Monthly Archives: febbraio 2020

Oltre l’attuale RdC: ripensare il Welfare State

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I limiti del reddito di cittadinanza introdotto in Italia nel 2019

di Gianfranco Sabattini

Nei decenni anteriori alla Grande Recessione il dibattito politico denunciava il fatto che l’Italia fosse l’unico Paese europeo (assieme alla Grecia) a disporre di un sistema di sicurezza sociale che non includeva la possibilità di erogare un “reddito minimo”, inteso come una forma di reddito da corrispondere solo a chi, in età lavorativa, disponesse di un reddito inferiore ad una determinata soglia ritenuta di povertà.
Massimo Baldini e Cristiano Gori, in “Il reddito di cittadinanza” (Il Mulino, n. 2/2019) affermano che, dal 2017, alla lacuna del sistema si sicurezza sociale vigente è stato posto rimedio con l’introduzione del “reddito di inclusione” (REI); tale forma di reddito ha però avuto vita breve, perché nel 2019 è stata sostituita dal “reddito di cittadinanza” (RDC), il quale – affermano gli autori – ha consentito di aumentare in modo considerevole “i fondi per il contrasto della povertà di circa 6 miliardi di euro annui addizionali”, che hanno permesso di passare dai 2 miliardi del REI agli 8 del RDC. Si è trattato, secondo Baldini e Gori, del più ampio trasferimento di risorse pubbliche a favore dei poveri mai effettuato in Italia, contribuendo a risolvere il “difficile” rapporto che è sempre esistito nel nostro Paese tra politica e povertà.
Per lungo tempo, le forze politiche italiane di ogni colore hanno ignorato il problema della povertà, tranne che in quelle parti di tali forze (cattoliche e di sinistra) più sensibili ai problemi sociali. Al centro dell’attenzione di cattolici è sempre stata la tutela della famiglia, ma con l’avvento di Papa Francesco al soglio pontificio – sottolineano Baldini e Gori – per i cattolici impegnati nella politica nazionale si è sostenuta anche la necessità “di un intervento pubblico che contrastasse l’esclusione sociale”, considerata sino ad allora non rientrante tra gli obiettivi primari dell’impegno sociale cattolico. Dal canto suo anche la sinistra ha sempre “trascurato” il problema della povertà, in quanto ancorata a una “concezione della cittadinanza di tipo lavoristico, che vedeva i diritti sociali derivare principalmente dalla posizione degli individui nel mercato del lavoro”; per le forze di sinistra, pertanto, promuovere il welfare “significava tutelare non tutti i cittadini, bensì i lavoratori di oggi e di ieri, cioè chi il lavoro l’ha già oppure chi l’ha avuto e ora è a riposo”.
Nella legislatura 2013-2018 è cambiato l’atteggiamento della politica verso la povertà con l’introduzione del REI, per la pressione su di essa esercitata dalla crescita dei tassi di povertà e dal diffondersi della protesta sociale, a seguito all’affermarsi dei movimenti populisti. La limitatezza dei fondi stanziati con l’introduzione del REI ha però continuato a segnalare l’importanza ancora contenuta che veniva assegnata alla lotta contro la povertà, per cui – a parere di Baldini e Gori – l’introduzione del RDC ha rappresentato “un passo in avanti storico”; esso, non solo ha comportato un aumento delle risorse dedicate al problema specifico della povertà, ma ha anche istituito una forma di reddito corrisposto indipendentemente da altri redditi percepiti e da eventuali patrimoni dei quali fossero stati titolari i riceventi, non contemplando nessun altro requisito oltre la cittadinanza. Quale giudizio complessivo, si chiedono Baldini e Gori, può essere espresso sull’introduzione di questa forma di reddito?
L’istituzione del RDC, pur subordinando il fruitore alla necessità di reinserirsi nel lavoro, per via del fatto che la povertà viene assunta come conseguenza della mancanza di occupazione, ha riconosciuto che spesso lo stato di povertà risulta legato “ad aspetti diversi da quello lavorativo”, siano essi familiari, di salute, di istruzione, psicologici, abitativi, relazionali e di altra natura; ciò comporta l’attribuzione di “un ruolo importante ai percorsi di inclusione sociale”, affiancati “a politiche di rilievo per l’inserimento lavorativo”.
La scelta di enfatizzare le finalità occupazionali del RDC, rilevano Baldini e Gori, ne ha depotenziato il ruolo e la funzione. Ciò perché, se l’erogazione del RDC viene subordinata alla necessità che il fruitore debba reinserirsi nel lavoro in un contesto economico come quello italiano, caratterizzato dalla crescita delle disoccupazione strutturale, è quasi certo il suo insuccesso; per cui tenderà ad allargarsi il novero di coloro di quanti sostengono “che sono le stesse politiche di contrasto alla povertà” ad essere la causa prima di quest’ultima. In questo modo, concludono gli autori andrà persa l’occasione di consolidare l’evento storico, che con l’introduzione del RDC si pensava di aver raggiunto nella lotta contro la povertà.
In realtà, il discredito cui andrà incontro il RDC, per il suo improprio impiego, pregiudicherà la possibilità che ad esso si faccia ricorso per la cura della principale disfunzione cui sono esposti i sistemi economici capitalisticamente avanzati. Di fronte al dilagare della disoccupazione strutturale irreversibile, è maturata l’idea che occorresse creare, all’interno dei sistemi sociali economicamente avanzati, condizioni tali da consentire, non tanto la lotta contro la povertà, quanto il finanziamento di una domanda sufficiente a garantire lo stabile funzionamento del sistema economico.
L’esperienza riguardo al modo di funzionare dei moderni sistemi industriali ha da tempo evidenziato che, quando la gestione del sistema economico è lasciata all’azione discrezionale della politica, il perseguimento dei livelli occupativi, in assenza di un qualche automatismo autoregolatore, rende possibile una manipolazione dei flussi di reddito, tale da creare dei disavanzi nei conti pubblici a danno dei cittadini; è questa la ragione per cui sarebbe stata giustificata, l’introduzione nel sistema economico nazionale, che da tempo ha subito gli esiti negatuvi del deteriorarsi dei propri “fondamentali” economici, la necessità di una riforma radicale del welfare esistente.
