L’Europa e gli Usa verso il reddito di cittadinanza universale? Solo un auspicio?

0d1bace9-c369-48a5-91d3-709aa8906cccdi Vittorio Pelligra, su il sole 24ore online (13 aprile 2020).
Viviamo una epidemia democratica, secondo alcuni, perché il virus non ti chiede la dichiarazione dei redditi prima di contagiarti. Non è affatto vero, perché come tutte le situazioni di crisi, anche questa epidemia è assolutamente classista e iniqua. [segue]
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Papa Francesco chiede un «salario universale» per i precari
Nuovo Welfare. In una lettera ai «movimento popolari» inviata nel giorno di pasqua, Papa Francesco ha chiesto un «salario universale» per i lavoratori precari che operano nei settori informali che non hanno un «salario stabile per resistere» nella crisi indotta dalla diffusione del virus Covid 19.
Roberto Ciccarelli su il manifesto
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Perché un Reddito di Base Universale?
di Vittorio Pelligra, su il sole 24ore online (13 aprile 2020).
Viviamo una epidemia democratica, secondo molti, perché il virus non ti chiede la dichiarazione dei redditi prima di contagiarti. Non è affatto vero, perché come tutte le situazioni di crisi, anche questa epidemia è assolutamente classista e iniqua. I costi della crisi, umani, politici, e sociali, non si distribuiranno certamente in maniera equa tra ricchi e poveri, tra lavoratori e disoccupati, tra lavoratori stabili e precari, tra giovani e anziani. Vivremo accentuate disuguaglianze tra nazione e all’interno delle stese nazioni. Aumenterà la disuguaglianza e aumenterà la povertà, il disagio e l’indigenza.

Sarà un’occasione per dimostrare che tipo di società abbiamo creato. Saremo capaci di far fronte ai bisogni dei più vulnerabili o ci chiuderemo ognuno nel suo piccolo particolare nel miope interesse individuale? La risposta che sapremo dare a queste domande ci definirà una società degna o indegna, nel senso specifico chiarito da Avishai Margalit, di una società che umilia o rispetta i suoi stessi membri.

Abbiamo letto sui giornali di varie proposte che mirano a mitigare i costi della crisi attraverso processi redistributivi: tasse sul mancato consumo, una tantum sui redditi oltre gli 80 mila euro, contributi di solidarietà di varie forme.

La proposta più radicale, come spesso capita di questi tempi, l’ha avanzata Papa Francesco il giorno di Pasqua nella sua lettera ai membri dei movimenti e delle organizzazioni popolari. Se la pandemia è una guerra, come molti sostengono, voi siete “un vero esercito invisibile – scrive il Papa – che combatte nelle trincee più pericolose. Un esercito che non ha altre armi se non la solidarietà, la speranza e il senso di comunità che rifioriscono in questi giorni in cui nessuno si salva da solo (…), voi siete per me dei veri “poeti sociali”, che dalle periferie dimenticate creano soluzioni dignitose per i problemi più scottanti degli esclusi”. Gli esclusi dei benefici della globalizzazione che non di meno ne subiscono direttamente e indirettamente i danni, le esternalità negative. E’ una moltitudine di persone senza alcuna garanzia legale: “Venditori ambulanti, raccoglitori, giostrai, piccoli contadini, muratori, sarti, quanti svolgono diversi compiti assistenziali. Voi lavoratori precari, indipendenti, del settore informale o dell’economia popolare, non avete uno stipendio stabile per resistere a questo momento… e la quarantena vi risulta insopportabile”. Pensando primariamente a queste persone, ma non solo, Francesco suggerisce che forse è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che “riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti”.

Non deve sorprendere questa proposta perché come spesso capita le soluzioni più innovative nascono nelle piccole nicchie, nella semioscurità dove la luce abbagliante dei grandi interessi fatica ad arrivare. Lì dove non arrivano “le soluzioni propugnate dal mercato – e dove – è scarsa anche l’azione di protezione dello Stato”, continua il Papa.

