Monthly Archives: luglio 2021

Parliamo di Sinodo e cammino sinodale. Disponibilità al dibattito: una proposta.

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di Franco Meloni.
Con Mario Girau, cattolico, giornalista de La Nuova Sardegna, addetto stampa della CISL-Sardegna e collaboratore di numerose testate editoriali di ambito nazionale e delle Diocesi sarde, soprattutto amico di lunga data e di comune impegno sociale ed ecclesiale, abbiamo pensato la proposta che qui vi disvelo.
Sviluppare un’attività di informazione e approfondimento, il più possibile aperta e coinvolgente, sulle tematiche del “Sinodo” che nei prossimi tre anni (ottobre 2021 – ottobre 2023 e oltre*) interesseranno (e forse sconvolgeranno) la Chiesa universale e, tenendo conto della nostra collocazione, la Chiesa italiana e quella sarda. Riteniamo che le tematiche che svilupperanno i “percorsi sinodali” siano di interesse generale, che non riguardino solo i cattolici e neppure solo i credenti. Riguardano tutte le persone pensanti, quelle che ormai diffusamente vengono elencate come “credenti, non credenti, diversamente credenti”. Nel comune sentire di un credente, il grande card. Carlo Maria Martini e di un non credente (o altrimenti credente), il grande filosofo Norberto Bobbio, tali soggetti, singoli o partecipi di comunità, richiamano un pensiero: «La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza».
Sicuramente ci sono diversi aspetti che interesseranno soprattutto i praticanti, o comunque quanti sono inseriti nelle organizzazioni della Chiesa, che oggi, a guardare le statistiche, sono una minoranza rispetto alla popolazione complessiva. Altri aspetti interessano una maggiore numerosità di persone, non sappiamo di preciso, sicuramente di tutte le fasce d’età e ceti sociali, probabilmente comunque di istruzione medio-alta. Tra queste persone quelle che appartengono a gruppi informali, si dichiarino o meno cattolici, più o meno vicini alle strutture istituzionali. Bisognerebbe farsi un’idea di queste realtà associative. Anche di questo potremo occuparci. Evitando ogni ipotesi di incasellamento, e solo per fare due esempi: siamo convinti che la nostra proposta interessi il Patto per la Sardegna e l’associazione Amici sardi della Cittadella di Assisi. E sicuramente altre realtà sparse in tutta la Sardegna. Proponiamo di fare tutto in modo aperto e, come si diceva in tempo, in spirito di servizio. Come ci muoveremo? Lo decideremo strada facendo, in compagnia di altri compagni di strada, che contiamo saranno numerosi. Intanto anticipiamo che l’attività sarà svolta per ora esclusivamente in via digitale, attraverso i social, telematica (webinar) e quanto prima anche in presenza, speriamo presto. Da subito diamo conto della disponibilità della nostra News, della pagina fb dedicata “Un sinodo per camminare insieme” (amministrata da Mario Girau) della pagina fb del Patto per la Sardegna (amministrata da Gigi Pittau), della pagina fb degli Amici sardi della Cittadella di Assisi. E di altri blog e siti fb che segnaleremo. Per rafforzare il senso della nostra proposta ripubblichiamo di seguito un pertinente intervento del teologo Brunetto Salvarani, che condividiamo totalmente e al quale facciamo riferimento anche per i percorsi che ci impegnamo a fare insieme.
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Sinodo in Italia: Se non ora quando?
«Non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,26-29).

C’è un tempo per ogni cosa, come sostiene il sapiente della Bibbia (Qo 3). E questo, certo, è il tempo per interrogarsi a fondo sul significato di una pandemia che sta mettendo in ginocchio il pianeta, a oggi tutt’altro che conclusa.

Ma per la Chiesa che vive in Italia – al pari delle altre Chiese della cattolicità sparse nel mondo intero – è altresì il tempo di mettersi in cammino, anzi: di avviarsi con una certa speditezza per un cammino sinodale, come l’hanno definito i vescovi nella loro 74ª Assemblea generale, svoltasi a Roma dal 24 al 27 maggio scorsi (si badi: una scelta che non è una diminutio rispetto a sinodo, rimandando tale locuzione a uno stile, una metodologia, un atteggiamento ecclesiale, ben più di quello che, nel caso peggiore, potrebbe risultare anche solo un mero adempimento burocratico).

Il titolo programmatico, “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita”, è destinato a diventare verosimilmente anche lo slogan del prossimo evento.

L’intera operazione dovrebbe articolarsi in tre fasi nell’arco di un biennio, cominciando a livello diocesano locale nell’ottobre 2021, passando poi al livello nazionale e, di seguito, a quello europeo, previsto per l’ottobre 2023.

Un impegno, va detto da subito, da far tremare i polsi, solo limitandosi a scrutare il piano organizzativo: ma anche, e vorrei dire soprattutto, un’occasione preziosa, da cogliere al volo e da sfruttare appieno, che avrà bisogno da parte di tutti noi di grande pazienza, grande capacità di ascolto e grande umiltà. Imparare ad agire sinodalmente, da parte dei laici, dei presbiteri, dei vescovi, non sarà per nulla facile. Soprattutto per la disabitudine di tutte le componenti, al riguardo.

La posta in gioco

La posta in gioco, in effetti, è davvero alta. Anche perché, almeno per ragioni anagrafiche, del prossimo cammino sinodale potrà sentirsi partecipe per l’ultima volta in un’esperienza ecclesiale importante una generazione ancora in grado di fare riferimento al concilio Vaticano II con qualche cognizione di causa, avendone udito i racconti dai diretti protagonisti e respirato un po’ dell’atmosfera unica di quell’assise iniziata ormai quasi sei decenni fa.

