Che succede?

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ECONOMIA
una recessione mondiale senza precedenti

di Roberta Carlini, su Rocca.

La pandemia dell’economia corre in parallelo all’infezione da Covid 19. Come questa, non conosce confini ma è influenzata dal territorio che trova. Se la caduta del prodotto globale è generalizzata, dalle macerie lasciate dal minuscolo virus emergono le differenze tra i vari modelli dell’economia e del suo governo; e se l’incertezza sul futuro è comune a tutti, ci sono alcuni elementi per prevedere quale modello potrà uscire meglio, o meno peggio, dalla grande distruzione del 2020. Cominciamo dai numeri. L’Ocse ha eletto il periodo aprile-giugno del 2020 a peggior trimestre della storia, economicamente parlando. Per l’area del G20 – ossia l’aggregato che riunisce i diciannove maggiori paesi industrializzati, più l’Unione europea, e rappresenta il 90 per cento del Pil mondiale – il secondo trimestre del 2020 ha portato a una riduzione del prodotto del 6,9%; un record, se si pensa che il primo trimestre del 2009, quando il mondo era al picco della crisi finanziaria che poi sarebbe diventata la Grande recessione, segnò «solo» un meno 1,6%. E i numeri di questa nostra primavera confinata sarebbero ancora peggiori se non ci fosse, a migliorare la media, l’andamento in controtendenza della Cina, che essendo passata per l’emergenza sanitaria prima nel secondo trimestre dell’anno vedeva già un recupero dell’11,5%. Senza i numeri cinesi, la perdita del resto del G20 supera il 10%. All’interno di questa media, crolli che vanno dal meno 25% dell’India al meno 13,8% della Francia al meno 12,8% dell’Italia. Gli Stati Uniti nel secondo trimestre hanno visto un calo del Pil del 9,1%, la Germania del 9,7%.
I numeri trimestrali hanno il difetto di risentire della «tempistica» del virus con le sue diverse ondate e lo sfasamento degli effetti da lockdown, ma hanno il pregio di essere certi. Mentre le previsioni su come chiuderà l’anno sono aleatorie, nell’incertezza sull’andamento dei contagi in autunno, e dunque sulla eventualità di ulteriori lockdown; sulle decisioni dei governi per contrastarlo; e anche su altri elementi non direttamente collegati al Covid 19 ma con rilevante impatto sulle dinamiche commerciali ed economiche, come il risultato del voto negli Stati Uniti. In ogni caso, alcune previsioni ci sono e purtroppo non raddrizzano molto il quadro. Prendiamo sempre quelle dell’Ocse: secondo l’organizzazione internazionale di Parigi, per l’intero G20 l’anno potrebbe chiudere a -4,1%, con l’Unione Europea nel suo insieme al meno 7,9%, gli Stati Uniti a meno 10,1%. Il Pil italiano, nella previsione dell’Ocse, scenderà del 10,5%.
Dunque una recessione mondiale, senza precedenti la sua ampiezza ma soprattutto per le sue caratteristiche: essendo stata innescata da una emergenza sanitaria, all’inizio c’è stato l’effetto della chiusura di intere attività economiche (una specie di “coma indotto” sull’economia per proteggere le popolazioni, uno choc che ha colpito simultaneamente l’offerta e la domanda, ossia le produzioni materiali e la disponibilità della gente a spendere), ed è quello che vediamo adesso nei numeri; ma subito dopo ci sarà – o forse è già in corso – l’effetto del cambiamento dei processi economici. Per esempio: la Cina, entrata e uscita prima dalla pandemia, riprende a crescere. Ma non è detto che questa crescita potrà trainare gli altri, visto che le catene del valore sono state spezzate e nel ricostruirle le varie industrie seguiranno sentieri diversi. Per chiarire: cambierà l’intera faccia della globalizzazione che trionfava negli anni Novanta del secolo scorso e già era stata messa a dura prova dal protezionismo di ritorno.

