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Oggi mercoledì 27 dicembre 2017

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27 dicembre 1947 Settant’anni fa è nata la Costituzione.

Red su Democraziaoggi.

Roma – Palazzo Giustiniani – firma Costituzione.
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DIBATTITO. Lavoro, Reddito di Cittadinanza, Reddito di inclusione sociale

lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. DIBATTITO. Proposta di istituzione di un “servizio civico” che garantisca un reddito minimo alle famiglie in difficoltà.
Il servizio civico. Una proposta per garantire un reddito minimo alle famiglie in difficoltà generando dignità e coesione sociale.
di Vittorio Rinaldi, su LabSus
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Votate, votate, votate… bene!

Votate, votate, votate… Bene! Con Bomeluzo e con Giorgio Gaber
Elezioni!

XI Conferenza Internazionale su Distrofia Muscolare Duchenne e Becker

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Segui la diretta web su http://stelnet.com/parentproject/
Fermare La Duchenne
Mentre continuano i lavori della conferenza, la campagna sms è ancora in corso. C’è tempo fino a domani per sostenere la ricerca contro la distrofia di Duchenne con un SMS al 45503!

LA SEDIA di VANNI TOLA

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La chimica verde, una fiaba per adulti. Aladinews seguirà l’evoluzione del progetto e il dibattito in corso con altri interventi di approfondimento. In fondo, se è una fiaba, chi meglio di Aladino? Leggi l’Editoriale

LA SEDIA di VANNI TOLA. La chimica verde, una fiaba per adulti. Aladinews seguirà l’evoluzione del progetto e il dibattito in corso con altri interventi di approfondimento. In fondo, se è una fiaba, chi meglio di Aladino?

di Vanni Tola
L’idea è semplicemente geniale, coniugare la chimica con l’agricoltura per realizzare prodotti chimici biodegradabili da vegetali e con processi produttivi non inquinanti. Un grande progetto di sistema che rilancerebbe nel mondo l’industria petrolchimica tradizionale ora in crisi. Le materie prime le fornirebbe l’agricoltura con prodotti quali il girasole, il mais o il cardo selvatico, ma sarebbero utilizzabili anche gli scarti della pastorizia o della pesca, opportunamente trattati. Queste materie prime daranno origine a polimeri biodegradabili dai quali si potranno realizzare una miriade di oggetti di uso comune con un impatto ambientale ridottissimo. La coltivazione delle materie prime avverrebbe recuperando a uso produttivo i terreni degradati e marginali generalmente incolti mentre gli impianti sarebbero realizzati con la riconversione dei vecchi stabilimenti petrolchimici. La Sardegna ridiventerebbe quindi uno dei nuovi poli di sviluppo per l’industria petrolchimica nazionale che, questa sarà di chimica verde. Una bella storia, quasi una fiaba accolta con interesse e speranza anche da coloro che negli ultimi cinquanta anni sono stati prima incantati e poi delusi dalla fiaba dei Piani di Rinascita e del Piano per la Pastorizia. La protagonista assoluta della fiaba si chiama Matrìca, una joint tra Polimeri Europa del gruppo Eni e Novamont, l’azienda ex Montedison oggi leader mondiale nelle bio-plastiche. Matrìca è nata in Sardegna con l’obiettivo di trasformare il petrolchimico Eni di Porto Torres in uno dei più grandi poli industriali di chimica verde a livello internazionale. Nel vecchio polo petrolchimico di Portotorres, adeguatamente bonificato e riconvertito, dovrebbe produrre 350mila tonnellate all’anno di prodotti biodegradabili di origine vegetale, partendo dalle coltivazioni locali, in questo caso il cardo, ricavate mettendo a coltura i terreni marginali. L’investimento complessivo è di tutto rispetto, un miliardo. 500 milioni, a carico del gruppo Eni, servirebbero per la bonifica dell’area e 300 milioni per la realizzazione da parte di EniPower di una centrale a biomassa che utilizzerà i residui vegetali delle lavorazioni agricole. A regime si ipotizza la costruzione di sette nuovi impianti – con una spesa di 250 milioni che entrerebbero in funzione tra il 2014 e il 2016. In termini di occupazione la realizzazione del progetto consentirebbe di salvare gli attuali 550 posti di lavoro dell’industria chimica che diventerebbero 685 a completamento dell’investimento. Questa la situazione di partenza. La discussione è aperta, molte le opinioni differenti e contrastanti a confronto. Giusto per elencare alcune questioni aperte cominciamo con l’alimentazione della centrale a biomasse, il cuore del progetto. Abbiamo sufficiente disponibilità di materia prima per alimentare la centrale con prodotti vegetali ricavati dalle terre marginali messe a coltura e con i residui delle lavorazioni agricole? E qualora questa condizione non si realizzasse quali garanzie ci sono che la centrale, una volta realizzata, non si trasformi in un inceneritore per una parte consistente dei rifiuti solidi urbani? Aladinews seguirà l’evoluzione del progetto e il dibattito in corso con altri interventi di approfondimento. In fondo, se è una fiaba, chi meglio di Aladino?

