Oggi martedì 26 maggio 2020

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Sono un complottista e me ne vanto. Per i lumbard propongo a Christian: teniamoli al largo
26 Maggio 2020
Amsicora su Democraziaoggi
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Cari amici e compagni, tutti negano di essere complottisti. Complottista? Quandomai! Non sia mai! Essere tacciato di complottismo equivale a essere considerato un divulgatore di notizie false, uno fuori dal mondo, un mestatore, un untore. E invece io mi dichiaro, mi proclamo complottista, me ne vanto, mi onoro di essere socio della P.A.C.I. – Premiata […]
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pandoraloghettoUna settimana lavorativa di 4 giorni?
Scritto da Giorgio Maran su PandoraRivista online.
In questo articolo Giorgio Maran – autore di Il tempo non è denaro. Perché la settimana di 4 giorni è urgente e necessaria, recentemente edito da Altrimedia – delinea alcuni dei temi affrontati nel libro.
[segue]
altrimedia_maran_webmockup-600x600Come un torrente carsico, che scorre invisibile al di sotto della superficie per poi riemergere in maniera inaspettata, ciclicamente ritorna l’idea della riduzione dell’orario di lavoro.

Il dibattito sul tema è spesso confuso e si polarizza in maniera netta. Da un lato, chi è pervicacemente contrario profetizza la catastrofe causata dai soliti fannulloni che pretendono troppi diritti, rei di limitare l’assoluta libertà per le imprese nell’utilizzo del fattore lavoro. Dall’altro lato, chi è favorevole attende la sempre annunciata e mai giunta fine del lavoro, rimandando all’inevitabile arrivo di Godot l’avvento di una società senza lavoro. A seconda di chi avanza la proposta, viene focalizzata l’attenzione su questo o quell’obbiettivo specifico, ma quasi mai tutte le implicazioni della riduzione dell’orario vengono considerate nel loro complesso, perdendo così di vista il quadro generale.

L’ultimo eterno ritorno nell’immaginare l’uscita dalla crisi causata dal Covid-19: la task force incaricata dal governo ha ipotizzato, tra le altre misure, la riduzione dell’orario di lavoro [1]. È stata una proposta suggerita e pensata per l’emergenza sebbene, in realtà, la necessità per il sistema economico di confrontarsi con i mutamenti intervenuti nel corso degli anni preceda la pandemia. I cambiamenti sono strutturali e non contingenti e meritano di essere analizzati un po’ più a fondo.

Da parecchio tempo automazione e delocalizzazioni stanno portando a una diminuzione delle ore lavorative annue medie: in Italia dal 2000 a oggi abbiamo perso quasi il 7% delle ore lavorate [2]. Non accade solamente in un paese perennemente in difficoltà come l’Italia, ma anche in Germania. Tuttavia, questa riduzione non si traduce in più tempo libero ma si trasforma in disoccupazione e, quindi, crisi. La sensazione comune per cui manca il lavoro si rivela una realtà.

Ciò accade perché questa tendenza di lungo periodo non è regolata in alcun modo ma è lasciata al pieno arbitrio delle imprese che reagiscono utilizzando il lavoro quale variabile utile a preservare i propri margini di profitto. La riduzione media delle ore di lavoro si traduce in pressione sugli orari – e sui salari – per alcuni e in disoccupazione o sottoccupazione per altri. Si configura così quella che Aznar definisce la società duale, in cui metà degli individui lavora troppo, l’altra metà non lavora affatto [3].

Viviamo nella società più prospera e produttiva della storia dell’umanità, eppure non siamo in grado di garantire il benessere di tutti quanti i suoi cittadini. Ciò non accade perché siamo incapaci di produrre abbastanza beni e servizi per soddisfare la domanda, cioè perché mancano automobili o case per tutti. Al contrario accade perché la capacità produttiva eccede la capacità della domanda, cioè perché non ci sono abbastanza persone che possano acquistare le automobili che produciamo e le case che costruiamo. Per ovviare a questo squilibrio, che è strutturale e non dovuto alla contingenza della crisi, e sostenere in ogni modo il consumo, ritardando così l’inevitabile, il sistema economico ha escogitato i più vari stratagemmi: dal marketing ossessivo per condizionare e dilatare all’infinito i nostri desideri, alle bolle creditizie per finanziare acquisti che in realtà non potremmo permetterci, all’obsolescenza programmata per velocizzare la sostituzione dei prodotti.

