Le politiche nazionali per il Mezzogiorno e per la Sardegna. Sud: un Piano c’è, bisogna conoscerlo, migliorarlo, attuarlo!

sud-2030-allegretti ape-innovativa Con l’intervento di Gianfranco Sabattini proseguiamo il dibattito sul “Piano Sud 2030, Sviluppo e coesione” avviato dall’articolo di Umberto Allegretti su Aladinpensiero del 14 maggio 2020. Non sfuggono le diverse accentuazioni di giudizio sugli elementi che compongono il piano dei due illustri Autori. Sabattini mette in guardia da un’impostazione tuttora eccessivamente centralistica del piano, almeno nella sua attuale configurazione, foriera di nuovi fallimenti e anche sul rischio che si riproduca da parte regionale nei confronti dei Comuni il perverso rapporto tra Stato e Regioni. Non ultimo il severo richiamo alla persistente impreparazione della classe politica locale, che richiederebbe adeguati interventi di formazione e aggiornamento (e non solo) degli operatori, politici e tecnici e amministrativi, a tutti i livelli. Allegretti si mostra più ottimista, intanto per l’impianto condivisibile del piano, suscettibile di miglioramenti, soprattutto negli aspetti gestionali. Il punto di incontro tra i due Autori ci sembra stia soprattutto nella sollecitazione a lavorare per rendere operativo il piano correggendone carenze e difetti. Come non potrebbe essere d’accordo Umberto Allegretti nell’auspicare e prevedere nella concretezza della gestione il massimo di partecipazione da parte delle amministrazioni regionali e locali e delle popolazioni, sapendo essere lui uno dei massimi esperti e propugnatori della democrazia partecipativa e deliberativa? [Franco Meloni].
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Piano per il Sud 2030: propositi e limiti

