Bisogno di Umanesimo

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Come uscire dalla pandemia
LE NUOVE TECNICHE BASTANO A RIUMANIZZARE IL MONDO?
di Umberto Baldocchi.
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Su Chiesadituttichiesadeipoveri, 30 DICEMBRE 2020 / EDITORE / DICE LA STORIA /

Si parla sempre più spesso, in relazione al tanto atteso periodo post-Covid, dopo che l’esperienza pandemica ci ha fatto toccare con mano che la “mano invisibile” della globalizzazione non ci può salvare dai disastri, di un nuovo inizio, della impossibilità di un ritorno alla “normalità” che abbiamo conosciuto, della necessità di reinventare un mondo diverso nonché di costruire una società all’altezza delle sfide epocali, per la verità senza che si precisi meglio in cosa dovrebbe consistere questa diversità o questa novità. O meglio senza che si sciolga una ambiguità di fondo. Il presidente del Consiglio ha parlato di un “nuovo umanesimo” che metta al centro il valore dell’uomo e la promozione della dignità umana.
Ovviamente, se parliamo di finanziamenti che mirino ad un progresso “sostenibile, verde, digitale e inclusivo”, è possibile – non è garantito però – che questo sviluppo metta davvero al centro il valore dell’uomo e riesca a ricostruire una società fondata sulla promozione della dignità umana. E anche il riferimento alle tre P Persona Pianeta Prosperità, come nuovi obiettivi dell’era post Covid, fatto dal presidente del Consiglio, suggerisce l’idea di un nuovo umanesimo che sia un ritorno ai valori, certo in forme mutate, dell’Umanesimo classico, cui l’Italia aveva dato vita a suo tempo.
Ma su questo “nuovo inizio” e “nuovo umanesimo” ci sono in giro interpretazioni molto diverse, forse anche opposte, benché non tali in apparenza. Se il Covid-19 ha messo in luce la fragilità dell’essere umano e delle nostre società e se la persistenza del virus non ci permette ancora di uscire dalla fase del distanziamento sociale e non ce lo permetterà forse a lungo, si potrebbe configurare, sia pure in via emergenziale, un neo-umanesimo molto diverso da quanto sopra sostenuto. Un neo-umanesimo, plasmato dal lockdown, che si fondi non sulla ricostruzione della relazionalità umana, ma sul potenziamento tecnologico dell’individuo (scopertosi “piccolo” e ”fragile”) e del ”sistema” biotecnologico di cui il singolo è sempre più parte integrante, per costruire quella resilienza che permetta anche all’economia di funzionare. In fin dei conti sostenibilità, green economy, digitalizzazione e inclusività potrebbero essere anche più che compatibili con un potenziamento tecnologico dell’individuo singolo, connesso mediaticamente al contesto sociale, ma non con quella ricostruzione piena della relazionalità, senza mediazioni, che connota la persona nella dimensione umanistica. Si andrebbe invece nella direzione di un “umanesimo” post-umano, trans-umano o oltre-umano, compatibile con certe forme di lock-down, che potrebbe diventare una pratica da rinnovarsi di fronte ai rischi possibili. Di umano resterebbe solo il termine, però contraddetto dalla preposizione (post, trans o oltre).
Un neo-umanesimo non umano
Ed in effetti c’è un retroterra di riflessioni e iniziative che sembra suggerire proprio questa interpretazione del “nuovo” umanesimo. Il Grande Reset (o “grande riaggiustamento”) è un’iniziativa-parola d’ordine lanciata dal World Economic Forum – giugno 2020- così come l’annuncio di una quarta rivoluzione industriale fondata sulla fusione delle tecnologie e data come evento ormai in via di affermazione. Anzi come un evento non arrestabile. Che, per la verità non lascerebbe molto spazio all’umanesimo in senso proprio, fondata come questa “rivoluzione” è sul cosiddetto post-umanesimo cioè sul Digital, 5G, biotecnologia, nanotecnologia, Internet delle cose, robotica, intelligenza artificiale, biologia sintetica e simbiosi fra i vari organismi, ibridazione dell’uomo con le cose. Se agli strumenti si sostituiscono i sistemi di cui l’uomo è una semplice protesi – come osservava Ivan Illich – l’identità umana non potrà più essere quella dell’homo sapiens. L’uomo dovrà mutare. L’umanesimo nuovo avrà poco in comune con quello classico. Sarà un umanesimo inedito, si dice. Tanto inedito da essere un “non umanesimo” nei fatti.
