Monthly Archives: giugno 2022

Oggi giovedì 23 giugno 2022

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22 Giugno 2022 su Democraziaoggi.
e2d5b0b8-ce6d-4e89-a162-b604ba1973beComitato No Armi Trattativa subito
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[Su L’Unione Sarda di giovedì 23 giugno 2022].
La Conferenza stampa di presentazione del Comitato presso la sede dell’Ordine dei giornalisti a Cagliari ha visto una larga partecipazione di pacifisti, anche via web, che con la loro presenza attiva hanno voluto esprimere il loro consenso e […]
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Costituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri

costituente-terra-logouna Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola

Costituente Terra Newsletter n. 83 del 23 giugno 2022
logo76Chiesadituttichiesadeipoveri Newletter n. 267 del 22?giugno 2022.
GUERRA MONDIALE CON SANGUE LOCALE

Carissimi,

Avvenire: il quotidiano cattolico fuori dal coro dell’informazione omologata.

743fcec0-1fdf-446c-8289-db79332f1ba8avvenire-loghettoL’INCONTRO
ROCCA 1 LUGLIO 2022
L’orrore delle armi il realismo della pace
d5f2bdef-9513-4c00-905d-f863e5ee9553 conversazione con Marco Tarquinio*

[a cura di Marco Bevilacqua su Rocca]

Fin dall’inizio del conflitto in Ucraina, Marco Tarquinio non ha avuto dubbi: reagire alla guerra con la guerra non porta alla pace, ma produce come unico risultato una tragica serie di carneficine. Il quotidiano che dirige, l’Avvenire, è schierato con decisione sulla linea pacifista. Recentemente su quelle pagine Luigino Bruni ha scritto: «ci volevano tremila anni di Bibbia e duemila di Cristianesimo per rispondere a un’invasione militare con il mestiere delle armi?». Partendo dall’assunto che l’origine delle guerre va sempre ricercata negli interessi economici, Bruni individua la principale causa del fallimento dell’umanesimo cristiano, in questo e altri drammatici frangenti, nella modalità di selezione delle nuove classi dirigenti: la maggior parte dei manager oggi è formata dalle grandi agenzie globali di consulenza, i cui linguaggi sono di chiara ispirazione militare; per averne conferma basta esaminare le parole-chiave in voga nei corsi di strategia d’impresa, tutti costruiti sul registro maschile e sulla competizione intesa come lotta per vincere (tanto che loser, perdente, è il nuovo insulto in questo mondo). Ebbene, da queste scuole non sono uscite soltanto le élite economiche e bancarie, ma anche buona parte dei politici e dei funzionari che detengono le leve del potere nel mondo.

Direttore, se ne deduce che il capitalismo di oggi, fortemente impregnato del concetto di leadership, sia per sua natura destinato a produrre conflitti…

Tutte le guerre hanno motivazioni di fondo di carattere economico, e anzi vengono combattute con le armi dell’economia. E non mi riferisco soltanto, come nel caso dell’Ucraina, alle sanzioni che vengono imposte in reazione a un’aggressione. Ci sono anche guerre non dichiarate combattute esclusivamente sul piano dell’economia; fra il 2011 e il 2022 ne abbiamo viste di tutti i colori: penso alle aggressioni che ha subìto la Grecia (ma anche l’Italia stessa) da parte del capitalismo finanziarizzato, prima che l’Europa decidesse finalmente di tornare sui suoi passi. I costi umani di guerre come queste non sono i morti sotto le bombe, ma le persone che perdono il lavoro, la casa, la protezione sociale, l’assistenza sanitaria, la dignità. Sono gli effetti del mercato globale così come l’abbiamo costruito, un mercato senz’anima e senza umanesimo, ma retto da logiche di predazione e da una competizione esasperata. Se un tempo si poteva dire che la guerra fosse la prosecuzione della politica con altri mezzi, oggi potremmo dire che la guerra non è altro che la prosecuzione dell’economia.

Quindi sì, questo capitalismo produce conflitti.

L’accumulazione di risorse non è in sé un male assoluto, ma produce effetti diversi a seconda dell’uso che se ne fa e della presenza o meno di controlli e correttivi. Oggi i disequilibri e le disparità sono diventati giganteschi, insostenibili. Mi sembra che abbiamo perso l’ancoraggio al sistema di equità che è elemento fondativo del mercato, è questo il problema vero.

Torniamo alla guerra in Ucraina e alle posizioni del pacifismo. Un paese aggredito e invaso militarmente come dovrebbe reagire nell’immediato se non difendendosi con le armi?

È questo l’interrogativo drammatico cui dobbiamo cercare di dare una risposta. Io penso che esista una forma di resistenza alternativa al ricorso alle armi, che anche quando è puramente difensivo contribuisce ad alimentare il numero delle vittime civili. Sto parlando della difesa nonviolenta, che non significa resa, ma volontà di resistere senza il ricorso alle armi restando al proprio posto, assumendo il rischio della violenza altrui senza contrapporle altra violenza. È la strada indicata da Gandhi, da Martin Luther King, da Nelson Mandela, da papa Francesco. È la strada indicata da Cristo al cospetto di chi veniva a crocifiggerlo. Molti dicono che questa non sia una strada realistica, io invece sostengo che sia iperrealistica, l’unica sensata in un mondo sempre più brutale. È la scelta di chi non vuole che sia immolata una sola vita per rispondere alla prepotenza altrui e sopporta i soprusi, la prevaricazione, l’offesa rifiutando di adottare i metodi dell’aggressore.

La guerra è il male assoluto, dunque, da qualunque motivazione sia mossa.

Dopo aver vissuto, da cronista e da cittadino, decine di guerre in ogni parte del mondo, posso dire che non ho mai visto un conflitto che si concluda con la sconfitta del più ‘cattivo’, con il ristabilimento di una giustizia che assicuri la felicità dei popoli che hanno subìto un’aggressione. La guerra porta sempre non solo morte e distruzione fra gli innocenti, ma anche fratture profonde e irrimediabili. Pensiamo solo a quanto è successo in Iraq, per effetto del conflitto innescato da noi occidentali per ‘esportare’ la democrazia: gli yazidi e i cristiani sono stati vittime quasi invisibili del dopoguerra, i primi annientati dallo stato islamico, i secondi ridotti a una sesta parte di quel che erano. Per non parlare della Siria, dove una guerra alimentata da diverse ambizioni ha finito con il cancellare il mosaico sociale e religioso che esisteva pacificamente, pur sotto la cappa oppressiva del regime degli Assad. I conflitti arricchiscono qualcuno, ma portano all’annientamento di intere comunità, a epurazioni e segregazioni, e provocano ulcerazioni insanabili nei tessuti sociali. Le migliaia di morti che ne sono l’effetto più diretto hanno l’unico scopo di fare da piedistallo ai tavoli sui quali si concludono i negoziati e si siglano i trattati di pace, che potrebbero essere firmati prima delle carneficine, senza sacrificare nessuno al moloch della violenza. Dalla caduta del Muro di Berlino in poi, il grande fallimento di questi decenni è non aver saputo escludere la guerra dall’ordine mondiale, e non per paura dell’arma assoluta di distruzione di massa, ma per il desiderio di realizzare un equilibrio nuovo e diverso.

Se rispondere con le armi alle armi è deleterio, specie quando il conflitto minaccia di estendersi nel tempo e nello spazio, la via delle sanzioni imboccata da una parte della comunità internazionale per isolare la Russia può produrre risultati dirimenti?

Io sulle sanzioni ho un giudizio critico. Tranne che nel caso del Sudafrica, dove l’apartheid alla fine è stata sconfitta anche grazie all’isolamento internazionale, non ho mai visto cadere dittatori e oppressori per effetto di sanzioni. Le sanzioni non piegano i tiranni, ma piagano i popoli. Nel caso dell’Ucraina, per essere efficaci nel tentativo di fermare Putin, avremmo forse dovuto noi fare il sacrificio supremo, cioè chiudere completamente e fin dall’inizio, non gradualmente come si sta facendo, il rubinetto del gas e delle altre fonti fossili provenienti dalla Russia e affrontare scientemente e coraggiosamente la recessione e un prezzo sociale più pesante di quello che in ogni caso pagheremo. I nostri governi avrebbero dovuto spiegare all’opinione pubblica che tale scelta immediata sarebbe stata l’unica che consentisse di non fare il pieno ai carrarmati di Putin con i nostri soldi. Altrimenti si entra nel paradosso che stiamo vivendo: l’Europa sta aiutando l’Ucraina ogni giorno e in mille modi, ma contemporaneamente ogni giorno consegna nelle mani dei russi un miliardo di dollari per acquistare energia. Questa guerra, come sempre accade, sta arricchendo a dismisura i produttori di armi e si prepara a fare altrettanto con chi avrà il compito di ricostruire; e oltre a tutto ciò, nessuno si sogna di sospendere gli affari più lucrosi, quelli connessi al mercato energetico, che procedono come niente fosse. E così, l’aggressore viene esecrato e condannato, ma al tempo stesso resta il partner economico privilegiato.