Una alternativa radicale: il basic income

I dettagli della proposta del Papa sono ancora tutti da definire, ma le strade possibili sono due: un reddito per i senza reddito, quindi un trasferimento condizionato ad una prova dei mezzi, oppure un reddito universale incondizionato, che vada a tutti, ricchi e poveri in egual misura. Io personalmente propenderei per questa seconda possibilità. La prima la conosciamo, non sarebbe molto differente dalle varie forme di reddito di inclusione sociale o del reddito di cittadinanza (impropriamente detto). Misure che prevedono un reddito per chi non ne ha o ce l’ha troppo basso. Si è discusso ampiamente dei pro e dei contro di tali misure. La difficoltà principale sta a mio avviso nella valutazione precisa delle condizioni che determinano il diritto e nella difficoltà a raggiungere tutti i potenziali eligigibili.

Sul tavolo però, c’è anche da tempo la proposta di un reddito di base universale (Universal Basic Income); una forma di reddito incondizionata che arrivi automaticamente ad ogni cittadino, per il semplice fatto di essere cittadino.

Le caratteristiche qualificanti dello UBI sono tre: l’individualità, l’universalità e l’incondizionalità. Le discuteremo di seguito.

Individuale (Base individuale, senza riferimento alla situazione familiare)

L’UBI è assegnato alla singola persona (cittadino adulto residente) senza riferimento alla situazione familiare o abitativa. Tale condizione si configura per superare i problemi connessi ai provvedimenti tradizionali, che possono essere definiti “anti-famiglia” o “anti-comunità”, in quanto tendono a penalizzare, attribuendo di meno a due persone che compongono una famiglia, rispetto alle stesse due persone che non componessero una famiglia. La famiglia è penalizzata.

Inoltre sempre meno spesso, vivere insieme equivale ad essere sposati. Quindi conoscere l’effettiva situazione famigliare/abitativa dei cittadini è sempre più complicato, intrusivo e spesso arbitrario.

Universale (senza income-test)

L’UBI viene attribuito senza riferimento al reddito individuale: lo stesso livello per ricchi e poveri. Nonostante questo possa sembrare paradossale, in realtà è una condizione che produce un vantaggio maggiore per i poveri più che per i ricchi. Questo è legato all’esistenza di un fenomeno non come “trappola della povertà”. Con le politiche di sussidio tradizionali, quando si è poveri, si riceve un beneficio per il semplice fatto di essere povero. Se si inizia a guadagnare, o un membro della stessa famiglia inizia a guadagnare, perché per esempio trova un lavoro, allora si perde il diritto a quello specifico beneficio; in altre parole si viene sanzionati attraverso l’eliminazione del beneficio di cui precedentemente si fruiva. Questa penalizzazione disincentiva l’autonoma uscita dallo stato di povertà. E’ uno dei difetti maggiori dell’attuale reddito di cittadinanza, per come oggi è implementato.

L’UBI sostituisce questa rete di sicurezza nella quale si cade quando si è poveri e dalla quale non si è spinti ad uscire, con un livello minimo di sicurezza sul quale stare in piedi da soli e che favorisce la ricerca autonoma di mezzi aggiuntivi per incrementare il proprio reddito, come un lavoro, ma un lavoro degno e giusto, non un lavoro obbligatorio e imposto. Questo va principalmente a vantaggio dei poveri non dei ricchi.

Inoltre, se il provvedimento viene finanziato con la tassazione sul consumo (IVA) si verifica una redistribuzione dai ricchi ai poveri. E’ vero che i ricchi destinano una quota del loro reddito al consumo che è inferiore rispetto a quella destinata dai poveri, non di meno, il valore di tale quota è maggiore per i ricchi che per i poveri. In questo modo il consumo dei ricchi andrebbe a finanziare il loro stesso Basic Income e una quota di quello dei poveri.