Una generazione che – forse – può ancora scaldarsi il cuore su temi (come le riforme ecclesiali) che alla stragrande maggioranza dei giovani connazionali probabilmente appaiono sospesi fra l’astruso e l’insensato: eppure, ovvio, il coinvolgimento di questi ultimi in qualche modo nel processo sinodale resta vitale.

Credo che la domanda sottesa a tale processo, sull’identità della Chiesa e su che cosa significhi essere Chiesa oggi, vada declinata nell’unica modalità possibile e sensata: non rassegnandosi a contemplare il proprio ombelico né cimentandosi in analisi autoconsolatorie, com’è capitato in un recente passato (penso a Verona 2006), bensì misurandola sui suoi modi di relazionarsi con il mondo esterno, con quell’alterità che ormai ci abita e ci mette in crisi e non di rado ci inquieta, con la vasta porzione di Paese che non solo ha smarrito il senso di Dio, ma non sente per nulla il bisogno di un’appartenenza ecclesiale e neppure ha la percezione di cosa voglia dire un’appartenenza simile (inevitabile richiamare l’analisi di un teologo di vaglia come il gesuita Christoph Theobald che, sulla scorta dei lavori di Danièle Hervieu-Léger, parla dichiaratamente di esculturazione del cristianesimo dalla cultura occidentale).

Per orientarci e non smarrirci troppo, tra le mani abbiamo, dal 2013, una bussola credibile e non ancora sperimentata a fondo, il testo di Evangelii gaudium, che papa Francesco ha scritto non solo come programma del suo pontificato, ma come mappa di una Chiesa capace di uscita. E alcune parole-chiave: vangelo, fraternità, mondo.

Tutte da riempire, perché ha ragione il vescovo Erio Castellucci, eletto nell’occasione alla vicepresidenza dei vescovi italiani, che ne ha parlato lo scorso 31 maggio in un’intervista a Settimananews: «Non sono concetti: sono volti, esperienze, urgenze che riguardano tutte la necessità di ripensare l’annuncio di Cristo, in un contesto nel quale si sono riscoperte alcune grandi domande esistenziali». Volti oggi ammaccati, confusi, oltre che mascherati.

Fedeli allo stile di Gesù
Nei limiti di un intervento che ha l’obiettivo di gettare appena qualche sassolino per agitare acque che ci si augura possano divenire lustrali, vorrei evidenziare tre punti che in questo momento percepisco – da un’angolatura del tutto limitata e periferica – come cruciali per la felice riuscita dell’impresa.

Tre passaggi che contribuirebbero a misurare, fra l’altro, quanto la scelta episcopale sia stata dettata da una convinzione profonda, oppure da una rassegnazione ormai obbligata di fronte all’insistenza del papa: il primo richiamo del quale alla necessità di un sinodo nazionale è ormai di sei anni fa, novembre 2015, a Firenze al quinto convegno della Chiesa italiana…

Per prima cosa, a dispetto della pubblicistica che si pasce di argomenti divisivi e caldi più o meno sentiti, bisognerà avere consapevolezza che il cammino sinodale, se vorrà riuscire, dovrà concentrarsi su questioni di metodo, più che di contenuti (i quali, naturalmente, non mancheranno, come non dovranno mancare le decisioni e gli sguardi di prospettiva, pena ulteriori frustrazioni per ciò che resta del mondo cattolico).

Perché? Perché sinora, come si accennava, salvo benemerite eccezioni, nei sinodi precedenti, la parola d’ordine della sinodalità, del camminare insieme, sia pur proclamata, è rimasta spesso sulla carta; ed è necessario che si passi finalmente dalla carta alla vita.

E che lo si faccia sulla scia dell’unico Maestro possibile e veritiero, Gesù di Nazaret. Ciò che Gesù fa e dice nei suoi incontri, nei vangeli, costituisce un tutt’uno con il suo essere: in lui ci sono un’assoluta unità e trasparenza di pensiero, parola e azione che sono manifestazione del Padre. Una bellezza che, a saperla guardare, affascina e può ancora affascinare il mondo.

Dallo stile di Gesù emerge la provocazione di un messaggio che apprende, mentre le patologie e le infedeltà al vangelo che pervadono ogni epoca della storia ecclesiale – compresa la nostra, posta alla fine del regime di cristianità – sono leggibili come rottura della corrispondenza tra forma e contenuto.

Quando prevale la forma, si produce un cristianesimo ridotto a estetismo liturgico, istituzione gerarchica, struttura, dove, però, è assente la sostanza di quell’amore che porta Gesù fino alla croce. Se invece prevale il contenuto, si ha un cristianesimo ridotto a impianto dottrinale e dogmatico, verità fatta di formule alle quali credere, ma priva di un legame vitale con l’esistenza delle persone.

Gesù, dal canto suo, ha indicato piuttosto un metodo da adottare, la strada di un vangelo capace di apprendimento, e creato uno spazio di libertà attorno a sé comunicando, con la sua sola presenza, una prossimità benefica a tutti quelli che incontrava.

Una Chiesa fedele allo stile di Gesù, perciò, non si presenta come istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo, né ovviamente come societas perfecta, bensì quale spazio in cui le persone possono trovare la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la loro esistenza.

Ogni persona, infatti – quali che siano la sua appartenenza religiosa, il suo pensiero e la sua cultura – è portatrice di un’immagine di Dio che aspetta di schiudersi, cioè di fare proprio lo stile di Gesù: quindi i cristiani dovrebbero essere in ricerca della manifestazione divina propria di ogni religione e di ogni pensiero, invece di assumere atteggiamenti di svalutazione e condanna.

In ascolto del popolo di Dio

In seconda battuta, affinché il processo sinodale non si ponga su un binario morto, sarà necessario che esso dia fiducia e prenda sul serio il popolo santo di Dio (con tutte le sue manchevolezze, le nostre manchevolezze, i suoi limiti, le sue fragilità).

