Lavorare tutti lavorare meno

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Una prospettiva auspicabile, ma problematica: meno lavoro per tutti

di Gianfranco Sabattini

Domenico De Masi, noto docente di Sociologia del lavoro, in “Meno lavoro per tutti” (MicroMega, 3/2020), ritiene che l’evoluzione delle modalità di lavoro nel tempo renda fondata la previsione che il progresso tecnologico possa portare l’umanità alla fine del lavoro coatto. Nella sua narrazione, De Masi prende le mosse dalle forme che il lavoro ha assunto nelle società antiche, sino a pervenire, passando per il Medioevo, alla cosiddetta società industriale sorta a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo e giunta, dopo quasi duecento anni, ad assumere la struttura della società post-industriale, la cui dinamica interna lascia spazio per immaginare quali modalità potranno caratterizzare l’organizzazione dell’attività lavorativa nella società del futuro.
La società industriale e il sistema produttivo corrispondente sono nati, ricorda De Masi, alla fine del Settecento, quando “sotto la spinta di tre rivoluzioni politiche – quella inglese, quella francese e quella americana – [ha avuto] inizio una vera e propria rivoluzione produttiva”, che ha cambiato il mondo, come conseguenza degli effetti di due fattori, uno di natura economica e l’altro di natura culturale: il primo determinato dalla comprensione, da parte del Paese (l’Inghilterra), che guidava il processo di cambiamento, dei larghi vantaggi che potevano essere tratti dalla valorizzazione delle risorse a basso costo provenienti dalle colonie; il secondo era la conseguenza della diffusione delle idee illuministe, che ponevano la ragione al centro dell’attività umana e, con essa, la convenienza a “razionalizzare i processi produttivi, programmandoli, organizzandoli e controllandone i prodotti in modo scientifico”.
Con i loro effetti sulle modalità d’impiego del fattore lavoro, i due fattori, quello economico e quello culturale, hanno anche comportato un profondo cambiamento nell’organizzazione della società e nelle propensioni comportamentali dei suoi componenti, riconducibili alla distanza tra casa e fabbrica, ai ritmi sostenuti dell’attività produttiva e al rapido aumento dei livelli di consumo. In tal modo, la fabbrica si è tradotta in un sistema produttivo che, avvalendosi di un triplice input (lavoro umano, moneta e macchine) ha potuto realizzare la produzione delle varie parti di ciascun prodotto; con l’”assiematura”, man mano che il manufatto passava da un reparto all’altro, il processo produttivo terminava con l’uscita dalla fabbrica di “un triplice output: il prodotto finito, il salario dei lavoratori e il profitto degli imprenditori”.
La fabbrica, elemento costitutivo del settore industriale, ha subito nel tempo continui processi innovativi che hanno riguardato la sua razionalizzazione, sino a “subire una paradigmatica impostazione organizzativa negli Stati Uniti, non da parte di umanisti, ma di ingegneri come Taylor e Ford”, le cui idee sono valse a trasformare progressivamente “l’operaio in macchina”, nonché a creare le premesse perché “l’uomo-macchina” potesse essere sostituito con “una macchina vera e propria”, aprendo l’evoluzione della società industriale verso quella post-industriale.
In estrema sintesi – afferma De Masi –, dopo la millenaria fase rurale pre-industriale e la bisecolare fase industriale, tra la “metà del Settecento e la metà del Novecento si sono sviluppati vari fattori che si sono potenziati a vicenda; progresso scientifico e tecnologico, sviluppo organizzativo, globalizzazione, mass media e alfabetizzazione hanno dato vita a una miscela esplosiva che, resa deflagrante da quel terribile detonatore che [è stata] la seconda guerra mondiale, ha generato una società completamente diversa da quella industriale”; quella appunto post-industriale, centrata sulla produzione di beni immateriali, quali soprattutto informazioni e servizi di ogni tipo.
