Monthly Archives: gennaio 2021
Oggi domenica 31 gennaio 2021
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Carbonia. Operai e contadini nuovo blocco sociale anche in Sardegna nel nome di Gramsci
31 Gennaio 2021
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Nuova puntata domenicale sulla storia di Carbonia dal 1 settembre 2019.
Come spiega bene Girolamo Sotgiu, le elezioni amministrative e la campagna per la Costituente e per il Referendum avevano messo in evidenza i contrasti, in particolare tra il Pci e la Dc, ‘pur nell’unità formale che ancora esisteva a livello di governo e nella […]
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Oggi sabato 30 gennaio 2021
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Il bambino scemo mette il suo pallone per essere della partita
30 Gennaio 2021
Amsicora su Democraziaoggi.
Il trombettiere l’altro giorno va – a pagamento – a Riyad e si onora d’essere ricevuto dal grande principe ereditario Mohammed bin Salman, ancora con le mani sporche del sangue di Jamal Khashoggi (pardon! dell’acido con cui il giornalista è stato sciolto), e gli illustra le bellezze del Rinascimento. Ma – novello Turati – […]
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Recovery Plan: una lettura critica
La Società della cura e il Recovery Plan
di Marco Bersani
su Volerelaluna
La Società della cura (https://societadellacura.blogspot.com/) moltiplica i suoi interventi sulla scena politica. Dopo la diffusione, nel dicembre scorso, di un documento contenente “proposte per uscire ora dall’emergenza, condivise da 350 realtà collettive e da oltre 1200 persone attive individualmente” (https://volerelaluna.it/materiali/2020/12/22/il-nostro-dono-di-natale/) ha attivato un confronto pubblico, in corso in questi giorni, con l’obiettivo di definire, entro il 10 febbraio, «un piano di radicale conversione ecologica, sociale, economica e culturale della società» seguendo la strada indicata «dalle lotte, dal mutualismo, dalla solidarietà e dalla Costituzione». Si colloca in questo quadro la discussione organizzata il 22 gennaio introdotta dalla relazione di Marco Bersani che si pubblica di seguito.
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Per affrontare adeguatamente la discussione sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR, meglio conosciuto come Recovery Plan), occorre collocarlo nel contesto più complessivo dell’Unione Europea in questa fase. Senza questo, si rischia di credere alla narrazione mainstream di un’Unione europea improvvisamente passata dall’austerità a politiche economiche espansive, e all’arrivo di un bastimento carico di miliardi, rispetto ai quali occorre solo deciderne la destinazione.
Un chiarimento sul MES
Così appare ad esempio la discussione intorno al MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità, che mette a disposizione un fondo per le spese sanitarie (per l’Italia, sono 36 miliardi). Su questo punto, divenuto sensibile anche per realtà del mondo sanitario che, lavorando quotidianamente in emergenza, rischiano di ascoltare le sirene dei fautori del MES, occorre fare chiarezza. I 36 miliardi del MES non sono risorse aggiuntive. Il MES è una delle modalità di reperimento di risorse per coprire le spese previste nel comparto sanitario, spese già approvate con la legge di bilancio, e il cui ammontare è indipendente dalle modalità con cui le si finanzia. Non ci sono 36 miliardi in più, c’è solo la possibilità di finanziare una parte della spesa deliberata per il Servizio Sanitario Nazionale (121,37 mld per il 2021) attraverso il MES, invece che con l’ordinaria emissione di titoli di Stato. Il “vantaggio” sarebbe nei tassi di interesse leggermente inferiori per quella parte; lo svantaggio, ben più considerevole, sono le condizionalità (leggi: politiche di austerità), inscritte nel Trattato e mai modificate, nonostante le dichiarazioni del Gentiloni di turno.
Le cifre reali del Recovery Plan
Proviamo a leggere meglio anche le mirabolanti cifre del Next Generation Ue, una serie di fondi europei, con in testa il cosiddetto Recovery Fund. Il governo ha in questi giorni approvato il Recovery Plan, ovvero l’insieme dei progetti per accedere a questi fondi. La prima cosa da sottolineare è che, mentre i fondi assegnati all’Italia corrispondono a 196,5 miliardi, il Governo ha predisposto un piano per 209,9 miliardi. Di questa cifra, 68,9 mld sono trasferimenti e 141 sono prestiti. Sono tutte risorse aggiuntive? No, le risorse aggiuntive sono i 68,9 mld di trasferimenti e 53,5 della quota prestiti, perché gli altri 87,5 mld di quota prestiti vanno a coprire spese già deliberate (cambia solo, come per il MES, la modalità di finanziamento). Risultato: non stanno arrivando 209,9 miliardi, ma solo 122,4 mld (di cui 68,9 senza interessi e 53,5 con tassi d’interesse leggermente inferiori) nell’arco di un periodo di sei anni (2021-2026). Si tratta dunque di 20 miliardi all’anno e anche questi soggetti alle “Raccomandazioni Ue specifiche per paese”, ovvero le cosiddette “riforme strutturali” liberiste, che, proprio in questi giorni, vengono costantemente ricordate come adempimenti obbligatori per poter ottenere i fondi assegnati.
Obiettivi di lotta sull’Unione europea
Non siamo dunque in presenza di un mutamento sostanziale del profilo dell’Unione europea, bensì dentro una fase in cui i vincoli vengono resi meno stretti per rispondere alla pandemia e rilanciare l’economia, in attesa di ripristinarli non appena l’emergenza sarà stata superata. Per questo motivo, occorre legare la battaglia sul Recovery Plan a una strategia più ampia che rompa la gabbia liberista dell’Unione europea, almeno in tre direzioni, qui velocemente sintetizzate:
- rompere la trappola del debito: solo per fare un esempio, prima delle spese in deficit fatte nel 2020 per rispondere alla pandemia, dei 2.400 miliardi di debito pubblico italiano, solo 266 corrispondevano a spesa in deficit, il resto era unicamente frutto del sistema perverso degli interessi sul debito, per i quali attualmente paghiamo 60 miliardi all’anno. Si tratta della terza voce di bilancio, dopo sanità e previdenza. A questo proposito, occorre rivendicare la cancellazione del debito (le forme tecniche esistono) accumulato per le spese necessarie al contrasto della crisi prodotta dalla pandemia e occorre rivendicare il principio giuridico delle “circostanze significativamente mutate” per applicare una drastica riduzione degli interessi sul debito storicamente contratto;
- rendere la BCE banca centrale a tutti gli effetti: la Bce oggi è l’unica banca centrale del mondo a non funzionare come una banca centrale, ovvero a essere indipendente dagli Stati e a finanziare il sistema bancario privato e ‒ quando lo fa, come in questo periodo di emergenza ‒ a finanziare solo indirettamente gli Stati e il settore pubblico. A questo proposito, se la Bce divenisse una banca centrale a tutti gli effetti, non ci sarebbe alcun bisogno di inventare meccanismi come il Recovery Fund, il MES e quant’altro, poiché sarebbe la Banca Centrale Europea stessa a garantire il debito degli Stati membri;
- abolire i vincoli di Maastricht: patto di stabilità, pareggio di bilancio e fiscal compact sono stati sospesi fino al 2022 per permettere agli Stati di poter spendere per rispondere alla pandemia. Ma se per curare le persone vengono sospesi i vincoli finanziari, non ci vuole Aristotele per dedurre che quei vincoli sono contro la cura delle persone. Occorre quindi rivendicarne l’abolizione per costruire dal basso un nuovo patto costituente fra i popoli dell’Europa.