Una riflessione su questo può essere agevolata dalla considerazione comparativa degli aspetti dell’altro GRANDE RESET storico, quello del 1348, quello dell’Europa dopo la grande pandemia della peste nera. Anche quell’evento fu vissuto all’epoca come evento insieme straordinario e provvidenziale, in quanto decisivo per mettere alla prova le strutture sociali su cui si reggeva la società dell’epoca. Ed anche allora quella “prova” aveva dato risultati inquietanti. La società, nonostante conoscesse da tempo immemorabile le pestilenze, non si trovò “preparata” a rispondere.
Lo sguardo lungo di Boccaccio
E nella letteratura italiana abbiamo un testo straordinario che documenta e illustra questo passaggio, il Decameron di Giovanni Boccaccio, che nella sua Introduzione descrive proprio la peste del 1348 a Firenze di cui l’autore era stato testimone oculare. Gli effetti della pandemia del 1348 erano stati anche per Boccaccio sconvolgenti ed “apocalittici”, in un certo senso. Basti dire che in quel contesto anche “la reverenda autorità delle leggi, così divine come umana era quasi caduta e dissoluta” (Decameron, Introduzione), la società si era destrutturata, la vita umana era regredita a caratteri mai visti di animalità.
Si trattava di rispondere, anche allora, alla destrutturazione sociale portata alla luce dalla pandemia, ma già carsicamente presente nel mondo medioevale, un mondo in cui le istituzioni di governo, l’Impero e la Chiesa erano in grave crisi da tempo, e forze nuove emergevano dal basso, alterando e modificando un ordine sociale che non riusciva a trovare un nuovo equilibrio. Dentro la società che si stava disgregando in effetti nasceva qualcosa di nuovo. Se l’Impero universale si disfaceva e la Chiesa non svolgeva più la sua funzione di guida morale – come Dante aveva già denunciato – nascevano però nuove compagini europee, si affermavano culture nuove, le armi pacifiche dei mercanti e banchieri dell’epoca, la lettera di cambio e il fiorino, unificavano o avvicinavano le diverse aree europee, scavalcando i poteri territoriali, e cominciavano a dare unità economica all’Europa e al Mediterraneo. Potremmo dire che la mercatura e il mondo bancario nascente, insieme allo spirito di impresa delle nascenti borghesie, erano le nuove “tecniche” che consentivano di riordinare e resettare la società. Ma, dopo la pandemia, le nuove tecniche potevano bastare a ri-umanizzare il mondo?
La “commedia umana” del Decameron ci dice una verità piuttosto diversa. Non si trattava solo di rivolgersi al nuovo spirito mercantile o di ricorrere alle nuove tecniche monetarie per accrescere la ricchezza e la sua circolazione, se si voleva davvero ri-umanizzare il mondo. Si trattava di “fare società” laddove c’era conflitto, contrapposizione, individualismo o isolamento, così come avevano fatto nel piccolo i dieci giovani fiorentini riunitisi nella villa campagnola per fuggire la peste. La moneta poteva servire certo a fare unità, ma poteva servire anche a dividere, a contrapporre, a negare valori di umanità, ad alterare la giustizia, il culto religioso e così via. Nella affollata galleria dei personaggi del Decameron accanto al mercante coraggioso che affronta i rischi del mare, il regno della “fortuna”, c’erano infatti, grazie al nuovo uso del denaro, anche l’usuraio o il notaio falsario, il predicatore ciarlatano, l’inquisitore falso e ipocrita, il prete astuto e opportunista.
Ci vuole qualcosa di più della tecnologia per “fare società”. Sono necessari ingegno e intelligenza, ma neppure essi bastano. L’ingegno e l’intelligenza possono servire ad avvicinare ed unire le persone, a superare le barriere di classe e quelle culturali, a far convivere le idee e le fedi diverse, a fronteggiare i rischi della vita sociale, iniziando da quelli sanitari. Come tante novelle del Decameron mostrano. Ma ingegno e intelligenza non bastano, per due motivi diversi. Prima di tutto non bastano perché l’uomo non è buono per natura, non può recuperare una sua presunta innocenza originaria. La persona umana può servirsi dell’ingegno e dell’intelligenza – che pure non è sapienza – in modi molto diversi, secondo una scala di valori che ha gradi molto diversi. L’ingegno può essere usato per migliorare la realtà, ma anche per ingannare gli altri, per prevaricare sugli altri, per affermare il proprio io contro gli altri, per usare strumentalmente gli altri nella beffa, può essere identificato con l’astuzia e la furbizia che danno vita ad una sorta di “epos” degli sciocchi che si credono astuti, i mille Calandrini che incontriamo sempre nelle vicende umane.
In secondo luogo ingegno e intelligenza non bastano perché ci vuole una forza addizionale che spinga all’azione. Non basta pensare ciò che è giusto, bisogna volerlo. E il pensare non include il volere, diversamente da quanto aveva pensato tutta la filosofia classica.