di Gianfranco Sabattini

Il Ministro per il Sud e la coesione sociale, Giuseppe Provenzano, ha presentato, poco prima che scoppiasse la pandemia da Coronavirus, un “Piano per il Sud 2030”, il cui scopo dovrebbe essere quello, non solo di migliorare le condizioni sociali e produttive delle regioni meridionali, ma anche di avviare un processo di crescita e sviluppo dell’intero Paese; un obiettivo da perseguire all’interno di una strategia generale: “investire nel Sud oggi pensando all’Italia di domani”. A tal fine, sono indicate le “risorse” da utilizzare, le “missioni” da svolgere, i “risultati” da raggiungere, le “procedure” da migliorare, i “processi” da monitorare, gli “strumenti” da utilizzare e i “soggetti” da coinvolgere.
Le risorse saranno prevalentemente quelle nazionali ed europee riferite al periodo di programmazione 2021-2027, da utilizzare per il rilancio degli investimenti pubblici, al fine di compensare il progressivo disinvestimento dello Stato nel decennio trascorso. Il Piano individua cinque “grandi missioni”, per realizzare un “Sud rivolto ai giovani”, un “Sud connesso ed inclusivo”, un “Sud per la svolta ecologica”, un “Sud frontiera dell’innovazione” e un “Sud aperto al Mondo Mediterraneo”. La realizzazione delle cinque missioni risponderà alle priorità di promuovere un deciso avanzamento competitivo del sistema produttivo meridionale e di creare “nuova impresa e nuova occupazione, in particolare per i giovani e le donne meridionali”.
I risultati saranno perseguiti attraverso una serie di “discontinuità” rispetto al passato, la principale delle quali riguarderà il “metodo di definizione e attuazione dei programmi di investimento”, che verrà riformato adottando una “cooperazione rafforzata” fra tutti gli attori coinvolti nell’attuazione del Piano. Il nuovo metodo, si precisa, sarà anche improntato al rafforzamento del ruolo di coordinamento e di impulso del “presidio centrale”, attraverso l’istituzione, per ciascuna delle cinque missioni, di “Comitati di indirizzo” e di “Piani di sicurezza e coordinamento nazionali”.
Col nuovo metodo sarà inoltre inaugurata una “nuova politica territoriale” in grado di rispondere, non solo alla riduzione del divario tra il Nord e il Sud del Paese, ma anche di quello tra “centri e periferie”, per restituire “protagonismo” ai luoghi marginalizzati dalle precedenti politiche.
Infine, il Piano per il Sud prevede che la sua attuazione debba avvenire attraverso un percorso partecipato dell’azione pubblica e di quella privata, ma anche e soprattutto attraverso “il confronto e la interlocuzione con le amministrazioni regionali e locali, con i parlamentari, i partiti, gli attori sociali e sindacali, le imprese e le forze dell’associazionismo”.
Nel complesso, considerate le condizioni economiche e sociali che caratterizzano attualmente il Paese, il Piano appare essere un’ennesima proposta di “buone intenzioni”; la sua attuazione, oltre che delle incertezze che peseranno sulla sua compiuta realizzazione, a causa degli effetti e delle conseguenze della pandemia da Coronavirus, risentirà dell’indeterminazione del nuovo metodo di definizione e attuazione dei programmi di investimento, della burocratica moltiplicazione degli strumenti operativi e dell’incerta individuazione degli enti periferici da coinvolgere (non è indicato il ruolo delle Regioni e tanto meno quello degli Enti locali). Inoltre, la formulazione e l’attuazione del Piano ripropongono, come risulta dal previsto “rafforzamento del presidio centrale”, la persistenza del centralismo decisionale statale che ha sempre caratterizzato la politica d’intervento nelle regioni meridionali del Paese. Da quest’ultimo punto di vista, il Piano si pone perciò in netta antitesi, non solo con la critica oramai consolidata sui limiti del centralismo decisionale, ma anche con i più recenti indirizzi della teoria economica riguardanti le procedure più appropriate per la promozione della crescita e dello sviluppo delle aree marginalizzate inquadrate all’interno di più vaste aree economiche.
Con riferimento all’Italia, il miglioramento dei metodi di natura quantitativa realizzato negli ultimi decenni ha consentito una più precisa valutazione degli esiti connessi agli aiuti erogati a favore delle regioni meridionali, per il superamento del loro ritardo sulla via della crescita e dello sviluppo. Grazie a tale miglioramento, Antonio Accetturo e Guido De Blasio, ad esempio, in “Morire di aiuti. I fallimenti delle politiche per il Sud [e come evitarli], hanno potuto valutare se i trasferimenti pubblici a favore delle regioni e aree arretrate del Paese (attuati dopo la fine dell’intervento straordinario all’inizio degli anni Novanta) hanno realmente contribuito a promuovere il superamento dello stato di arretratezza.
La verifica effettuata ha confermato, su basi oggettive, quella che è ormai una percezione consolidata: ovvero, che circa trent’anni di politiche d’intervento “hanno generato una diffusa sfiducia” da parte delle comunità delle regioni in ritardo nei confronti dell’utilità e dell’opportunità dei trasferimenti pubblici. Se, per il futuro, non si terrà conto di queste considerazioni, è inevitabile che all’interno delle regioni arretrate si radichi ulteriormente il convincimento che gli aiuti sono stati, nella migliore delle ipotesi, solo un sussidio per attività improduttive. Non è casuale che sia diffuso il dubbio che, stante la situazione attuale, l’ulteriore prosecuzione delle politiche in pro del Mezzogiorno, sul piano produttivo e della coesione sociale, sia destinata a sortire gli effetti sinora sperimentati.