Il piano inclinato

di Gianni Loy *

Non sembra vero. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro si fonda sulla base del principio secondo il quale “il lavoro non è una merce”. Sta scritto nel preambolo della sua Carta istitutiva. E la Oit non è mica una succursale della Internazionale socialista, è un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite dell’Onu, a base tripartita, composto da rappresentanti dei governi, dei lavoratori e dei datori di lavoro.
Un’idea condivisa, dunque, un’idea nobile. Scaturita dalle esperienze di secoli, dalle lotte di chi ha rivendicato, per noi tutti, il diritto ad una vita dignitosa di chi ha sfidato i cannoni della repressione (come racconta Bertold Brecht nel suo “i giorni della Comune”) proclamando che “da bestie vivere, peggio che morire è!”
Non è solo filosofia. L’Europa ha saputo costruire una società dove davvero si è incominciato a dar valore alla dignità del lavoro. Anche lo Stato italiano ha fatto la sua parte, sia con le leggi che rendono dignitoso il lavoro, sia con le politiche che si ripromettevano di dare lavoro a tutti. Non soltanto per la pura sopravvivenza materiale. Perché chi non lavora non ha, ma soprattutto non è.
La caratteristica di una merce, in economia, è quella di poter essere oggetto di transazioni, Il prezzo di una merce viene fissato dal mercato, attraverso il meccanismo dell’incontro della domanda e dell’offerta.
Se il lavoro non è merce, se non fosse merce, dovrebbe essere esentato da questa legge crudele. Perché è una legge che non tiene conto delle condizioni dei contraenti. E perché il cosiddetto prezzo di mercato, in realtà è solo un’astrazione, il prezzo, quello vero, è quello che viene stabilito volta per volta da parte di contraenti in carne ed ossa. Ed è giusto, quel prezzo, anche quando il bisognoso vende per quattro soldi i tesori di famiglia magari perché è rimasto senza lavoro ed ha urgente necessità di qualche spicciolo per arrivare al giorno seguente.
Per tempo, il liberismo, si è pasciuto dell’accattivante principio secondo cui “qui dit contractuel dit juste» : ciò che viene liberamene contrattato è naturalmente giusto. Consentendo agli Stati di limitarsi a garantire la libertà contrattuale, fingendo di non accorgersi che la diversa forza dei due contranti fa si che l’apparente uguaglianza formale serva solo al predominio del più forte ed all’assoggettamento del debole, cioè proprio alla ineguaglianza.
Ed è per questo che il Diritto del lavoro, si è affranco da questo “diritto comune dei contratti”, che, in definitiva, consentiva lo sfruttamento dei lavoratori, apparentemente contraenti, ma in realtà costretti a prendere o lasciare, per diventare una disciplina speciale, un diritto speciale ispirato al principio per cui i due contraenti non sono affatto uguali.
Persino il fascismo si ispirava a questo principio, considerando il lavoratore un contraente debole e, quindi, meritevole di una particolare protezione, anche legislativa, tale da compensare il suo svantaggio.
La Costituzione italiana è andata molto oltre. Perché i padri costituenti, pur prendendo atto di quella situazione di svantaggio, hanno dettato un programma di superamento di quella condizione di debolezza, hanno affidato alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitando “di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana….”
Di questo stavamo ragionando, ci eravamo incamminati su questa strada.
Ora “tutto questo non c’è più” direbbe Lucio Battisti, ma non per l’avvento di migliori condizioni, ma per un pauroso ritorno al passato.