Ci vuole l’amore
Ci vuole quel trasporto umano, quella forza “…che sovrasta la tempesta e non vacilla mai, che è la stella guida di ogni barca perduta… che non è soggetta al tempo… che non muta in poche ore o settimane” ( William Shakespeare) e che si chiama comunemente “amore” in senso profondo.
Quel sentire cioè che sublima sentimenti e doti che sono naturali, che è presente a livelli diversi in ciascuno, ma si realizza pienamente solo nelle personalità più elevate spiritualmente. Se l’amore umano, specie nella sua versione fisica e sessuale, non è negato a nessuno, c’è però una amplissima gradazione della passione d’amore, che fa la differenza fra le persone. In Lisabetta da Messina, in Griselda, in Federigo degli Alberighi e in pochi altri casi l’amore si manifesta come forza che vince tutti gli ostacoli, qualcosa che è “forte come la morte”. Amor vincit omnia vale solo per questi casi. Ma questa forza, che pure è posseduta da pochi, pervade tutta la società e la umanizza. E’ allora forse un anacronistico ritorno alla società cortese e cavalleresca, che delinea una via d’uscita nostalgica e passatistica dalla crisi pandemica, come mi pare riconosca nella sua ipotesi interpretativa, sia pure circondata da cautela e da riserve autocritiche, Franco Cardini nella sua interessante “incursione” storico-letteraria entro il Decameron visto in relazione alla pandemia? (Franco Cardini, Le cento novelle contro la morte- Leggendo Boccaccio: epidemia, catarsi, amore, Roma, Salerno editrice, 2020). Forse no, forse è qualcosa di più o di diverso.
Forse Boccaccio è molto più consapevole della realtà storica e dei suoi condizionamenti, per poter pensare davvero ad un ritorno al passato. Semplicemente ha scoperto una sorta di regolarità sociologica, qualcosa che non tocca solo la sua epoca, e cioè ha scoperto che ingegno e razionalità, pur necessari, non bastano a umanizzare la società. Attraverso una dedizione, sostenuta da questo slancio misterioso, occorre ricostruire i legami profondi della fides che lega tra loro le persone e consente di “fare comunità” e quindi “fare società”, o di costruire gli essenziali “beni relazionali” per usare termini oggi più alla moda. In questo modo Boccaccio afferma le esigenze di un vero umanesimo, che può essere sì sostenuto, oltre che dall’ingegno, anche dalla tecnica (nel suo caso quella borghese e mercantile che aveva potuto conoscere e sperimentare personalmente nella sua giovinezza) ma non può essere surrogato da essa.
Come ci fa capire il DECAMERON, la vera e decisiva risposta alla crisi pandemica non fu e non poteva essere una risposta emergenziale. L’isolamento sociale rappresentato, nel racconto, dal rifugiarsi dei giovani in una villa della campagna toscana – in realtà quell’isolamento era concepito come un fenomeno temporaneo, e comunque non era un fenomeno di asocialità, ma uno strumento per ricostruire una nuova convivenza – non era la soluzione, che invece poteva trovarsi solo nel ricorso alle grandi risorse della cultura umanistica esplicitato dai contenuti delle cento novelle. Si trattava di contrastare la destrutturazione sociale, la degenerazione e il degrado che la “emergenza” pandemica aveva portato alla luce, ma non aveva creato; esse c’erano già, anche se nessuno o quasi le percepiva. La vera e decisiva risposta fu quindi, in un certo senso, il grande umanesimo italiano nella sua stagione rinascimentale, che elaborò un modello culturale che fu ed è ancora un essenziale referente unificante per l’ Europa di oggi.