Così come la razionalizzazione della società industriale aveva consentito al mondo della produzione di allestire una crescente quantità di beni, sostituendo progressivamente nei processi produttivi il lavoro con le macchine, allo stesso modo la società post-industriale, con l’introduzione delle nuove tecnologie informatiche, ha continuato ad aumentare i livelli produttivi, sempre con un progressivo impiego di una minor quantità di lavoro.
In termini di mercato del lavoro, l’evoluzione dalla società rurale pre-industriale a quella industriale e post-industrale, ha comportato un travaso di forza lavoro dall’agricoltura a un’industria produttrice di beni materiali, prima, e di beni immateriali, poi. In termini di utilizzazione dei fattori produttivi, la stessa evoluzione ha comportato un continuo “risparmio” di forza lavoro, tanto da rendere possibile nella società post-industriale, che le mansioni di molte unità di forza lavoro siano volte da robot, dai computer e dall’intelligenza artificiale. In termini di organizzazione dell’attività produttiva, infine, con l’avvento della società post-industriale si è avuta la crisi del modello onnicomprensivo della fabbrica, con la perdita dell’originaria funzione di allestire un prodotto compiuto; le componenti opportunamente standardizzate dei vari prodotti possono essere allestite in diverse parti del mondo, per essere poi assemblate nel bene finale, grazie agli scambi globali, in un luogo ancora diverso.
Poiché anche nella società post-industriale il progresso tecnologico ha continuato a crescere e, per effetto della globalizzazione, è stato possibile acquistare prodotti ovunque risultasse più conveniente, al lavoro si sono aperte – a parere di De Masi – “prospettive straordinarie”, che hanno resa superata la questione se le nuove tecnologie creassero più o meno lavoro di quanto ne distruggessero; per cui, il jobless growth (cioè lo sviluppo senza lavoro) è divenuto, per De Masi, “cosa inevitabile e magnifica, i cui effetti vanno ben al di là della fine della fatica”. Inoltre, la crescita senza fatica destituirà di ogni rilevanza la legge di distribuzione del prodotto sociale in base al contributo che ogni unità di forza lavoro ha prestato per produrlo; semmai, verificandosi che il lavoro umano impiegato per costruire un dato prodotto equivale ad una piccola percentuale del valore di mercato di quest’ultimo, resterà da stabilire a chi debba essere attribuita la differenza. In altri termini, resterà da risolvere il problema della distribuzione di “una ricchezza crescente prodotta da un numero decrescente di lavoratori”.
Ora, anche gli economisti tradizionalmente scettici, di fronte alla prospettiva di una crescita senza lavoro – osserva De Masi – cominciano a chiedersi cosa accadrà all’interno di quelle società che si credono ancora fondate sul lavoro, benché questo decresca di continuo; essi non potranno che “accogliere positivamente il fatto evidente che l’attività umana, sempre meno necessaria nella produzione diretta della ricchezza, potrà concentrarsi nell’ideazione di nuovi beni e servizi che poi le macchine produrranno e nell’’invenzione’ di quel tempo libero che l’organizzazione industriale del lavoro [ha] compresso e mortificato”.
A sostegno della sua tesi, De Masi ricorda che l’idea che il progresso tecnologico e l’aumento della produttività potessero portare alla “fine del lavoro” è stata anticipata da una previsione gi John Maynard Keynes, formulata alla fine degli anni Venti del secolo scorso, in un pamphlet dal titolo accattivante: “Le possibilità economiche dei nostri nipoti”. Il grande economista di Cambridge, tenendo conto dell’aumento del progresso tecnologico e della produttività, prevedeva che, dopo un secolo (quindi, circa alla fine del 2030), le popolazioni non sarebbero più state nella condizione di dover lavorare, per cui il problema economico del lavoro in tutte le società avrebbe cessato d’essere fonte di preoccupazioni. Ciò, però, avrebbe creato un nuovo problema: quello di insegnare alla gente a vivere senza lavorare.