In passato di fronte a una situazione di crisi si è risposto investendo lo Stato del ruolo di creare nuovo lavoro attraverso gli investimenti. Oggi però appare una strada sempre più complicata. Da un lato, lo Stato è indebolito e indebitato, trasformato in quello che Streeck definisce Stato debitore [4]. Dall’altro, la crisi ambientale impedisce di immaginare una soluzione alla crisi economica che passi da un ulteriore aumento dei consumi.

In questo quadro, è perfettamente razionale affiancare alle politiche volte a sostenere gli investimenti una riduzione dell’orario di lavoro. È il momento di adeguare le forme della società alla realtà. È giunto il momento della settimana lavorativa di 4 giorni.

Prima di proseguire è bene chiarire una questione fondamentale: chi dovrebbe pagare per le ore non lavorate. Alcuni auspicano una riduzione dell’orario che si accompagni a una diminuzione del salario, magari con un intervento dello Stato che si faccia carico, attraverso la fiscalità generale, di compensare parte del salario perso [5]. Tuttavia questa soluzione consiste nello spostare risorse dai lavoratori (che sostengono in larghissima parte le finanze statali e soffrirebbero una riduzione di salario) ai disoccupati (che troverebbero un lavoro). Si configurerebbe come una sorta di contratto di solidarietà, ma non è ciò che serve oggi.

Al contrario, la riduzione dovrebbe avvenire senza riduzioni di salario, solo così sarebbe capace di aggredire alla radice il cancro del nostro tempo: la diseguaglianza. Infatti, il reddito totale di un paese va in parte nelle tasche di chi lavora – cioè in salari – e in parte si compone di profitti e rendite – cioè remunera chi possiede un capitale. Negli anni, la quota di reddito che remunera il capitale è cresciuta in modo sensibile, a scapito dei salari [6]. Questo meccanismo ha condotto a un aumento della diseguaglianza. Ciò crea almeno tre diversi problemi.

Sotto il profilo finanziario, vengono messe in crisi le finanze pubbliche. Dal momento che la tassazione è più alta sul lavoro che sui redditi da capitale, viene messa in discussione la capacità dello Stato di assicurare istruzione, salute e sicurezza materiale e sociale. L’esempio più attuale si è avuto con l’emergenza dovuta al Covid-19 durante la quale è emerso quanto la sanità pubblica sia stata strutturalmente sotto-finanziata.

Sotto il profilo economico, come evidenziato da Piketty, gli investimenti a lungo termine si attestano su valori inferiori a quelli ottimali, indebolendo la crescita [7]. Infine, sotto il profilo della giustizia sociale, come sostiene Stiglitz, il fallimento nel garantire il benessere a tutti i cittadini mina la legittimità stessa della democrazia [8].

Spesso parliamo di affrontare la diseguaglianza con politiche redistributive, cioè politiche che intervengono a valle per ridurre le differenze che si sono formate nell’attività economica. Serve però intervenire anche a monte, spostando una quota del reddito da chi ha un capitale, a chi vive del proprio lavoro. La riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario ha questa capacità. Ma questo non è l’unico beneficio derivante dalla settimana di 4 giorni.

Il numero degli occupati aumenterebbe, come suggerisce l’evidenza empirica [9]. Infatti, sebbene non basti dividere un posto di lavoro in due per ottenere un occupato in più, la relazione tra riduzione degli orari e tassi di occupazione è forte e chiara. E in una società che rimane fondata sul lavoro, nella quale si ha diritto a una cittadinanza piena e a un posto nella società solamente nel momento in cui si ha un impiego, la diminuzione della disoccupazione è un fondamentale obiettivo di giustizia. In più ne beneficerebbero sia le finanze pubbliche, sgravate dalle spese sociali per i disoccupati, sia la domanda interna, oggi depressa dalle politiche di contenimento salariale che l’Italia persegue da almeno 25 anni.

Un ulteriore benefico si avrebbe sulla dinamica della produttività. Infatti, non è necessario attendere un aumento della produttività per poi ridurre l’orario di lavoro: la produttività non dipende da quanto lavoriamo, ma da cosa facciamo e come lo facciamo. Per aumentare la produttività è necessario investire in tecnologia, non lavorare di più e più in fretta. Ridurre l’orario a parità di salario interviene in questa dinamica in più modi. L’aumento della domanda aggregata e il lavoro diventato relativamente più caro, quello che Sylos Labini definisce effetto Ricardo [10], spingerebbero le imprese a investire in tecnologia [11]. Inoltre, riducendo le ore di lavoro, la produttività oraria migliorerebbe, perché saremmo più riposati e produttivi [12]. Infine, con una diminuzione della disoccupazione, molti giovani, più motivati e produttivi, entrerebbero nel mondo del lavoro. A questo proposito, è importantissimo che la nuova occupazione sia stabile perché la precarietà, oltre che odiosa, è dannosa per la produttività e l’innovazione [13].