Serve ricordarlo per meglio comprendere la cronaca di questi giorni, e darsi conto che non siamo più in presenza di emergenze transitorie, di eccezioni al principio, ma di un ormai completo ribaltamento del sistema che ci riporta proprio al cosiddetto diritto dei contratti, cioè all’esaltazione della libertà di contrattare. E’ un ragionamento presente anche in pezzo del partito democratico, purtroppo solo in parte transitato nel partito di Monti, secondo cui il lavoratore, al giorno d’oggi, non è più l’operaio debole e privo di strumenti, anche culturali, per cui lo Stato deve impedirgli di vendere, a prezzo iniquo, la propri forza lavoro. Ora il lavoratore sarebbe maturo e cosciente, quindi non più bisognoso di tutela. Questo è il ritirarsi dello Stato sociale ed il ritorno alla “libertà” del mercato.
Eppure, è evidente che è vero proprio il contrario. In presenza di una crisi che produce una dilagante disoccupazione crescono, lo riconoscono tutti, le diseguaglianze. E con il crescere delle diseguaglianze cresce, fatalmente, l’iniquità dello scambio contrattuale che, in apparenza, formalmente, è libero.
Ma libero non è. Perché uno dei due contraenti si trova in condizioni di difficoltà e, conseguentemente, è spesso costretto ad accettare clausole inique. Per dirla con un rozzo linguaggio marxiano, a vendersi sottocosto.
Un recente esempio.
La Nissan ha scelto gli stabilimenti di Barcellona per la costruzione di un nuovo modello: 1000 nuovi posti di lavoro, “diretti” ed un indotto stimato in 3000 unità.
C’è da esserne contenti. Magari fosse toccato a noi! Direbbe qualcuno.
Ma se andiamo dentro la notizia scopriamo una lunga e difficile trattativa, spesso sul punto di spezzarsi, anche perché, di fronte alla difficoltà di quella trattativa, altre fabbriche, come la francese Renault, si erano offerte. Poi l’ha spuntata Barcellona. Nella sostanza perché ha accettato, mediante un libero contratto, di ridurre del 20 per cento il salario dei dipendenti che andranno a lavorare nella nuova linea.
Detto in altri termini: il contraente forte ha messo in concorrenza, al ribasso, i possibili partner ed ha stipulato il contratto con il migliore offerente (al ribasso), con soddisfazione comune del governo catalano, dei sindacati, delle associazioni datoriali.
Barcellona si è aggiudicata l’affare.
Dobbiamo festeggiare per 1000 posti di lavoro in più, o interrogarci sul costo sociale e umano, che viene pagato, per quella operazione, da lavoratori, uomini e donne, famiglie, che vedono retrocedere la propria condizione economia e sociale, rispetto alle conquiste che la civiltà occidentale era stata capace di raggiungere negli anni passati?
Non si tratta di un caso esemplare. Né di un caso spagnolo. Forse che il lavoro precario o quello nero e sfruttato di molti dei nostri giovani non risponde alla stessa logica? Al medesimo sistema “ricattatorio”? E cosa significano quegli operai di Marchionne che si sono recati al referendum annunciano il loro si, di fronte ad una ipotesi di contrato aziendale che non condividevano affatto?
Hanno fatto una scelta libera, cioè di mercato. La libertà contrattuale, individuale o collettiva che sia, ha trionfato.
E dove andremo a finire se, in tempi di crisi, con la disoccupazione dilagante, i posti di lavoro verranno messi all’asta, sulla base di questi principi, al miglior offerente? Cioè a chi è disposto ad accettare un salario inferiore?
Il sindacato spagnolo, giustamente, si è fatto garantire che l’organico della fabbrica non subirà riduzioni, cioè che gli altri lavoratori, gli “anziani”, non saranno licenziati per essere sostituiti dalle più economiche “new entry”, che non subiranno una riduzione di salario. Quindi esasperazione del dualismo, anche all’interno alla stessa fabbrica.
Altro che “il lavoro non è merce”! Altro che immaginare contingenze! Siamo semplicemente tornati indietro, molto indietro. Si sta consumando una mutazione Il piano è ancora inclinato. E le prossime elezioni non c’entrano nulla … quasi nulla.