Una lezione per oggi
Al disfacimento sociale e morale che si accompagna alla peste delineato all’inizio dell’opera, Boccaccio contrappone infatti il ricorso all’intelligenza umana impiegata su scala sociale ed ai legami affettivi profondi, con l’amore al suo punto più alto, i veri strumenti per contrastare la disumanizzazione emersa nella pandemia e per combattere il “rischio”, ovvero l’imprevedibilità delle vicende in cui l’uomo è inserito, da lui denominato “fortuna” e quindi anche il rischio pandemico. Sono elementi entrambi che consentono di abbracciare pienamente la complessità del reale (questo il senso profondo del “realismo” del Decameron, che riesce a rappresentare l’ideale continuità tra i cavalieri della spada, o dell’ingegno e dell’industria umana e gli altri uomini tutti calati e assorti nei loro istinti e nelle loro passioni, senza i quali la rappresentazione del reale sarebbe mutila) e quindi di evitare quella cecità della conoscenza che anche oggi ci rende tanto soggetti a errori ed illusioni. L’intuizione umanistica di Boccaccio è in modo sorprendente perfettamente adeguata anche e proprio alla realtà che ci troviamo oggi di fronte. Come ha osservato Edgar Morin “l’intelligenza parcellare, compartimentata, meccanicista, disgiuntiva, riduzionista, spezza il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato, unidimensionalizza il multidimensionale. E’ un’intelligenza miope che il più delle volte finisce per essere cieca…. Così, più i problemi diventano multidimensionali [il Covid-19 oggi ne è un esempio], più si è incapaci di pensare la loro multidimensionalità; più progredisce la crisi, più progredisce l’incapacità di pensare la crisi; più i problemi diventano planetari, più diventano impensati. Incapace di considerare il contesto e il complesso planetario, l’intelligenza cieca rende incoscienti e irresponsabili…. Di fatto la falsa razionalità ossia la razionalizzazione astratta e unidimensionale, trionfa su tutte le terre… Da tutto ciò derivano catastrofi umane, le cui vittime e conseguenze, non sono riconosciute né contabilizzate, come lo sono invece le vittime delle catastrofi naturali… Il XX secolo ha generato progressi giganteschi in tutti gli ambiti della conoscenza scientifica, così come in tutti i campi della tecnica. Nel contempo ha prodotto una nuova cecità verso i problemi globali, fondamentali e complessi, e questa cecità ha prodotto innumerevoli errori ed illusioni. ”. (Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001, p. 43, 44, 45,46).
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Questa importantissima “intelligenza della complessità” bocceccesca, che rifiuta una razionalità mutilata e mutilante (come quella prodotta da ogni tecnica assolutizzata) è la vera forza dell’opera che, proprio per questo, possiede una chiara struttura unitaria; il Decameron non è una antologia casuale di racconti. Nell’itinerario ideale delle novelle, costruito secondo le regole medievali della Commedia, si passa infatti dall’analisi aspra e amara dei vizi della prima giornata all’elogio delle virtù splendenti nella apoteosi dell’ultima novella. Da Giuda – Ser Ciappelletto, dall’uomo per cui si può dire che era meglio per lui il non esser nato, a Griselda, colei che appare “umile ed alta più che creatura” come la critica letteraria ha precisato.
Il vero inferno terreno
Se vogliamo dirla tutta, nel Decameron, il “distanziamento” umano e sociale – che oggi sta divenendo una nuova “normalità” – appare allora come il vero inferno terreno – ben rappresentato dalla prima novella, una novella impressionante e terribile, quella di Ser Ciappelletto -, un inferno in cui l’isolamento delle persone è totale e in cui troviamo “il piggiore uomo forse che mai nascesse”, dotato di una volontà gratuita di male, una sorta di Catilina (in versione sallustiana) o di Jago. C’è nella novella una evidente “morte del prossimo”, domina una totale anaffettività: il protagonista, un notaio che fa in punto di morte una falsa confessione, è assolutamente privo di ogni capacità di riflessione, cioè di auto-interrogazione sul senso di quanto fa ed è interessato ai meri effetti del suo agire. Egli usa gli altri solo come strumenti per i suoi fini ed egli stesso è usato nel medesimo modo. E’ l’“uomo peggiore” proprio per questo, non perché sia più crudele o feroce di altri, ma perché realizza perfettamente, nel suo isolamento totale, che lo priva della capacità riflessiva e della coscienza personale, necessarie per entrare in relazione, il livello di umanità più abietto possibile.
Ma il distanziamento sociale ed umano, l’incomprensione, la separazione è il dramma delle tante altre novelle che non sono a lieto fine. E viceversa il lieto fine appartiene a quelle in cui la separazione si supera, si ricostruisce una famiglia, una amicizia, una relazione.
Il paradiso come convivenza
La convivenza che funziona perfettamente, che è embrione di una vera comunità umana, è invece il paradiso terreno cui perviene, dopo prove terribili, la protagonista dell’ultima novella, Griselda, che vince di fatto col suo sentimento la feroce disumanità o la “matta bestialità” del marchese Gualtieri. Griselda, la figlia del guardiano di pecore, scelta come sposa dal marchese Gualtieri, è la umanità migliore possibile, esattamente come Ser Ciappelletto è quella peggiore possibile, perché essa incarna lo spirito necessario a costruire una comunità a partire da quella familiare. Griselda supera infatti il massimo distanziamento sociale (quello tra signore feudale e umile popolana) solo grazie alle sue capacità umane, che riescono a redimere persino la “matta bestialità” di Gualtieri, che sottopone alle prove più disumane e devastanti la povera giovane.