Il sistema di sicurezza sociale, basato sul modello elaborato nel Regno Unito nel 1942 da William Henry Beveridge, aveva tre funzioni: fornire alla forza lavoro disoccupata la garanzia di un reddito, corrisposto sotto forma di sussidi a fronte di contribuzioni assicurative; garantire un reddito alle categorie sociali che, per qualsiasi motivo, avessero avuto bisogno di un’assistenza, nel caso in cui esse non godessero di alcun sussidio; assicurare al sistema economico servizi regolativi e di supporto all’occupazione, attraverso la realizzazione delle condizioni che davano titolo a ricevere i sussidi.
L’obiettivo fondamentale del welfare State è stato, sin dal suo inizio, univocamente determinato; il sistema però, a causa delle perdita della flessibilità del mercato del lavoro, ha scontato una crisi progressiva. Ciò perché la sua ragion d’essere era basata sulla premessa che l’economia operasse in corrispondenza del pieno impiego, o ad un livello molto prossimo ad esso, cosicché le contribuzioni della forza lavoro bilanciassero le erogazioni previste in suo favore. Pertanto, il sistema, così come era stato concepito all’origine, è divenuto largamente insufficiente rispetto all’evoluzione successiva della realtà economica e sociale, essendo stato progressivamente chiamato a coprire le emergenze conseguenti all’aumentata complessità dei sistemi economici; in tal modo, esso è divenuto costoso ed inefficiente, a seguito dell’espandersi delle varie forme di sussidio che è stato necessario corrispondere e dei costi burocratici per le “prove dei mezzi” (le prove, cioè, di trovarsi realmente in stato di bisogno) alle quali i beneficiari dei sussidi devono sottoporsi.
Le insufficienze del welfare State hanno orientato l’analisi economica ad assumere che la sicurezza sociale dovesse avere principalmente lo scopo di assicurare una costante flessibilità del mercato del lavoro e non quello di compensare la crescente insicurezza reddituale della forza lavoro. Il modo per rendere tra loro compatibili, in regime di libertà, da un lato, la flessibilità del mercato del lavoro e la sicurezza reddituale individuale, e dall’altro, l’efficienza del sistema economico, è stato individuato nell’istituzionalizzazione del RDC, da erogarsi incondizionatamente a favore di tutti e finanziato con le medesime risorse impegnate nel funzionamento del sistema di sicurezza sociale (l’attuale welfare); oppure mediante la distribuzione di un “dividendo sociale”, finanziato con le risorse derivanti dalla vendita dei servizi di tutti i fattori produttivi di proprietà collettiva, gestiti dallo Stato, mediante la costituzione di un “Fondo-capitale nazionale”, per conto e nell’interesse di tutti i cittadini. E’ stata questa l’idea originaria con cui James Edward Meade, insignito nel 1977 del premio Nobel per l’economia, parlando di dividendo sociale, ha introdotto nell’analisi economica il problema dell’istituzionalizzazione del RDC.
Il dividendo sociale, doveva essere corrisposto di diritto a ciascun cittadino sotto forma di trasferimento, indipendentemente da ogni considerazione riguardo ad età, sesso, stato lavorativo, stato coniugale, prova dei mezzi e funzionamento stabile del sistema economico. Il suo fine ultimo doveva essere quello di realizzare un sistema di sicurezza sociale che avesse riconosciuto ad ogni singolo soggetto, in quanto cittadino, il diritto ad uno standard minimo di vita, in presenza di una giustizia sociale più condivisa; un sistema di sicurezza, cioè, che avesse consentito di raggiungere, sia pure indirettamente, tale fine, in termini più efficienti ed ugualitari di quanto non fosse possibile con qualsiasi altro sistema alternativo.
Un problema assai dibattuto riguardo all’istituzionalizzazione del Reddito di Cittadinanza è stato quello di stabilire le modalità del suo finanziamento. Esso poteva essere assicurato con il ricupero delle risorse utilizzate per il funzionamento del sistema di sicurezza sociale esistente; in alternativa, Meade ipotizzava la distribuzione di un dividendo sociale finanziato con le rimunerazioni derivanti dalla vendita sul mercato dei servizi di tutti i fattori produttivi di proprietà collettiva, gestiti dallo Stato mediante la costituzione di un “Fondo Capitale Nazionale”, per conto e nell’interesse di tutti i cittadini.
In Paesi come l’Italia, dove è problematico pensare di poter realizzare in tempi brevi una riforma radicale del welfare esistente, o di reperire le risorse necessarie per finanziare il RDC mediante la costituzione di un “Fondo Capitale Nazionale”, la soluzione del problema può essere inserita nella prospettiva di un riordino dei diritti di proprietà, senza eccessivi stravolgimento degli istituti giuridici esistenti. I cambiamenti della vita sociale, imputabili alle modalità di funzionamento dei moderni sistemi economici, valgono infatti a giustificare una migliore ridefinizione dei diritti di proprietà; su questa nuova base, sarebbe possibile costituire un patrimonio collettivo per il finanziamento del “Fondo” da utilizzare per finanziare il RDC, concepito come reddito sul quale fondare la costruzione di un sistema di sicurezza sociale più efficiente di quello realizzato da William Henry Beveridge.
All’interno del nuovo sistema di sicurezza sociale, il RDC (o dividendo sociale, o reddito di base), oltre che garantire lo stabile funzionamento del sistema economico, svolgerebbe anche la funzione di risolvere sul piano sociale i problemi inevasi con l’attuale welfare State; in particolare, quella di assicurare una maggiore flessibilità al mercato del lavoro e un costante contrasto della povertà. Tali obiettivi diventerebbero perseguibili attraverso una responsabile politica riformista, idonea a riproporre su basi nuove l’organizzazione dello stato di sicurezza sociale vigente, ponendo definitivamente fine all’uso di provvedimenti-tampone, per rimediare alle situazioni sociali negative causate dalla crescente disoccupazione strutturale e dall’insorgenza di possibili crisi economiche inaspettate. Inoltre, sarebbero create le condizioni per la promozione, da parte dei percettori del RDC, di possibili gratificanti attività produttive autonome, i cui benefici effetti risulterebbero affrancati dalla natura di “prestazione caritatevole” dei sussidi di sopravvivenza corrisposti dall’assistenza statale.
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Il governo razionale dei beni comuni e il problema della scarsità
di Gianfranco Sabattini*