Quella in Ucraina non è l’unica guerra in corso, purtroppo. Ce ne sono molte altre, in tutti gli angoli del mondo. Il suo giornale ne parla diffusamente, in una sorta di rubrica quasi quotidiana. Quanto è importante darne conto all’opinione pubblica?

India e Pakistan (entrambi potenze nucleari, non va dimenticato) combattono fra loro per il Kashmir da più di 27 mila giorni, con migliaia di morti.
In Congo cinque eserciti si affrontano per il controllo delle terre rare, essenziali per mantenere il sogno digitale delle società opulente. Nel mondo ci sono attualmente 169 conflitti aperti. Conoscerne le motivazioni, poter valutare quali siano le forze in campo e la posta in gioco aiuta a comprendere la realtà, a formarsi un’opinione libera dai luoghi comuni del mainstream. A capire magari che, nel gioco di egemonie fatto sulla pelle dei deboli, quelli che sono i ‘cattivi’ su un fronte talvolta sono anche i buoni soccorritori su un altro.

La guerra in Ucraina è anche un duro banco di prova per l’Europa. Come vede il futuro dell’Unione, alla luce delle sue divisioni interne sempre più marcate?

Temo che l’Unione Europea uscirà con le ossa rotte da questa crisi. Spero naturalmente che non sia così. Spero che, in questa tempesta, fra Mosca e Bruxelles non venga meno la possibilità di costruire un ponte che non escluda Kiev, ma la coinvolga in una forma diversa. L’Europa non deve rinunciare al suo ruolo di grande laboratorio di integrazione pacifica delle differenze, delle etnie, delle culture. Servono coraggio, creatività e coesione. Creare una difesa comune europea, magari chiaramente ispirata ai principi della nonviolenza e affidata in parte a militari e in parte a corpi civili di pace, servirebbe a rompere lo schema del riarmo nazionale e nazionalistico, che oggi rappresenta un ulteriore fattore di rischio per la stabilità internazionale. Auspico poi che nella crisi ucraina si produca una svolta grazie all’impulso diplomatico di Stati come la Germania e la Francia, specie quest’ultima, dato che è una potenza nucleare ed è membro permanente del consiglio di Sicurezza dell’Onu. Se riusciamo a capire che aiutare gli ucraini a fare la guerra non è l’unico modo di aiutarli, magari questa orribile tragedia potrebbe trasformarsi da macigno che seppellisce l’Europa a volano che ne rilancia il ruolo e il senso.

E l’Italia?

Ai tempi della famigerata Prima Repubblica, in caso di conflitti l’Italia riusciva sempre a tenere aperti canali di comunicazione con tutte le parti in causa, come nel caso di Israele e dei palestinesi. Anche durante i decenni della guerra fredda, i rapporti con Mosca non sono mai stati chiusi, e non solo per merito del Pci e delle sue peculiarità di grande partito di sinistra inserito in una dialettica politica democratica. Ora invece mi pare che per l’Italia questo contributo di dialogo sia venuto meno, per la mancanza di una linea di politica estera ben definita.

Gli Usa sono credibili come nazione guida delle democrazie occidentali e della Nato mentre al loro interno si susseguono con impressionante frequenza le stragi di innocenti causate da una indiscriminata circolazione delle armi? Gli autori delle stragi sono quasi sempre dei disadattati, persone isolate dalla comunità e a loro volta spesso vittime di violenze, segregazione, bullismo. Evidentemente siamo di
fronte a una società che non è in grado di gestire e curare un disagio che poi esplode in modo incontrollato.

Quando circolano tante armi, i disagi si armano. Va ricordato che tre quarti dei morti per arma da fuoco negli Usa sono suicidi, cioè persone fragili che fanno del male a se stesse.
L’America che continua a garantire come elemento di libertà inossidabile il poter disporre liberamente di armi non è certo il paese guida delle democrazie. Lo è però quando si riconosce nelle idee e nell’operato di persone come Robert Kennedy, l’uomo che, da ministro della Giustizia, fu capace di accompagnare la rabbia dei neri dopo l’assassinio di Martin Luther King con le armi della protesta civile, con un grande progetto di integrazione e di pacificazione. È quella l’America in cui mi riconosco: se Bob Kennedy fosse diventato presidente, sono certo che avrebbe indirizzato la parabola della democrazia americana in una direzione storica diversa da quella che poi è stata ed è oggi,
compresa la questione della circolazione di armi. Penso che avremmo potuto anche costruire una globalizzazione
diversa da quella che si è poi verificata. Il solco tracciato da Robert Kennedy (e in misura minore anche, prima di lui, da suo fratello John) attinge alle radici più belle e vigorose della democrazia e attende ancora di raccogliere un testimone. Anche se è un impero declinante, e sempre più esposto a una rivalità frontale con l’ascendente potenza cinese, la democrazia americana ha ancora grandi riserve positive al suo interno, e se saprà dialogare con l’Europa potrà continuare a essere non già il gendarme del mondo, ma una delle sue guide virtuose. Perché, esattamente come l’Europa, l’America è vincente quando è capace di attrarre con il proprio modello, non quando pretende di esportarlo sulla punta delle baionette che oggi sono i droni e le armi robotizzate.

I lettori dei giornali tradizionali sono in costan- te calo. I talk show privilegiano commentatori sempre più litigiosi e divisivi, i social alimentano la diffusione di notizie false o non verificate e soprattutto diffondono una visione del mondo basata sulla contrapposizione frontale. È sempre più difficile distinguere un fatto da un’opinione, e spesso ci sono fatti che non producono notizie e notizie che non hanno dietro un fatto. Che sta succedendo al mondo dell’informazione?

L’efficacia e il valore di ciò che circola oggi nel mondo dell’informazione dipendono anche dal grado di consapevolezza e dall’assunzione di responsabilità da parte dei lettori e dei fruitori di tali flussi, che al tempo stesso ne sono anche autori. Ma coloro che io chiamo i custodi dei pozzi di acqua potabile, cioè i giornalisti e i comunicatori di professione, continueranno ad avere un ruolo importante: sono loro prerogative la deontologia professionale, l’impegno solenne a garantire l’aderenza delle notizie ai fatti e la chiarezza nel qualificare chiaramente le opinioni come tali. Più la realtà si fa complessa e multiforme, più le persone avranno bisogno di informazioni solide e verificate. Il primo anno del Covid lo ha dimostrato chiaramente: nella mole gigantesca di dati e suggestioni in circolazione, nella quale spesso hanno regnato sovrane improvvisazione, dicerie e vere e proprie invenzioni, si è avvertita come non mai l’esigenza di trovare notizie attendibili e verificate, che aiutassero davvero a comprendere la situazione. Oggi la tendenza è sicuramente quella di trasformare le informazioni in slogan, come quelli che usano i politici ‘di grido’, mi consenta il termine, che utilizzano i social per sbraitare le loro verità e conquistarsi un consenso del tutto effimero. Il giornale, anche quello non su carta, non è soltanto un elenco di notizie o un palinsesto costruito grazie a un motore di ricerca che seleziona le firme che già conosciamo e gli argomenti che prediligiamo. È la preghiera laica del mattino, come diceva Hegel; è il racconto di un giorno della vita nel mondo, al quale cerca di dare un senso offrendo al lettore delle chiavi di lettura. Il mondo giornalistico dovrà in qualche modo riassestarsi, riposizionarsi organizzativamente sui nuovi media, ma lo spazio per un’informazione seria ci sarà sempre, se ci sarà sempre qualcuno capace di ascoltare davvero gli altri e disposto a battersi per garantire la libertà, l’approfondimento e la non omologazione delle notizie.