* articolo pubblicato anche su il manifesto sardo

Nel riquadro dipinto di Fernand Léger

Viviamo tempi apocalittici

di Nicolò Migheli, da Sardegnademocratica

“Ci fu un grande terremoto, di cui non si era mai visto l’uguale da quando gli uomini vivono sopra la terra. La grande città si squarciò in tre parti e crollarono le città e le nazioni: Dio si ricordò di Babilonia la grande, per darle da bere la coppa del vino del furore della sua ira. E tutte le isole fuggirono, e i monti non si trovarono più.” (Ap. 14, 8-10) Il passo dell’Apocalisse di Giovanni è citato in Mysterium iniquitatis, un testo di raro pessimismo sulle sorti del cristianesimo, scritto da Sergio Quinzio, pensatore dimenticato in questi anni confusi.

Versetti che debbono essere tornati alla mente di personaggi conservatori della Curia romana. L’abdicazione di Benedetto XVI è una apocalisse, una rivelazione-constatazione del degrado del governo della Chiesa e, nello stesso tempo, del limite. Il discorso pronunciato dal Papa il Mercoledì delle Ceneri esprime in altre parole lo stesso concetto. Tanto che alcuni hanno reagito con: “ Non si scende dalla croce,” “Un padre non si dimette se i figli non ubbidiscono.” La rivolta di un uomo mite, hanno scritto in molti, dando ragione a Papa Ratzinger.

Carlo Maria Martini, in una sua ultima intervista ebbe a dire che la Chiesa Cattolica era in ritardo di duecento anni. Il percorso di due secoli di modernità non compreso e rifiutato. Un essere contro il mondo visto solo come degrado. Una non accettazione di un ruolo che la storia e il pensiero laico ponevano tra gli interlocutori e non più come unico punto di riferimento. La reazione identitaria alla modernità trasformata nel dogma della infallibilità papale da Pio IX nel Concilio Vaticano I del 1870, confermata nell’enciclica “Pascendi dominis gregis” dove il modernismo viene descritto come “sintesi di tutte le eresie” da Pio X nel 1907. Corrente di pensiero che ha rifiutato il Concilio Vaticano II sia prima di essere indetto che dopo nella sua attuazione. L’ha fatto cancellando la Teologia della Liberazione, la Chiesa di Base, marginalizzando tutti quei “cattolici maturi” come ebbe a dire Romano Prodi, dando invece lustro e potere a confraternite come l’Opus Dei, Comunione e Liberazione e ai torbidi Legionari di Cristo. Un costante innamoramento dei poteri più reazionari da Francisco Franco a Pinochet, da Videla a Berlusconi. Prima con la giustificazione della lotta al comunismo e poi con la difesa dei “valori non negoziabili.”

Una Chiesa che aldilà delle magnificenze trionfalistiche si ritrova con le chiese vuote. Sempre più incapace di parlare all’anima dei contemporanei. Per fortuna restano tanti vescovi e sacerdoti che vanno oltre, che in silenzio riescono a venire incontro alla fatica di vivere dei contemporanei. Per trent’anni Ratzinger è stato il custode dell’ortodossia conservatrice, l’acerrimo avversario di cardinali come Martini, il pilota insieme a Ruini, delle vicende politiche italiane, sponsorizzando qualsiasi governo che fosse ligio all’agenda vaticana. In tarda età osa l’inosabile. Il gran rifiuto.

Impressiona il gesto, molto di più la data dell’annuncio: l’11 febbraio 2013, ottantaquattro anni da quel 1929 dei Patti Lateranensi che ristabilì il potere temporale del papato. Per un potere bimillenario attento ai simboli e alle date non è stato certo un caso. La scelta di quel giorno è forse l’atto di accusa più pesante per la Curia Romana. Rivelando una impossibilità di governo di una realtà conflittuale ed oscura che ha la sua giustificazione nell’essere Stato e quindi come ogni stato, può toccare con mano il lato inumano del governo del mondo. “Non sei né freddo né caldo! Ma siccome sei tiepido, né caldo né freddo, sto per vomitarti dalla bocca” (Ap. 3, 15-16).