Ascoltandolo attentamente in tutte le modalità possibili, ma soprattutto affidandogli, per quanto possibile, la scelta del menu di argomenti da trattare. Cosa che potrà causare delusioni e inciampi, ma che potrebbe anche invece produrre esiti sorprendenti.

Parafrasando papa Francesco nella Gaudete et exsultate, mi verrebbe da dire: prendiamo sul serio i cristiani della porta accanto, quelli semmai affaticati da una quotidianità che costantemente ci rincorre, forse con pochi titoli ma tanta vita da raccontare e da condividere.

Mi torna in mente la considerazione di un vescovo francese di vent’anni fa, Albert Rouet, autore del bestseller La chance di un cristianesimo fragile, fatta a un giornalista che chiedeva cosa la Chiesa dovrebbe fare per poter essere meglio accolta nell’attuale congiuntura culturale, con cui indicava con franchezza evangelica il suo sogno: «Rispondo alla domanda con un’utopia. Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi».

Insomma, come avrebbe risposto don Tonino Bello: una Chiesa del grembiule. Del resto, i modelli e i codici comportamentali ai quali ci si poteva conformare con tranquillità e che potevano essere scelti come punti di riferimento fino a pochi anni fa per la costruzione di un’identità ecclesiale da conseguirsi una volta per tutte, non esistono più.

Caducità, friabilità, provvisorietà sono i nomi della fragilità anche dei soggetti collettivi (la coppia, la famiglia, le organizzazioni, i partiti politici, le istituzioni in genere, comprese le Chiese e le comunità religiose).

Interruzione, incoerenza, sorpresa sono le normali condizioni della nostra vita. Con cui l’imminente processo sinodale sarà chiamato a scontrarsi, bagnandosi di realtà.

Abitare la fragilità, come ci siamo abituati a ripetere durante la pandemia, significa soprattutto accettare la sfida insita in questo tempo di permanente transizione eletta a orizzonte vitale; capire e amare questa condizione con le potenzialità e le risorse nuove che porta con sé, accettando che sia finita un’epoca e che la nostra condizione sia pressoché irriconoscibile rispetto alle forme ereditate dal passato, persino recente. Senza alcuna certezza da vantare.

La crisi pandemica, del resto, non ha fatto altro che accelerare dinamiche già evidenti (dalla penuria di presbiteri alla crisi degli istituti religiosi, dalla situazione mortificante di tante parrocchie alla frustrazione di chi si occupa della trasmissione generazionale della fede), che vanno ben al di là di una pura e impietosa lettura di cifre su quanto pochi siano i seminaristi oggi in Italia o su quanti fedeli non siano più tornati all’eucaristia domenicale dopo il lockdown del 2020.

Potrebbe peraltro rivelarsi un kairòs, un tempo di straordinarie e sorprendenti opportunità, se ci crederemo e ci investiremo energia e passione. Se prevarrà la realtà.

«La realtà è superiore all’idea» è uno dei principi che – com’è noto – guidano il pensiero di papa Francesco. Il quale ne parla, per la prima volta, nell’esortazione Evangelii gaudium, al numero 231, mentre affronta gli obiettivi, a lui particolarmente cari, del bene comune e della pace sociale, inserendolo fra i criteri per un discernimento di scelte capaci di favorire un’ordinata vita sociale ed ecclesiale: «La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà».

L’invito, dunque, è a vigilare attentamente su quelle forme di idealismo che – pur talvolta generose e mosse da buone intenzioni, ma non per questo innocue – rischiano di mortificare il reale. Che deve penetrare nel tessuto del processo sinodale!

Osare il dialogo

In terzo luogo, coerentemente con quanto detto sinora, c’è da augurarsi che esso scelga di aprirsi, il più possibile. Solo rapportandomi all’altro, posso capire qualcosa di ciò che sono. Coinvolgiamo perciò donne e uomini dotati di professionalità di alto livello, interni ma anche esterni a percorsi ecclesiali, interrogandoli a fondo, e non pro forma, sulla loro percezione della Chiesa, sui problemi e sui futuri immaginabili.

Certo, le istanze delle fedi sono oggi sempre più provocate da un mondo regolato su stili civili, sociali e culturali in cui tanto il bricolage di codici religiosi quanto l’indifferenza verso il divino e una certa banalizzazione del sacro si stanno via via accentuando.

Eppure siamo chiamati, e saremo chiamati ancor più domani, a osare il dialogo, sforzandoci di edificare ponti (e non muri) nella Babele che abitiamo. Tornando alla citata esortazione Evangelii gaudium e ai quattro princìpi che dovrebbero orientare specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune, il primo di essi è: il tempo è superiore allo spazio. Ecco come viene descritto dal papa (citazione lunga, ma vitale):

«Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione.
Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (n. 223).

C’è di che meditare, in vista dell’ormai imminente cammino sinodale. Anche perché, come si legge nella Mishnà, trattato Pirkè Avot in un detto attribuito a rabbi Tarfòn: «La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene» (Pirkè Avot 2,18-19).

Se c’è un tempo per ogni cosa, questo è il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi. Se non ora, quando?
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* Quali tappe avrà il “cammino sinodale”?
Inizierà in sintonia con il Sinodo universale (2021), si svilupperà con l’ascolto di tutto il popolo di Dio (2022), vivrà un momento unitario di dialogo e confronto con tutte le anime del cattolicesimo italiano (2023) che condurrà a una sintesi da offrire alle Diocesi (2024) e a una verifica a livello nazionale del cammino fatto (Giubileo del 2025). La Presidenza della Cei darà presto indicazioni più precise.
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Energia

566a9b21-6075-4d91-9d72-17c60a90a48b Il brusco cambio del clima inibisce il gas di ENI e il CCS di Cingolani
By redazione3|Luglio 30th, 2021