Il continuo dibattito sulla natura e l’uso dei beni comuni è condizionato dall’incertezza che pesa sulla loro definizione; da esso tuttavia sembra “emergere” una definizione che considera beni comuni tutte quelle risorse che risultano necessarie alla vita (perché preordinate a soddisfare stati di bisogno di particolare rilevanza per gli individui) e che, investendo i diritti fondamentali delle persone, si caratterizzano per la non esclusione dall’uso generale, con conseguente non assoggettabilità ad un prezzo, quale corrispettivo per il loro uso.
In tempi di crisi economica persistente, il dibattito pubblico in corso in Italia tende a porre la gestione dei beni comuni in controtendenza rispetto all’assoggettamento delle risorse alle logiche del mercato. Tuttavia, le incertezze persistenti sulla definizione di bene comune impediscono che dal dibattito emergano le linee di una politica di riforma istituzionale utile a prefigurare una loro razionale gestione; ciò, al fine di sottrarre i beni comuni alla cosiddetta “tragedia dei commons” che, in considerazione della loro non esclusione dall’uso generale, potrebbe condurre alla loro totale “distruzione”.
Il governo razionale dei beni comuni può essere infatti prefigurato solo tenendo conto, al pari di tutte le risorse economiche, della loro scarsità. Ciò perché, il fatto d’essere di proprietà comune comporta che all’intera platea dei proprietari sia assegnato a titolo individuale il diritto d’uso, mentre a nessuno di essi è concessa la facoltà di escludere gli altri. Se i proprietari che dispongono del diritto d’uso sono troppi, le risorse di proprietà comune potrebbero essere esposte al rischio della sovrautilizzazione; le stesse risorse, potrebbero essere esposte anche al rischio della sottoutilizzazione, a causa, ad esempio, di una definizione del diritto di proprietà dei beni comuni che potrebbe “margini” di interferenza nelle modalità del loro uso (come accade, per esempio, in Italia, nell’uso di ciò che resta dei cosiddetti “usi civici”, la cui utilizzazione da parte dell’operatore pubblico – di solito i comuni – è spesso contestata dall’intera comunità municipale, titolare del diritto di proprietà). In entrambi i casi, i proprietari dei beni comuni sarebbero “condannati” a subire gli esiti negativi della “tragedia dei commons”.
La “tragedia” è connessa al rischio che i beni comuni possano essere gestiti, come sostengono i “benecomunisti”, da operatori diversi dai loro legittimi proprietari, in quanto fruitori; i titolari della proprietà indivisa di beni devono infatti sostituirsi direttamente a qualsiasi forma di potere, privato o pubblico, nel determinare come gestire la conservazione e le forme di fruizione di tali beni. Tuttavia, perdurando lo stato di scarsità, la loro gestione di questi beni non può prescindere dalle leggi economiche tradizionali che indicano le modalità ottimali, sia per la loro conservazione, che per il loro uso.
La proprietà comune, in quanto riferita all’insieme dei soggetti che compongono una determinata comunità, è diversa dalla proprietà pubblica. A differenza dei beni comuni, quelli di proprietà pubblica possono essere gestiti direttamente dagli enti pubblici proprietari, sulla base di processi decisionali maggioritari (cioè sulla base delle maggioranze politiche pro-tempore esistenti). Poiché l’insieme dei proprietari-fruitori dei beni comuni non dispone di autonomi meccanismi decisionali, l’esercizio del diritto di proprietà comune e la gestione dei beni cui tale forma di proprietà si riferisce devono essere delegati alla responsabilità di un “soggetto operante” (quale, ad esempio, una cooperativa) che deve esercitarli in nome e per conto del delegante, la comunità, in funzione della volontà collettiva che essa esprime.
Con riferimento al governo e all’uso dei beni comuni, sorgono perciò gli stessi problemi presenti ancora oggi in Italia in molte realtà territoriali, con riferimento agli antichi “usi civici”, dove gli enti locali, sulla base di decisioni maggioritarie, amministrano risorse che, in quanto beni comuni, possono essere gestite solo dalla comunità olisticamente intesa come “un tutto”.
Il suggerimento di Elinor Ostrom, l’economista premio Nobel per l’economia 2009, che ha approfondito il tema dei beni comuni, si presta poco ad essere utilizzato per realizzare in termini efficienti il governo della proprietà di tali beni, secondo forme cooperative. L’intento del suo contributo è stato quello di pervenire ad una teoria adeguatamente specificata delle azioni collettive, mediante le quali un gruppo di operatori può organizzarsi volontariamente per utilizzare il frutto del suo stesso lavoro, o dei suoi beni di proprietà indivisa.
La Ostrom non crede nei risultati delle analisi teoriche condotte a livello di intero sistema sociale, ma solo nelle spiegazioni empiricamente confermate del funzionamento delle organizzazioni umane relative a specifiche e particolari realtà. Ciò perché, secondo la Ostrom, le analisi teoriche condotte a livello di intero sistema sociale comportano l’astrazione dalla complessità dei contesti concreti, per cui diventa probabile il rischio di rimanere “intrappolati” in una “rete concettuale” che astrae dalle realtà particolari.
Molte analisi condotte a livello di intero sistema sociale sarebbero perciò niente di più che metafore; ma affidarsi a metafore per gestire specifiche realtà può portare a risultati sostanzialmente diversi da quelli attesi. Un conto è spiegare come possono essere gestite in modo efficiente le risorse scarse di proprietà comune di una comunità di pescatori, oppure quelle di una comunità di allevatori; altro conto è spiegare come può essere realizzato, in condizioni di equità e di giustizia distributiva, il governo di tutte le risorse di proprietà comune di una determinata comunità nazionale.