il ruolo dei governi
C’è poi un altro fattore che plasmerà l’economia del mondo post-Covid, ed è nel ruolo dei governi. Già nel primo impatto dello choc pandemico, la differenza tra i diversi sistemi si è mostrata con evidenza. Quelli più centrati sul mercato, soprattutto sulla flessibilità del mercato del lavoro, come Stati Uniti, Canada e Regno Unito, hanno visto le perdite più forti dal punto di vista occupazionale. Se si confrontano i numeri sul calo del Pil con quelli sulla riduzione dell’occupazione e sull’aumento della disoccupazione, c’è una sproporzione evidente.
La disoccupazione si è impennata negli Stati Uniti e in tutto il mondo anglosassone, laddove – sia pure in misura diversa – i Paesi dell’Unione Europea hanno goduto degli ammortizzatori sociali ereditati dal Novecento. Strumenti come la cassa integrazione in Italia e modelli simili che mantengono le persone all’interno della forza lavoro di un’impresa, anche quando il lavoro non c’è, hanno impedito grandi fluttuazioni. Come sappiamo per l’Italia, nonostante il loro allargamento (con la cassa in deroga per esempio) non hanno coperto tutti, e larghi settori – come i precari e i giovani alla ricerca del primo impiego – sono rimasti al gelo della crisi. Ma questa sarebbe stata ancora più profonda senza quegli strumenti, che non a caso in economia sono chiamati «stabilizzatori automatici». Questi hanno fatto salire la spesa pubblica ovunque, ma hanno almeno tamponato le falle. La flessibilità del modello americano, che si affida agli aggiustamenti di mercato per passare da una fase all’altra del ciclo economico, ha ben pochi vantaggi quando la crisi non è dovuta a oscillazioni cicliche ma a uno choc generalizzato dal quale non si vede chiaramente l’uscita.
La stessa Ocse, nelle sue ricette contestuali alla diagnosi, raccomanda ai governi di non fare l’errore compiuto nel 2009, di continuare a spendere e a sostenere l’economia, continuare a elargire supporto pubblico per contrastare disoccupazione dei lavoratori e bancarotta delle imprese, e nel frattempo realizzare investimenti per far ripartire l’economia e guidarla su un sentiero di crescita sostenibile. Abbiamo visto come l’Unione Europa, con mille problemi dovuti alla sua architettura istituzionale e alle sue divisioni politiche, interpreti questa missione con il «Next generation Eu», il piano per la ripresa. Il suo successo dipenderà dall’effettività del piano stesso: messo sulla carta, adesso aspetta importanti e delicatissimi passaggi che potrebbero rallentarne l’attuazione e renderlo così poco utile oppure annacquarlo.
Dall’altra parte dell’Atlantico, l’attuale amministrazione americana pare invece puntare tutto su una ripresa spontanea, legata magari all’arrivo del vaccino; mentre il Regno Unito si dibatte nella doppia crisi da Covid e da Brexit, con pericolosissimi intrecci.

chi parteciperà e chi resterà indietro
In ombra in tutto ciò resta l’interrogativo su «chi» uscirà dalla crisi. La pandemia può agire da potente acceleratore di processi di innovazione – nelle catene del valore, come si è detto, ma soprattutto nel cambiamento tecnologico legato alla digitalizzazione; ma al tempo stesso può accelerare anche la tendenza che già era in atto all’aumento delle diseguaglianze, tra chi parteciperà alla ripresa e chi resterà indietro. Diseguaglianze tra Paesi, e all’interno dei Paesi stessi: tra poveri e ricchi, garantiti e non garantiti, giovani e vecchi, uomini e donne. Il piano europeo, pur puntando tutto sui due pilastri dell’innovazione digitale e degli investimenti ambientali, raccomanda di non perdere di vista la coesione sociale. Per la sua storia e cultura, l’Unione europea è maggiormente attrezzata a tentare una ripresa a trazione mista, pubblico-privato, ispirata al principio della solidarietà come strada più efficace, oltre che più giusta, per salvaguardare un bene comune. Ma se l’eredità del Novecento può essere utile per recuperare quella visione, gli strumenti non possono essere gli stessi. La riuscita della scommessa dipenderà dalla capacità di trovarne di nuovi, oltre che dalla forza di reggere ai contrapposti modelli in competizione: quello autoritario della Cina, e quello individualista finora prevalente degli Usa di Trump. Salvo inversioni di rotta nell’imprevedibile voto americano.
Roberta Carlini

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