Care/i sorelle e fratelli, compagne e compagni, amiche e amici, tutti quelli che, come noi, stanno conducendo la battaglia affinché venga vissuta con la dovuta consapevolezza la gravità della malattia della Terra.
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America, America

biden-marinoIL 6 GENNAIO, UNA MACCHIA INDELEBILE
di Marino de Medici
Lo spettacolo infame offerto dal partito repubblicano a
proposito dell’inchiesta congressuale sull’invasione del
Campidoglio in un giorno che è già passato alla storia – il 6
gennaio 2021 – torna agli occhi degli americani che avevano assistito al drammatico evento trasmesso dai canali televisivi. Ma quello che gli americani credenti nella democrazia sicuramente ricorderanno è lo spettacolo inverecondo dei capi repubblicani, plagiati in misura irreversibile dalla “Big lie” – la “grande menzogna” – di Donald Trump. Un Congressman della Georgia, Andrew Clyde, ha infatti dichiarato che l’assalto ai palazzi del Campidoglio era una “normale visita turistica”.
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Che succede?

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IL VACCINO COME DOVERE MORALE. POLITICA, IDEOLOGIA E GREEN PASS. L’ACCORDO SULLA GIUSTIZIA
30 Luglio 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
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Oggi sabato 31 luglio 2021

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Riflettendo sugli incendi e dintorni con Tonino Dessì
31 Luglio 2021 su Democraziaoggi.
Tonino Dessì a domanda del direttore risponde

D. La situazione della Sardegna induce al pessimismo dopo la devastazione del fuoco, quasi tutti di matrice dolosa. Solinas per di più si trastulla con riti e feste nuziali, dove può trarre occasione per incrementare il suo già notevole panzone. Però, Tonino, qualcosa di positivo c’è. Tu, anche per […]
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Oggi venerdì 30 luglio 2021

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——————-Opinioni, Commenti e Riflessioni————————
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Nel Montiferru fiamme alte 30 metri. “Così l’acqua dei Canadair evapora”
“Ci sono studi che hanno esaminato la soglia energetica oltre il quale l’effetto dei mezzi aerei non è più efficace. Accade quando si superano i 10mila kilowatt per metro lineare di fiamme, che corrispondono a un’altezza tra i dodici e i quindici metri. Nel Montiferru, nei giorni scorsi, il fuoco ha raggiunto anche i trenta metri”. Giuseppe Mariano Delogu, capo del Corpo forestale sardo dal 2007 al 2009, lo spiega a Sardinia Post come fosse in una delle sue lezioni universitarie. Dettagli, numeri, esempi, ricostruzioni. Tasselli di un mosaico che il professore compone per spiegare come abbiano cambiato pelle i roghi nella Sardegna del Ventunesimo secolo. Delogu insegna Tecniche di protezione civile nella facoltà di Scienze forestali all’Università di Nuoro.
https://www.sardiniapost.it/cronaca/nel-montiferru-fiamme-alte-30-metri-cosi-lacqua-dei-canadair-evapora/
- Intervista a cura di Alessandra Carta su SardiniaPost.
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A 20 anni da Genova. «I no-global avevano ragione. Oggi il liberismo è come uno zombie»
30 Luglio 2021 su Democraziaoggi.
Andrea Barolini
da Sbilanciamoci 23 Luglio 2021 | Sezione: Nella rete, Politica.
Da Genova ai giorni nostri: genesi, contesto, repressione e eredità del movimento dei movimenti. Una riflessione a vent’anni di distanza tramite l’intervista all’economista Mario Pianta. Da Valori.it
Due decenni fa il “movimento dei movimenti” espresse critiche radicali […]
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Mobilità sostenibile e lavoro: rilanciare l’iniziativa
Giulio Marcon su Sbilanciamoci!

28 Luglio 2021 | Sezione: Ambiente, Editoriale
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L’innovazione nella politica ritrovata nel passato.