In Italia il dibattito su come affrontare i problemi connessi alla realizzazione di uno stato del mondo più confacente alla gestione dei beni comuni si è svolto sinora prevalentemente con riferimento alla struttura istituzionale esistente. Questa, a causa dell’egemonia della logica capitalistica, secondo i “benecomunisti” avrebbe subito trasformazioni tali da determinare la crescente privatizzazione delle risorse disponibili. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, all’insegna del “terribile diritto” della proprietà privata e del misconoscimento di alcuni dettati costituzionali che ne salvaguardavano la funzione sociale, è stata realizzata la distruzione dell’economia pubblica e la privatizzazione di buona parte del patrimonio pubblico; processo, questo, che, non essendo ancora ultimato, è giusto motivo di preoccupazione per i “benecomunisti”.
Il movimento “benecomunista”, dotato prevalentemente di un’anima giuridica, considera i beni comuni, non già come beni economici aventi caratteri peculiari, ma come dei diritti universali, la cui definizione non può essere “appiattita” su considerazioni esclusivamente derivanti dalla teoria economica. Per dirla con le parole di Stefano Rodotà, il giurista che è stato tra i primi ad introdurre la questione dei beni comuni in Italia, “se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, [...] allora può ben accadere che si perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità ‘comune’ di un bene può sprigionare tutta la sua forza», in funzione della soddisfazione dei diritti universali corrispondenti ai bisogni esistenziali incomprimibili degli esseri umani.
I “benecomunisti” sostengono che, per evitare lo smarrimento della loro vera qualità comune, i beni comuni devono essere tolti dal mercato e salvaguardati giuridicamente per garantire a tutti la loro fruibilità. Ma come? Rodotà manca di dirlo; mentre è ineludibile, considerata la loro natura di risorse scarse, la necessità che siano stabilite le procedure da istituzionalizzate per governare la proprietà e la gestione dei beni comuni. Ciò al fine di evitare che la sola definizione dal lato del consumo di tali beni (intesi come fonte di soddisfazione di diritti universali) li esponga al rischio di un loro possibile spreco.
Tra l’altro, è necessario pervenire a una precisa definizione dei beni comuni, anche per stabilire quali dovrebbero essere realmente, tra le risorse disponibili, quelle da sottrarre alle leggi di mercato; se ci si riferisce, ad esempio, al trasporto pubblico locale, la mobilità delle persone nel territorio è un bene comune o è solo, tra gli altri, un bene il cui governo deve essere lasciato alle leggi di mercato? L’interrogativo potrebbe essere esteso ad una molteplicità di situazioni, sino ad includere nella classe dei beni comuni la maggior parte di tutto ciò che di momento in momento viene prodotto ed utilizzato all’interno del sistema sociale.
L’incertezza nella definizione dei beni comuni causa l’impossibilità di fare appropriati passi in avanti nella riflessione sulla riorganizzazione del quadro istituzionale che sarebbe necessario per una loro razionale gestione. I “benecomunisti”, mancando perciò di uscire dalla vaghezza definitoria su cosa sia un bene pubblico e quali siano le condizioni che valgono a trasformare una data risorsa in bene comune, “soffrono” dell’atteggiamento di chi è sempre propenso a valutare ex ante le proposte destinate a fare fronte a specifiche emergenze, senza il conforto di una valutazione sia pure potenziale ex post della loro desiderabilità ed attuabilità. Essi, infatti, trascurano che le proposte formulate in sede preventiva, senza un confronto con la modalità necessarie alla loro attuazione, corrono il rischio di rivelarsi fallimentari a posteriori.
Inoltre, le critiche che i “benecomunisti” rivolgono alla situazione istituzionale esistente mancano di prefigurare una struttura istituzionale alternativa, idonea ad esprimere “una progettualità di lungo periodo”. Tali critiche, infatti, si limitano ad affermare, in astratto, gli ostacoli che si oppongono al rispetto del mandato costituzionale che coniuga l’equità distributiva con l’efficienza economica e gestionale delle risorse delle quali dispone il Paese, mancando di considerare i problemi connessi con la forte territorializzazione che caratterizza di solito i beni comuni; nessun cenno viene fatto, inoltre, alle “politiche di infrastrutturazione” necessarie per garantire, a livello nazionale, l’accesso all’uso dei beni comuni localizzati solo in un dato territorio.
Per queste ragioni, le critiche dei “benecomunisti” tendono a risultare, dal punto di vista economico, quasi delle “scatole vuote”, utili solo a mobilitare sul piano ideologico l’opinione pubblica contro gli esiti della logica capitalistica; si tratta di critiche del tutto prive di ogni riferimento alla struttura istituzionale che dovrebbe essere realizzata, per garantire, a livello di intero sistema sociale ed economico, un razionale soddisfacimento dei diritti universali cui si fa riferimento. In altri termini, i “benecomunisti” mettono il carro davanti ai buoi, nel senso che la loro progettualità risulta finalizzata, non a prefigurare un possibile riformismo istituzionale, utile a consentire una gestione razionale dei beni comuni di proprietà collettiva, ma solo a correggere e contenere gli esiti indesiderati del funzionamento dei sistemi sociali capitalistici attuali; tutto ciò senza preoccuparsi di evitare gli esiti negativi dell’eccessiva propensione a rifiutare quanto dell’economia standard può risultare ancora idoneo a governare e salvaguardare i beni comuni.
Ciò sarebbe invece necessario, al fine di evitare che il rischio connesso al rifiuto ideologico delle leggi dell’economia standard possa causare anche inintenzionalmente la formulazione di strategie riformiste di lungo periodo svincolate dalla realtà. Uno dei peggiori sbagli che si possa commettere, nelle condizioni in cui versa attualmente l’Italia sul piano sociale ed economico, è pensare che una proposta astratta possa essere realmente attuata; sarebbe il peggior servizio reso al Paese, per via del fatto che esso finirebbe con l’essere ulteriormente penalizzato sovrastato dal funzionamento del proprio sistema economico in assenza di regole certe e concrete.
* Già pubblicato su Aladinpensiero online il 10 settembre 2019.