La riduzione degli orari gioverebbe all’ambiente, perché un aumento del tempo libero comporterebbe la possibilità di soddisfare i nostri bisogni in maniera più dolce e sobria, diminuendo l’impatto ambientale dei nostri consumi [14]. La settimana di 4 giorni comporta la riduzione degli spostamenti casa-lavoro, delle code, dei pasti usa e getta, del riscaldamento e dell’illuminazione di molti luoghi di lavoro. Inoltre, ridurre l’orario e riconsiderare il peso del lavoro nella nostra vita, riducendo il tempo che gli dedichiamo, ci rende capaci di valutare meglio quali siano i nostri bisogni, i nostri desideri e quindi i consumi che ci servono davvero. Ridurre gli orari ha la potenzialità di spingerci verso stili di vita più sostenibili, verso un nuovo paradigma di produzione e consumo.

Per questi motivi la settimana di 4 giorni, unita alla carbon tax, dovrebbe essere uno dei pilastri alla base del Green New Deal.

Ancora, con la riduzione dell’orario di lavoro si aprirebbe la possibilità di raggiungere una vera parità di genere. Gli uomini sarebbero spinti a prendersi più responsabilità domestiche e familiari e verrebbe meno la scusa, in realtà non sempre fondata, della mancanza di tempo a causa del lavoro. Contemporaneamente le donne verrebbero sgravate dal peso del lavoro domestico che ancora oggi le penalizza sul luogo di lavoro [15]: nonostante siano in media studenti migliori [16], guadagnano meno e hanno minori possibilità di fare carriera rispetto ai colleghi uomini [17].

Infine, la nostra salute migliorerebbe [18] perché orari prolungati ci rendono fisicamente e psicologicamente più fragili. Lavorare troppo fa male al cuore [19], disturba il sonno [20], rende più probabili incidenti [21], depressione [22] e abuso di alcol [23]. Insomma, una cattiva distribuzione del tempo di lavoro è causa del peggioramento delle condizioni di salute di molte persone [24].

Nonostante queste evidenze, la contrarietà alla settimana di 4 giorni rimane feroce. Non è un caso. Infatti, il conflitto sul tempo di lavoro straripa nella possibilità di organizzare la società lungo coordinate culturali e politiche differenti dalle attuali. Come sostiene Gorz, «attraverso il potere sul tempo è il potere puro e semplice ad essere in gioco (…) È in gioco in una parola la possibilità per l’autonomia delle persone di svilupparsi indipendentemente dal bisogno che le imprese ne hanno. È in gioco la possibilità di sottrarre al potere del capitale, del mercato, dell’economico, i campi di attività che si aprono nel campo liberato dal lavoro» [25].

Tutto ciò costituisce una minaccia agli attuali assetti di potere ed è per questo che incontra un’opposizione durissima, nonostante i suoi effetti positivi per il benessere dell’intera società. La riduzione dell’orario a parità di salario apre a una trasformazione culturale e strutturale dei rapporti di produzione e consumo. Significa iniziare a discutere quali siano realmente i nostri bisogni e se possano esistere modi alternativi per soddisfarli.

Questa misura sorregge la prospettiva di introdurre una valutazione su come, cosa e quanto produrre. Sottrae queste decisioni alla disponibilità esclusiva delle esigenze delle imprese private, per renderle oggetto di un controllo pubblico e democratico.

Si sposta l’oggetto del compromesso, che non è più il denaro ma investe l’intera società. Al posto di più soldi, più tempo. Tempo sottratto al lavoro, tempo che permette di organizzare le più diverse attività al di fuori e a lato del mercato, tempo di libertà.

Battersi per la settimana di 4 giorni non significa soltanto battersi per una società della piena occupazione a orario ridotto. Significa sostenere una prospettiva di trasformazione complessiva della società. A essere in gioco non è un aspetto specifico, ma l’intero sistema.
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[1] Redazione, Dl maggio: ipotesi taglio orario lavoro, stesso salario, ansa.it, 2020. https://bit.ly/2WI2F5Y

[2] Dati OCSE: https://bit.ly/36deiFf

[3] Guy Aznar, Lavorare meno per lavorare tutti: Venti proposte, Bollati Boringhieri, Torino, 1994.