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Il partito sociale. Un’idea sempre attuale
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23 Luglio 2021 by c3dem_admin | Su C3dem.
di Sandro Antoniazzi.
E’ un vero peccato e una grande perdita per la coscienza collettiva del paese che la rigida separazione tra ideologie contrapposte abbia a lungo impedito di apprezzare adeguatamente l’apporto culturale di persone appartenenti a file avverse.
Molte prevenzioni sembrano oggi cadute congiuntamente al parallelo venir meno delle ideologie.
In questo spirito vorrei richiamare l’attenzione sull’esperienza di Osvaldo Gnocchi Viani, socialista umanitario vissuto a Milano nella seconda metà dell’ottocento e nei primi anni del novecento, il cui rilevante contributo di pensiero merita di essere conosciuto e valorizzato ancora oggi.
Gnocchi Viani (Viani è il cognome della madre che Gnocchi, femminista ante-litteram, aveva aggiunto a quello del padre) non è certo una figura di secondo piano: è stato il fondatore della Camera del Lavoro di Milano, della Società Umanitaria, delle Università Popolari e del Partito Operaio Italiano (predecessore del Partito Socialista).
Aveva una visione molto ampia del socialismo, che considerava rivolto all’intera umanità; era in questo un socialista integrale (integralista, nel linguaggio del tempo): lo era innanzitutto sul piano delle diverse correnti, che lui chiamava scuole, e che, a suo parere, potevano tutte concorrere democraticamente alla comune battaglia (era però critico della corrente “autoritaria” – quella marxista – perché temeva la centralizzazione e analogamente, dopo aver visitato la Germania, diffidava del socialismo tedesco, rigido e gerarchico, mentre le sue preferenze andavano a un socialismo articolato e decentrato).
Era poi socialista integrale perché pensava che il socialismo riguardasse ogni aspetto della vita umana (filosofia, religione, diritto, economia, arte, politica) e per realizzare tale progetto riteneva che non fosse sufficiente la classe lavoratrice; un obiettivo così grande richiedeva il concorso di una pluralità di forze.
Comprendeva l’importanza del fattore economico, ma era reticente ad attribuirgli un ruolo preminente e considerava un pericoloso errore motivare l’iniziativa delle masse con la leva degli interessi materiali.
Per lui la questione operaia era solo una parte della più ampia questione sociale: le classi lavoratici non sono tutto il consorzio umano e non solo i lavoratori sono “irredenti”.
Il fine ultimo era quello, enunciato dall’Internazionale, della realizzazione di un’unica Grande Famiglia Umana, una visione ottimistica di affratellamento e di cooperazione, che confliggeva con la tesi darwiniana della lotta permanente fra gli uomini per la loro sopravvivenza.
Per perseguire questo scopo era importante partire dal basso, trasformando la coscienza dei lavoratori e dei cittadini.
Non si trattava solo di elevare il livello di istruzione, ma di dotare i lavoratori di una capacità critica, per essere in grado di comprendere il funzionamento della società, resistere all’ambiente intellettuale dominante e non essere subalterni ai capi politici, compresi quelli socialisti.
Occorreva contrastare un ambiente sociale che condiziona le persone e che forma la “sedicente opinione pubblica”, vero ostacolo al rinnovamento sociale.
Per essere un soggetto attivo la classe lavoratrice aveva bisogno di una cultura alternativa e anche di una morale che non fosse quella individualistica imperante.
La borghesia si era affermata perché era riuscita a imporre la propria cultura; per cambiare la società era necessario affermare una moralità diversa, perché solo un’umanità migliore avrebbe potuto realizzare una società migliore.
Così Gnocchi Viani non teme di sostenere che è necessario un rinnovamento interiore (pensiero tanto caro ai cattolici) e dimostrare una coerenza di vita: gratuità, disinteresse, sobrietà, sacrificio.
E’ decisamente contrario alla scuola autoritaria perché, con una visione lungimirante del futuro, riteneva che la dittatura di una classe tendeva sempre a risolversi nella dittatura di pochi, se non di uno solo.
Ma era anche critico della visione, propria dei parlamentari socialisti, della conquista del potere, perché essa limita l’orizzonte ideale e politico a ciò che si riesce a ottenere in sede parlamentare, facendo venir meno la forza insostituibile del movimento, cioè l’iniziativa e la volontà di riscatto dei lavoratori.
La sua concezione dei partiti politici (partito socialista compreso) è del tutto concorde con le critiche odierne: formano una casta (usa proprio questo termine), sono separati dalla base, limitano l’intera azione politica alle sole manovre parlamentari.
I partiti hanno una logica gerarchica, perché il governo è sempre governo di pochi.
Il partito politico soprattutto è lontano dalla questione sociale, non è in grado di gestirla, mentre la questione sociale è il fondamento della politica della classe lavoratrice.
Per questo Gnocchi Viani oppone al partito politico, il partito sociale, che ha alla sua base il principio associativo, il quale è orizzontale, solidaristico, cooperativo, federativo.
Il partito sociale è quello che ha il popolo come fine e dunque è per il potere diffuso e opera nella vita “pubblica”, non in quella “politica”, che è propria dei partiti politici e del loro modo di agire verticistico.
E ancora: i partiti politici pensano alla demolizione della vecchia società, sostenendo i principi liberali e individualisti propri dell’illuminismo, mentre i partiti sociali si dedicano a un’opera innovativa, la costruzione della società di domani.
E poiché l’alienazione economica e quella politica e culturale dei lavoratori vanno tutte assieme, altrettanto devono andare assieme la liberazione economica, l’autogoverno e l’arricchimento delle idee proprie.
La sua visione ideale rifuggiva pertanto dalle visioni governative e stataliste (considerava lo Stato “una bottiglia di vino cattivo”) per preferire, in alternativa, un sistema federativo di Amministrazioni comunali, nelle quali sarebbe stata possibile una partecipazione attiva dei cittadini.
Sarebbero molte le considerazioni che si potrebbero fare sulla nostra realtà attuale, stimolati dalle idee di Gnocchi Viani. In questa sede mi limito a due.
Innanzitutto, mi sembra che siamo troppo succubi di come funziona il sistema attuale: globalizzazione, comunicazioni di massa, multinazionali, Google, Amazon, ecc…; diamo tutto per scontato e rischiamo così di perdere la grande tradizione delle nostre municipalità.
Se è giusto accogliere e affrontare la dimensione mondiale come componente ormai normale della nostra vita, questo non deve avvenire negando e distruggendo la realtà umana, civile e culturale delle nostre città e dei nostri territori.
In secondo luogo, mi sembra che ci sia troppa arrendevolezza sul piano culturale e dei valori, quasi ormai rassegnati, per la sproporzione di forze, ad accettare di tutto.
Forse Gnocchi Viani era troppo idealista e viveva in una società più semplice.
Ma non è ora di riprendere una battaglia culturale più critica rispetto a tante tendenze che si diffondono?
Quando in Francia, all’inizio dell’ottocento, Pierre Leroux coniava la parola “socialista” non aveva in mente un partito, ma semplicemente un termine che era il contrario di “individualista”.
Si trattava di due parole equivalenti: l’individualista è colui che guarda all’interesse proprio, il socialista colui che guarda all’interesse comune, collettivo.
Non si potrebbe ritornare oggi all’uso originale e vedere di formare più “socialisti” e meno “individualisti”?