Marco Bevilacqua

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* Marco Tarquinio dal 2009 è direttore del quotidiano Avvenire. La linea editoriale del suo giornale è fortemente incentrata sui temi della pace, della lotta alla diseguaglianze, della giustizia e della sostenibilità economica e ambientale. Molta attenzione viene riservata alle esperienze del Terzo settore e della cosiddetta «economia civile»
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Una piacevole sorpresa: Luigi Ferrajoli e la Costituente Terra tra le tracce della maturità 2022. Entusiastica approvazione degli Amici sardi di Costituente Terra e di Aladinpensiero.

ferrajoliTRACCIA C1 MATURITÀ 2022: LUIGI FERRAJOLI E IL COVID NELLA PRIMA PROVA

Un tema in Maturità 2022 sulla pandemia Covid-19 non era nemmeno quotato e in effetti alla fine i toto-traccia ci avevano azzeccato: per la tipologia C1 in Prima Prova dell’Esame di Stato 2022 è infatti stato scelto un brano di Luigi Ferrajoli tratto da “Perché una Costituzione della Terra?”.
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(Sotto la traccia ufficiale).

Oggi mercoledì 22 giugno 2022

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Appello no armi-trattativa subito. Oggi Mercoledì 22 giugno Conferenza stampa
22 Giugno 2022 su Democraziaoggi.
Comitato No Armi Trattativa subito
Conferenza stampa di presentazione oggi mercoledì 22 Giugno 2022, ore 11, presso la sede dell’Ordine dei giornalisti a Cagliari via Barone Rossi 29.
Collegamento zoom:
https://us06web.zoom.us/j/84775836754?pwd=ZXhwbGI2TDJtc1pwMFVTdW94aTRiQT09

Care Compagne e compagni, amiche e amici,
Dopo il primo […]

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ab97534b-70a3-4de0-a5c6-a9354309a4b2Diffidare sempre dei saltimbanchi, puntare sull’usato sicuro
22 Giugno 2022
A.P. su Democraziaoggi
E’ passato troppo poco tempo da quando Di Maio, ripetendo le parole di Grillo, parlava di un modo nuovo di far politica di moralità e di rigore. Molti lo hanno apprezzato per questo, vedendo in lui e in altri giovani pentastellati una nuova leva politica su cui contare. Che dire oggi, quando, a distanza di […]
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Mosaico dei giorni
Italia assente ingiustificata
9548c987-dd84-4771-b8cf-1fb2518ed67322 giugno 2022 – Tonio Dell’Olio
Ma che brutta figura! Il governo italiano è l’unico dell’Unione Europea a far parte del nuclear sharing, il gruppo di Paesi che pur non producendo proprie armi nucleari ospitano testate di altri Stati alleati, ad aver deciso di non prendere parte alla Conferenza degli Stati parti del Trattato per la proibizione delle armi nucleari che ha preso avvio ieri a Vienna. Germania, Belgio e Olanda, che sono nella nostra stessa condizione ospitando armi nucleari statunitensi, ci sono, l’Italia no. [segue]

E’ online Rocca numero tredici/ventiventidue

8a995178-c0b4-4bfc-99a5-f122b2920076A PARTIRE DA UN ARTICOLO DI ENZO BIANCHI
l’operazione del granchio
Editoriale di Mariano Borgognoni, Rocca 13/2022

Ho sempre apprezzato la chiarezza con cui Enzo Bianchi ha affrontato le questioni essenziali della fede cristiana, la sua capacità di spogliarla di tutte le sovrastrutture e di coglierne il nucleo, quell’elemento sul quale essa sta o cade. Per questo non sono rimasto sorpreso, come altri, quando ho letto un suo recente articolo su Repubblica, nel quale afferma che: «se non si crede che Gesù Cristo è vivente, è risorto da morte e ha vinto la morte, che ragione c’è a professarsi cristiani? Se non si crede che la morte è solo un esodo, che ci saranno un giudizio sull’operato umano e una vita oltre la morte, perché si dovrebbe diventare cristiani e perseverare in questa appartenenza?». Sono andato subito a ripescare nella mia libreria un piccolo libro-intervista dal titolo Ricominciare, pubblicato dalla Marietti nel 1991. In esso il fondatore della Comunità di Bose, citando un Padre della Chiesa del IV secolo, scrive una cosa che allora, 31 anni fa, mi colpì molto: «è come nella caccia alla volpe, dove i cani che non l’hanno vista, prima o poi si stancano, rinunciano e tornano a casa; mentre quei pochi che hanno visto la volpe proseguiranno la loro caccia fino in fondo». «Ecco» – chiosa fratel Enzo – «il problema è far vedere la volpe ai giovani, far conoscere Gesù Cristo. Poi il resto, compreso l’agire etico, viene da sé». Per questo non mi sorprendo nemmeno quando Bianchi, in un articolo successivo, torna a criticare il moralismo e l’ossessione sessuofobica delle gerarchie ecclesiastiche e apre, semmai, una questione che chiamerei di democrazia nella Chiesa. Perché certo la Chiesa non è una democrazia ma nel senso che dovrebbe essere più che democratica, non meno. Mi sento francamente vicino alle posizioni espresse con molta
parresia da Enzo Bianchi. Credo che anche nell’areopago moderno bisogna osare l’annuncio nella sua essenzialità ed intierezza, anche scontando l’incomprensione a cui andò incontro Paolo ad Atene. I surrogati non conquistano nessuno. La riduzione della fede ad etica, del paradosso evangelico ad istanza morale, direi perfino della redenzione a giustizia sociale, è un’operazione che non porta lontano, perché non c’è bisogno della religione per essere in grado di darsi istanze etiche, morali, sociali, spirituali. In questa direzione, storicamente parlando, le religioni hanno talvolta aiutato, talaltra ostacolato il cammino della convivenza e della giustizia umane. Ai cristiani, peraltro, non può bastare il «non possiamo non dirci cristiani» di Benedetto Croce, una specie di milieu genericamente cristiano nel quale una sorta di religione civile inghiotte la scorza e sputa la polpa della fede. Alla fine questa via porta a una diluizione del tutto analcoolica del messaggio evangelico. Bisogna invece fare l’operazione del granchio che per rigenerarsi si libera del carapace.
Se la corazza ti soffoca devi liberartene, sarai più fragile, avrai bisogno di un periodo di nascondimento, ma questo infine ti riporterà a contatto con la linfa vitale delle origini che, altrimenti, rischia di essere sepolta dal nobile e dall’ignobile di una lunga storia. Ciò che è decisivo non è aggiungere ma togliere. Detto questo, cioè detto il cosa annunciare, non si può non affrontare il come, che è altrettanto importante.
Non sarebbe una cattiva idea scegliere la strada indicata dalla Lettera a Diogneto: vestire, lavorare, vivere come tutti nella città comune ma saper dire o fare in molti modi la parola o il gesto della fede. Essere «liberi sopra ogni cosa e non sottoposti ad alcuno e servi in ogni cosa e sottoposti ad ognuno» secondo la celebre definizione luterana. E così rendere ragione della nostra speranza. Avere radici ma senza che esse diventino catene. Lungo questa impostazione, direi a caduta, dovrebbero essere messe sul tavolo le scelte a cui il Sinodo, sinodalmente è chiamato. Poche e chiare decisioni e non un parlare a vuoto di tutto. Faccio per dire: in un universo ecclesiale clericocentrico, con i ruoli fondamentali tutti al maschile aprire almeno al diaconato femminile per inaugurare una riflessione ancor più di fondo sui ministeri; operare un rinnovamento liturgico che renda comprensibili e vive le celebrazioni; rendere possibile a tutti i battezzati di presiedere gli organismi parrocchiali, diocesani, fino alla Curia romana, etc.
Quanto al come non è poi irrilevante affrontare il contesto sociale e culturale, saperne leggere le caratteristiche e le tendenze di fondo. Non è questo un perditempo sociologico poiché, fermo l’annuncio nella sua nudità, è necessario comprendere la cornice nella quale collocarlo, bisogna capire la «lingua» dei contemporanei se non si vuol rischiare di essere fraintesi o del tutto inascoltati. O, come spesso nella liturgia, proporre formule insapori, inodori e incolori o, peggio, talvolta del tutto non accettabili a noi stessi che le recitiamo (nel senso peggiore della recita). Il problema è che se il moderno ha secolarizzato l’idea di salvezza affidandola per intero alla scienza o alla rivoluzione, il contemporaneo ha secolarizzato la secolarizzazione rendendo irrilevante l’idea stessa di salvezza. La parola redenzione, anche in termini laici, è scomparsa. Nella sua seconda enciclica, la Spe salvi (2007), Benedetto XVI parla di una crisi della speranza che erode la base della fede. Viene in mente il verso leopardiano: «nonche’ la speme il desiderio è spento». Nello schiacciamento sul presente e sull’immediato non solo si attenua la capacità di pensiero lungo, ma anche la coltivazione di desideri profondi che domandano perseveranza e senso dell’attesa. E se non si attende un non ancora si colpisce con il martello il nervo scoperto della fede dei cristiani, che sta molto in questo attendere inteso come fare e aspettare insieme, secondo la ricchezza del suo etimo nella nostra lingua. Eppure tanti segni ci dicono come sotto un apparente debole narcisismo, si nasconde il «calderone ribollente» tipico della condizione umana, perché in fondo resta vero che il presente non basta a nessuno. Le grandi narrazioni di senso, tutte, anche quelle totalmente immanenti avevano un elemento di trascendimento, un orizzonte, starei per dire un territorio del sacro, dell’oltre, che resta decisivo non solo per la salvezza ma anche per la salute dei terrestri. Ma quell’oltre e specificamente quello che indicano i cristiani deve anche evitare, per essere credibile, che il non ancora mangi del tutto il già. Per questo la Chiesa non può blindarsi nei recinti dove spesso il troppo umano viene sacralizzato. La Chiesa in uscita che insieme a tutti prova ad alleggerire il mondo dalle ingiustizie e a curare i percorsi di umanizzazione, non è l’alternativa all’annuncio della risurrezione ma è l’unico modo per anticiparne, sia pure poveramente, la logica, il senso, il bisogno, il sogno.