Uno sguardo generale al Recovery Plan
Dette più sopra le cifre, proviamo ora dare uno sguardo d’insieme al Recovery Plan approvato dal Governo, che sarà l’oggetto del piano di lavoro generale e tematico del nostro processo di convergenza verso la società della cura. Il piano si fonda su tre assi strategici (digitalizzazione e innovazione / transizione ecologica / inclusione sociale) e su tre priorità trasversali (donne / giovani / Sud). È diviso in sei missioni, a loro volta declinate in 16 componenti e in 47 linee di intervento. Le sei missioni sono le seguenti: Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (46,18 mld); Rivoluzione verde e transizione ecologica (68,90 mld); Infrastrutture per una mobilità sostenibile (31,98 mld); Istruzione e ricerca (28,49 mld); Inclusione e coesione (27.62 mld); Salute (19.72 mld).
A una lettura generale il piano appare totalmente privo di una visione, costruito come una ordinaria legge di bilancio, dove ognuno cerca di portare a casa qualcosa per il proprio settore e i propri interessi di riferimento. È un piano costruito intorno all’idea che la pandemia sia un incidente di percorso, un evento esogeno al modello socio-economico, un accadimento estraneo, superato il quale il sistema potrà riprendere il proprio ordinario cammino. È un piano figlio della cultura liberista, basata sull’idea della trinità religiosa di competitività-concorrenza-crescita e sull’assunto che il benessere della società si fondi sul benessere delle imprese. È un piano che prova a stabilizzare e rivitalizzare il modello economico-sociale sui filoni dell’innovazione digitale e degli investimenti nel settore ambientale, prefigurando così una nuova fase di capitalismo digitale e verde. Per tutti/e noi che da tempo abbiamo evidenziato, dentro le nostre proposte, le nostre lotte e le nostre pratiche, come la pandemia sia tutt’altro che un incidente di percorso o un evento esogeno al modello capitalistico, sembra abbastanza chiaro come il nostro lavoro collettivo debba avere l’obiettivo di dare una lettura antisistemica, chiara e comprensibile del Recovery Plan e di favorire, sull’insieme e sulle singole declinazioni, da una parte l’approfondimento della sfida sull’alternativa di società (la società della cura) e, dall’altra, la convergenza delle esperienze per avviare un’ampia mobilitazione sociale.
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È l’introduzione alla discussione sul Recovery Plan organizzata dalla Società della cura il 22 gennaio 2021.
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Ferrovie e alta velocità. Assente la Sardegna
di Giuseppe Biggio
By sardegnasoprattutto / 28 gennaio 2021 / Società & Politica /
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America, America
IL NEMICO DENTRO CASA
di Marino de Medici
Il fenomeno che ormai imperversa in America risponde a questa definizione: il nemico dentro casa. Gli americani lo hanno scoperto, con forte ritardo, il 6 Gennaio quando l’assembramento di attivisti trumpiani, manipoli di facinorosi seguaci di QAnon, i Proud Boys, i Three Percenters e milizie assortite hanno preso d’assalto e messo in pericolo il vice presidente
degli Stati Uniti, senatori e Rappresentanti che partecipavano ad una sessione speciale convocata per certificare l’elezione di Joseph Biden a presidente. Gli esperti hanno individuato la matrice di questo fenomeno nel nazionalismo cristiano bianco. La strategia non è dissimile da quella che animò le Brigate Rosse negli anni settanta, ed il loro attacco al cuore dello stato. Ma mentre in Italia lo scontro politico e sociale era scevro di connotazioni religiose, ben altro è il ruolo della religione nel conflitto che ormai divampa in America. Di fatto, l’insurrezione esplosa con l’invasione del Campidoglio americano ha il suo punto di partenza nella convergenza
di simbolismi religiosi, nazionalisti, cristiani e razzisti che segnalano l’emergere di un’altra America, attratta da una narrazione storica e politica che stravolge le tradizionali regole religiose e morali della società americana. Interpreti ed esecutori di questa narrazione sono da tempo gli evangelici americani, che rappresentano circa un quarto della popolazione. [segue]
Bonas noas. Si chetano i venti di guerra?
Il Governo revoca l’export di bombe verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi.
Su il manifesto sardo.
Fermate definitivamente forniture autorizzate negli ultimi anni e relative ad ordigni utilizzati nella guerra sanguinosa dello Yemen. Le licenze erano state rilasciate dopo l’inizio del conflitto. Cancellato dal Governo con una decisione storica e grazie alla pressione della società civile l’invio di oltre 12.700 bombe.
Pubblichiamo la nota congiunta di Amnesty International, Comitato Riconversione RWM per la pace ed il lavoro sostenibile, European Center for Constitutional and Human Rights, Fondazione Finanza Etica, Movimento dei Focolari, Mwatana for Human Rights, Oxfam Italia, Rete Italiana Pace e Disarmo e Save the Children Italia.
[segue]
Oggi 29 gennaio 2021 venerdì
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Crisi di governo: dove va il Paese?
29 Gennaio 2021
A.P. su Democraziaoggi.
Vogliamo fare una foto della crisi? Cosa vediamo? In queste ore si sta manifestando il massimo sforzo per liquidare Conte e ridimensionare il M5S per imporre un altro assetto, altri equilibri. I musi gialli, nonostante le loro traversie, non hanno abdicato alla questione morale, non danno segni di togliere le tende dalle questioni della giustizia, […]
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Next Generation EU e le disuguaglianze tra i bambini: garantire una ripresa equa ed inclusiva
Pubblicato il 26 Gennaio, 2021 in Contributi, Istruzione.
Francesco Corti, David Rinaldi e Christian Morabito
La crisi economica provocata dalla pandemia COVID19 ha colpito duramente le persone più vulnerabili, in particolare i bambini e le donne. Next Generation EU rappresenta una grande opportunità per garantire una ripresa equa e inclusiva. Perché ciò avvenga, però, è necessario che l’Unione Europea si doti di un sistema di monitoraggio in grado di identificare le disuguaglianze e promuovere quindi interventi volti a combatterle efficacemente.