Oggi martedì 25 febbraio 2020

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Coronavirus. Che cavolata! nel dormiveglia penso “prove di stato di eccezione”?
25 Febbraio 2020
Amsicora su Democraziaoggi.
Amici e compagni, confesso, talvolta al fine settimana me ne vado in paese. Non c’è nulla di male e niente di straordinario. Un ritorno alle cose semplici, alla vita essenziale, a sa forredda. Mi accendo il caminetto e sto lì a leggere o a scribacchiare qualcosa. Otium alla romana e ozio all’italiana, e non so […]

Oggi lunedì 24 febbraio 2020

sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2senza-titolo1lampadadialadmicromicro13democraziaoggi-loghetto55aed52a-36f9-4c94-9310-f83709079d6d
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Allarme virus: problematicità contingenti e riflessioni di sistema. Tra emergenza e opportunità.
24 Febbraio 2020
Tonino Dessì su Democraziaoggi.
In queste settimane anche l’emergenza creatasi per il rischio epidemico del Covid-19 è diventata oggetto di manipolazioni per mano di propalatori di fakes e di diffusori di psicosi (sono i veri untori all’opera in questi giorni, destrorsi, sovranisti, rossobruni, xenofobi di varia estrazione), finalizzate esclusivamente ad alimentare polemiche politiche.
Credo […]
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logo-bari-2020-19-22-feb-2020Visita del Santo Padre Francesco a Bari in occasione dell’Incontro di riflessione e spiritualità “Mediterraneo frontiera di pace (19-23 febbraio 2020) – Intervento del Santo Padre, 23.02.2020
[B0119]
Discorso del Santo Padre

Oggi domenica 23 febbraio 2020

Festa del tesseramento Anpi 2020

Marcia per la Pace

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Oggi sabato 22 febbraio 2020

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Domenica Tesseramento ANPI 2020
La Giornata del Tesseramento dell’Anpi
”Dai forza all’antifascismo iscriviti all’ANPI”
Domenica 23 febbraio 0re 10-13
Piazza del Carmine.
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Referendum. L’assordante congiura del silenzio
22 Febbraio 2020
Alfiero Grandi su Democraziaoggi.
Il governo ha fissato una data molto ravvicinata per il referendum costituzionale. Ha prevalso la convinzione che potrebbe essere un pericolo, per chi vuole ad ogni costo il taglio del parlamento, dare più tempo ad elettrici ed elettori per capire su cosa voteranno il 29 marzo.
Del resto tutti i partiti presenti in parlamento, seppure […]

Oggi venerdì 21 febbraio 2020

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Oggi giovedì 20 febbraio 2020

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Referendum del 29 marzo e conseguenze per la rappresentanza sarda

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di Fernando Codonesu e Gianni Pisanu

Un referendum clandestino?

Poco ci manca. Al momento non è entrato neanche nel dibattito politico pubblico, quasi che si trattasse di un fatto secondario. Se ne parla poco e quando se ne parla sembra che se ne dia per scontato l’esito. La sensazione, anche tra gli addetti ai lavori, è che la legge sulla riduzione dei parlamentari abbia una durata breve e che non sopravviverà alla tornata referendaria del 29 marzo.

In effetti sembra un referendum tutto sommato richiesto per dovere d’ufficio, come se non avesse avuto una gestazione precisa da precisi genitori, con voti iniziali all’interno del centrodestra con l’opposizione del PD e un epilogo che ha visto il PD fare una inversione a U e votare compatto con i primi proponenti, il M5S e la Lega.

Osserviamo, infatti, che la Camera ha approvato definitivamente il taglio dei parlamentari facendo il pieno di voti: tutti i gruppi hanno votato il provvedimento che ha ottenuto 553 si, solo 14 no e due astenuti. Con una valutazione quasi unanime e, con un corollario non di poco conto: la riforma è stata approvata, ma nel contempo se ne è evidenziata la necessità di una sostanziale correzione (il classico “ma anche”), tanto è vero che la maggioranza ha condiviso un documento in cui si annunciava l’incardinamento entro ottobre di tre ulteriori riforme che avrebbero toccato gli articoli della Carta appena modificati.

Sappiamo bene che ciò è bastato per far gridare alla vittoria il M5S e l’opposizione di centrodestra, che aveva sperato fino all’ultimo in un flop che facesse cadere il governo. Per Di Maio, per esempio, anche per venire incontro alla posizione favorevole assunta dal PD governativo rimaneva la necessità di “attivare i pesi e contrappesi che servono a questa riforma”, e su questo ha assicurato “lealtà” agli alleati di Pd, Leu e Iv che, dopo essersi opposti nei precedenti passaggi, hanno votato a favore proprio per l’impegno formale a varare le altre riforme. Di questi ulteriori passaggi, però, non vi è traccia nell’azione di governo successiva all’approvazione della legge e ora, in fretta e furia, si è chiamati al voto, in un vuoto comunicativo sul tema che raramente si è visto nelle altre tornate referendarie relative alle riforme costituzionali e che consente poco se non nessuna possibilità di un approfondimento collettivo delle conseguenze della legge sulla riduzione del numero dei parlamentari.

Riduzione dei costi della politica?

Se questo è il modo di risolvere il problema siamo proprio messi male.

La grande questione di fondo, lo sappiamo, è la legge elettorale e la rappresentanza, ma al momento pare che ci si preoccupi di allungare il più possibile la legislatura con qualche speranza in più per farla giungere al suo termine naturale dei cinque anni, facendo innanzitutto salva la tornata delle nomine nei vari enti e società alle porte e sperando di evitare la possibile caduta del governo che è sempre dietro l’angolo, a causa della litigiosità continua tra i partner di governo e soprattutto dei ricatti e imboscate continue di Renzi il cui unico scopo è quello di combattere il suo ex partito, il PD e, possibilmente, sostituire Conte.

Renzi statista? Lasciamo perdere!