E’ ancora il Libro che ci soccorre e ci fa capire. Resta la domanda, l’uomo occidentale sempre più sommerso da più offerte spirituali in concorrenza tra loro, è ancora attratto da una forma religiosa dove il contatto con il dio è mediato? Dove al fedele è negata ogni possibilità di coscienza personale, ma solamente l’attuazione pratica di quanto deciso dalle gerarchie? L’abdicazione di Benedetto XVI è di sicuro un atto che influirà molto su come i cattolici penseranno al proprio futuro e ruolo nel mondo. Forse non subito. Il prossimo conclave, vista la composizione del concistoro, è probabile che esprima un altro papa conservatore. La storia della Chiesa Cattolica ci ha abituati, però, che nei momenti più critici può esprimere il rinnovatore. Lo Spirito soffia dove vuole. Così si dice nelle Scritture.
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Nicolò Migheli, da Sardegnademocratica

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Sul medesimo argomento: F.Meloni, La scelta rivoluzionario del papa conservatore
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Nelll’illustrazione Papa Celestino V

Legge 221/2012 Startup, precisazione del Mise: le società già costituite possono iscriversi alla “Sezione speciale del Registro Imprese” anche dopo 17 febbraio

Il ministero dello Sviluppo economico (MISE) ha fornito una risposta articolata al quesito posto da Infocamere (Unioncamere), relativo all’iscrizione delle società già costituite alla “Sezione speciale” del Registro delle Imprese entro il termine del 17 febbraio.
La scadenza indicata in norma primaria è da interpretare come non perentoria, pertanto, le società già costituite alla data dell’approvazione della Legge 221/2012, potranno iscriversi alla “Sezione speciale”, dedicata alle Startup del Registro delle imprese, anche dopo il 17 febbraio.
Contestualmente, il Ministero ha precisato che il termine per il possesso dei requisiti (data di entrata in vigore della legge di conversione), così come il termine di durata massima della startup innovativa (decorrente dalla medesima data) sono invece inderogabili.
Comunicato stampa del MISE

14 febbraio San Valentino Bomeluzo

14 febbraio 2013 Bomeluzo festeggia San Valentino -©Bomeluzo

LA LAMPADA di ALADIN

Bomeluzo Aladino

Benedictus XVI PP.
“(…) Quapropter bene conscius ponderis huius actus plena libertate declaro me ministerio Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, mihi per manus Cardinalium die 19 aprilis MMV commissum renuntiare ita ut a die 28 februarii MMXIII, hora 20, sedes Romae, sedes Sancti Petri vacet et Conclave ad eligendum novum Summum Pontificem ab his quibus competit convocandum esse.” (Benedictus XVI PP.)

Programmazione fondi comunitari 2014-2020

STRUMENTI
Metodologia adottata dal Ministro della Coesione territoriale, validata dalle Regioni

UE Piano d’azione per l’imprenditorialità 2020

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Riflessioni di Aladin

Università: per non morire di autoreferenzialità

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di Franco Meloni

“Ask not what your country can do for you; ask what you can do for your country.” “Non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”. E’ questa una delle frasi più famose tra quelle pronunciate da John Fitzgerald Kennedy; esattamente risale al 20 gennaio 1961, giorno del suo insediamento alla Casa Bianca come 35° presidente degli Stati Uniti d’America.