Per il superamento di tanto pessimismo riguardo alla formulazione delle future politiche in favore delle regioni arretrate, occorrerà considerare criticamente la bassa qualità delle istituzioni locali che hanno sempre condizionato l’attuazione degli interventi. Chi vive in una regione che sinora ha fruito di trasferimenti per la promozione di un processo di crescita non riesce a liberarsi della sensazione che le politiche di sviluppo regionale sinora attuate siano diventate veri e propri canali di selezione della classe dirigente locale: si viene eletti, non per le proprie capacità amministrative o politiche, ma perché si è in grado di fare affluire risorse sul territorio e di distribuirle fra i più disparati “clienti”. Tutto ciò è valso a rendere ragionevole la presunzione che gli obiettivi dei programmi d’intervento non fossero la crescita, l’occupazione o l’inclusione sociale, ma siano stati, al contrario, i “vantaggi” della classe politica locale e della pletora di professionisti coinvolti nella progettazione e nell’attuazione di quei programmi, nonché le possibilità di carriera delle burocrazie regionali.
Se esiste una via d’uscita da questa situazione, essa non può che essere la sconfitta del centralismo decisionale; sinora è accaduto che lo Stato abbia sempre normalmente ricondotto a sé le decisioni, riguardanti non solo gli indirizzi di politica economica, ma anche quelli relativi agli interventi infrastrutturali, produttivi e sociali; quando nei programmi d’intervento che si sono succeduti nel tempo sono state coinvolte le Regioni, queste hanno reiterato il “vizio” centralista ai danni delle comunità locali, lasciando agli Enti politici che le rappresentavano solo competenze amministrative, esercitate senza una loro preventiva riorganizzazione territoriale.
Per il superamento del vizio centralista, sia a livello statale che regionale, diventa cruciale, in assenza di rimedi istituzionali assunti a livello nazionale, che all’interno delle aree regionali gli Enti locali, previo un loro riordino, siano dotati dei poteri decisionali e della strumentazione tecnica adeguata per promuovere e supportare il loro processo di crescita. In questa prospettiva di decentramento decisionale spetta alle Regioni dotare gli Enti locali del potere decisionale e della strumentazione tecnica necessari, nel quadro di una nuova prospettiva organizzativa e di funzionamento dell’intero impianto istituzionale regionale.
In quest’ottica, è plausibile ipotizzare che le Regioni abbiano solo un ruolo di coordinamento e di sintesi per rendere compatibili tra loro tutti i progetti espressi dal basso dai singoli Enti locali; inoltre, è anche plausibile assumere che le stesse Regioni giungano a svolgere il ruolo di “polo di equilibrio dinamico” tra le forze che tendono all’accentramento verticistico del potere decisionale dello Stato e le possibili derive localistiche a livello regionale.
L’uscita dall’attuale inefficienza della politica economica nazionale dovrebbe perciò significare un “ritorno al territorio”, al fine di ostacolare lo spopolamento delle aree interne regionali, rafforzandone la coesione sociale, e “curare” la sostenibilità ambientale dei processi di crescita e di riorganizzazione urbana attuabili a livello locale.
Allo stato attuale, pertanto, la discontinuità di metodo nella programmazione e attuazione degli interventi per il sostegno della crescita e dello sviluppo delle singole Regioni (in funzione anche dello sviluppo nazionale) deve consentire la partecipazione diretta delle società civili dei territori sub-regionali all’assunzione di scelte che, superando la prassi di una mera “interlocuzione” con le amministrazioni di ordine superiore, siano invece il risultato finale del coordinamento a livello regionale delle politiche locali, per la crescita dei singoli territori e dell’intera regione della quale sono parte.
A questo scopo, la riforma dell’organizzazione istituzionale, volta ad includere forti “elementi federalistici” a favore dei territori, deve essere fondata sull’attribuzione di un’autonomia decisionale alle istituzioni locali, per la progettazione e l’assunzione di scelte conformi a priorità predeterminate. In questo modo, le Regioni cesserebbero di esercitare il potere decisionale del quale hanno sinora disposto, rendendo possibile che ciò che avviene a livello dei luoghi sub-regionali sia il risultato (come sinora è avvenuto) di scelte operate dall’alto e poi calate nelle realtà territoriali.
Sin tanto che la discontinuità di metodo cui fa riferimento il Piano per il Sud 2030 lascerà impregiudicate queste auspicate e preventive riforme organizzative sul piano istituzionale è alta la probabilità che ogni nuovo programma d’intervento, per quanto lodevole nelle intenzioni, sia destinato a non riuscire, com’è accaduto per tutti i “programmi” sinora sperimentati, a perseguire gli obiettivi prefissati.
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[segue]