Ma torniamo alla sostanza, al referendum. I senatori che lo hanno richiesto con la raccolta delle firme, dopo alcune defezioni rispetto alle firme originarie e alcune new entry, sono 71 e sono così suddivisi per appartenenza politica Forza Italia (31), Lega (9), FI-UDC (3), Gruppo Misto (9), M5S (2), Italia Viva (2), PD (5), LEU (1) e un senatore a vita.
Come si vede, con l’esclusione di FDI, si tratta di una rappresentanza di tutti i partiti, di quelli a favore della legge e di quelli che erano contrari.
Qualcuno avrebbe anche potuto dire: “grande è la confusione sotto il cielo …”, ma qui rimane la constatazione di un pasticcio, un guazzabuglio, un gioco d’azzardo che non orienta gli elettori.
E non è frutto del caso, ma una scelta deliberata.
I vari partiti hanno fatto il classico gioco dell’oca, confidando sul fatto che l’elettorato li avrebbe costretti con il voto al ritorno nella casella iniziale.
L’impressione più che fondata è che questo risultato metterebbe al riparo tutti gli attori da ogni possibile critica.
Come in passato si chiede all’elettorato di porre rimedio ai guasti e all’ennesimo tentativo di scasso della Carta costituzionale. Per quanto ci riguarda, ancora una volta confidiamo che sarà l’elettorato a fare la differenza e a chiarire che la Costituzione non va modificata in questo modo: così è successo nel 2006 e nel 2016, così succederà anche questa volta.
La diminuzione della rappresentanza è grave per tutte le regioni e per la Sardegna lo è ancora di più.
Vediamo in dettaglio gli effetti della riduzione del numero dei parlamentari nella nostra regione e proviamo anche a valutare tutti i livelli di rappresentanza, a partire dal livello comunale.
Elezione diretta dei sindaci. Quello che si dice è che funziona, ed è vero se ci si limita al momento dell’elezione e dell’insediamento, in parte anche alla formazione della giunta. Ma, a causa del rapporto impari tra maggioranza e minoranza, l’opposizione è condannata esclusivamente alla testimonianza, senza alcuna possibilità concreta di incidere sulle scelte della Giunta pro tempore.
Peraltro, non mancano episodi di becero trasformismo sia all’interno dei consigli comunali come fra i componenti delle giunte e fra gli stessi sindaci eletti che in numerosi casi hanno cambiato e cambiano “appartenenza e colore” politico con una certa disinvoltura.
E le province? Si può dire non pervenute?
Le province sono un grande enigma, o più semplicemente un equivoco. Nessuno conosce i Presidenti commissari, non eletti, ma nominati e ripescati nelle file dei trombati nelle varie tornate elettorali. Quel che registriamo da anni è che il territorio di tutti gli ambiti provinciali sardi soffre in uno stato di abbandono e di degrado, a cominciare dallo stato delle scuole e della viabilità stradale.
Il Consiglio regionale è eletto con una legge malefica, scritta a suo tempo da Forza Italia e dal PD, di cui abbiamo parlato tante volte in varie sedi, una legge che si contraddistingue per rappresentare un vulnus democratico.
A differenza del passato si può affermare che in questa legislatura ha una composizione in linea con l’esito delle elezioni.
Si è trattato di una casualità, certo, ma in passato si sono verificati esiti che non rispecchiavano il voto e al riguardo basta ricordarsi dei casi di Michela Murgia e Mauro Pili nel 2014. Quella in vigore è una legge piena di difetti che abbiamo sempre criticato. Abbiamo cercato in tutti i modi di intervenire per ottenere quanto meno quei correttivi nei punti più critici evidenziati da vasti settori del mondo democratico sardo. Assemblee, incontri con politici e istituzioni: tutto inutile fino a ad ora.

Il livello parlamentare
La modifica apportata alla Costituzione riduce drasticamente il numero dei parlamentari da 630 a 400 i deputati, e da 315 a 200 i senatori. Per quanto riguarda la Sardegna i deputati dovranno passare da 17 a 10,793 (11), i senatori da 8 a 5,079 (5) ma si parla di 6 non si sa con quale fondamento.
La tabella che segue permette di fare il confronto tra il numero di eletti e il numero di elettori in vari stati europei, con la penalizzazione evidente del rapporto eletti/elettori in Italia se la nuova legge diventasse operativa.
Francia
Assemblea Nazionale 581 – 81.489
————
Germania
Bundestag 628 – 98.089
———-
Regno Unito
Camera dei Comuni 650 – 72.012
———-
Italia
Camera dei Deputati 630 – 80.916
Italia
Camera post riforma 400 – 127.442

Soffermiamoci ora sui riflessi che la drastica riduzione avrebbe sulla rappresentanza della e nella nostra realtà regionale e concentriamoci nel punto in cui si sentirà con maggiore negatività: il Senato, ma non si può certo dire che per la Camera andrà tutto bene.
Intanto non si sa come verranno scelti i 5 senatori, con quale legge elettorale, come saranno formati i collegi.
Nel merito della riforma nulla si sa delle idee o interventi tesi a incidere sulla funzionalità del bicameralismo, sulle migrazioni, sul nascere di nuovi gruppi parlamentari, sulla regolamentazione dei partiti, che “concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Sulla base del testo in discussione si prospetta una legge proporzionale con soglia del 5% che per il Senato ha un risvolto molto importante. Il Senato viene oggi eletto su base regionale, ma se ne prevede il superamento e questo costituirebbe un problema ulteriore. Infatti, se la soglia del 5% venisse applicata in circoscrizioni molto ampie, per esempio da 25 o 30 seggi con un accorpamento delle isole come succede per le europee, si rischierebbe di avere una rappresentanza del tutto marginale. Di fatto, se questa soglia di per sé già alta, non troverà applicazione in una circoscrizione chiusa come la nostra, considerato il peso elettorale complessivo della Sardegna, con il proporzionale formale del 5% su circoscrizioni che superano i nostri confini geografici avremo una soglia naturale che non potrà essere inferiore al 10 o 12%, con conseguenze per la rappresentanza territoriale simili a quelle delle elezioni europee.
E non solo. Si avranno conseguenze non solo in ordine alla insufficienza numerica dei rappresentanti del popolo sardo, ma anche nella composizione politica della rappresentanza. In tal caso alcune componenti geografiche e politiche saranno definitivamente tagliate fuori.
Sui risparmi, posto che si debba tirare in ballo questo argomento, possiamo fare almeno solo due osservazioni minimali. Primo, il numero dei parlamentari è ritornato in linea con quello dell’immediato dopoguerra, con il medesimo numero di parlamentari da eleggere oggi con una popolazione di oltre 60 milioni mentre nel dopoguerra era di appena 40 milioni, inferiore di un terzo rispetto a quella attuale; secondo, nessuno vieta un ritocco in diminuzione dell’appannaggio totale dei singoli eletti, magari ripensando e implementando un sistema a sostegno dell’attività politica mediante servizi e spazi dedicati di cui si parla episodicamente da decenni, ma non viene mai realmente portato a compimento.
Vi sono sicuramente altri problemi e argomentazioni da sollevare con la proposta di legge elettorale nazionale e su questo ritorneremo, ma in questo momento preoccupiamoci di dare tutto per il successo del NO, per il resto dovremo esserci con il meglio delle nostre energie, perché sono in gioco ancora una volta la rappresentanza, la democrazia e la nostra Carta costituzionale.