E’ una frase che mi piace e che a partire da ciascuno di noi deve riguardare tutti per orientare comportamenti virtuosi verso il bene pubblico. Ritengo che si possa riferire in modo pertinente soprattutto a quanti gestiscono la “cosa pubblica”.
Non è allora fuori luogo il fatto che mi sia venuta in mente pensando allo stato attuale delle università nel nostro paese. Cercherò di spiegarlo nel proseguo.
L’università pubblica che per definizione è al servizio del paese e dei cittadini, nonostante la sua funzione essenziale per qualsiasi traguardo di sviluppo sociale ed economico, è sottoposta da molti anni a questa parte a politiche vessatorie, fatte soprattutto di progressive restrizioni delle risorse statali, di aumento smisurato di adempimenti burocratici, di sfiancanti processi di riforma, in gran parte inefficaci.
A perderci in questa situazione non è certo, se non in minima parte, l’accademia, consolidata nei propri privilegi, quanto piuttosto gli studenti e, in conclusione, il paese intero. L’università pubblica, nel suo complesso, sembra destinata ad un inesorabile declino per mano assassina della politica (del governo come del parlamento) e, si badi per inciso, in presenza di un governo mai stato così tanto partecipato da professori, da assomigliare a un “senato accademico”
Ma perchè non si riesce a fermare questo precipitare verso il peggio? Forse i consapevoli quanto responsabili (colpevoli) di quanto accade pensano che le Università virtuose possano risuscitare dalle ceneri delle attuali. Sarebbe follia, ma sembra appunto questa la strada intrapresa. Non avanziamo qui ulteriori considerazioni, rinviando ad autorevoli approfondimenti, come quelli in grande parte condivisibili di Gianfranco Rebora (http://gianfrancorebora.org/category/universita/).
Invece vogliamo soffermarci su un aspetto: quello del modo in cui è percepita l’Università da parte della gran parte delle persone, dei cittadini e dalle altre organizzazioni. Fondamentalmente come un luogo di privilegiati che si occupano sì di scienza, cultura, insegnamento… ma quando e come vogliono, dall’alto delle loro sicurezze e con atteggiamenti di supponenza e separatezza, senza aver alcun obbligo di “resa del conto”, innanzitutto a chi finanzia l’università (in primis le famiglie, poi lo Stato, le Regioni, l’Unione Europea, etc). Sì, non è vero che sia tutto così deprecabile. Sappiamo, per esempio, quanti professori svolgono con scrupolo e impegno il loro prezioso lavoro e ancor di più quanti giovani nelle università lavorino sodo, i più senza adeguati riconoscimenti monetari e di carriera… Anche qui non mi soffermo, perchè il problema che voglio affrontare è un altro, precisamente questo: perchè nessuno, tranne i diretti interessati, difende l’Università? La risposta, a mio parere, si può ancora una volta trovare sul “peccato di autoreferenzialità” che marchia l’Università e che la rende largamente estranea al resto della società. Non voglio parlare di “parentopoli” o cose di questa natura, che rappresentano comunque perduranti patologie, ma piuttosto del modo normale di atteggiarsi delle università, soprattutto in relazione al modo in cui esse sono rappresentate dai rettori e dai diversi gruppi dirigenti. Del “peccato di autoreferenzialità” si ha certo da tempo consapevolezza, tanto è che perfino negli ambienti accademici si ricercano modalità per superarlo. Le stesse numerose leggi e altri miriadi di provvedimenti cosiddetti di riforma hanno a parole combattuto l’autoreferenzialità, ma possiamo azzardare che sia invece aumentata, tanto da far considerare la stessa come una delle cause più rilevanti del cattivo rapporto università-territorio.
Richiestomi da un’amica ricercatrice universitaria che indaga sull’apertura delle università al territorio così come appare dalla riformulazione degli statuti, in applicazione di quanto previsto dalla legge 30 dicembre 2010 n. 240, ho letto tutti o quasi gli statuti, pubblicati nei siti degli Atenei, tanto da ritenermi legittimato ad esprimere qualche giudizio. La mia lettura ha riguardato fondamentalmente gli aspetti dell’apertura dell’ateneo al territorio, in certa parte rappresentata dalla valorizzazione dei saperi nel loro trasferimento sul territorio e l’apertura al medesimo territorio attraverso la partecipazione alla governance universitaria dei soggetti del territorio. Per il primo aspetto (apertura) devo dire che in tutti gli statuti esaminati emerge l’attenzione verso il territorio di riferimento di ciascun Ateneo. L’impegno particolare verso la regione (istituzione e