La previsione di Keynes era direttamente collegata all’ipotesi che l’aumento della ricchezza, conseguente alla crescita del progresso tecnico e della produttività, fosse accompagnata da una continua diminuzione delle disuguaglianze distributive; un’ipotesi, quindi, sulla fine del lavoro formulata in termini del tutto diversi dal come sembra intenderla De Masi. Com’è possibile, viene spontaneo chiedersi, che la transizione verso la fine del lavoro non sia associata a una politica destinata a contrastare la disoccupazione crescente e la disuguaglianza distributiva?
Secondo De Masi, quella che stiamo vivendo non è che una prima fase delle società post-industriali, in cui è possibile adottare politiche economiche atte a ridistribuire la forza lavoro disoccupata; da un lato, riducendo progressivamente l’orario di lavoro (man mano che si introducono ulteriori innovazioni tecnologiche nelle combinazioni produttive) e, dall’altro lato, creando “nuovi lavori”, per garantire a tutti i disoccupati un “reddito di inclusione durante le fasi di disoccupazione frizionale”, riciclando i disoccupati “con la formazione durante i periodi vuoti che intercorrono tra un lavoro e l’altro” e formando “i lavoratori a fruire del tempo libero, che cresce durante gli anni di lavoro e si prolunga durante gli anni di pensionamento”.
De Masi ritiene fondato pensare che, nella fase ultima dell’evoluzione della società post-industriale, a lavorare saranno solo le poche unità di forza lavoro occupate nello svolgimento delle funzioni creative ed organizzative, mentre tutto il resto della popolazione “consumerà senza produrre, ottenendo direttamente la parte di produzione corrispondente ai suoi bisogni”. A questo punto – conclude De Masi – diventerà inutile qualsiasi forma di reddito di cittadinanza universale e incondizionato, perché la libertà dal bisogno di tutti i cittadini sarà garantita da una nuova Costituzione, attenta “ad evitare che il gruppo creativo non diventi un casta onnipotente e prevaricatrice”, ma sia orientata ad assicurare “un’equa distribuzione del potere, del sapere, delle opportunità, delle tutele e delle modalità più adatte a secondare il godimento del tempo totalmente libero da incombenze lavorative coatte”.
Ciò che De Masi nella sua conclusione trascura di considerare è che, con la fine del lavoro, la distribuzione di quanto resta del prodotto sociale (al netto, deve supporsi, della reintegrazione dei fattori produttivi impiegati e del salario corrisposto all’élite creativa ed organizzativa) tra tutti i cittadini, in funzione dei loro bisogni, non assicura l’eliminazione delle disuguaglianze distributive, mancando ogni possibilità di conformare la distribuzione in funzione dei bisogni individuali, i quali non sono oggettivamente stimabili; per cui, se anche fosse convenuto un qualche criterio in base al quale effettuare la distribuzione del surplus produttivo in funzione degli stati di bisogno individuali, difficilmente potrebbe essere eliminata la disuguaglianza distributiva, della quale la fine del lavoro dovrebbe invece segnare la definitiva rimozione.
In conclusione, nella prospettiva di analisi di De Masi è difficile immaginare la realizzazione di una distribuzione del surplus produttivo senza l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza universale ed incondizionato; solo con un “dividendo sociale” di pari importo corrisposto a tutti i cittadini, può essere realizzata, dopo la fine del lavoro, un’uguaglianza distributiva conforme ad una capacità di acquisto idonea a consentire uno stabile funzionamento del sistema economico e una maggior capacità di tenuta della coesione del sistema sociale. Solo allora l’attività politica, sottratta alla defatigante ricerca, di momento in momento, di un compromesso instabile per la soluzione del problema distributivo, potrà rivolgersi a regolare il godimento del tempo libero, indirizzandolo verso la cura dell’ambiente e all’approfondimento della conoscenza, perché tutti possano viverlo “bene, piacevolmente e con saggezza”, secondo la profezia keynesiana.
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