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Recovery Plan
Per chi volesse approfondire Recovery Fund e Next Generation EU nella dimensione europea e italiana: https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/piano-di-ripresa-e-resilienza/
Oggi giovedì 28 gennaio 2021
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La Giornata della memoria alla Scuola serale di Piscinas: l’Olocausto degli zingari, il popolo del vento
28 Gennaio 2021
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Nel contesto di un ricco programma di relazioni e proiezioni, Gianna Lai ha tenuto questa lezione sullo sterminio degli zingari nei campi di concentramento nazisti.
Nei campi di sterminio non c’erano solo gli ebrei, e certo la shoà deve mantenere senz’altro la sua unicità e semmai deve aiutarci a capire gli altri eventi, ma c’erano […]
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27 gennaio “Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime della Shoah”.
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Recovery Plan
La Missione istruzione e Ricerca del Recovery Plan: buone intenzioni, insufficienze, vaghezze, interessanti indirizzi
Pubblicato il: 27/01/2021 06:05:11 – FIORELLA FARINELLI
Anche se molto migliorato rispetto alle bozze precedenti (sono diminuiti bonus e sussidi a favore degli investimenti, aumentate le risorse per sanità e istruzione, eliminate incongruenze), è certo che il Recovery Plan varato il 12 gennaio non può essere la versione definitiva. Per essere più convincente, e più coerente con le indicazioni della Commissione europea, sono necessarie altre modifiche. La parte delle politiche attive e del lavoro dei giovani, per dirne una, è inadeguata agli sconquassi che dobbiamo aspettarci. […]
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Anche se molto migliorato rispetto alle bozze precedenti (sono diminuiti bonus e sussidi a favore degli investimenti, aumentate le risorse per sanità e istruzione, eliminate incongruenze), è certo che il Recovery Plan varato il 12 gennaio non può essere la versione definitiva. Per essere più convincente, e più coerente con le indicazioni della Commissione europea, sono necessarie altre modifiche. La parte delle politiche attive e del lavoro dei giovani, per dirne una, è inadeguata agli sconquassi che dobbiamo aspettarci. Ed è poco più che un titolo, perché affidata quasi solo alla ‘digitalizzazione’, la parte relativa all’efficientamento della Pubblica Amministrazione. Sono solo due degli esempi che si possono fare. Manca, inoltre, la definizione della governance, rinviata a un futuro decreto «che identifichi le responsabilità della realizzazione, garantisca il coordinamento con i ministri competenti e gli altri livelli di governo, monitori i progressi di avanzamento della spesa». Non sono dettagli per un Paese dove nell’ultimo settennato si è stati capaci di spendere solo il 40 per cento dei Fondi UE, con un asse decisionale Stato, Regioni, Città che funziona male e una ‘diserzione amministrativa’ piuttosto diffusa. Un Piano è un Piano solo se semplificazione ed efficienza non sono slogan ma norme, regole, responsabilità precise che mettano in grado di ‘aprire i cantieri’ . Non solo. Per innescare cambiamenti decisivi in un Paese già sfibrato prima della pandemia e suscitare condivisione e sentimenti sociali positivi, il Piano dev’essere costruito in modo trasparente, ascoltando e tenendo conto di critiche e proposte. Siamo in ritardo, ma c’è ancora un po’ di tempo. Anche per questo può essere ancora utile mettere a fuoco la coerenza tra priorità e progetti, e tra progetti e risorse.
La Missione Istruzione e Ricerca
La quarta delle sei Missioni contenute nel Piano, articolate in 16 linee d’azione e 47 progetti, si intitola Istruzione e Rcerca. Il finanziamento è di 28,5 mld, di cui 16,7 vanno a «potenziamento delle competenze e diritto allo studio» , 11,7 mld sono per la linea «dalla ricerca all’impresa». Pur essendo il finanziamento pubblico in educazione più consistente dopo il piano di ricostruzione post-bellica delle scuole e quello di sviluppo del sistema successivo alla riforma della scuola media, i 16,7 mld sono ancora insufficienti rispetto alle criticità educative del Paese e alla piena attuazione di tutti progetti elencati. Considerato che la nostra spesa pubblica per l’istruzione è la più bassa in ambito europeo (e che a regime bisognerebbe arrivare al 4-5% del PIL), che siamo tra i Paesi con il tasso più alto di early school leavers, di dispersione implicita (mancato raggiungimento delle competenze pure per chi è in possesso dei titoli di studio), di giovani adulti privi di diplomi e di titoli di livello terziario, ci sarebbe bisogno sia di più risorse sia di appropriate modifiche strutturali, di tipo ordinamentale e anche relative alla qualità professionale, all’organizzazione del lavoro, a nuovi tipi di carriere basate su impegno e meriti, a un nuovo codice deontologico dei docenti. Questo non solo per ottemperare alla saggia indicazione della Commissione Europea che chiede di evitare che le risorse siano come «pioggia che cade sul deserto», ma per l’esperienza fatta con le politiche di coesione implementate con i PON, sostanzialmente inefficaci – rispetto agli abbandoni precoci e ai divari territoriali – proprio perché costruite con progetti temporanei e aggiuntivi non sostenuti da politiche e investimenti ordinari.
Edilizia scolastica
Anche i 6,8 mld per l’edilizia scolastica («efficientamento energetico e cablaggio degli edifici pubblici» della Missione 2), neppure un quinto di quello che occorrerebbe per mettere in sicurezza e riqualificare l’intero patrimonio scolastico, dovrebbero essere implementati tenendo conto anche dell’esigenza di riconvertire gli spazi su modelli educativi e didattici innovativi e di favorire, a partire dalle periferie più disagiate, un diverso rapporto tra gli istituti scolastici e le comunità di riferimento (declinazioni e territorializzazioni che nel testo attuale non ci sono). Bisogna aggiungere che, a voler intervenire davvero sulla situazione educativa del Paese, occorrerebbe finalmente dismettere l’idea che l’unico target sia quello degli studenti ‘a rischio’ e considerare anche i drop out e gli adulti ( almeno i giovani adulti) senza diplomi e senza qualifiche, il 20% tra i 29 i 34 anni , nella logica sempre conclamata e mai attuata dell’apprendimento permanente. Sconcerta inoltre la non contestualizzazione delle politiche proposte. Cosa sarà la nostra scuola tra 10 anni, con 1 milione e 300mila iscritti in meno, un turn over del 40 per cento del personale docente, un peso specifico sempre più consistente di studenti con background migratorio ? Cosa significherà tutto questo in termini di spesa e di bisogni formativi ? Qual è l’idea di scuola cui ispirarsi?