“Mediterraneo frontiera di pace” (Bari 19-23 febbraio 2020)

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Dialogo e parole nuove per il Mare nostrum
18 febbraio 2020 – 12:20, da Azione Cattolica Italiana fb.

Promosso dalla Conferenza episcopale italiana, si apre domani a Bari l’incontro di riflessione e spiritualità “Mediterraneo, frontiera di pace”, al quale parteciperanno 58 vescovi cattolici di 20 Paesi che si affacciano sul Mare Nostrum e che sarà chiuso dal discorso e dalla messa celebrata da Papa Francesco. Come sottolineato dal card. Gualtiero Bassetti, «ascolto e dialogo per costruire la pace è lo spirito che animerà l’incontro», nella speranza che il Mediterraneo torni ad essere il mare attraverso cui passano storie e pace, e non le rotte dei trafficanti di armi ed esseri umani. Dal confronto, stimolato da due introduzioni e portato avanti in otto tavoli di discussione, scaturirà un documento che sarà consegnato a Francesco. Quella del dialogo è un esigenza teologica, per la Chiesa. Basti rileggere il magistero degli ultimi pontefici. E il Mediterraneo è il naturale laboratorio in cui coniugare le parole e le azioni di persone, famiglie e nazioni che si incontrano.

Nell’enciclica Ecclesiam suam (1964), quasi un’anticipazione della «svolta» conciliare in ecclesiologia, Paolo VI ricordava l’impegno della Chiesa di oggi ad essere «colloquium», luogo non solo della Parola ma anche dell’ascolto, segno di una carità attuale. Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in veritate (2009), ricorda che non solo Logos, ma Dia-logos è il nome del Dio cristiano. Oggi è Francesco che fin dall’inizio del suo pontificato ha posto il dialogo a motto centrale della sua missione e nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium – il testo nel quale ne viene offerta la trattazione più ampia – si fa erede delle vie indicate dal Vaticano II, praticate dai suoi predecessori e riproposte dal Sinodo del 2012 dedicato alla nuova evangelizzazione. Sia all’interno che all’esterno della Chiesa, Papa Bergoglio propone la sua «pedagogia dell’incontro» e ribadisce che proprio la centralità della missione richiede il dialogo con tutti.
Dialogo, dunque, come esigenza teologica. Prodromo all’incontro e all’accoglienza.

Dialogare, però, non significa cedere al relativismo o perdere la propria identità. Anzi. La testimonianza di Pierre Claverie, vescovo domenicano ucciso in un attentato in Algeria il 1° agosto 1996, ci aiuta a focalizzare questo compito decisivo per gruppi e minoranze attive: «Ci siamo trovati a realizzare con mezzi poveri luoghi d’incontro e piattaforme per conoscersi e comprendersi meglio, con le nostre differenze e la pesante eredità dei nostri conflitti passati e presenti. Oggi non c’è nulla di più necessario e di più urgente che creare questi luoghi umani, in cui s’impara a guardarsi in faccia, ad accettarsi, a collaborare e a mettere in comune le eredità culturali che fanno la grandezza di ognuno. La parola d’ordine della mia fede oggi è perciò dialogo. Non per tattica o per opportunismo, ma perché il dialogo è alla base del rapporto tra Dio e gli uomini e tra gli uomini stessi»[1]. Il dialogo, che valorizza le esperienze umane, cristiane e religiose diverse, con quattro attenzioni forti: a) Il dialogo della vita, che si ha quando le persone si sforzano di vivere con lo spirito aperto e pronte a farsi prossimo, condividendo le loro gioie e le loro pene, i loro problemi e le loro preoccupazioni umane. b) Il dialogo dell’azione, nel quale i cristiani e gli altri credenti collaborano per lo sviluppo integrale e per la liberazione del loro prossimo. c) Il dialogo dello scambio teologico, nel quale gli specialisti cercano di approfondire la propria comprensione delle loro rispettive eredità spirituali, e di apprezzare ciascuno i valori spirituali dell’altro. d) Il dialogo dell’esperienza religiosa, nel quale le persone, radicate nelle loro tradizioni religiose, condividono le loro ricchezze spirituali, per esempio nel campo della preghiera e della contemplazione, della fede e dei modi di ricercare Dio o l’Assoluto[2].

Dieci parole del Mediterraneo: apertura, accoglienza, incontro, dialogo, democrazia, cooperazione, tutela dei diritti, canali migratori, rispetto del creato, intercultura
Il nostro mare, il Mediterraneo, può diventare un laboratorio culturale dove si coniugano le parole e le azioni di persone, famiglie e nazioni che si incontrano. Alla luce del prossimo riassetto geopolitico europeo che si va configurando, con la nascita di macroregioni, politicamente appartenenti a più Stati, ma anche con la presenza del Gect (Gruppo europeo di cooperazione territoriale), il Mediterraneo può costituire un luogo naturale, culturale, politico, economico dove unire non solo regioni europee, ma anche di continenti diversi (Africa del Nord e Medio Oriente). Ci sono dieci parole che possono costituire il lessico su cui costruire percorsi culturali, economici, politici e sociali.

Oltre all’apertura, all’accoglienza, all’incontro e al dialogo – di cui già abbiamo parlato – è importante rileggere la democrazia. Illuminante a questo proposito è la tesi di Amartya Sen in La democrazia degli altri. Anzitutto, che la dittatura non favorisce meglio della democrazia lo sviluppo economico – e la primavera del Nord Africa lo ha dimostrato. Sen, però, afferma anche che a fare la democrazia non è semplicemente l’estensione del diritto di voto o il diritto ad essere eletti per rappresentare idee, persone o mondi economici o sociali, ma il diritto di esprimere opinioni e proposte, e, quando occorra, anche protestare. Questa è la differenza tra una vera democrazia ed una solo formale, ed anche un regime autoritario. Sen continua con il dire che la democrazia, così intesa, non è affatto un’invenzione occidentale. Esisteva in Africa, in Cina, nell’India dell’imperatore buddhista Asoka e persino in quella dei Moghul: esisteva anche quando Alessandro giunse in India. Questo significa che, nonostante tutto, anche nel Nord Africa è rimasto in questi anni un germe di democrazia nella cultura e nell’esperienza religiosa, che è cresciuto e si è manifestato.