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Dibattito
Autodeterminazione dei popoli e responsabilità globale
di Giannino Piana su Esodo

Chi è favorevole all’invio delle armi all’Ucraina dice che per la difesa della libertà si deve rischiare di perdere la vita, tra la libertà e la vita il primato è della libertà, come nel caso del fine vita. Consideri valida questa contrapposizione e pensi legittimo il paragone con il caso del suicidio assistito?

La libertà è senz’altro un grande valore che non può essere sottovalutato: ne va dell’identità stessa del soggetto umano. Ma occorre intanto distinguere tra la libertà personale e quella di un popolo, del rispetto cioè della sua autonomia territoriale e di governo a livello socio-economico e politico. Nel primo caso – quello della libertà personale – il singolo, laddove gli venga negata la possibilità di vivere nella fedeltà ai valori in cui crede, e sia dunque obbligato ad andare contro la propria coscienza, o venga costretto a rinnegare la propria fede religiosa può anche mettere a rischio, fino a perderla, la propria vita. Non è stata forse questa la testimonianza dei martiri cristiani?

Diverso e più complesso è il discorso relativo alla difesa della libertà da parte di una nazione ingiustamente invasa da un’altra nazione. La reazione a questa situazione dando vita a una vera guerra, sia pure difensiva (e di conseguenza la fornitura di armi da parte di altri Paesi come sta avvenendo in Ucraina), è eticamente inaccettabile. Non esiste guerra giusta! Il dilemma libertà-vita non può dunque che risolversi a favore della vita, e questo tanto più se si considera che l’autorità che decide l’intervento bellico coinvolge la vita di altri, che non sempre sono d’accordo a metterla a repentaglio (o a perderla) per una causa che possono anche non condividere. Questo non significa che si debba rimanere inermi di fronte a un attentato alla propria libertà nazionale, ma che occorra scegliere altre vie di difesa, che vanno dalle operazioni di polizia internazionale – purtroppo oggi di difficile esecuzione per l’inesistenza di organismi internazionali adeguati, Onu inclusa – alla difesa nonviolenta e alla mediazione diplomatica. D’altra parte, a spiegare l’esasperazione dei conflitti, che conducono alla guerra – il caso della Russia e dell’Ucraina rientra in questo quadro – concorre oggi la rinascita esasperata dei nazionalismi e dei patriottismi, che rappresentano una forma di reazione nei confronti del declino degli Stati-nazione, il cui potere è sempre più limitato dall’avanzare della globalizzazione, a causa della quale i processi socioeconomici e politici scavalcano di continuo le loro frontiere. Quanto al paragone con il suicidio assistito non mi pare esistano le condizioni per un confronto. Intanto nel caso del suicidio assistito si tratta di una scelta del singolo individuo, la cui legittimità dovuta all’applicazione del principio di autodeterminazione non è lasciata, anche da parte di chi la sostiene per motivazioni etico-religiose – si vedano gli interventi puntuali di Hans Kung e delle chiese protestanti – all’arbitrarietà della decisione personale, ma comporta il verificarsi di precise condizioni oggettive dalle quali non è possibile prescindere. Il principio di autonomia e di autodeterminazione non è assoluto; deve fare i conti in bioetica con altri principi – beneficenza e giustizia sociale – che ne limitano l’esercizio.

Nel caso della guerra attuale, viene affermato il valore assoluto della libertà e dell’autodeterminazione del popolo ucraino: se si porta fino in fondo questo principio, oltre al rischio nucleare, ci sono conseguenze terribili per le fasce più povere in Europa ma soprattutto in Africa. Intere popolazioni rischiano la fame e la morte. Questa è una conseguenza indiretta, ma facilmente prevista, che va considerata, in una valutazione etica? In un mondo interconnesso, che peso hanno le valutazioni etiche di un’azione legittima e doverosa con conseguenze negative per la vita e la libertà in altre aree del mondo?

L’autodeterminazione (e la libertà) anche in questo caso come in quello della bioetica non può essere considerato un principio assoluto. Le terribili conseguenze ventilate sono realistiche. Il rischio è di scatenare una vera guerra mondiale, con pesanti ricadute negative soprattutto sulle fasce più povere della popolazione. E questo anche perché il sempre più consistente incremento delle diseguaglianze sociali e tra i popoli – incremento dovuto alla persistenza di un sistema economico, che, nonostante le molte falle non solo di ordine etico, ma anche produttivo (si pensi soltanto al primato dell’economia finanziaria su quella reale) – rende impossibile la realizzazione di un’equa distribuzione della ricchezza e, grazie al prevalere della logica consumista, impedisce che si giunga a un effettivo cambiamento degli stili di vita, reso necessario anche dalle dimensioni drammatiche assunte dalla questione ecologica. L’interconnessione del mondo, in ragione del fenomeno già ricordato della globalizzazione, conferisce un peso determinante a scelte come quella cui si fa qui riferimento. La valutazione etica dei processi che si innescano in un’area circoscritta del pianeta non può limitarsi a considerare gli effetti che si producono su tale area; deve avere come referente la situazione mondiale. E questo anche in presenza di buone ragioni per ritenere legittimi i processi che si intendono attivare ma le cui conseguenze vanno valutate in una prospettiva universalistica.

Putin viene paragonato a Hitler come il “male assoluto”: la difesa dell’Ucraina è quindi la difesa del Bene contro il Male, dei valori assoluti contro i disvalori assoluti. Siamo in un nuovo “scontro di civiltà”. Non c’è quindi spazio per la democrazia e l’accordo. Da un punto di vista etico è corretta questa impostazione? Che significa la distinzione fatta da Giovanni XXIII tra il peccato e il peccatore?