territorio) risulta in tutti, ma in modo marcato per le università che operano nelle regioni a statuto speciale (tra questi statuti segnalo quello dell’Università di Sassari per i riferimenti alle specificità delle problematiche regionali come la lingua, l’identità la cultura, etc). Maliziosamente potremmo darci ragione di tale enfasi rammentando come i rapporti Università-Regione comportino importanti trasferimenti di risorse dalle casse regionali a quelle universitarie, generalmente regolati da appositi protocolli d’intesa/convenzioni. Tuttavia – e qui parliamo del secondo aspetto (partecipazione alla governance) – il rapporto con il territorio rispetto all’ambito di diretto riferimento o considerato quello di più vaste dimensioni (nazionale, europeo, internazionale) non prevede negli statuti esaminati particolari forme di integrazione a livello gestionale, salvo alcuni statuti, ad esempio delle università dell’Emilia e Romagna e  dell’Università di Bari che hano istituito appositi organismi (come la “consulta dei sostenitori” per le università emiliano-romagnole e la “conferenza d’ateneo” per l’università di Bari), con prerogative abbastanza significative per quanto riguarda il controllo “esterno” sulla (e il coinvolgimento nella) programmazione delle attività dell’Università. Si osserva come dal punto di vista dell’integrazione tra Università e  Istituzioni dell’ambito territoriale risultino, anche per effetto della legge di riforma e degli statuti, significativamente affievoliti i legami che storicamente si erano precedentemente  consolidati. Parliamo soprattutto del legame con le città. Gli statuti riformati sulla base della legge citata prevedono la presenza nei consigli di amministrazione e nei nuclei di valutazione di esperti non appartenenti al mondo accademico, ma hanno abolito qualsiasi rappresentanza delle Isituzioni (Comune capoluogo in primis). Da questo versante possiamo pertanto dire che i nuovi statuti ci hanno consegnato università rafforzate nell’autoferenzialità. Si può osservare come la legge di riforma non impediva la costituzione di organismi di collegamento e di partecipazione alla programmazione, e gli statuti citati (sia pure nella debolezza della  ”consulta dei sostenitori” o consimili) ne è prova, ma l’errore di non aver previsto l’obbligatorietà di tali organismi (così come previsto, ad esempio, nell’ordinamento delle università spagnole) ha portato di fatto a non contemplarli e pertanto ad una ulteriore chiusura autoreferenziale delle università. Ne emerge la riproposizione “in peius” di modelli tradizionali, meno partecipati dalle Istituzioni e dal mondo delle Imprese, nei quali anche la famosa “terza missione” viene sì prevista ma con carattere subordinato rispetto alle tradizionali funzioni universitarie (ricerca e insegnamento). Certo bisogna riconoscere la positività della previsione dell’impegno per il trasferimento tecnologico per la quasi totalità delle Università che lo hanno citato nei principi fondamentali degli statuti, cosa che dovrebbe indurre a un maggiore impegno dell’Ateneo per questa missione, ma il tutto appare davvero insufficiente. Nello specifico, probabilmente bisogna prendere atto che l’attività di diffusione del sapere/trasferimento tecnologico può essere efficacemente attuata solo con una strumentazione diversa da quella propriamente accademica e pertanto attraverso strumenti come Fondazioni e Consorzi. Infatti è difficile pensare che una gestione efficace ed efficiente di tali attività possa essere svolta dagli attuali organi di governo dell’Ateneo (Rettore, Senato accademico, Consiglio di amministrazione…). Al tutto dobbiamo aggiungere, in negativo, una maledetta spirale burocratica che avvolge gli Atenei pubblici fino a volerli ridurre a una sorta di licei rigidamente controllati dal Ministero dell’economia. In analogia per quanto detto in fatto di partecipazione delle Istituzioni (e delle Imprese) alla governance degli Atenei sarebbe auspicabile che una legge prevedesse l’obbligatorietà per ogni università di dare vita a una propria fondazione per le attività propriamente riconducibili alla “terza missione”.
E infine, torniamo all’incipit del presente contributo, riscrivendo a nostro uso la famosa frase di Kennedy: cara Università “non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”, mettendo concretamente da parte la tua autoreferenzialità.
Forse troverai più gente e più organizzazioni convintamente al tuo fianco per salvarti insieme al paese!
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L’Università fuori dall’Europa