Incondizionale (senza work requirements)

Un primo aspetto. D’accordo con Simon Weil, ma anche Noam Chomsky, sono convinto che il lavoro sia un bisogno fondamentale dell’anima, ma ciò è vero, in particolare, quando parliamo di un lavoro creativo svincolato dall’effetto limitante, arbitrario e spesso coercitivo esercitato da una istituzione, per quanto democratica. Ne segue che ogni società decente debba tentare di massimizzare le opportunità di soddisfacimento di tale bisogno fondamentale della persona.

Un secondo aspetto. Ci sono situazioni nelle quali le persone si ammalano perché lavorano troppo e devono continuare a lavorare perché se riducessero il loro lavoro non sarebbero compensati; vedrebbero ridotto cioè il loro reddito in maniera netta, senza nessuna forma di compensazione pubblica.

Ci sono poi altre situazioni, ancora, nelle quali le persone si ammalano perché non trovano lavoro. Con l’UBI, si faciliterebbe il trasferimento di tempo-lavoro (work sharing) tra chi lavora troppo e chi lavora troppo poco, incrementando in questo modo l’efficienza del mercato del lavoro.

Un terzo aspetto. L’obiettivo delle politiche pubbliche non dev’essere tanto quello di promuovere l’occupazione o l’occupabilità dei cittadini dal primo giorno in cui finiscono gli studi fino al giorno in cui andranno in pensione, ma piuttosto quello di favorire il loro sviluppo e la loro piena fioritura umana attraverso un processo di istruzione che inizia nella culla e finisce ben oltre l’età della pensione. Le politiche pubbliche quindi andrebbero valutate maggiormente in termini del loro impatto sulla produzione di capitale umano che non in base al tasso di disoccupazione.

L’UBI, in questo senso, facilita, proprio per la sua incondizionalità, una maggiore alternanza “formazione-lavoro-famiglia” durante tutto l’arco della vita, che altrimenti sarebbe possibile solo per i ricchi o per i figli dei ricchi riproducendo e incrementando in questo modo, la diseguaglianza di situazioni e opportunità.

Riassumendo: si evita di intrappolare le persone in situazioni di isolamento, di dipendenza e povertà, non le si obbliga ad accettare (pena l’esclusione dal beneficio) o a permanere in qualunque lavoro (per quanto bassa la qualità e inadatto il lavoro per quella singola persona), ma anzi si incoraggia chi ha un lavoro ad alternare lavoro-formazione-famiglia, liberando in questo modo ore lavoro, rendendo più efficiente il mercato e facilitando l’uscita dalla condizione di disoccupazione.

Ma il Basic Income è morale? E’ morale sussidiare i pigri e i nullafacenti per scelta con le risorse prodotte dai volenterosi e produttivi? E’ certamente morale sussidiare tutti coloro che, casalinghe, care-givers, o altro, esercitano un lavoro e forniscono prestazioni involontariamente non retribuite. E’ il modo migliore per garantire una libertà vera (nel senso positivo di Berlin e Sen) a tutti ed in particolar modo ai meno abbienti, gli interlocutori primi cui si rivolge il Papa con la sua proposta. Si soddisfa in questo modo, anche il “principio di differenza” di Rawls. Una libertà che consenta alle persone di poter vivere quella vita che essi ritengano degna e alla quale attribuiscano intrinseco.

La discussione è aperta. Il sasso è caduto nello stagno e c’è da augurarsi che le sue onde vadano veloci e lontano verso la costruzione di un assetto economico e sociale meno fragile e più giusto.
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Papa Francesco chiede un «salario universale» per i precari
Nuovo Welfare. In una lettera ai «movimento popolari» inviata nel giorno di pasqua, Papa Francesco ha chiesto un «salario universale» per i lavoratori precari che operano nei settori informali che non hanno un «salario stabile per resistere» nella crisi indotta dalla diffusione del virus Covid 19
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Roberto Ciccarelli su il manifesto
EDIZIONE DEL 14.04.2020, PUBBLICATO 13.4.2020, 23:59
«Forse è giunto il momento di pensare a una forma di «salario universale \[salario universal\] che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti». Lo ha scritto nel giorno di pasqua Papa Francesco in una lettera ai «movimenti popolari», definiti «veri poeti sociali», quelli che hanno una «cultura», una «metodologia» ed esercitano la «capacità di sentire come proprio il dolore dell’altro». I destinatari del «salario» potrebbero essere i lavoratori informali come «venditori ambulanti, raccoglitori, giostrai, piccoli contadini, muratori, sarti, quanti svolgono compiti assistenziali».