Le virtù di Griselda, la fermezza, la costanza, la magnanimità, la grazia e l’umiltà, e la sua capacità di amore e dedizione totale riescono a capovolgere le rigide gerarchie feudali e a dimostrare così che gli spiriti divini possono nascere nelle povere case, mentre nelle case reali «a volte nascono uomini più degni di guardar porci che d’avere sopra uomini signoria» ( G. Boccaccio, Decameron, Decima giornata, centesima novella). Il superamento dei “distanziamenti sociali” produce nei fatti una civiltà ed una società più perfette, perché più capaci di valorizzare i singoli, e cioè perché davvero più “inclusiva”.
“Libertà, magnanimità fedeltà (versus avarizia, superbia, invidia). Dall’inferno borghese e mercantile di ser Ciappelletto al paradiso cavalleresco di Griselda… La crisi di identità scatenata dalla peste è superata, il mondo è stato rifondato”, come osserva qui molto opportunamente Franco Cardini (F. Cardini Le cento novelle ecc., p. 110)
Costruire città
La realizzazione della città, prima tardo-medioevale, poi umanistica è il vero coronamento materiale di questa tensione umanistica verso la rifondazione della realtà dopo la pandemia. Costruire città (nel senso di civitates) non è mai stato cosa semplice. Il fatto è che ci siamo dimenticati della concreta esperienza della storia umana, prima di tutto, delle difficoltà implicite nel costruire le modalità più adatte del “vivere insieme”, nella famiglia e nella città – difficoltà che la cultura classica ben conosceva e che sono attestate dagli albori della civiltà. Così le presentava in estrema sintesi addirittura un Salmo della Bibbia, il Salmo 127:
“Se il Signore non edifica la casa invano faticano per essa i suoi costruttori/Se il Signore non conserva la città, invano la sorveglia il suo custode”.
Costruire città, anche nella plurisecolare vicenda europea, ha significato creare “assembramenti” umani, convivenze umane, che però erano funzionali a risolvere i problemi, non a crearne di aggiuntivi. Anche perché le città non erano semplici “assembramenti” umani, raggruppamenti spontanei di persone che fuggivano dalle campagne per trovare la libertà urbana (“l’aria delle città rende liberi”) o per impiantarvi attività artigianali. Vi era qualcosa di più. Vi era una cultura che serviva a superare le difficoltà – certo non paragonabili a quelle attuali – ed anche di essa ci siamo dimenticati. Brunetto Latini, il maestro di Dante Alighieri, lo percepì immediatamente scrivendo nel suo Tresor: “Cités est uns assamblemens de gens a abiter en un lieu et vivre a une loi” (“La città è un assembramento di persone al fine di abitare un determinato luogo e vivere sotto una medesima legge”). Troviamo qui il termine “assembramento” che oggi usiamo con tanta frequenza, in accezione negativa, e che rimanda all’antico francese “assamblement” (a sua volta derivante da una fusione tra la preposizione ad e un derivato dal latino simul, insieme) che indica il radunare, il raccogliere, il mettere insieme riferito ad una folla. Ma questo radunare per far “vivere insieme” non è un fatto puramente meccanico, una semplice sommatoria di persone migranti che confluiscono casualmente da varie zone in una unica località, come nella globalizzazione attuale. Esso è completato dal fatto che nelle città si vive sotto una medesima legge, in qualche modo anche gli ultimi arrivati entrano a far parte di un unico “corpo” collettivo. Problemi di convivenza (non solo igienica, ovviamente) tra tante persone che vivevano a stretto contatto, differenze di condizione giuridica, conflitti sociali erano attestati quasi dovunque, ma la novità era che una legge comune (iniziando dagli Statuti comunali) consentiva ora il “miracolo” del vivere insieme.
Vi era però sempre anche un riferimento esterno, un elemento che trascendeva gli interessi, le mentalità, le aspirazioni dei singoli. Altrimenti, nel caso delle città, noi avremmo sempre avuto città come l’antica Babilonia (cioè una città-mostro, fondata sulla dismisura, non una comunità a misura umana, la città antica era sempre perciò stata una presenza inquietante) o una delle tante metropoli-baraccopoli che oggi troviamo in tante aree del mondo. Non avremmo avuto una Pienza o le città a misura umana che sono sparse nelle varie aree del territorio italiano.
E la coscienza del divino (“Il Signore che costruisce la città”) non era affatto assente da questa costruzione. Le “paci di Dio” nell’Europa medioevale, in un mondo in cui era naturale girare, non solo “distanziati”, ma soprattutto armati per potersi difendere dalle altre persone, furono spesso la premessa di questa rinata vita associata, che divenne poi la base del dinamismo europeo, esito del potenziamento delle forze dei singoli individui sostenute dalla loro partecipazione a solide ed affidabili comunità.