Piano Sud 2030, le missioni

La Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza individua cinque “missioni” nazionali della coesione, in vista della chiusura del negoziato dell’Accordo di Partenariato sul post 2020, oltre che della riprogrammazione del FSC. Le “missioni” sono state ulteriormente definite dal Piano Sud 2030, anche in aderenza con l’Agenda ONU 2030, e sono così articolate:

1) Un Sud rivolto ai giovani: investire su tutta la filiera dell’istruzione, a partire dalla lotta alla povertà educativa minorile, per rafforzare il capitale umano, ridurre le disuguaglianze e riattivare la mobilità sociale.

Scuole aperte tutto il giorno
Contrasto alla povertà educativa e alla dispersione scolastica
Riduzione dei divari territoriali nelle competenze
Potenziamento dell’edilizia scolastica
Estensione No Tax area (senza penalizzare le Università)
Attrazione dei ricercatori al Sud.

2) Un Sud connesso e inclusivo: infittire e ammodernare le infrastrutture, materiali e sociali, come fattore di connessione e di inclusione sociale, per spezzare l’isolamento di alcune aree del Mezzogiorno e l’isolamento dei cittadini in condizioni di bisogno.

Un Piano Sud del MIT di oltre 33 miliardi
Emergenza viabilità secondaria
Il Fondo infrastrutture sociali per comuni medi e piccoli
Nuovi nidi al Sud
Inclusione abitativa per cittadini e lavoratori svantaggiati
“Case della salute” per l’assistenza integrata
Rinnovo della dotazione tecnologica sanitaria.

3) Un Sud per la svolta ecologica: rafforzare gli impegni del Green Deal al Sud e nelle aree interne, per realizzare alcuni obiettivi specifici dell’Agenda ONU 2030 e mitigare i rischi connessi ai cambiamenti climatici.

Un “reddito energetico” per le famiglie
Una sperimentazione di economia circolare
Potenziamento del trasporto sostenibile
Contratti di filiera e di distretto nel settore agroalimentare
Gestione forestale sostenibile.

4) Un Sud frontiera dell’innovazione: supportare il trasferimento tecnologico e il rafforzamento delle reti tra ricerca e impresa, nell’ambito di una nuova strategia di politica industriale.

Credito d’imposta in ricerca e sviluppo al Sud
Rafforzamento degli ITS al Sud
Potenziamento del “Fondo dei Fondi”
Space Economy Sud
Startup tecnologiche al Sud.

5) Un Sud aperto al mondo nel Mediterraneo: rafforzare la vocazione internazionale dell’economia e della società meridionale e adottare l’opzione strategica mediterranea, anche mediante il rafforzamento delle Zone Economiche Speciali (ZES) e i programmi di cooperazione allo sviluppo.

Rafforzamento delle Zone Economiche Speciali (ZES)
Piano Export Sud
Sostegno al sistema portuale
La Difesa per un Sud frontiera e ponte del Mediterraneo
Politiche strutturali e misure urgenti per l’impresa e il lavoro

Nel Piano Sud 2030 sono previste misure trasversali avviate o da avviare nel 2020, per rafforzare la competitività del sistema produttivo la creazione di buona occupazione per giovani e donne.

Un incentivo all’occupazione femminile
Credito d’imposta investimenti al Sud
“Cresci al Sud”
Il “Protocollo Sud” con Cassa Depositi e Prestiti
Il “Protocollo Sud” con Invitalia
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Pubblicato il 15 Febbraio 2020. Aggiornato il 15 Febbraio 2020.

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