Diritto allo studio
La linea d’azione «Potenziamento delle competenze e diritto allo studio» si articola in tre tipologie di intervento. La prima è «Accesso all’istruzione e divari territoriali» , con 9,45 mld, di cui 2,35 per borse di studio e alloggi per studenti universitari e 7,10 per la prevenzione precoce delle diseguaglianze (comparto 0-6): tempo pieno, contrasto degli abbandoni, rafforzamento delle competenze di base. La seconda è «Competenze STEM e Multilinguismo» (che comprende anche attrezzature didattiche, laboratori, «scuola 4.0» ), con 5,02 mld. La terza è “Istituti Professionali e ITS» ( e orientamento ai percorsi post diploma ), con 2,25 mld. Semplificando molto, «i fuochi sono essenzialmente due, da un lato la prevenzione delle diseguaglianze educative, sociali/individuali e territoriali, dall’altro il mismatch tra preparazione scolastica e competenze richieste dall’innovazione tecnologica e dal mondo del lavoro. L’investimento più importante, e anche quello in cui – grazie a una vasta e tenace mobilitazione di tutto il mondo che gli gira attorno, dalla ricerca pedagogica alle associazioni di cittadinanza attiva – mostra i più netti miglioramenti rispetto alle bozze precedenti, è quello relativo allo 0-6, asili nido e scuole per l’infanzia. Non solo, infatti, il piano di sviluppo degli asili nido, inizialmente promosso nella Missione «Parità di genere» –quindi ascritto impropriamente più alle finalità della conciliazione lavoro-maternità e all’occupazione femminile che a finalità educative, e coperto da uno stanziamento evidentemente insufficiente– è stato riportato, coerentemente con il Dlgs 65/2017, nella Missione «Istruzione», ma con uno stanziamento più prossimo alla realizzazione dell’obiettivo, che è la copertura del 33% della domanda in ogni Regione. Si tratta infatti di 3,6 mld, un investimento consistente, sebbene occorrerebbero in verità 4,8 mld in conto capitale (e poi un costo di gestione annuale di 4 mld). Allo stesso comparto appartiene lo stanziamento di 1 mld per il potenziamento delle scuole per l’infanzia (ma ancora non si parla di ‘generalizzazione’). Meno chiaro l’investimento sul Tempo Pieno (1 mld), presumibilmente per la scuola primaria, in cui però un piano di generalizzazione costerebbe 2,8 mld annui solo di spesa corrente . Al contrasto degli abbandoni e dei divari territoriali va 1,5 mld. Ma a un programma organico di attuazione del diritto allo studio nel primo ciclo mancano, evidentemente, alcuni ‘ingredienti’. Un nuovo modello di Tempo Pieno ordinamentale, almeno nella primaria, e comunque tempi più lunghi, anche nella secondaria di I grado, per attività educative vocazionali. Un sistema di orientamento al proseguimento dopo la scuola media ( l’orientamento previsto nella terza linea d’azione riguarda solo la transizione dalla secondaria di II grado ai percorsi di livello terziario) e lo spostamento dell’esame di stato al termine del ciclo obbligatorio. E poi una riforma dell’ istruzione e formazione professionale attraverso cui decine di migliaia di ragazzi assolvono all’obbligo decennale conseguendo un primo livello di qualificazione professionale, un sistema oggi diviso tra enti formativi accreditati dalle Regioni e Istruzione professionale statale, settore paradossalmente meno sviluppato e qualificato proprio dove dispersione e abbandoni mordono di più. La seconda e la terza linea d’azione sono assai più vaghe: non è chiaro il collegamento degli obiettivi con la riforma degli istituti tecnici e professionali e, più in generale, con il rafforzamento dell’intera filiera tecnico-professionale anche in collaborazione con le Università, sebbene l’investimento sugli ITS (1,5 mld) risponda a esigenze segnalate da più parti e i 3 mld in laboratori e attrezzature per la “scuola 4.0 “ sembrino promettenti.
La formazione degli insegnanti
A tutto ciò si aggiungono svariate riforme, anche nel sistema universitario, solo in parte collegate con le linee d’azione e i progetti, e dai contenuti talora troppo imprecisi per consentirne una valutazione. La più interessante prevede un nuovo sistema di formazione iniziale e reclutamento degli insegnanti, con coincidenza tra l’esame di laurea e l’esame di Stato per l’accesso alla professione, presumibilmente collegata con le due riforme delle lauree abilitanti e delle classi di laurea. Ci sono poi l’istituzione di una Scuola di alta formazione per il personale scolastico ( Università-Indire) a frequenza obbligatoria; le riforme per l’aggiunta nei curricoli di moduli Stem, competenze digitali e linguistiche, con apposita formazione degli insegnanti, oltre alle riforme degli istituti tecnici e professionali, degli ITS, dell’orientamento ai livelli terziari, dei dottorati. Tutto o quasi, si direbbe, da precisare meglio nelle finalità e nei contenuti specifici. C’è ancora molto da fare, quindi, sperando che ce ne sia il tempo, la volontà, le competenze.
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Fiorella Farinelli Politica e saggista, docente esperta di istruzione e formazione, componente dell’ Osservatorio nazionale per l’Integrazione degli alunni stranieri
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Oggi mercoledì 27 gennaio 2021
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ANPI Cagliari. Giornata della memoria. Ignazio Meleddu racconta la sua storia di internato militare in Germania
27 Gennaio 2021
Gianna Lai – ANPI Cagliari
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L’ANPI di Cagliari celebra quest’anno la Giornata della memoria con il racconto di un internato militare sardo, Ignazio Meleddu, parlando del suo scritto che ricorda la resistenza dei militari italiani internati in Germania. I quali riabiliteranno un esercito uscito moralmente sconfitto sia dalla guerra che dalla liberazione. La storia di […]
Recovery Fund
RIUSCIRANNO I NOSTRI EROI AD UTILIZZARE I FONDI EUROPEI?
di Guido Puccio su PoliticaInsieme.
Gen 25, 2021 – 07:30:51 – CET
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Riusciremo a spendere i soldi del Recovery Plan, presto e bene? Il passato (spendita fondi europei) non ci rende ottimisti. Sulla questione scrissero un libro i ricercatori di Scienze Politiche (Pruna, Zurru, Bottazzi).
27 gennaio “Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime della Shoah”
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Il 1° novembre 2005 nella ricorrenza dei 60 anni dalla liberazione dei campi di concentramento l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha istituito la “Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime della Shoah”, ogni anno, il 27 gennaio.
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Il Presidente nazionale ANPI, Gianfranco Pagliarulo, sul Giorno della Memoria: “Il 27 gennaio non sia solo una celebrazione, non si banalizzi una tragedia che ha segnato l’umanità”
“Il 27 gennaio il Paese si raccoglierà intorno a volti e vicende che hanno segnato tragicamente la storia del ‘900. L’ANPI auspica fortemente che questo giorno non si esaurisca in una pur necessaria celebrazione, in una banalizzazione di un evento mostruoso per l’umanità, bensì sia un momento di riflessione coinvolgente, la base di un messaggio di civiltà, antifascismo, e democrazia che proviene dal sangue dei campi di concentramento. La chiamiamo memoria attiva, perché il ricordo non ha senso se non si esercita la sua portata educativa nel presente. Ogni giorno, ogni incontro, ogni impegno, ogni battaglia. È un dovere, oltreché l’unico omaggio possibile, perché tangibile e duraturo, alle vittime della deportazione e ai combattenti per la libertà”.