[4] Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano, 2013.

[5] È il caso della proposta presentata da alcuni parlamentari del Partito Democratico: https://bit.ly/2XfV79C

[6] Enrico D’Elia e Stefania Gabriele, La remunerazione dei fattori produttivi in Italia: 1995-2016, https://bit.ly/36cj3ii

[7] Thomas Piketty, Capital in the Twenty-first Century, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, 2014.

[8] Joseph E. Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino, 2013.

[9] Gerhard Bosch e Steffen Lehndorff, Working-Time Reduction and Employment: Experiences in Europe and Economic Policy Recommendations, «Cambridge Journal of Economics», Volume 25, Issue 2, 2001. https://bit.ly/3cObMrk

[10] Paolo Sylos Labini, Torniamo ai classici. Produttività del lavoro, progresso tecnico e sviluppo economico, Laterza, Roma-Bari, 2004.

[11] Alessandro Arrighetti e Fabio Landini, Riduzione dell’orario di lavoro come politica industriale, forumdisuguaglianzediversita.org, 2020. https://bit.ly/2AECOmR

[12] John H. Pencavel, The Productivity of Working Hours. IZA Discussion Paper No. 8129, Institute for the Study of Labor, 2014. https://bit.ly/3bQofJL

[13] Tito Boeri e Pietro Garibaldi, Two Tier Reforms of Employment Protection: a Honeymoon Effect?, in «The Economic Journal», 2005. https://bit.ly/3cP5w2H

[14] Kyle Knight, Eugene Rosa e Juliet Schor, Reducing Growth to achieve environmental sustainability: the role of work hours, Political Economy Research Institute Working Paper Series, Number 304, University of Massachusetts, 2012. https://bit.ly/2TlpCK5

[15] Huong Dinh, Lyndall Strazdins e Jennifer Welsh, Hour-glass ceilings: Work-hour thresholds, gendered health inequities, «Social Science & Medicine», 176, 2017 https://bit.ly/2zfEzGN

[16] Dati ALMALAUREA, Rapporto 2018, almalaurea.it, 2019. https://bit.ly/36csuOG

[17] OXFAM, Raising their voices against precariousness: womens’ experiences of in-work poverty in Europe, 2018. https://go.aws/3e0jsHh

[18] Torbjorn Akerstedt et al., A 6-hour Working Day – Effects on Health and Well-Being, «Journal of Human Ergology», 30, 2001. https://bit.ly/36dnE3T

[19] Marianna Virtanen et al., Overtime work and incident coronary heart disease: the Whitehall II prospective cohort study, «European Heart Journal», Volume 31, Issue 14, 2010. https://bit.ly/2ZhSd6S

[20] Marianna Virtanen et al., Long working hours and sleep disturbances: the Whitehall II prospective cohort study, «Sleep», 32(6), 2009. https://bit.ly/3bSFkDe

[21] Nicole T. Mak, Jennifer Li e Sam M. Wiseman, Resident Physicians are at Increased Risk for Dangerous Driving after Extended-duration Work Shifts: A Systematic Review, «Cureus», 11 (6), 2019. https://bit.ly/2yhqDvD

[22] Marianna Virtanen et al., Overtime Work as a Predictor of Major Depressive Episode: A 5-Year Follow-Up of the Whitehall II Study, «PloS One», 7 (1), 2012. https://bit.ly/2zOw5GP

[23] Marianna Virtanen et al., Long working hours and alcohol use: systematic review and meta-analysis of published studies and unpublished individual participant data, «BMJ», 350, 2015. https://bit.ly/2ZkwA5S

[24] John Ashton in Denis Campbell, UK needs four-day week to combat stress, says top doctor, theguardian.com, 2014 https://bit.ly/3e1Ohv8

[25] André Gorz, Miserie presente ricchezza del possibile, manifesto libri, Roma, 1998, 99.
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Scritto da
Giorgio Maran

Giorgio Maran, classe 1985, nato a Ponte dell’Olio (Piacenza), laureato in Economia e Scienze Politiche all’Università di Pavia. Vive a Varese e lavora a Milano nel settore finanziario. Consigliere comunale e attivista politico e sociale.

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