francamente non lo so, sconsiglierei comunque il travestimento da poliziotto perché i pastori potrebbero ricordare quando, in viaggio per Roma, sono stati manganellati e trattenuti per qualche tempo a Civitavecchia appena sbarcati dalla nave. Se poi all’ultimo momento decidesse di non venire per niente penso che i pastori in lotta e i Sardi tutti se ne farebbero una ragione. (V.T.)