Sandro Antoniazzi
luglio 2021
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Sulla figura di Osvaldo Gnocchi Viani ha molto indagato Pino Ferraris. Di queste ricerche diamo conto in diversi articoli del nostro periodico: https://www.aladinpensiero.it/?s=Pino+Ferraris
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Contributi al dibattito su “Crisi del Welfare ed economia civile”. Il pensiero di Pino Ferraris
ferraris pino LIBROape-innovativa Proseguiamo nel riproporre le riflessioni di Pino Ferraris (anche con la mediazione di altri che ne hanno studiato il pensiero), utilizzando la documentazione pubblicata dalla news online “Controlacrisi” per ricordarne la figura all’indomani della sua morte avvenuta il 2 febbraio 2012. I contributi teorici di Pino Ferraris mantengono una straordinaria validità per affrontare oggi la crisi che attraversiamo drammaticamente e che è crisi insanabile del capitalismo, indirizzandoci nella ricerca di soluzioni diverse anche da quelle in buona parte fallimentari dei modelli storicamente attuati del socialismo reale. Pino Ferraris negli anni 70 frequentava spesso la Sardegna, spendendosi generosamente nei movimenti della sinistra alternativa, apportando la sua capacità di teorico e ricercatore appassionato e rigoroso, maestro per molti di noi giovani (allora) militanti della nuova sinistra sarda.
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PINO FERRARIS SULLE PRATICHE DI NEO MUTUALISMO E AUTORGANIZZAZIONE

Pino Ferraris fto microConclusione di Pino Ferraris al Convegno sulla Mutualità promosso dalla Società di Mutuo Soccorso d’Ambo i Sessi “Edmondo De Amicis” di Torino –

L’ultimo intervento del rappresentante della Società Operaia di Orbassano ha portato un importante contributo di chiarezza nel dibattito in corso. Evitiamo – egli ha affermato – di identificare le Società di Mutuo Soccorso con le “mutue”.
In questo caso, di fronte alla realizzazione della riforma sanitaria come diritto dei cittadini alla salute, il loro compito sarebbe residuale, modestamente integrativo o pericolosamente sostitutivo di diritti fondamentali.
Nel corso della prima sessione del convegno intitolata “Che cosa ci insegna la storia della mutualità”, Marco Revelli ha parlato di questa esperienza come di una grande scuola di auto-organizzazione e come anello di congiunzione tra la cultura dei mestieri e i problemi degli ambiti di vita e infine come uno storico movimento di costruzione di nuove relazioni sociali basate sul principio di solidarietà. Occorre non perdere mai il senso di questa profonda ed ampia ispirazione delle società di mutuo soccorso.
Nella seconda sessione del convegno dedicata a “Crisi del Welfare ed economia civile” è stata sollevata una domanda molto pertinente: perché oggi c’è una ripresa del mutualismo? Quarant’anni fa si parlava di altre cose. Questo ritorno rappresenta soltanto un tentativo di risposta alla crisi del welfare oppure ha una valenza politica?
Revelli ha affermato che il movimento operaio del 900 ha vissuto di rendita sulla grande ondata istituente di nuove forme associative suscitate nella seconda metà dell’800: il mutuo soccorso, le leghe di resistenza, la cooperazione, le case del popolo, il partito di massa.
Il 900 non ha solo ereditato la rendita di queste risorse associative, ma a partire dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale esso ha anche operato una torsione burocratica, politicista e statalista del patrimonio del movimento operaio ottocentesco.
Qui sta la ragione principale del mancato riconoscimento storiografico del mutualismo: con esso si è rimossa la sua ispirazione autogestionaria, il suo radicalismo democratico, la sua affermazione delle autonomie del sociale.
Il ritorno del mutualismo significa anche e soprattutto ricerca di nuove vie della politica dopo la crisi di socialismi autoritari, di sistemi politici oligarchici e autoreferenziali, dopo le deviazioni del welfare verso forme di paternalismo statale selettivo e clientelare.
Dentro lo sviluppo del volontariato, di movimenti di cittadinanza attiva, di buone pratiche di cittadinanza negli anni 80 e nei primi anni 90, si aprivano possibilità di sussidiarietà circolare (Cotturri) tra istituzioni e associazioni in grado di far emergere una sfera pubblica sociale (che non è il cosiddetto privato-sociale). La stagione dei “nuovi sindaci” prometteva l’articolazione di un welfare locale. Tutto ciò sembrava rompere la rigidità, la selettività, la freddezza burocratica dell’offerta di welfare e aprire varchi all’intervento attivo, competente e propositivo della domanda sociale, rendendo visibili ed esigibili diritti negati o elusi dei cittadini.
E’ possibile rompere il nesso assistenza-dipendenza? E’ possibile che i “destinatari” dell’offerta di welfare diventino anche attori proponenti di una domanda sociale nuova e appropriata? E’ possibile che l’”oggetto” delle pratiche di tutela politica e amministrativa possa entrare sulla scena pubblica come “soggetto”?
E’ in questa ottica che per anni con altri amici e compagni abbiamo lavorato non per tamponare una “crisi” del welfare ma per realizzare un nesso tra “riforma” ed “estensione” del welfare e i valori di autonomia sociale, le pratiche di partecipazione e di solidarietà di un neo-mutualismo.
Oggi sono più prudente nel privilegiare questo rapporto neo-mutualismo e welfare. Non solo perché questo riferimento al welfare mi pare riduttivo, ma anche perché su questo terreno le strade si sono fatte oggi più strette e i percorsi quasi impraticabili.
Come si colloca il neo-mutualismo dentro quell’insieme di pratiche sociali che vengono sommariamente riassunte nella definizione del “terzo settore”?

Recentemente a Roma si è tenuto un convegno dal titolo significativo: Terzo settore, fine di un ciclo. La relazione era di don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capo d’Arco, altre relazioni erano di Giovanni Nervo, di Giuseppe De Rita, di Carniti. Concludeva Giulio Marcon.
De Rita in poche parole ha fissato la situazione: “Oggi il volontariato è in qualche modo uno spazio per anziani generosi, mentre la dimensione più giovanile e anche quella più settorializzata va verso un’altra direzione che approda alla cooperazione di servizi, alle imprese sociali, che sono una cosa molto diversa dal volontariato.”
Una riforma del Welfare richiede non solo la capacità di dare rilevanza sociale e politica al lato attivo, competente e propositivo della domanda sociale, come avvenne con il volontariato degli anni 80 e primi anni 90, ma esige in primo luogo un forte impegno politico generale nel rendere giusta la solidarietà fiscale, nel rendere equa la solidarietà assicurativa. Solo così la solidarietà quotidiana può evitare il pericolo di decadere in una supplenza di diritti negati.
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Che succede?