Il paragone tra Putin e Hitler è assolutamente inaccettabile. Intanto per il mutato contesto storico. Ma soprattutto per la diversa gravità degli interventi. Non va certo sminuita la responsabilità di Putin nei confronti di delitti efferati, frutto di un regime autoritario, che si difende non lasciando alcuno spazio alla critica e al dissenso, anzi cancellandoli anche attraverso operazioni di tragica violenza. Così come si deve condannare con forza, senza se e senza ma, la sua invasione dell’Ucraina. Il che non deve tuttavia condurre alla sottovalutazione delle responsabilità dell’Occidente – America ed Europa – che ha concorso con alcune prese di posizione a esasperare la
tensione. La contrapposizione tra Male assoluto e Bene assoluto non è plausibile e contribuisce, se esasperata, a dare vita a quel deplorevole “scontro di civiltà”, che vanifica ogni possibilità di mediazione diplomatica. La situazione della guerra in Ucraina non può certo trovare sbocco positivo se – come peraltro purtroppo finora avviene – si assumono da ambo le parti posizioni di radicale intransigenza. La possibilità di una trattativa efficace è legata, oltre che all’abbandono di giudizi drastici come quelli ricordati, alla volontà di trovare un punto di accordo, che presuppone la rinuncia a qualcosa da tutte e due le parti. La distinzione proposta da papa Giovanni tra il peccato e il peccatore (o tra l’errore e l’errante) riflette il “non giudicate” evangelico, che non riguarda tanto l’azione, che deve essere valutata con rigore e di cui va denunciato con forza quando si rende necessario il contenuto negativo, ma il soggetto della stessa, di cui non è possibile conoscere fino in fondo l’intenzionalità profonda, in quanto la disposizione interiore rimane sempre e comunque avvolta nel mistero.
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Oggi martedì 21 giugno 2022

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——————Opinioni, Commenti e Riflessioni———
La guerra inizia a produrre i suoi effetti pericolosi anche fuori dall’Ucraina
21 Giugno 2022
A.P. Su Democraziaoggi.
L’onda lunga della guerra in Ucraina si fa sentire sempre più forte in Europa. Le sanzioni alla Russia si rivelano un boomerang, e mentre Macron, Scholz e Draghi vanno in treno a Kiev a vendere fumo, gli imprenditori si recano a Mosca per salvare, per quanto è possibile i loro affari e le loro aziende. […]
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Chiesa di Cagliari. Seconda assemblea sinodale diocesana

a3eedb4e-41b6-4b4a-ad71-6f7b02992edaMartedì 21 giugno, alle 18.30 presso l’Aula magna del Seminario arcivescovile di Cagliari (via monsignor Cogoni 9), è prevista la seconda Assemblea sinodale diocesana, che si svolgerà contemporaneamente in 14 sedi distribuite in tutto il territorio della diocesi.

>>> Leggi l’articolo completo

Conferenza stampa di presentazione dell’appello “Per una proposta di pace dell’Unione Europea”

077f95de-ae23-4d6e-b519-dcf9cff276abÈ in corso di svolgimento a Roma la conferenza stampa di presentazione dell’appello “Per una proposta di pace dell’Unione Europea” promosso da ANPI, Arci, Movimento europeo, Rete italiana Pace e Disarmo, Marco Tarquinio.
La registrazione su Radio Radicale: https://www.radioradicale.it/scheda/671544/per-una-proposta-di-pace-dellunione-europea

Oggi lunedì 20 giugno 2022

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——————Opinioni, Commenti e Riflessioni———
“Se Draghi non interviene, Cingolani ci lascia in mezzo al guado”
20 Giugno 2022 su Democraziaoggi
Mario Agostinelli, Alfiero Grandi, Massimo Scalia
Osservatorio sul PNRR – Il Manifesto

Finalmente Cingolani in una intervista ha parlato chiaro e così scopriamo che tutti i suoi detti e non detti del passato […]
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Per una proposta di pace dell’Unione europea

20 GIUGNO, ROMA: CONFERENZA STAMPA “Per una proposta di pace dell’Unione europea”
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Lunedì 20 giugno, alle ore 11:00, avrà luogo a Roma presso la Sala delle Bandiere dell’Ufficio di Informazione in Italia del Parlamento europeo, la Conferenza stampa di presentazione dell’appello promosso da ANPI, ARCI, Movimento Europeo, Rete italiana Pace e Disarmo, Marco Tarquinio “Per una proposta di pace dell’Unione europea”.

“(…) L’Unione Europea deve immediatamente operare con una sola voce, con la spinta concorde del Parlamento Europeo e della Commissione, diventando un affidabile intermediatore e non delegando agli Stati Uniti d’America e alla NATO decisioni che riguardano in primo luogo l’Europa. Si aprano subito negoziati per un definitivo accordo di pace! (…)”.
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Pace, un obiettivo possibile
di Gianfranco Pagliarulo*
Perché con Arci, Movimento Europeo e il direttore de “L’avvenire” abbiamo promosso la conferenza stampa del 20 giugno. L’urgenza di una generalizzata mobilitazione popolare. Il ruolo della UE, i suoi ritardi e le sue contraddizioni. Lo scenario continentale e mondiale
Europa Guerra e Pace Mondo

Non ci rassegniamo e non ci rassegneremo mai alla guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

Per questo il 20 giugno l’Anpi, l’Arci, il Movimento Europeo e il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, presenteranno in conferenza stampa un appello all’Unione Europea per una proposta di pace in Ucraina. Nell’appello si pone a valore il tema del ruolo dell’Ue nella trattativa e di una futura conferenza di pace. Con la conferenza stampa avviamo una campagna nazionale unitaria che vedrà protagonisti i territori, in molti dei quali da tempo l’Anpi è impegnata in forme diverse sul tema del contrasto alla guerra in Ucraina.

Abbiamo costruito questo appuntamento in più di un mese di lavoro, mentre la natura della guerra in corso assume una dimensione sempre più totalizzante; al conflitto propriamente militare, col suo spaventoso corollario di sangue e distruzione, si è aggiunta una guerra commerciale, una guerra “del grano”, una guerra finanziaria, una guerra delle materie prime e della produzione, una guerra dell’informazione, una guerra informatica, e chi più ne ha più ne metta. Non solo: la dimensione del conflitto coinvolge direttamente l’intero occidente politico e la Cina, e indirettamente tutto il mondo.

Nessuno è in grado di formulare una ragionevole previsione degli esiti di questa drammatica vicenda, che vanno dal peggioramento delle condizioni di vita di popoli di interi continenti (come sta già avvenendo) fino all’ipotesi più tragica dell’estensione su scala più generale di un conflitto armato. Si avverano le previsioni e le visioni di Papa Bergoglio – la Santa Sede continua ininterrottamente a operare perché siano deposte le armi in Ucraina – sulla terza guerra mondiale “a pezzi”, e la sua drammatica diagnosi: “la guerra non solo distrugge il popolo sconfitto, no, distrugge anche il vincitore; distrugge anche coloro che la guardano con notizie superficiali per vedere chi è il vincitore, chi è lo sconfitto”.

In questo scenario fino a oggi la grande assente è stata l’Unione Europea, cioè il luogo politico, giuridico e geografico che avrebbe potuto e dovuto svolgere un ruolo di mediazione, di ricerca di accordo, di agreement. I cento e passa giorni della guerra, alimentati con un flusso di armi di dimensioni ciclopiche, hanno portato a un ovvio aumento quotidiano delle vittime e delle distruzioni e a una lenta ma progressiva conquista di territori da parte della Federazione russa.

Nell’Ue si misurano, sia pure in modo controverso e contraddittorio, due linee presenti spesso nello stesso soggetto: la linea di chi incita alla guerra “fino alla vittoria sul campo” (come l’alto responsabile della politica estera Josep Borrell, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, le Repubbliche baltiche e la Polonia). Viceversa, Macron, Scholz e da qualche settimana – sembra – anche Draghi, si sforzano di proporre la linea di una trattativa, sia pure con modalità fra loro diverse e senza un coordinamento.

Né si vede, al di là di qualche “boatos”, una chiara volontà di negoziare da parte di Putin, anzi: le recenti grottesche dichiarazioni – “odio l’Occidente” – dell’ex premier russo Dmitrij Medvedev, ritenuto da molti un moderato, rendono la situazione ancora più difficile.

Anche in casa Nato si registrano contrasti di varia natura. Il segretario generale della Nato Stoltenberg sposa le tesi più radicali (una guerra a oltranza). Intanto, mentre cresce la tensione fra Grecia e Turchia sulla sovranità di alcune isole dell’Egeo, Erdoğan annuncia una nuova operazione militare ai suoi confini meridionali in terra siriana contro i curdi e minaccia il veto sull’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato a causa dell’ospitalità data da questi Paesi a persone legate al Pkk curdo, accusato di essere un’organizzazione terrorista. Tale preoccupazione di Erdoğan è stata definita da Stoltenberg “legittima”, nonostante il determinante impegno militare curdo – di cui l’Occidente sembra essersi dimenticato –, compreso il Pkk, contro l’Isis. La Finlandia, a sua volta, annuncia di non entrare nella Nato ove la Svezia fosse costretta a rinunciare per le minacce di Erdoğan.