Gianfranco Pagliarulo – Presidente nazionale ANPI
25 gennaio 2021
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MEMORIA ATTIVA
27 gennaio, Giorno della Memoria: il manifesto dell’ANPI.
Iniziative in tutta Italia promosse e co-promosse dai Comitati provinciali e dalle Sezioni dell’ANPI.
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—-Oggi succede anche questo—-
I negazionisti compiono un nuovo olocausto
di Carla Maria Casula
Il 15,6% degli Italiani nega l’esistenza dell’olocausto. È quanto emerge dal rapporto Eurispes 2020. Una percentuale che desta allarme e nella giornata dedicata alla Memoria risuona come blasfema.
Oltre alle motivazioni che attingono linfa dall’humus politico, oltre all’ignoranza (intesa come “non conoscenza” della tematica, della storia e del contesto politico), amplificata dalle notizie false o manipolate che circolano nella Rete, ci si domanda che cosa possa indurre un numero allarmante di individui a negare una delle pagine più vergognose e strazianti della storia dell’umanità.
Rispetto a coloro, per lo più appartenenti a frange di estrema destra, che a rischio di provvedimenti penali celebrano gli orrori della Shoah, inneggiando alla follia nazista che ha progettato la “soluzione finale”, i negazionisti (che scelgono questa condizione per convenienza, giacché, molti di essi, in realtà, aderiscono alle ideologie filonaziste) sono più subdoli, perché di fatto negano l’argomento della disputa, quindi non si espongono. E, restando in quel limbo artefatto, non si assumono la responsabilità del proprio pensiero, dunque quella posizione, scelta con oculatezza, li rende esenti da critiche, rimproveri e meritata indignazione.
Ma non si creda che negare l’olocausto sia meno grave che condividerlo. Oltre all’esecranda condivisione e glorificazione dello sterminio di milioni di Ebrei, anche il negazionismo concorre a rinnovare quell’orrore. Perché negare equivale a disconoscere l’inferno dei lager, a calpestare la disperazione dei martiri uccisi per un cognome ebreo, a infangare l’atrocità delle torture, della fame, della sete, del sonno abortito in quei pancacci dei dormitori, simili a loculi sporchi e sovraffollati. Perché negare significa oltraggiare il pianto dei bambini e delle gestanti, vittime degli esperimenti medici senza anestesia, significa dileggiare le urla disperate di coloro che non superavano la selezione, in quanto ritenuti inabili, e venivano condotti nelle camere a gas.
Ed è naturale chiedersi come sia possibile negare quegli eventi storici di cui abbiamo testimonianze fotografiche, diaristiche, architettoniche. Il campo di concentramento di Auschwitz I, rimasto intatto (compresi i forni crematori, le camere a gas, il blocco 10 degli esperimenti, il muro della morte), oggi adibito a museo della Shoah, racconta la catalogazione meticolosa, effettuata dai Nazisti, di fotografie, in particolare di bambini, sottoposti a esperimenti medici, la raccolta di montagne di capelli dei deportati, la catasta di scarpe e di altri oggetti personali appartenuti agli internati. Abbiamo gli scritti di Primo Levi e di altri sopravvissuti, i resoconti lucidi, dettagliati, convergenti dei superstiti, tra cui Samuel Modiano e Liliana Segre.
Date le succitate prove concrete e inoppugnabili, sembra impossibile che individui, dotati di funzioni cognitive integre, possano negare ciò che risulta palesemente innegabile. Eppure accade, nei contesti pubblici e nel privato. Ed è evidente che ciò che per gli altri è logico, per i negazionisti non lo sia: gli accadimenti storici, definiti appunto “storici” in quanto suffragati da prove e testimonianze, non possono essere sposati o meno, a seconda della fede politica e religiosa, della formazione culturale, della mentalità, del tornaconto personale. Non è ammissibile poter scegliere se credere e accettare, oppure disconoscere. La verità storica non consente questa seconda opzione.
E se le lodevoli iniziative organizzate nell’ambito della Giornata della Memoria, volte a sensibilizzare nei confronti di questa immane tragedia storica, possono sortire effetti positivi tra i più giovani, si rivelano pressoché inutili verso i negazionisti incalliti, ciechi e sordi persino di fronte all’orrore tatuato con cifre di morte sull’avambraccio dei deportati.
Uno dei cavalli di battaglia dei negazionisti è rappresentato dalla dimostrazione di falsità del diario di Anna Frank. L’obiettivo è quello di negare, muovendo dalla non autenticità di alcune parti dell’opera, l’esistenza storica della ragazzina, la deportazione, il suo inferno, prima nel lager di Auschwitz–Birkenau, poi di Bergen-Belsen e, infine, sconfessare l’olocausto. In pratica, non potendo smentire in nessun altro modo la granitica verità storica, ci si appiglia ad alcuni dettagli, strumentalizzandoli, e utilizzando il subdolo argomento “Falsus in uno, falsus in omnibus”, per negare la Shoah.
Otto Frank, dopo la morte della figlia, revisionò l’opera, omettendo alcuni aneddoti personali della giovane, modificò alcune parti e ne aggiunse delle altre. Ma questo intervento, atto a preservare l’intimità di Anna e a rendere gli scritti della ragazzina più fruibili in vista della pubblicazione, nulla toglie all’autenticità generale del diario, al suo valore come testimonianza diretta prima della cattura e non inficia in alcun modo l’esistenza storica della giovane, né la sua deportazione nei campi di concentramento, né la veridicità dell’olocausto. Eppure c’è chi getta discredito nei confronti della figura dell’adolescente ebrea, negando la sua esistenza, o definendola mistificatrice. Sottraendola, di nuovo, ai suoi anni migliori e uccidendola per la seconda volta.
Nell’immaginario collettivo i numeri sono effimeri, ma ci sono cifre che pesano come macigni.
Quel 15,6% di Italiani che nega l’olocausto ha rimesso in moto i vagoni-bestiame, sigillati e dotati esclusivamente di prese d’aria, che trasportavano i deportati verso l’inferno, con temperature rigidissime o al caldo asfissiante, senza cibo, né acqua e senza la possibilità di usufruire di servizi igienici, utilizzando un secchio nel quale espletare i bisogni fisiologici. Quel 15,6% che nega l’olocausto ha riacceso l’agonia per la selezione e ha fatto riecheggiare le urla di chi è stato dichiarato inabile e condotto nelle camere a gas. Quel 15,6% ha compiuto un nuovo olocausto.