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PROTEGGERE I RIFUGIATI E’ UN OBBLIGO. AIUTARE TUNISI. IL GOVERNO E LA SCUOLA
28 Luglio 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
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L’ACUTO DI RATZINGER. LA SELEZIONE DEI PRETI. PROCESSO IN VATICANO. LA FAME
27 Luglio 2021 by Giampiero Forcesi | su C34dem.
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Che succede in Tunisia e nel Mediterraneo?

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America, America

trump-di-marino Donald Trump: Quattro Anni Di Democrazia a Rischio.
di Marino de Medici
Il mio libro Donald Trump: Quattro Anni di Democrazia a Rischio, pubblicato da ArtemiaNovaEditrice, sarà
disponibile presso librerie ed altri centri culturali in Italia a partire dal 2 agosto. E’ disponibile sin da adesso
mediante ordinativi alla casa editrice, anche dall’estero:
info@artemianovaeditrice.it. (tel: 39 347/5364795)
Il costo è di euro 25.
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Oggi giovedì 29 luglio 2021

GLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2aladin-logonge-cover-1lampadadialadmicromicro13democraziaoggi-loghettogf-02
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——————-Opinioni, Commenti e Riflessioni————————
Tra incendi e apparati dove va la Sardegna?
29 Luglio 2021
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Scorrendo i titoli dei giornali sardi, leggere il testo è troppo doloroso, ti colpiscono alcune notizie. Questi giorni certamente la distruzione dei boschi è il fatto che colpisce. Altri, per esempio Tonino Dessì su questo blog, hanno fatto le loro analisi e hanno proposto i loro rimedi. Tonino con la speciale competenza che gli […]
———————————–Anticipazioni——————-
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- Per ordinarlo.
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Newsletter Costituente Terra del 28 luglio 2021

costituente-terra-logouna Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola

Newsletter n.42 del 28 luglio 2021

ABOLIRE IL NEMICO

Carissimi,
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Notizie da Chiesa di tutti Chiesa dei poveri. UN COMPITO PER IL SINODO

logo76Newsletter n. 228 del 28 luglio 2020

ABOLIRE IL NEMICO

Carissimi,
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Omaggio a Grazia Deledda

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A 150 anni dalla sua nascita “celebriamo”
GRAZIA DELEDDA: Sarda (e universale)

