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Indagare a fondo sull’assenteismo nel pubblico impiego per debellarlo senza inutili e improduttive “cacce alle streghe”. Invito al dibattito
Pugno duro del Governo contro l’assenteismo del personale alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni. Scrive La Repubblica: “Un giro di vite dopo i recenti scandali di Sanremo, con il vigile che timbrava in mutande, e del museo dell’Eur a Roma, con alcuni dipendenti che passavano il tesserino per i colleghi che non si presentavano nemmeno in ufficio”. Lungi da noi esprimere qualsiasi giustificazione del comportamento truffaldino dei dipendenti infedeli; tuttavia invitiamo ad indagare a fondo sull’assenteismo nel pubblico impiego, al fine di debellarlo senza inutili ed improduttive “cacce alle streghe”. E’ un obbligo morale fare questi ragionamenti e invitare il Governo ad esaminare la complessità del fenomeno, perché assuma adeguati provvedimenti, anche per salvaguardare quella che riteniamo sia la maggioranza dei lavoratori pubblici (o comunque in servizio nelle diverse Ammministrazioni pubbliche) che svolge il proprio lavoro con dedizione nell’interesse dei cittadini. Al riguardo ci sembra utile la riflessione di Romolo Menighetti sul periodico Rocca, che sotto riportiamo integrale.
La radice dell’assenteismo
di Romolo Menighetti, su Rocca 22/2015
Sanremo, da «Città dei Fiori» è scaduta a «Città dei Fuori» (stanza). Infatti, un’indagine della Guardia di Finanza relativa al 2014 nei suoi uffici comunali si è conclusa con l’arresto di 35 dipendenti per assenteismo e 236 inquisiti, su un totale di 528 dipendenti municipali.
Le truffe si concretizzavano in «strisciate» del tesserino per interposto collega o familiare, certificazioni di presenze fatte in pigiama, gite in canoa; e poi la spesa utilizzando la Vespa del Comune, la passeggiata igienica del cane, partite a biliardo e prolungate soste al bar. Dal punto di vista giudiziario si tratta di «Truffa aggravata, falso in atto pubblico e interruzione di pubblico servizio». A rimetterci sono i cittadini, i quali pagano con le tasse dei fannulloni, che li ricambiano con servizi lenti e scadenti. Il tutto sotto lo sguardo passivamente complice degli altri colleghi e di un’opinione pubblica cittadina che assiste silente a quell’anomalo via vai durante l’orario d’ufficio. Segno che l’assenteismo è recepito ormai come realtà ineluttabile, contro la quale è inutile opporsi. A fronte di questi fatti non è sufficiente l’indignazione, né l’invocazione di giuste sanzioni.
Se l’assenteismo è così diffuso (quanti Sanremo ci sono nella Penisola?), nonché tollerato anche da chi agisce correttamente, ci saranno motivi che vanno oltre una generica «poca voglia di lavorare».
Perciò è necessario, per tentare di porvi rimedio, chiedersi quali siano le cause profonde di una così diffusa disaffezione per il lavoro entro la pubblica amministrazione. Alla base dell’assenteismo c’è che la pubblica amministrazione, per le sue contraddizioni interne dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro e per le indebite interferenze politiche, offre ben poche possibilità ai suoi operatori, specie a quelli medi e piccoli, di realizzarsi come lavoratori e come persone. Da qui disaffezione e disimpegno. Perciò, esaminare l’assenteismo dal punto di vista dell’operatore nella pubblica amministrazione appare come la strada migliore per tentare di trovare soluzioni al fenomeno.
Il piccolo e medio burocrate è inserito in un ingranaggio di lavoro che non permette di sviluppare sufficientemente le proprie potenziali capacità. Ripetere atti e gesti aventi poco interesse in sé fa intravvedere, come unica difesa contro la monotonia, lo svicolare fuori dall’ufficio per sbrigare affari personali o per la visita al bar. Che l’operatore non veda quasi mai realizzato il proprio lavoro in qualcosa di concreto e completo non fa che accrescere la frustrazione, specie se il suo lavoro si svolge in un contesto di scarsa efficienza, che vanifica parzialmente o totalmente la sua opera. Egli avverte che i diversi passaggi burocratici non sono finalizzati a migliorare il servizio, ma sono funzionali ai diversi centri di potere per inserirsi in una «pratica», spesso al fine di lucrare illegalmente un compenso. C’è poi la sua totale esclusione dall’elaborazione delle decisioni, che egli deve concretizzare solo a livello esecutivo. Questa situazione configura il burocrate come essere non pensante.
Da qui l’esigenza di una collaborazione collegiale delle decisioni, e il superamento del dogma che prescrive «essere in regola con le carte» indipendentemente dal fatto che si svolga o no un servizio efficiente per il cittadino. Avere come solo punto di riferimento le norme astratte di un regolamento elimina il rapporto arricchente con la realtà e le persone, colte nella loro varietà e imprevedibilità, e per conseguenza toglie interesse al proprio impegno. Infine, l’interferenza dei poteri politici fa vivere l’impiegato in un contesto in cui la capacità professionale non è valutata in base al suo merito e al suo impegno ma in base alla sua abilità a destreggiarsi nei meandri dei gruppi di potere all’interno dell’ambito lavorativo.
Perciò la repressione dovrà essere affiancata da una riforma che tenda a fare del burocrate un essere pensante e creativo. In questo senso si era posta la Regione Siciliana con una legge di riforma della Pubblica amministrazione (l.r. 23/3/1971 n.7), che ebbe tra gli altri promotori un giovane Piersanti Mattarella, allora assessore regionale al Bilancio, ma i risultati non sono stati all’altezza delle illuminate decisioni dei legislatori.
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“Così saranno licenziati i dipendenti assenteisti”. Ecco il piano del governo
In 48 ore scatta la sospensione, poi si avvia la procedura. L’obbligo di denuncia. Il ruolo della Corte dei conti
di ROBERTO MANIA, su La Repubblica.
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