Carla Maria Casula
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27 Gennaio 2021 –
La Giornata della Memoria dei Rom e Sinti
Scritto da Santino Spinelli
La Giornata della Memoria dei Rom e Sinti
In vista della Giornata della Memoria il signor Emanuele Filiberto di Savoia, che preferisce restare cittadino svizzero pur dicendo che si sente italiano, ha inviato una lettera alla comunità ebraica italiana per chiedere perdono a nome di tutta la sua famiglia, che lui definisce “la Real Casa di Savoia”, per le leggi razziali emanate nel 1938 dall’allora re d’Italia Vittorio Emanuele III, suo bisnonno. Nella lettera cita la persecuzione nazifascista contro gli ebrei, definiti giustamente “sacre vittime”, ma non c’è neppure un cenno a quella contro i rom e sinti. Nessun cenno alle loro sacre vittime. Eppure almeno 500 mila rom e sinti furono trucidati dai nazi-fascisti. In Italia i Savoia hanno appoggiato la politica di discriminazione, di deportazione e di internamento dei fascisti non solo verso gli ebrei ma anche contro rom e sinti italiani, all’epoca sudditi del Regno d’Italia dei Savoia.
Il 27 gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche, è stato eletto come Giornata della Memoria per ricordare le vittime dell’aberrazione nazi-fascista. Il problema è che nella Legge del Luglio del 2000 che istituisce in Italia questo importante avvenimento, il Samudaripen, il genocidio dei Rom e Sinti, non compare. È stato ed è tuttora escluso. Il Samudaripen non è riconosciuto ufficialmente. È una vergogna nazionale. Nei servizi giornalistici le vittime rom e sinte sono appena citate quando va bene e in ogni caso rappresentano una semplice appendice:” C’erano anche gli zingari”. Il Samudaripen fu un genocidio specifico perpetuato contro un popolo inoffensivo per motivi razziali e non una semplice appendice.
Il pratica il Samudaripen è stato ignorato e rimosso dalla storia. Nessun Capo di Stato o di Governo in Italia ha mai chiesto perdono ai concittadini italiani di etnia rom e sinta per ciò che la propria patria gli ha inflitto in epoca fascista. L’Italia con la legge n. 21 del 20 luglio 2000, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio, ha deciso l’ istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”. I rom e sinti italiani non sono neppure nominati. Anzi, dal confronto tra l’articolo 1 e l’articolo 2 della legge, composta solo da tali due articoli, si direbbe che vengono proprio deliberatamente esclusi. L’articolo 1 parla infatti anche degli “italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte”, espressione che dovrebbe comprendere anche i cittadini italiani rom e sinti, ovunque in Italia rastrellati e deportati assieme agli ebrei. Ma l’articolo 2 parla di dar vita nel Giorno della Memoria a iniziative di vario tipo per ricordare “quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”: espressione quest’ultima che chiaramente esclude i cittadini italiani rom e sinti.
Alcune comunità ebraiche hanno ricevuto risarcimenti dalla Germania e da altri Paesi per gli orrori consumati contro di loro durante la seconda guerra mondiale. I rom e sinti, esclusi dal Processo di Norimberga per accusare i propri carnefici, non hanno ricevuto alcun tipo di risarcimento. Eppure sono stati depredati dei loro beni prima di essere mandati ai campi di sterminio quando non trucidati sul posto. Oro, gioielli, denaro contante, conti in banca, case, proprietà e tanto altro mai restituiti ai legittimi proprietari. Rom e sinti usati come cavie umane per esperimenti pseudo-scientifici, usati come schiavi nella macchina bellica, passati per le camere a gas e per i forni crematori nazisti. Eppure il Samudaripen (sterminio in lingua romanì e letteralmente “tutti uccisi”), termine noto solo agli specialisti, non compare nei documenti ufficiali che riconoscono la Giornata della Memoria che è e rimane mutilata, discriminante e offensiva verso le vittime rom e sinte massacrate per motivi razziali. Le vittime della ferocia nazi-fascista devono avere pari dignità e pari memoria. Peccato non sia ancora così a distanza di oltre 75 anni. Una Giornata della Memoria, visto dal punto di vista dei rom e sinti, che è ingiusta e monca poiché non li ricorda. Le vittime rom e sinte continuano ad essere discriminate nel giorno in cui dovrebbero essere commemorate. Questo è alquanto assurdo e disumano, non degno di un Paese civile e democratico e dovrebbe far profondamente riflettere…
Santino Spinelli
Oggi martedì 26 gennaio 2021
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Conte si dimette. Crisi di governo: l’Italia allo sfascio?
26 Gennaio 2021
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
C’è poco da fare. Giuseppe Conte si recherà al Quirinale per dimettersi, aprendo una complicata crisi di governo. Comunicherà prima al Consiglio dei Ministri la sua decisione, poi salirà al Colle per la formalizzazione. Del resto, non è riuscito ad allargare il perimetro della maggioranza, come chiedeva Mattarella nei giorni scorsi […]
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Il Recovery Plan del governo Conte bis
Roberto Romano
Sbilanciamoci! – 13 Gennaio 2021 | Sezione: Apertura, Economia e finanza.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Recovery Plan, arriva nella notte. Abbiamo 222 miliardi di euro che attengono precisamente ai fondi Next generation Eu, in totale 310 miliardi che computano anche le risorse legate alla riprogrammazione dei fondi strutturali (20 miliardi) e quelle in legge di bilancio.
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“Il Recovery per il Sud è una vittoria di Pirro”
Giuseppe Colombo
Sbilanciamoci! 21 Gennaio 2021 | Sezione: Italie, Nella rete
Per il direttore generale della Svimez “gli investimenti non possono essere allocati tramite quote, come le quote rosa” e “il Sud potrà vincere la sfida della spesa solo se si identifica un nuovo modello di governance”. Da Huffingtonpost.
RECOVERY PLAN e ISTRUZIONE
Passi avanti da migliorare
di Fiorella Farinelli su Rocca.