Un virus funzionale al nichilismo
Se oggi non dobbiamo più costruire nuove città come nel Medioevo dobbiamo però realizzare un compito collettivo, andando contro le tendenze nichilistiche dominanti, ed anche contrastando l’azione di un virus, che ha anche una sua dimensione culturale chiarissima, essendo, per così dire, un virus “intelligente”, “funzionale” al nichilismo, capace di incorporarlo perfettamente e di imporlo in via “terapeutica” alla società. Il Coronavirus – potremmo dire quasi un “virus del nichilismo” – in effetti non ha fatto altro che mettere in evidenza la perversione prodotta dal “progresso” quando esso avanza senza finalità collettivamente prestabilite e in nome di astrazioni che prescindono dal miglioramento umano e personale, ma anche collettivo. Prima dell’epidemia ci eravamo illusi di poter difendere la POLIS europea pensando che bastassero come legami tra le persone e tra gli Stati, legami liquidi, astratti, impersonali e distanzianti, come ad esempio quello della moneta unica.
Ma la “città europea” (come poi, in un certo senso, la “polis europea” di oggi, l’UE), è nata per la finalità esattamente opposta, per realizzare un legame molto diverso, per realizzare quel “vivere insieme” che è stato all’origine della civiltà europea. E’ ora evidente – grazie all’effetto “apocalittico” della pandemia – tanto il rischio cui va incontro il progresso realizzato sulla base di quella cultura sopra descritta, quanto l’impossibilità di costruire davvero l’ Europa sulla base di legami impersonali, astratti e algoritmici, che connettono solo virtualmente le persone e consentono di vivere entro un “distanziamento sociale” (nei fatti una “separazione sociale”), inteso come principio organizzativo razionale. Il “distanziamento” è in realtà la negazione più radicale dell’Europa, l’elemento negativo che ha avvelenato, più di ogni altro, nelle forme più disparate e solo in apparenza più “innocue”, ma in realtà più subdole, non solo nella sua versione estrema e razzista, la vita pubblica europea.
La crisi del Coronavirus ha quindi mostrato – nei suoi momenti più drammatici – quanto fragili siano nella “società del rischio” e, per noi, in Europa, gli argini e le difese che dovrebbero tenere in sicurezza, contro ogni prevaricazione e ogni attentato, i diritti della persona umana e dell’essere umano più in generale. Ha mostrato soprattutto che quei diritti sono a rischio anche nei tempi “normali”, pur se noi non lo notiamo. In un’epoca in cui la retorica sui diritti (specie su quelli che qualcuno definisce “cosmetici”, o sulla mobilità umana che pare il diritto essenziale, quasi ogni uomo aspirasse ad essere in permanenza un globetrotter!) appare dominante e ubiquitaria e sganciata da ogni riferimento ai doveri.
Il fatto è che le concezioni utilitaristiche, di fatto anche nichilistiche, dell’essere umano, prevalgono nettamente, nella società del rischio, su quelle personalistiche, stravolgendo il senso degli stessi diritti umani.
Il coronavirus ha fatto cadere una maschera
Il Coronavirus allora ha in qualche modo distrutto una maschera. Esso, come il “mercatismo” liberista imperante, divora gli spazi del gratuito e perciò rende impossibile il “vivere insieme”, privilegiando il vivere isolati, il vivere solo per sé, vale a dire distrugge le basi umanistiche della convivenza umana così come essa si è storicamente concepita e costruita in Europa. Quelle basi che possono essere ricostruite anche oggi solo attraverso una rinnovata alleanza tra umanesimo e scienza, umanesimo e tecnica e che consenta di superare l’incubo della “società del rischio” (non più il rischio “consentito” perché prevedibile e calcolabile, ma il rischio “inevitabile” perché imprevedibile e incalcolabile ex ante) che sinora assorbe e distrugge risorse umane e finanziarie, speranze e aspettative di futuro (rendendo il futuro un incubo!) e finisce per sacrificare i diritti della persona alle compatibilità finanziarie. E di superare anche i rischi che noi stessi ci causiamo con la razionalità astratta e unidimensionale, frutto del pensiero tecnocratico, che rimodella l’uomo secondo la logica meccanica e deterministica della macchina artificiale o del cyborg e ci rende ciechi di fronte alla profonda complessità del reale e di fronte alla nostra stessa umanità, essa davvero infinitamente complessa.