In questo generale disordine continua la pur lenta avanzata russa in Ucraina: a quasi quattro mesi dall’invasione si sta per completare l’occupazione del Donbass. Qualsiasi trattativa non può che partire dallo stato della situazione militare; di conseguenza più tempo passa, più –verosimilmente – il negoziato vedrà la Russia su posizioni di forza. L’invio delle armi all’Ucraina non è servito a fermare l’avanzata russa e ha contribuito a estendere lo scenario di distruzione e di morte del conflitto. Ciononostante, si intensifica la richiesta di armi da parte di Zelensky e la conseguente offerta, sia pur diversificata, da parte dei Paesi della Nato.

Anche per questa ragione è urgente la promozione di un negoziato ragionevole e realistico. L’alternativa è il continuo innalzamento dell’asticella in un conflitto che coinvolge (e costa) ogni giorno di più ai Paesi Ue e coinvolge (con minori costi) gli States. Nella crisi economica, oramai conclamata in tutta Europa, e nella dichiarazione di trovarsi in una economia di guerra, esplicita nelle recenti parole di Macron, implicita nei comportamenti di quasi tutti i Paesi Ue, ci perdono i popoli e ci guadagna astronomicamente l’industria delle armi.

Si aggiunge infine un’altra ragione per cui urge chiudere il conflitto e operare per una conferenza di pace. La ragione è nei rumori di fondo che portano al lontano Oriente e in particolare alla Cina, sempre più vissuta dagli States come la vera minaccia. Così si spiegano il recente patto trilaterale Usa-Australia-Regno Unito (Aukus del 2021) con relative polemiche da parte di Macron, il tentativo Usa di rafforzare il Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quadrilateral Security Dialogue, Qsd), alleanza strategica informale con Australia, Giappone e India, il summit globale delle democrazie a trazione Usa del dicembre 2021. Le recentissime tensioni fra Stati Uniti e Cina sulla questione Taiwan sono la spia di un meccanismo a orologeria il cui conto alla rovescia potrebbe essere già partito.

In questo scenario il conflitto in corso in Ucraina è la scintilla che potrebbe innescare quel timer verso una guerra generale. L’unica cosa certa è che in questa situazione tutti i popoli del mondo stanno già peggio, ed è quindi obbligatorio depotenziare le tensioni e far cessare le guerre in corso.

L’impegno dell’Anpi per la pace non è nato il 24 febbraio 2022, ma era, è e sarà una stimmate dell’associazione, una delle sue ragioni d’essere. Anche per questo, assieme alla conferenza stampa del 20 giugno e in coerenza con l’appello unitario che quel giorno lanceremo, occorre dar vita, in tutti i territori del Paese, a centinaia di iniziative e di mobilitazioni affinché si veda e si senta una forte voce popolare: la voce di un popolo che non vuole la guerra, non vuole l’economia di guerra, non vuole l’informazione di guerra (altro che putiniani!), e vuole invece una nuova coesistenza pacifica. Alle due tradizionali parole-programma, pace e lavoro, se ne aggiunge oggi una terza fondamentale: ambiente. E la guerra, qualsiasi guerra, le cancella alla radice.

*Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi, su Patria indipendente.
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4c74e66b-537b-4463-b974-3534c9787b6fCOMUNICATO STAMPA 18/6/22
L’appello delle realtà cattoliche

L’Italia non può disertare la conferenza di Vienna sul trattato per l’abolizione delle armi nucleari

Il rischio della guerra nucleare è più vicino che mai. È difficile comprendere perciò la scelta dell’Italia di non partecipare, neanche come Paese Osservatore, al contrario di Germania e Olanda, alla Conferenza di Vienna dei Paesi che hanno ratificato il “Trattato per l’abolizione delle armi nucleari”. Le armi nucleari sono armi di distruzione di massa, eticamente inaccettabili anche nel semplice possesso, come ha più volte sottolineato papa Francesco: perché allora non ratificare il Trattato che ne sancisce l’abolizione, già ratificato da 62 Paesi di ogni parte del mondo?

La recente Assemblea Generale dei vescovi italiani ha ripreso e rilanciato nel suo messaggio finale l’appello di oltre 40 associazioni e movimenti cattolici che chiede all’Italia di aderire al “Trattato per l’abolizione delle armi nucleari”, adottato dalle Nazioni Unite fin dal 2017.Come ha messo in evidenza in questi giorni lo “Stockholm International Peace Research Institute” (SIPRI) di Stoccolma, il più autorevole Ente internazionale di ricerca su questi temi, «il rischio di utilizzo di armi nucleari sembra più alto ora che in qualsiasi momento, dall’apice della Guerra Fredda». Gli Stati dotati di armi nucleari stanno aumentando o aggiornando i loro arsenali. Siamo davanti ad una tendenza definita “molto preoccupante” dallo stesso SIPRI.

Il nostro appello, lanciato il 2 giugno 2021 con il titolo Per una Repubblica libera dalla guerra e dalle armi nucleari, è il risultato di una lettura condivisa e urgente dei segni dei tempi per il bene del nostro Paese e dell’intera umanità.

La scelta dell’Italia è incomprensibile dopo il segnale positivo arrivato lo scorso 18 maggio 2022 con la Risoluzione approvata dalla Commissione Esteri della Camera dei Deputati che impegna, almeno, il Governo “a valutare la partecipazione dell’Italia come «Paese osservatore» alla Prima Riunione degli Stati Parti del Trattato di proibizione delle armi nucleari (TPNW)”, in programma a Vienna dal 21 al 23 giugno 2022.

Sollecitiamo perciò nuovamente, in coerenza con la campagna “Italia ripensaci” promossa dalla società civile, la diplomazia italiana a compiere un passo concreto per una qualsiasi forma di presenza del nostro Paese nella Conferenza che si svolgerà dal 21 al 23 giugno a Vienna per iniziativa dell’International Campaign for the Abolition of Nuclear weapons (premio Nobel per la Pace 2017), assieme all’International Physicians for the Prevention of Nuclear War (premio Nobel per la Pace 1985).

Davanti alla temuta escalation della guerra in Ucraina si rivelano di una stringente attualità le parole profetiche di don Primo Mazzolari: «Abbiamo bisogno di giustizia sociale, non di atomiche».

Scarica l’appello

Segreteria organizzativa

Laila Simoncelli, coordinatrice Diritti Umani e Giustizia Comunità Papa Giovanni XXIII
lailaita@libero.it

Michele Tridente, Segretario Generale dell’Azione cattolica italiana
m.tridente@azionecattolica.it

Stefano Tassinari, vicepresidente nazionale Acli
stefano.tassinari@acli.it

Carlo Cefaloni, Movimento dei Focolari, redazione rivista “Città Nuova”
carlo.cefaloni@gmail.com

Don Renato Sacco, Consiglio nazionale Pax Christi
renatosacco1@gmail.com

Anselmo Palini, saggista
palini.anselmo@gmail.com

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Oggi domenica 19 giugno 2022

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——————Opinioni, Commenti e Riflessioni———
Carbonia. I 72 giorni della non collaborazione Le trattative con Giorgio La Pira, Sottosegretario al ministero del lavoro, e Renato Bitossi, della Confederazione generale del lavoro, mentre la forza pubblica presidia i piazzali della miniera. “Via da Carbonia gli uomini della Montecatini”, per Velio Spano, la gestione della SMCS agli operai.
19 Giugno 2022
Gianna Lai su Democraziaoggi

Post domenicale sulla storia di Carbonia dal 1° settembre 2019.
Lunghe le trattative romane e dall’esito alquanto incerto, Velio Spano tiene aggiornate le Leghe e le Commissioni interne sull’andamento degli incontri, ci sono ancora speranze che tramite il CIR resti ancora aperta la trattativa, ma è sui modi della gestione aziendale […]
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————-Domani————-
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Per la Pace. Ostinatamente!

4c74e66b-537b-4463-b974-3534c9787b6fCOMUNICATO STAMPA 18/6/22
L’appello delle realtà cattoliche

L’Italia non può disertare la conferenza di Vienna sul trattato per l’abolizione delle armi nucleari

Il rischio della guerra nucleare è più vicino che mai. È difficile comprendere perciò la scelta dell’Italia di non partecipare, neanche come Paese Osservatore, al contrario di Germania e Olanda, alla Conferenza di Vienna dei Paesi che hanno ratificato il “Trattato per l’abolizione delle armi nucleari”. Le armi nucleari sono armi di distruzione di massa, eticamente inaccettabili anche nel semplice possesso, come ha più volte sottolineato papa Francesco: perché allora non ratificare il Trattato che ne sancisce l’abolizione, già ratificato da 62 Paesi di ogni parte del mondo?