Forse è chiedere troppo all’attuale classe politica. Ma è certo che nel Recovery Plan varato il 12 gennaio, non c’è un disegno convincente delle strategie e delle misure con cui innescare cambiamenti decisivi – un’autentica ricostruzione nazionale – in un Paese slabbrato ed esausto già prima della pandemia. È lungo, del resto, il cammino per la versione definitiva dei programmi e delle riforme (da attivare «contestualmente», indica saggiamente la Commissione europea, «perché le risorse non cadano come pioggia sul deserto»), con cui ottenere i 209 mld tra prestiti e trasferimenti destinati all’Italia nell’ambito di Next Generation Ue 2021-26. Ci si arriverà solo dopo confronti con le istituzioni regionali e locali, le forze economiche e sociali, il Terzo Settore e le reti di cittadinanza attiva, e ovviamente il Parlamento. C’è dunque da augurarsi che da qui alla scadenza di aprile ci siano significativi miglioramenti. Come è già successo con i passi avanti, parziali ma nella giusta direzione, dalle prime bozze a quest’ultima versione, grazie soprattutto al pressing di Italia Viva: ricalibrato il peso dei bonus a favore degli investimenti, cresciute le risorse per la sanità e l’istruzione, ottenuti più coordinamento e minore frammentazione. Ma con un testo così complesso e un piatto così ricco (310 mld il totale, per l’inclusione nel pacchetto di altri fondi Ue e di spese programmate nel bilancio ordinario), la cosa non è scontata. Non solo per possibili ostinazioni dell’uno o dell’altro padrone del vapore a tener fermi programmi-bandiera che ingoiano troppe risorse (è il caso, non unico, del superecobonus 110/100 per la proprietà edilizia) o per un taglio più modernizzatore che sociale che sembra ormai difficile modificare, ma perché il clima generale è sempre più pesante. Tra tensioni politiche che delegittimano le istituzioni, contrasti e distonie tra Stato, Regioni, Città, reazioni agli effetti immediati e futuri della pandemia (mentre la parte dedicata alle politiche attive e al lavoro, soprattutto dei più giovani, è del tutto inadeguata agli sconquassi che verranno). Tutto ciò accompagnato dall’incapacità di definire la cosiddetta «governance». Cioè il modello di gestione dell’operazione, rinviato a un futuro decreto «che identifichi le responsabilità della realizzazione, garantisca il coordinamento con i ministri competenti a livello nazionale e gli altri livelli di governo, monitori i progressi di avanzamento della spesa». Difficoltà della politica politicante, certo, ma anche un approccio centralista che non aiuta e in più la solita mancanza di cultura attuativa, quella che permette di aprire i cantieri. Un limite, quest’ultimo, che preoccupa e squalifica, essendo noto in ambito europeo che nell’ultimo settennio non siamo stati capaci di spendere più del 40 per cento dei Fondi assegnati. C’entrano, si sa, leggi e regolamenti che trasformano in estenuanti tormentoni ogni gara d’appalto, ogni concorso, ogni convenzione. Ma come si fa a spendere entro il 2026 quella montagna di soldi se non si trovano i soggetti, le procedure, i modi per rimediare alla crisi dell’asse decisionale tra Stato, Regioni, Città e per superare la «diserzione amministrativa»? Basterà la «digitalizzazione» per garantire semplificazione ed efficienza? E basterà quanto previsto dal Piano – al momento poco più di un titolo – per portare a casa la più difficile delle sfide, una riforma decente della Pubblica Amministrazione? Appare dunque ancora impervia la strada per trasformare il Piano in un investimento capace di scaldare i cuori e di attivare le intelligenze dell’insieme della società italiana. E anche questo non è un problema da poco.
un finanziamento notevole ma insufficiente
Istruzione e ricerca è la quarta delle sei Missioni (1) contenute nel Piano, articolate in 16 componenti e 47 progetti. Il finanziamento è 28,5 miliardi, di cui 16,7 per il «potenziamento delle competenze e il diritto allo studio» (scuola e università) e 11,7 per la linea «dalla ricerca all’impresa» (università). Pur essendo il più grande finanziamento pubblico in educazione dopo il piano di ricostruzione postbellica delle scuole e quello di sviluppo del sistema successivo alla riforma della scuola media (1962-63), i 16,7 mld sono insufficienti non solo rispetto alla gravità della situazione educativa del Paese, ma anche alla piena realizzazione di tutte le azioni previste. Anche i 6,8 mld aggiuntivi per l’edilizia scolastica (che vengono dall’«efficientamento energetico e cablaggio degli edifici pubblici» di un’altra Missione) costituiscono un investimento modesto, neppure 1/5 di quello che occorre per mettere in sicurezza, riqualificare, riadattare a modelli di apprendimento e di apertura allo sviluppo culturale e civile delle comunità, le circa 30.000 sedi scolastiche. Un patrimonio pubblico per lo più piuttosto vecchio, in parte costruito prima delle normative antisismiche, spesso in stato di cattiva manutenzione, quasi sempre strutturato secondo finalità educative e didattiche obsolete. Più in generale l’investimento complessivo è inadeguato a misurarsi con la quantità e qualità dei problemi che stanno dietro alle criticità più acute, non derivate solo da una lunga stagione di «tagli» ma anche dall’incapacità politica di affrontare temi scomodi, che scatenano contrarietà nella più numerosa ed irritabile categoria professionale, quella dei docenti. La minore efficacia del nostro sistema rispetto ad altri in ambito sia europeo che Ocse (i più alti tassi di dispersione esplicita e implicita, il minor numero di diplomati e laureati, i divari territoriali nella quantità e qualità dell’offerta e anche nei risultati, le diseguaglianze e i fenomeni di segregazione formativa, la distanza tra formazione scolastica e sfide del mondo del lavoro, l’esistenza nella popolazione adulta anche delle età più giovani di un’ampia area di senza-diplomi e senza-qualifiche, e perfino di 13 milioni di analfabeti funzionali e digitali privi delle competenze minime per il lavoro e per la cittadinanza attiva) non nasce da niente. E non dipende solo dalle tante e diverse «povertà» sociali e individuali che condizionano negativamente l’apprendimento. A pesare sulle difficoltà che la scuola non supera, tradendo quindi il suo stesso ruolo che non è solo di inclusione ma anche di promozione, ci sono troppe povertà culturali, organizzative, professionali intrinseche al sistema. Che riguardano la troppo variabile qualità professionale dei docenti, la rigidità dell’organizzazione del lavoro, degli orari, delle cattedre, le carriere basate sull’anzianità e non sui meriti. Un’autonomia scolastica non ancorata alle comunità di riferimento e non dotata delle figure necessarie al suo funzionamento. Un ordinamento, nel primo e nel secondo ciclo, che non risponde al diritto allo studio nella «scuola di tutti» (che dire, per esempio, di quel dispositivo tutt’altro che innocente rispetto agli abbandoni precoci che è l’esame di stato alla fine della scuola media nonostante la durata decennale dell’obbligo di istruzione? e di un’istruzione e formazione professionale, decisiva per il completamento dell’obbligo per centinaia di migliaia di ragazzi, che però funziona solo in metà del Paese, e non dove dispersione e abbandoni mordono di più?). Un insegnamento, nella secondaria, caratterizzato da separazione e gerarchizzazione delle discipline, che non valorizza il naturale altalenare dell’apprendimento tra teoria e pratica, tra formale e non formale, e non permette percorsi vocazionali e orientativi. E poi il buco enorme dell’assenza di un sistema per l’apprendimento permanente, pur strategico a fronte della crescente importanza per tutta la popolazione di buoni livelli di conoscenza e di capacità di apprendere lungo tutto il corso della vita, non solo in vista del lavoro che cambia ma della crescente complessità del vivere sociale. Di molto di tutto ciò – e quindi anche di una povertà educativa non solo «minorile» – non c’è traccia nel Recovery Plan, dove manca anche una contestualizzazione rispetto ai processi in corso. Cosa sarà la scuola italiana tra dieci anni, con 1 milione e 300.000 iscritti in meno per calo demografico, l’uscita per pensionamento del 40% del suo personale, un peso specifico crescente degli studenti con back ground migratorio, con problemi di integrazione, ma col vantaggio potenziale di un bilinguismo naturale e di un affaccio culturale su mondi diversi? Qual è il nuovo modello a cui guardiamo? Non sarà, speriamo, solo una scuola tornata «in presenza» il nostro nuovo paradiso.