Giova ricordare che la profonda crisi di socialità che segnò l’epoca successiva al crollo dell’impero romano fu superata in Europa – soprattutto grazie al contributo degli ordini monastici cristiani nati in Occidente – attraverso un duro contrasto delle situazioni di asocialità ed anomia predominanti ed attraverso la consapevolezza che certi rapporti umani andavano considerati “innaturali” (ed era la prima volta, pensiamo alla schiavitù). La edificazione materiale delle città non sarebbe potuta mai avvenire senza una precedente ricostruzione spirituale del mondo occidentale attraverso la nascita di nuove comunità. Piccoli gruppi di uomini (ed anche di donne) si separavano dal mondo per coltivare, attraverso l’esercizio sistematico (“ascesi” nel suo senso greco originario) delle virtù in grado di prevalere sulle passioni che pervertivano i rapporti sociali. Quell’isolamento di singole comunità dalla società serviva allora a recuperare una socialità che si era perduta ed a ricostruirla su nuove basi. In particolare l’esperienza di San Benedetto da Norcia (non a caso proclamato dalla Chiesa cattolica nel 1964 patrono d’Europa), che puntava sulla combinazione di preghiera e di lavoro (ora et labora) si presentò come una esperienza decisiva per la costruzione della società europea. L’ascesi monastica, in versione benedettina, doveva condurre non ad una astratta e disincarnata perfezione, ma al rinnovamento della coscienza personale, che era allora (ed è anche oggi) l’unico modo per ricostruire dalle fondamenta una società quando essa è ormai disgregata, ritessendo le maglie di quella comunità invisibile su cui la vera società si appoggia. L’idea (profondamente rivoluzionaria, essa sì) del “mettersi al servizio” degli altri – e su questo costruire comunità – rovescia l’orgoglio egocentrico di chi vuole sottomettere gli altri al proprio volere disprezzando la socialità intrinseca della persona. Il lavoro, a partire da quello manuale, non è più pertinenza di esseri inferiori, ma strumento anch’esso di miglioramento, di “ascesi” umana e umanizzante, di inclusione sociale, non perché esso sia il vero fondamento della società, o, peggio ancora, perché l’uomo sia primariamente homo oeconomicus e sia essenziale il suo attivismo esteriore, ma perché il lavoro, non solo manuale, è un elemento essenziale per realizzare quell’ordo amoris, quell’ordine percepibile anche agli occhi che deve permeare tutta quanta la realtà, che è poi, per San Benedetto, il modo in cui Dio deve esser glorificato, ut in omnibus glorificetur Deus. I singoli sono chiamati a perfezionarsi in tutto quanto essi fanno e a perfezionare tutto quanto essi fanno. E’ naturale che nelle prescrizioni della Regola benedettina trovino perciò un posto centrale quei compiti che sono essenziali per umanizzare la società e che prevedono il superamento di ogni distanziamento sociale, incompatibile con la comunità di vita (cenobio) che è la roccia su cui ricostruire la città umanizzata e quindi anche la vera società.
Boccaccio medievale?
Questo anche il senso della comunità civile che il Decameron propone di ricostruire. Su un modello medioevale? La questione della medioevalità di Boccaccio non è una questione leggibile alla luce del vecchio schema reazione-progresso, o, come si diceva nell’Ottocento, resistenza-movimento.
Se Boccaccio è “medioevale”, non lo è nel senso di conservatore, di un laudator temporis acti, ma in un altro senso, un po’ più profondo. Nel senso cioè che, come nel Medioevo, il Boccaccio intende dare la preminenza alla capacità di pensare, rispetto alla capacità di astrarre, che sarà propria della modernità, e sarà alla base di tutte le innovazioni tecnologiche. La capacità di pensare mira a individuare i fini, trascurando i mezzi, la capacità di astrarre, lavora ad individuare i mezzi per conseguire i fini, e quindi lavora a sezionare la realtà, a specificarla, a semplificarla, a creare le distinzioni e le separazioni necessarie per costruire i mezzi. Pensare i fini dell’umanità significa pensare la complessità, pensare l’insieme e non le singole parti in modo distinto. Significa fare quel lavoro di sintesi che fu l’opus magnum dell’umanesimo e la base di quella versatilità che contraddistingueva i suoi protagonisti, a partire da Leonardo da Vinci. Un po’ l’opposto della operazione, pur oggi necessaria, ma in sé insufficiente, di digitalizzazione della realtà.
Un nuovo umanesimo opposto al “distanziamento”.
Ogni separazione o distanziamento sarebbero condizionamenti pesanti per questa azione guidata dalla facoltà di pensare. Ed in effetti, nel secondo millennio cristiano, anche la città europea era nata proprio per superare un “distanziamento sociale”, quello che aveva caratterizzato il continente europeo all’inizio del Medioevo, dopo il disfacimento e il crollo dell’Impero Romano. Si era capito molto lentamente che si poteva superare quel “distanziamento” solo dando vita ad un nuovo tipo di convivenza umana e sociale, che si fondava sulla conciliazione di unità e diversità, sulla memoria del passato e sulla creazione del futuro, sul consolidamento di legami e l’apertura al nuovo, sulla certezza del diritto e sulla concreta possibilità di un miglioramento umano, sul superamento delle contrapposizioni e distinzioni giuridiche e sociali. Si replicava in grande il modello delle convivenze nato nei monasteri, le convivenze che traducevano in relazioni umane l’ordo amoris inteso come senso profondo della realtà.