Con la democrazia cresce la cooperazione, intesa come condivisione di risorse e non semplicemente esportazione o delocalizzazione di risorse. Cooperazione che parte dai bisogni essenziali delle persone (salute, scuola, casa), guarda a tutti (uomini e donne, giovani e adulti), ma soprattutto indica modelli ed esperienze nuove di condivisione, più che di omologazione economico-sociale.

Democrazia e cooperazione chiedono una nuova tutela dei diritti, una nuova advocacy. Nella tutela dei diritti oggi, soprattutto a partire dai paesi che si affacciano al Mediterraneo, occorre guardare alla tutela dei diritti di chi è in mobilità, non solo per lavoro, ma anche per guerra e disastri ambientali, e chiedono asilo. Non si può abbandonare ai soli canali della tratta degli esseri umani questi spostamenti, ma accompagnarli con canali umanitari. La tragedia di molte delle persone in fuga nasce anche da un non rispetto del creato, dallo sfruttamento sregolato dei beni ambientali che rendono sempre più poveri i pin via di sviluppo. Infine, una parola importante è intercultura: un rinnovato scambio culturale, un nuovo progetto culturale che guarda anche fuori dalla propria tradizione e storia per incrociare culture e storie differenti che, nella storia del Mediterraneo, hanno reso nuove le nazioni.

[1] P. Claverie, Lettere dall’Algeria, Rizzoli, Milano pp. 31-33. In un altro testo del gennaio 1996 (Humanité plurielle), Pierre Claverie scrive: «Scoprire l’altro, vivere insieme con l’altro, ascoltare l’altro, lasciarsi anche modellare dall’altro, non significa perdere la propria identità, rifiutare i propri valori, significa concepire un’umanità plurale, non esclusiva».

[2] Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, Dialogo e annuncio, 1991, n. 41.

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- APPROFONDIMENTI.
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- L’evento di Bari sul sito web dedicato.

Ricordando Giovanni Lilliu e la battaglia per la lingua sarda, nell’ottavo anniversario della sua morte.

lilliu2di Francesco Casula
Lilliu era un personaggio suggestivo: sempre gentile e disponibile per un’intervista o per partecipare a un Convegno o a un’Assemblea, ti affascinava e ti conquistava con quel suo modo di fare modesto e quasi dimesso. Eppure è stato il più autorevole storico della Sardegna, la voce più importante e prestigiosa nel panorama culturale sardo – ma non solo – come archeologo e storico e per la sua cultura vasta e profonda. (segue)

Oggi mercoledì 19 febbraio 2020

sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2senza-titolo1lampadadialadmicromicro13democraziaoggi-loghetto55aed52a-36f9-4c94-9310-f83709079d6d
————————————–Opinioni,Commenti e Riflessioni,Appuntamenti———————————————
I cani come i figli o i figli come i cani?
19 Febbraio 2020
Amsicora su Democraziaoggi.
[…]

Nel Mediterraneo c’è il traffico di armi che impedisce la realizzazione della tregua in Libia. Geniale scoperta del ministro degli Esteri Di Maio. Una grande armata europea nei mari e nei cieli del Mare Nostrum contro i trafficanti

sedia-van-gogh4La sedia
di Vanni Tola

Domandina maliziosa. In Libia la tregua non regge perché un eccezionale traffico d’armi continua ad alimentare gli scontri. Proposta del genio Di Maio all’Europa. Organizzare un serrato pattugliamento dei mari e dei cieli per contrastare il traffico d’armi. Bene. Però come non ricordare che un discreto pattugliamento dei cieli e dei mari è stato attuato più volte per cercare i barchini dei “pericolosi” immigrati che volevano invadere l’Europa e attaccare i sacri valori religiosi e culturali del Vecchio Continente. Possibile che durante tali operazioni non si sia mai intercettata nessuna nave dedita al traffico d’armi? Mi pare strano. Le navi dei trafficanti sono ben più grandi dei barchini, si dovrebbero vedere meglio sui radar. E aggiungo un’altra notizia che probabilmente quel genio di Di Maio non conosce. Nel Mediterraneo si svolge da sempre anche un fiorente traffico di petrolio di contrabbando che, anch’esso, concorre non poco a finanziare il terrorismo e le parti in lotta nell’area medio orientale. Stesso interrogativo di prima. Il petrolio di contrabbando si esporta con grandi navi, i nostri potentissimi radar e i sistemi di vigilanza satellitare non possono non essersene accorti. Si combatterà anche il traffico di petrolio di contrabbando insieme al traffico d’armi? Vedremo. [segue]

Oggi martedì 18 febbraio 2020

sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2senza-titolo1lampadadialadmicromicro13democraziaoggi-loghetto55aed52a-36f9-4c94-9310-f83709079d6d
————————————–Opinioni,Commenti e Riflessioni,Appuntamenti———————————————
Libertà e Giustizia per il NO
18 Febbraio 2020 su Democraziaoggi.
Libertà e Giustizia sul Referendum sulla legge costituzionale relativa alla riduzione dei parlamentari

Da sempre Libertà e Giustizia si è impegnata a difendere la Costituzione nella consapevolezza che essa è un corpo vivente, i cui mutamenti devono mirare a renderla meglio preparata a rispondere alle sfide della società che cambia ma senza stravolgerne […]
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INAUGURAZIONE DELLA SCUOLA “COSTITUENTE TERRA”

costituente-terra-logoCOMINCIA LA SCUOLA DALLA PARTE DELLA TERRA

Si inaugura il 21 febbraio a Roma la Scuola “Costituente Terra” finalizzata alla promozione di un costituzionalismo mondiale. Il programma

ALLA BIBLIOTECA VALLICELLIANA, PIAZZA DELLA CHIESA NUOVA 18 ROMA

UN PENSIERO, UNA COSTITUZIONE, UNA POLITICA

Perché la storia continui
Venerdì, 21 febbraio 2020

Ore 11. “Una scuola, una biblioteca, un’idea”: saluto di Paola Paesano, direttrice della Biblioteca Vallicelliana.
“Chiediamolo al pensiero. Le ragioni di una Scuola”: Raniero La Valle.
“Perché una Costituzione della Terra?”: Luigi Ferrajoli.

Ore 15. Assemblea dell’Associazione promotrice della Scuola della Terra.
O. d. G.: Gli scopi, gli strumenti, le cattedre di salvataggio, lo Statuto, le cariche sociali, il come decidere, che cosa sperare.