La recente Assemblea Generale dei vescovi italiani ha ripreso e rilanciato nel suo messaggio finale l’appello di oltre 40 associazioni e movimenti cattolici che chiede all’Italia di aderire al “Trattato per l’abolizione delle armi nucleari”, adottato dalle Nazioni Unite fin dal 2017.Come ha messo in evidenza in questi giorni lo “Stockholm International Peace Research Institute” (SIPRI) di Stoccolma, il più autorevole Ente internazionale di ricerca su questi temi, «il rischio di utilizzo di armi nucleari sembra più alto ora che in qualsiasi momento, dall’apice della Guerra Fredda». Gli Stati dotati di armi nucleari stanno aumentando o aggiornando i loro arsenali. Siamo davanti ad una tendenza definita “molto preoccupante” dallo stesso SIPRI.

Il nostro appello, lanciato il 2 giugno 2021 con il titolo Per una Repubblica libera dalla guerra e dalle armi nucleari, è il risultato di una lettura condivisa e urgente dei segni dei tempi per il bene del nostro Paese e dell’intera umanità.

La scelta dell’Italia è incomprensibile dopo il segnale positivo arrivato lo scorso 18 maggio 2022 con la Risoluzione approvata dalla Commissione Esteri della Camera dei Deputati che impegna, almeno, il Governo “a valutare la partecipazione dell’Italia come «Paese osservatore» alla Prima Riunione degli Stati Parti del Trattato di proibizione delle armi nucleari (TPNW)”, in programma a Vienna dal 21 al 23 giugno 2022.

Sollecitiamo perciò nuovamente, in coerenza con la campagna “Italia ripensaci” promossa dalla società civile, la diplomazia italiana a compiere un passo concreto per una qualsiasi forma di presenza del nostro Paese nella Conferenza che si svolgerà dal 21 al 23 giugno a Vienna per iniziativa dell’International Campaign for the Abolition of Nuclear weapons (premio Nobel per la Pace 2017), assieme all’International Physicians for the Prevention of Nuclear War (premio Nobel per la Pace 1985).

Davanti alla temuta escalation della guerra in Ucraina si rivelano di una stringente attualità le parole profetiche di don Primo Mazzolari: «Abbiamo bisogno di giustizia sociale, non di atomiche».

Scarica l’appello

Segreteria organizzativa

Laila Simoncelli, coordinatrice Diritti Umani e Giustizia Comunità Papa Giovanni XXIII
lailaita@libero.it

Michele Tridente, Segretario Generale dell’Azione cattolica italiana
m.tridente@azionecattolica.it

Stefano Tassinari, vicepresidente nazionale Acli
stefano.tassinari@acli.it

Carlo Cefaloni, Movimento dei Focolari, redazione rivista “Città Nuova”
carlo.cefaloni@gmail.com

Don Renato Sacco, Consiglio nazionale Pax Christi
renatosacco1@gmail.com

Anselmo Palini, saggista
palini.anselmo@gmail.com

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Armi all’Ucraina. Dove si pensa di arrivare?

17.06.22 – Guido Viale su Pressenza.

Nell’arcipelago del “pacifismo” (oggi “putinismo”) di chi in queste circostanze è contrario all’invio di armi all’Ucraina – la maggioranza, sia in Italia che in Europa – c’è una componente, più radicale o, se vogliamo, più irremovibile nelle sue posizioni, contraria alla guerra e alle armi sempre, perché è contraria a uccidere per motivi morali. Motivi che prevalgono su qualsiasi altra considerazione di ordine politico o sociale.

Ma ci sono altre componenti, forse meno circoscrivibili, perché fanno dipendere le loro scelte o il loro orientamento dalle circostanze, che sono contrarie ad alimentare questa guerra per considerazioni di altro genere, che riguardano gli interrogativi relativi ai suoi possibili esiti.

Anche nel vasto e vincente, anche se non maggioritario, campo di coloro che sono favorevoli all’invio di armi all’Ucraina o, addirittura, di quante più armi possibile (“Che cosa manca oggi? Armi” riferisce Adriano Sofri) c’è chi invoca innanzitutto – e gli va accreditata sincerità – ragioni di ordine morale: se uno è aggredito con le armi deve difendersi con le armi. Anzi, bisogna aiutarlo a difendersi o addirittura difenderlo noi, sempre con le armi. L’alternativa è la resa, che vuol dire perdita della libertà, dell’onore, della dignità, per lui o lei e l’abbandono, per noi. Altri invece, all’interno di questo campo, antepongono la volontà o il bisogno di salvaguardare o di alterare i rapporti di forza vigenti, cioè la politica, a ogni altra considerazione.

Questo è probabilmente il motivo di fondo per cui l’indignazione che si prova per l’aggressione russa all’Ucraina non si riscontra per quella della Turchia, membro della Nato, al Rojawa (unica vera democrazia del bacino del Mediterraneo) o per l’occupazione della Palestina da parte di Israele.

A tutti va comunque dato atto, salvo prova contraria, di provare orrore per la strage di giovani vite, di donne, bambini e anziani sopraffatti dalle manovre belliche, o costretti a fuggire, a rintanarsi, a subire stupri e violenza, o ad affrontare, nel migliore dei casi, un futuro oscuro e difficile. Anche se in alcuni queste immagini hanno il sopravvento su tutto il resto, mentre altri riescono in qualche modo a metterle da parte.

Nessuno nega a chi è aggredito il diritto di difendersi. Ma come? I fautori dell’invio di armi all’Ucraina non pensano mai che quel paese, se non ne avesse già ricevute in abbondanza prima e dopo l’inizio dell’aggressione russa, avrebbe dovuto per forza fare ricorso alle risorse della mediazione, chiamando in aiuto tutti i potenziali alleati. Non per combattere, ma per richiamarli alle loro responsabilità (“l’abbaiare ai confini della Russia” di papa Francesco, ma anche di una lunga lista di “esperti” che la politica estera la conoscono e l’hanno praticata). Perché è chiaro che a monte e all’origine di quell’invasione c’è un confronto tra Nato e Federazione russa improntato all’ostilità e non certo alla collaborazione.

Queste considerazioni vanno fatte non per “scaricare” o per dividere le responsabilità, ma perché sono la base di partenza di ogni possibile piattaforma di mediazione e di risoluzione del conflitto.

Certamente, più quella guerra si protrae e incancrenisce, accumulando vittime, devastazioni, angherie e odio, più sarà difficile individuare le basi di una possibile cessazione delle ostilità. Forse è per questo che coloro che non vedono altra via per raggiungere un risultato che l’invio di sempre più armi non si pongono la domanda: dove si pensa di arrivare?

Alla vittoria? Quale vittoria? La destituzione di Putin o la disgregazione delle Federazione russa? Per perseguire – non dico raggiungere – quel risultato bisognerà moltiplicare per mille lo “sforzo bellico”, cioè i morti da esigere dal popolo ucraino, ma anche da quello russo. E anche se c’è chi, come Luigi Manconi, sostiene che l’arma atomica non è una minaccia, perché anche dopo la dissoluzione dell’URSS permane comunque nel mondo un equilibrio della deterrenza che la mette fuori gioco, va ricordato che a capo della Federazione russa c’è un uomo paranoico (come tutti i dittatori), forse con i mesi contati, che desidera solo lasciare un suo segno sulla Storia (e non che sull’altra sponda la leadership brilli per lucidità). Questa è sicuramente una delle – sacrosante – ragioni che spingono molti ad approdare all’arcipelago dei “pacifisti”. Altro che putiniani!

Ma anche dando credito a posizioni come quella di Manconi e ipotizzando che il conflitto rimanga confinato entro il recinto delle armi “convenzionali”, tra droni, laser, satelliti, razzi ipersonici, per non parlare di gas e armi biologiche di cui è difficile individuare l’origine, le nuove armi in cammino verso il fronte da entrambe le parti hanno cambiate ancora una volta le caratteristiche della guerra,

L’aspetto più grottesco di questa guerra è comunque la frenesia con cui si aumentano le spese militari e le armi mandate al fronte, per combattere e contrastare un “nemico” da cui si dipende per il funzionamento di tutta la struttura economica, pagando profumatamente le forniture che lo tengono in piedi e poi indignandosi se solo si azzarda a ridurle o a interromperle.