Mozione approvata all’unanimità dell’Assemblea della CRUI

(20.12.2012)

Le gravissime e irresponsabili scelte del Governo e del Parlamento contenute nel DDL di stabilità risultano perfettamente coerenti con il piano di destrutturazione del sistema iniziato con le LL. 133/2008 e 126/2008 nella legislatura appena conclusasi, a carico di un sistema universitario notoriamente e pesantemente sottofinanziato rispetto alle altre realtà internazionali. La richiesta di mantenere nella disponibilità delle Università 400mln di euro equivaleva a poco più del 10% degli emendamenti introdotti dal Senato e ad appena l’1% dell’impatto complessivo della manovra. Non si è voluto intervenire se non con un pour boire di 100mln di euro.

La CRUI prende atto di come gli appelli più volte lanciati dalla Conferenza in via ufficiale e a mezzo stampa sin dall’insediamento del Governo sulle conseguenze dell’ulteriore taglio di 400 milioni siano rimasti del tutto inascoltati e le garanzie formulate al riguardo dal Ministro dell’Università siano state totalmente tradite e disattese. E non è più sufficiente, purtroppo, dichiarare che l’Università va in fallimento senza che ciò produca i suoi necessari effetti a tutti i livelli.

Quanto approvato dal Parlamento è in patente contraddizione con le tanto frequenti quanto vacue prese di posizione in favore dei giovani e della ricerca; determinerà un crollo oggettivo del sistema universitario italiano e la sua immediata fuoriuscita dall’Europa.

La CRUI respinge in toto il disegno politico che porta all’affossamento del sistema universitario nazionale, statale e non statale. Per conseguenza, a fronte di una diminuzione del 12% delle risorse nel triennio e di una qualsiasi idea di sviluppo del sistema universitario, la CRUI annuncia fin da subito:
• l’impossibilità di avviare alla ricerca i giovani meritevoli;
• l’irricevibilità del piano triennale inviato alla Conferenza dal MIUR e delle conseguenti forme di ripartizione ivi previste, incluse quelle premiali;
• l’impossibilità di adempiere alle scadenze burocratiche indicate dall’ANVUR di valutazione della didattica, vista l’assenza di risorse adeguate per la costruzione dell’offerta formativa;
• l’impossibilità, alle condizioni attuali, di partecipare in modo competitivo al programma Horizon 2020 e agli obiettivi di efficienza didattica in termini di laureati chiestici dall’Europa.

Deve essere inoltre ben chiaro che, a séguito dei nuovi tagli, le Università italiane garantiranno le spese del solo personale in servizio e si vedranno costrette alla riduzione di non meno del 20-25% dei servizi essenziali per il funzionamento (luce, gas, riscaldamento, laboratori, biblioteche) con le prevedibili conseguenze sulle infrastrutture della didattica e della ricerca, sull’offerta formativa, sulle immatricolazioni e sulla correlata fuga delle menti migliori verso Paesi più “ospitali”. Inoltre, come più volte annunciato, la drastica e inopinata diminuzione delle entrate dallo Stato provocherà lo sforamento dei bilanci di più della metà degli Atenei italiani.

Il Paese, anche in vista delle prossime scadenze elettorali, deve essere consapevole che alle parole spese per lo sviluppo, per la difesa dei giovani e delle loro opportunità dovrà seguire la garanzia dei fatti. Non si può né si deve continuare a mentire. Come può l’Italia stare in Europa se non vi porta le sue Università? Le Università italiane vogliono essere trattate e giudicate su standard europei. Nulla di più.

La CRUI ritiene che l’occupazione dei propri spazi di autonomia da parte di una politica nemica del sapere abbia prodotto risultati disastrosi; intende avviare nelle prossime settimane un dibattito sulle nuove scelte per il futuro del sistema con tutti gli interlocutori coinvolti, a cominciare dagli studenti e dalle famiglie, in vista di un’Assemblea aperta da tenersi prima delle elezioni politiche per rilanciare un’idea diversa di Università nel Paese.