Questo «salario universale» è condizionato all’essere umano come «lavoratore», la cui condizione priva di diritti è doppiamente penalizzata dalla crisi indotta dal Covid 19. Una misura concepita in funzione di una divisione capitalistica del lavoro inserita nella triade che caratterizza, per Francesco, la lotta dei «movimenti popolari»: «tierra, techo y trabajo», terra – e i suoi frutti, come il cibo – casa e lavoro. La dottrina scarta dal classico avviso di San Paolo che, nella Lettera ai Tessalonicesi (3.7-12), ha inteso la disoccupazione come una colpa dell’individuo: «Chi non vuole lavorare – scrisse – non deve neppure mangiare». Francesco riconosce che il lavoratore ha subito un torto, non ha diritti e in più non lavora. Il lavoro, senza aggettivi, resta un diritto condizionato e non è inteso come una «libera attività», impossibile da svolgere in una società capitalistica dove il lavoro resta una merce.

Francesco sembra indicare una misura di «reddito minimo garantito» più che un «reddito universale di base». Di solito queste misure sono confuse: la prima sarebbe riconosciuta fino al permanere nello stato di bisogno, è collegata ad attività obbligatorie come lavori pubblici, formazione e mobilità obbligatori (come il cosiddetto «reddito di cittadinanza» in Italia) e potrebbe essere integrata da un contributo all’affitto o accesso ai servizi. Il reddito di base è invece una misura incondizionata che riconosce, almeno a chi è sotto la soglia di povertà relativa, il diritto all’esistenza indipendentemente dal lavoro e dal non lavoro. Se intesa come «retribuzione» – concetto usato pudicamente in italiano per tradurre «salario» nella versione spagnola (la lingua del papa) – la misura riconoscerebbe il lavoro invisibile gratuito per le piattaforme digitali svolto anche dai poveri.

A un reddito di base, potenzialmente diretta ad almeno 14 milioni di persone in Italia, tende invece la campagna per l’estensione senza vincoli del «reddito di cittadinanza» sostenuta dalla petizione del Basic Income Network (Bin) e dalla campagna per il «reddito di quarantena». Tra le due misure è immaginabile una coesistenza all’interno di una ridefinizione degli ammortizzatori sociali e del Welfare in senso universalistico, non più basati sullo status contrattuale, categoriale o familiare. Il salario «universale» di cui parla Francesco, se inteso come «universale», dovrebbe essere riconosciuto all’individuo, non alla famiglia, favorendo l’autodeterminazione di cui parlano i movimenti femministi come Non Una di Meno che tutelano la libertà delle donne dalla dipendenza economica, dalle violenze domestiche, dal patriarcato. Queste misure sono accompagnate da un salario minimo – a cui allude il papa – per evitare il dumping salariale tra i precari e chi prende il «reddito». In Italia le proposte di legge (Pd, M5S, tra gli altri) sono al momento accantonate.

La presa di posizione del Papa è stata salutata dal fondatore del movimento Cinque Stelle Beppe Grillo che ha riproposto, inascoltato dal suo partito, l’adozione di un «reddito universale». «Ora è la politica – sostiene il portavoce di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, favorevole al reddito – che deve parlare con la stessa chiarezza». La ministra del lavoro Nunzia Catalfo (M5S) ha confermato che nel «decreto Aprile» sarà invece prevista un’altra misura emergenziale, categoriale e non strutturale del «reddito di emergenza» (5-600 euro) per 3 milioni di precari e invisibili esclusi dai bonus per le partite Iva (dal 15 aprile e poi aumentato da 600 a 800 euro) e dalle casse integrazioni. Nemmeno l’intervento del papa sembra essere capace di cambiare questo orientamento del governo.

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