il paradiso non sarà solo una scuola tornata in presenza
Ma bisognava scegliere. Il «Potenziamento delle competenze e diritto allo studio» si articola in tre aree di intervento. La prima è «Accesso all’istruzione e divari territoriali», con uno stanziamento di 9,45 miliardi. La seconda è «Competenze Stem-Scienza*, Tecnologia, Ingegneria, Matematica e Multilinguismo» (ma comprende anche attrezzature didattiche, laboratori, scuola 4.0), con 5,02 miliardi. La terza è «Istituti Professionali e Istruzione Tecnica Superiore» (ma comprende anche l’orientamento al post diploma) con 2,25 miliardi. A questo si aggiungono 9 riforme, che interessano anche l’Università, solo in parte collegate con le azioni e i progetti, e con contenuti per lo più da definire. Sono l’istituzione della Scuola di Alta formazione per il personale scolastico (Università-Indire) a frequenza obbligatoria; la riforma del reclutamento docenti (coincidenza dell’esame di laurea con l’esame di stato per l’accesso alla professione e tirocinio annuale); l’aggiunta nei curricoli di moduli Stem e per le competenze digitali; la riforma degli Istituti Tecnici Superiori; degli istituti tecnici e professionali; dell’orientamento al livello terziario; l’introduzione delle lauree abilitanti; la riforma delle classi di laurea; la riforma dei dottorati. Qual è, in sintesi, il perimetro degli interventi? Se da un lato si conferma un approccio che, per quanto attiene alla qualità del lavoro nella scuola si limita a mettere a fuoco la formazione iniziale e continua del personale e il reclutamento dei docenti, dall’altro si interviene sul pianeta istruzione circoscrivendo due principali ambiti. Il primo, riguardante soprattutto il primo ciclo e il comparto 0-6, consiste nella prevenzione precoce delle diseguaglianze, nel contrasto della povertà educativa minorile, nel rafforzamento delle competenze di base incluse quelle digitali e multilingue. Il secondo, che guarda al superamento del gap tra preparazione scolastica e competenze richieste dal mondo del lavoro, consiste nel rafforzamento del comparto tecnico professionalizzante di livello secondario e terziario, nella declinazione dei curricoli e della didattica in direzione dell’innovazione tecnologica, nonché nell’orientamento agli studi post-diploma. Non è tutto quel che servirebbe, ma sono comunque criticità vere su cui intervenire.
Ma come lo si fa?
c’è ancora da limare e riequilibrare
Non è un dettaglio, ovviamente, l’articolazione degli investimenti. Balza all’occhio, per esempio, l’incongruenza tra la generosità dei 5,2 mld della seconda linea d’azione («Competenze Stem* e multilingue») che ne stanzia ben 3 in laboratori e attrezzature per la «scuola 4.0», e i risicati 9,45 mld per l’articolatissimo programma della prima («Accesso all’istruzione e divari territoriali»). Tolti infatti i 2,35 mld per borse di studio e alloggi per gli studenti universitari, ne restano solo 7,10 per obiettivi tutti molto importanti e impegnativi. Che infatti, chi più chi meno, vengono dotati di investimenti insufficienti a una realizzazione compiuta. A partire dall’azione più importante per il contrasto precoce delle diseguaglianze educative e per il superamento dei divari territoriali, ovvero lo sviluppo omogeneo dei servizi educativi 0-3 cioè gli asili nido, in tutte le aree del Paese (copertura al 33% della domanda in ogni Regione, media nazionale al 55%). Lo sanno ormai anche le pietre, infatti, che il programma, finalizzato anche al contrasto della denatalità, alla conciliazione tra lavoro e genitorialità, all’occupazione femminile, costa almeno 4,8 mld, mentre nel Piano, dove varie oscillazioni, ci si assesta ora su 3,6. Assai peggio va all’altro ingrediente essenziale per il raggiungimento dell’obiettivo, cioè lo sviluppo del tempo pieno, dove si prevede 1 mld mentre la sua generalizzazione nella primaria costerebbe, solo di spesa per il personale (senza considerare quella degli Enti Locali), 2,8 mld annui. Completano il quadro 1 mld per il potenziamento della scuola per l’infanzia, che potrebbe essere un costo perfino sovrastimato considerato il forte impatto del calo demografico su questo comparto educativo (e l’assenza, viceversa, dell’obiettivo di una sua «generalizzazione»), e 1,5 mld per il contrasto degli abbandoni che potrebbe invece essere sensibilmente sottostimato rispetto alle complessità delle azioni e alla numerosità del target. Quanto alla terza linea d’azione («Istruzione Professionale e Its»), la parte del leone dei 2,25 mld la fa il potenziamento dell’istruzione tecnica superiore (1,50 mld), mentre all’orientamento scuola-università e alla collaborazione Università-Formazione professionale vanno 0,75 mld. C’è dunque ancora da limare, e soprattutto da riequilibrare. Zero assoluto, invece, per l’Istruzione e Formazione professionale per l’obbligo di istruzione e la qualifica professionale, che non compare né qui né dove ci si occupa di politiche formative per il lavoro, pur essendo un’alternativa preziosa, dove c’è, agli abbandoni precoci. E pur intercettando ogni anno migliaia di ragazzi in difficoltà, tra cui molti stranieri di prima e seconda generazione. C’è da chiedersi, con qualche amarezza, se gli estensori del testo sappiano sempre di che cosa stanno scrivendo. E anche questo, ovviamente, non è un problema da poco. Ma ci si dovrà tornare.
Fiorella Farinelli
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Nota
(1) Le altre sono digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura (46,1 mld); rivoluzione verde e transizione ecologica (68,9 mld); infrastrutture per la mobilità sostenibile (31,98 mld); inclusione sociale e coesione (27,62 mld); salute (19,72 mld).
* L’acronimo STEM, dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics è un termine utilizzato per indicare le discipline scientifico-tecnologiche (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) e i relativi corsi di studio.
ROCCA 1 FEBBRAIO 2021
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La prima conferenza annuale del progetto europeo GroWInPro
Creazione e distribuzione del valore nell’era digitale
Sbilanciamoci!
13 Gennaio 2021 | Sezione: Economia e finanza, primo piano
La prima conferenza annuale del progetto europeo GroWInPro – della cui rete di stakeholder della società civile fa parte Sbilanciamoci! – si terrà online il prossimo 27-28 gennaio, organizzata congiuntamente con l’Ocse. Tra i relatori, il premio Nobel Joseph Stiglitz. Il programma e le info per iscriversi.
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