Ma quale esito ci si può aspettare se né Zelensky né Putin possono trattare se non dopo aver ripreso l’iniziativa sul fronte dei combattimenti? Quanto dovrà protrarsi questa guerra guerreggiata? E quanti morti dovrà esigere senza nessuna prospettiva precisa?

Questo è un punto. Ma ce ne è un altro che domina su tutto, compresa l’eventualità di un olocausto nucleare, che è solo una possibilità; mentre l’estinzione dell’umanità per l’incombere della crisi climatica e ambientale è una certezza.

Le guerre, e particolarmente questa, sono un potente fattore di accelerazione della crisi climatica, sia sul fronte dei combattimenti, che consumano risorse, devastano il territorio e emettono gas climalteranti, sia nelle retrovie della “vita civile”, dove sta bloccando e invertendo tutte le timide misure, prospettate più che varate, di contenimento dell’aumento della temperatura planetaria. E questo a partire dalla frenetica ricerca di nuove fonti di combustibili fossili per sostituire quelli russi.

Leggendo qualche articolo di coloro che si schierano senza se e senza ma dalla parte della fornitura di armi all’Ucraina, senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità di promuovere subito una mediazione che, in fin dei conti, dovrebbe far capo agli stessi governi che quelle armi le forniscono e le promettono, a me pare che stiamo vivendo in due pianeti diversi: uno dove le “ragioni” degli Stati devono prevalere sulle vite dei loro cittadini e l’altro dove la consapevolezza e la mobilitazione dei cittadini dovrebbero ridurre alla ragione i rispettivi governi.

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Guido Viale
Guido Viale è nato a Tokyo nel 1943 e vive a Milano. Ha partecipato al movimento degli studenti del ‘68 a Torino e militato nel gruppo Lotta Continua fino al 1976. Si è laureato in filosofia all’università di Torino. Ha lavorato come insegnante, precettore, traduttore, giornalista, ricercatore e consulente. Ha svolto studi e ricerche economiche con diverse società e lavorato a progetti di cooperazione in Asia, Africa, Medioriente e America Latina. Ha fatto parte del comitato tecnico scientifico dell’ANPA (oggi ISPRA). Tra le sue pubblicazioni: Un mondo usa e getta, Tutti in taxi, A casa, Governare i rifiuti, Vita e morte dell’automobile, Virtù che cambiano il mondo. Con le edizioni NdA Press di Rimini ha pubblicato: Prove di un mondo diverso, La conversione ecologica, Si può fare e Rifondare l’Europa insieme a profughi e migranti. Con Interno4 edizioni ha pubblicato nel 2017, Slessico Familiare, parole usurate prospettive aperte, un repertorio per i tempi a venire. Sempre con Interno4 Edizioni nel 2018 ha pubblicato l’edizione definitiva e aggiornata del suo importante libro sul ‘68.
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La guerra in Ucraina: c’è chi dice no
14-06-2022 – di: redazione Volerelaluna.
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Mentre la guerra continua con il suo carico di morti, feriti e profughi, il mondo è percorso da inni alla guerra, più o meno espliciti e più o meno accompagnati da parole di circostanza sulla necessità che “un giorno” si arrivi alla pace. Anche nel nostro Paese è così e la sinistra con l’elmetto non di distingue dalla destra. Contemporaneamente nel teatro di guerra, in Russia, in Bielorussia e in Ucraina c’è chi, a costo della vita, lavora concretamente per la pace: sono gli obiettori di coscienza, che disertano l’arruolamento e il campo di battaglia. Nessuna fonte ufficiale ne parla ma sono decine di migliaia: per loro la pace è più importante degli opposti nazionalismi.

Alcuni in Europa hanno cominciato a rompere il silenzio ufficiale e a chiedere per loro un appoggio e iniziative concrete.

Va in questa direzione l’appello rivolto ai parlamentari europei dall’International Fellowship of Reconciliation (IFOR), dalla War Resisters’ International (WRI), dall’European Bureau for Conscientious Objection (EBCO) e Connection eV (Germania) che ha avuto l’adesione di 60 altre organizzazioni per la pace, i diritti umani e i rifugiati provenienti da tutta Europa, tra cui il Movimento Nonviolento. L’appello – che contiene anche una bozza di risoluzione del Parlamento europeo (qui la versione italiana) ‒ muove dalla premessa che, secondo il diritto internazionale, i militari e le donne che combattono per la Russia in questa guerra stanno conducendo un’operazione illegale, che verosimilmente anche la Bielorussia sta partecipando alla guerra al fianco della Russia e che in entrambi i Paesi le persone che si rifiutano di partecipare alla guerra molto probabilmente dovranno affrontare un serio procedimento giudiziario, che le qualifica per la protezione ai sensi della Direttiva UE in materia. Eppure negli Stati membri la stragrande maggioranza delle persone colpite non ha ancora ricevuto alcuna garanzia di tale protezione. Si presume che tra le 300.000 persone che hanno recentemente lasciato la Russia a causa della guerra, ci siano molti uomini che cercano rifugio all’estero per evitare di essere mandati in guerra. Negli ultimi mesi circa 20.000 uomini bielorussi hanno lasciato il Paese per evitare il reclutamento. Allo stesso modo ci sono obiettori di coscienza ucraini che non vogliono combattere in questa guerra; circa 3.000 uomini hanno chiesto asilo nella sola Moldavia. Ad ogni cittadino, registrato in Ucraina entro il 24 febbraio 2022, è attualmente concesso il soggiorno umanitario nell’Unione Europea ma è incerto cosa accadrà agli obiettori di coscienza ucraini quando questa disposizione scadrà. La conclusione dell’appello è che i paesi europei devono accogliere queste persone in fuga dallo sforzo bellico senza burocrazia, e garantire loro un diritto permanente di soggiorno. E questo non solo in base a principi umanitari ma perché il diritto umano all’obiezione di coscienza è stato riconosciuto, tra l’altro, dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e dal Parlamento europeo e deve essere garantito a tutti, in ogni dove.

Una posizione analoga, con riferimento agli obiettori ucraini, è stata assunta in Italia dall’Associazione giuristi democratici, che ha diffuso un documento in cui si legge: « In Ucraina, dall’inizio della invasione russa, vige la legge marziale e il divieto di lasciare il Paese per tutti gli uomini tra i 18 e i 60 anni. Il Governo di Mosca, da parte sua, ha previsto la coscrizione obbligatoria dal primo aprile al 15 luglio 2022 per i giovani tra i 18 e i 27 anni. L’escalation militare sta investendo le popolazioni civili anche sotto questo aspetto. Per questa ragione, facciamo appello al Governo ucraino affinché venga allentata questa misura fortemente restrittiva della libertà personale, garantendo che gli uomini di cittadinanza ucraina che per qualsiasi ragione ‒ personale, familiare, politica, religiosa, culturale ‒ vogliano uscire dal Paese, possano farlo in assoluta sicurezza. In tal senso, chiediamo al Presidente della Repubblica, al Governo e ai parlamentari italiani ‒ indipendentemente dalla loro appartenenza politica e dalla posizione assunta sul conflitto Russia/Ucraina ‒ di adoperarsi presso il Governo ucraino affinché un tale provvedimento, in linea con la migliore tradizione giuridica europea in tema di libertà individuali e di obiezione di coscienza, venga assunto al più presto» (è possibile aderire all’appello ai link info@giuristidemocratici.it e https://chng.it/J2rZFgTH).
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Oggi sabato 18 giugno 2022

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——————Opinioni, Commenti e Riflessioni———
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Riforma Cartabia: per i cittadini non cambia nulla
18 Giugno 2022
A.P. su Democraziaoggi
La riforma Cartabia della Giustizia è stata approvata definitivamente in Senato. Ma per i cittadini che vogliono una giustizia rapida non cambia nulla. Ecco in sintesi il contenuto con qualche chiosa.
I contenuti della riforma
Aumento dei consiglieri, una nuova legge elettorale, regole di funzionamento interno contro le correnti, incompatibilità rafforzata politica-magistratura, separazione delle […]
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