di Francesco Casula

Scrive Eric Hobsbawm (lo storico britannico, autore del celebre “Age of the Estremes” tradotto in Italia e pubblicato dalla Rizzoli con il titolo di “Secolo breve”) a proposito di Gramsci: “tu Nino sei stato molto più che un sardo, ma senza la Sardegna è impossibile capirti”.
Mutatis mutandis, la valutazione di Hobsbawm, a mio parere, si attaglia perfettamente anche a un altro gigante sardo: Grazia Deledda, scrittrice certamente “universale” ma ben ancorata alla Sardegna, di cui racconta l’humus più profondo e la sua identità, ad iniziare da quella linguistica.
Tanto che per comprendere bene la lingua che utilizza la Deledda nei suoi scritti occorre partire da questa premessa: la lingua sarda non è un dialetto italiano – come purtroppo ancora molti affermano e pensano, in genere per ignoranza – ma una vera e propria lingua. Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue. Era una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale meno, le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati esistenziali, nelle strutture di senso magari inespresse ma presenti nel corso della narrazione.
Voglio sostenere che la Deledda struttura il suo vissuto personale, la fenomenologia delle sue sensazioni e del profondo in lingua sarda ma lo riversa nella lingua italiana che risulta così semplice lingua strumentale. In tal modo opera un transfert del suo universo interiore nuorese, dell’inconscio, della fantasmatica.
Poteva non operare tale transfert e scrivere in Sardo? Certamente. Se non lo ha fatto è stato perché non vi era in quel momento storico (siamo a fine Ottocento-inizio Novecento) la cultura, la sensibilità, l’abitudine da parte degli scrittori, specie di romanzi, di utilizzare il sardo. Prima con i Savoia e poi con lo Stato unitario e ancor più con il fascismo, la lingua sarda viene infatti proibita, negata, criminalizzata.
Non c’è quindi da meravigliarsi che, una volta negata e proibita, gli scrittori – anche per avere una maggiore visibilità e diffusione delle loro opere – scrivano in italiano: la Deledda come tanti altri.
Ma – dicevo – Deledda rimane bilingue: pensa in sardo e traduce, nei suoi romanzi come nei Racconti, spesso meccanicamente in italiano, soprattutto nel parlare dialogico come in: ”Venuto sei? – che traduce il sardo: Bennidu ses?; o “Trovato fatto l’hai? Accatadu fattu l’as?; o ancora: “A Luigi visto l’hai?”A Luisu bidu l’as?; o “Quando è così, andiamo”Cando est gai, andamus.
E ancora: “Venuti a parole” (‘ennios a paraulas); “Già, da appena l’aveva conosciuta” (giai apenas l’aiat connota).
Vi sono poi frasi intere in sardo: “Teracas chi signoras bos cheries”serve-domestiche che pensate di essere delle signore); frate meu (fratello mio), Santu Franziscu bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti paret? (ti sembra?), corfu ‘e mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non ch’essas prus (che tu non ne esca più: è un’imprecazione).
Innumerevoli poi sono i vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce quando attengono ai nomi dei personaggi (Paska Devaddis, Bantine Fera, Berte Sirca, Zio Franziscu, Pride Fenu Tottoi, Peppe Longu, Compare Batò, Bellia, Gabina, Nanneddu, Pedru, Gavinu, Arrosa, Peppa, Manzela, Bustianeddu); ai toponimi: Funtana ‘e litumonte di Santu Janne, Marreri, Sa Serra, alle esclamazioni (peuh).
Ugualmente innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi la Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo a leppa ((coltello a serramanico), pezzas (cinquanta centesimi), Iscavanada (schiaffo), Tanca (podere chiuso), Tilipirche (cavalletta), Cussorgia (zona adibita a pascolo), bandidare (fare il bandito), bardana (razzia), tanca (terreno di campagna chiuso da un recinto fatto in genere di sassi), socronza, usatissima in Elias Portolu (consuocera), corbula (cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane), roba (bestiame, ma riferito soprattutto ai greggi ovini e caprini), cumbessias o muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas (tombe rupestri e letteralmente “case delle fate”).
Vi sono persino sardismi puri: come dormito (per addormentato) e entrata (per significare il “ricavato”, in un caso specifico per indicare il formaggio fresco e la ricotta prodotta giornalmente).
Qualche volta Deledda ricorre persino a frasi italiane storpiate in sardo o frasi sarde storpiate in italiano: Come ho ammaccato questo cristiano così ammaccherò te (…) o “Avete compriso?”.
Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda, non solo lessicali ma anche sintattici, non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana.
Scrive a questo proposito una valente critica sarda, Paola Pittalis: ”L’uso dei “sardismi” linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità – è il caso di Elias Portolu – è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere “bilingue”. Ciò non significa che in questa scelta non sia stata condizionata da fenomeni letterari e culturali esterni, – come il verismo – che prevedevano la raffigurazione oggettiva della realtà da parte dello scrittore che doveva riportare fedelmente il linguaggio popolare e “dialettale” dei personaggi”.
Per cui occorre secondo molti critici liquidare risolutamente il luogo comune della “cattiva lingua” e della “mancanza di stile” appoggiato alla valutazione di intellettuali di prestigio da Dessì (le “sgrammaticature” di Deledda) a Cecchi (la sua lingua “spampanata”).
Si tratta invece – secondo Paola Pittalis – “di forme nate dall’incontro fra dialetto e italiano nel momento di formazione delle varietà designate oggi come « italiani regionali»”.
Prosegue la Pittalis: ”L’uso di vocaboli dialettali, sardismi sintattici e atti linguistici frequenti in Sardegna è intenzionale, tanto è vero che scompaiono quando l’interesse di Deledda si sposta dal romanzo italiano «verista» e «regionale» al romanzo «psicologico» e «simbolico» (dopo il 1920). La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile; deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale (è questo un percorso suggestivo sul quale da tempo lavora con esiti personali Leonardo Sole). Ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana…” [Paola Pittalis, Il ritorno alla Deledda, «Ichnusa», rivista della Sardegna, anno 5, n.1 Luglio-Dicembre 1986, pag.81].
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Grazia Maria Cosima Damiana Deledda, nota semplicemente come Grazia Deledda o, in lingua sarda, Gràssia o Gràtzia Deledda (Nuoro, 28 settembre 1871 – Roma, 15 agosto 1936), vincitrice del Premio Nobel per la letteratura 1926.
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Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi,
romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi.

Siamo le ginestre d’oro giallo che spiovono
sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese.
Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo,
lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto.

Siamo il regno ininterrotto del lentisco,
delle onde che ruscellano i graniti antichi,
della rosa canina,
del vento, dell’immensità del mare.

Noi siamo sardi.

Grazia Deledda – Noi siamo sardi

CORAGGIO SARDEGNA!
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fogu-migheliDallo spopolamento al piromane sardo. Il sociologo Nicolò Migheli spiega gli incendi.
28 luglio 2021, Intervista a cura di Alessandra Carta, su SardiniaPost.
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Nel Montiferru fiamme alte 30 metri. “Così l’acqua dei Canadair evapora”
“Ci sono studi che hanno esaminato la soglia energetica oltre il quale l’effetto dei mezzi aerei non è più efficace. Accade quando si superano i 10mila kilowatt per metro lineare di fiamme, che corrispondono a un’altezza tra i dodici e i quindici metri. Nel Montiferru, nei giorni scorsi, il fuoco ha raggiunto anche i trenta metri”. Giuseppe Mariano Delogu, capo del Corpo forestale sardo dal 2007 al 2009, lo spiega a Sardinia Post come fosse in una delle sue lezioni universitarie. Dettagli, numeri, esempi, ricostruzioni. Tasselli di un mosaico che il professore compone per spiegare come abbiano cambiato pelle i roghi nella Sardegna del Ventunesimo secolo. Delogu insegna Tecniche di protezione civile nella facoltà di Scienze forestali all’Università di Nuoro.
https://www.sardiniapost.it/cronaca/nel-montiferru-fiamme-alte-30-metri-cosi-lacqua-dei-canadair-evapora/
- Intervista a cura di Alessandra Carta su SardiniaPost.

Oggi mercoledì 28 luglio 2021

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Lettera aperta sulla transizione ecologica
28 Luglio 2021 su Democraziaoggi
Pietro Casula, presidente sardi nel mondo
Al Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi
Egregio Presidente,
spero non Le appaia troppo irriverente e irrituale inviarLe una lettera pubblica.
A supporto di quanto sto per scrivere avrei certo potuto chiamare un po di autorevoli firme anche per togliere il carattere apparentemente personale alle mie parole. Ho rinunciato, ma non perché non creda […]
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fogu-migheliDallo spopolamento al piromane sardo. Il sociologo Nicolò Migheli spiega gli incendi.
28 luglio 2021, Intervista a cura di Alessandra Carta, su SardiniaPost.
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