Solo con questo nuovo tipo di convivenza si poteva – e si può ancora oggi – eliminare quell’incertezza del futuro che congela i progetti di vita personali e familiari, distrugge la speranza collettiva, disintegra la fiducia e rattrappisce l’economia, gli investimenti e i consumi. Il futuro, in mancanza di questo, non è più una promessa, un oggetto di speranza, un orizzonte di senso. Nel nichilismo, da tempo dominante, il futuro è soprattutto una minaccia. Per cui bisogna consumare tutto e subito, come scelgono di fare alcuni di fronte al panico della morte minacciata dalla pandemia.
Un nuovo umanesimo, nel senso di un ritorno, in forme aggiornate, all’umanesimo civile che noi abbiamo costruito, quello che ha posto le basi, sviluppandosi nei secoli successivi, non solo della politica moderna, ma anche dell’economia civile, cioè di una conquista teorica peculiare dell’Italia e essenziale, forse oggi ancor più di ieri, per la cultura europea. Un nuovo umanesimo che ha certo bisogno, in Italia, anche di investimenti digitali e materiali, ma che ha bisogno soprattutto di investimenti culturali, e, quindi, anche immateriali, essi pure necessari come l’aria per respirare. A partire da quelli educativi. Solo a queste condizioni può tornare in Italia e in Europa una politica con la P maiuscola e la “ripartenza” può essere virtuosa. Solo un nuovo, ma vero, umanesimo può conseguire questo obiettivo.

Umberto Baldocchi
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Nell’illustrazione in testa: i giovani novellatori del Decameron in un dipinto di John William Waterhouse, A Tale from Decameron, 1916, Lady Lever Art Gallery, Liverpool
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SEI PAROLE PER IL 2021
Un lessico diverso è necessario per orientarci in questo tempo nuovo con sguardo profondo e lungimirante
L’editoriale di Luigi Ciotti sull’ultimo numero di lavialibera
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“Vorrei proporre sei parole per un lessico del 2021. Parole necessarie a orientarci in un tempo nuovo che richiede uno sguardo profondo e lungimirante, proteso all’Altro e all’Oltre.
RIGENERAZIONE
La prima parola è rigenerazione. Non basta più parlare di cambiamenti: fino ad ora il più delle volte sono stati semplici adattamenti o, peggio, mutazioni esteriori. La sostanza è rimasta la stessa. Oggi questi cambiamenti superficiali, cosmetici, non ce li possiamo permettere. Urge una rigenerazione, che comporta un notevole grado d’azzardo. Non ci si rigenera nella continuità, ma solo andando incontro all’ignoto con coraggio.
INGIUSTIZIA
Alla base della disuguaglianza c’è l’ingiustizia: un sopruso del forte verso il debole
Disuguaglianza è un concetto che indica una differenza astratta, matematica, mentre nella parola ingiustizia risuona la ferita, la carne, la vita. Ingiustizia richiama il sopruso del forte verso il debole ed è questo il secondo termine che dovremmo adottare. Occorre riconoscere che alla base di ogni disuguaglianza c’è sempre un’ingiustizia, un’inaccettabile differenza non solo quantitativa ma qualitativa. La logica del profitto distingue tra vite di serie a e di serie b, solo che le ingiustizie sono cresciute a livello tale che le seconde non sono più solo vite retrocesse, ma espulse, scartate, dimenticate. In molti casi oppresse o soppresse.
ECOLOGIA INTEGRALE
La terza parola è ecologia integrale. L’aggettivo integrale sottolinea come il ripensamento radicale del nostro rapporto con la natura debba essere esteso a tutti gli ambiti della vita, a cominciare da quello sociale e relazionale. La crisi che stiamo vivendo non è solo una crisi sanitaria ed economica, è prima di tutto una crisi sociale e culturale. Non se ne esce senza una profonda trasformazione etica, un cambiamento del nostro rapporto col mondo, con gli altri, con noi stessi. Perciò questa deve essere non una transizione – cioè un semplice passaggio – ma una conversione ecologica. Conversione laica, alla portata di tutti: si tratta di rivolgere il cuore e la coscienza a un ambiente che stiamo ciecamente sfruttando e saccheggiando. Ciecamente perché ne siamo parte. Lo sfruttamento, il saccheggio e la devastazione sono non solo distruttivi ma autodistruttivi.
[Da Cosa nostra siciliana al traffico e consumo di stupefacenti, dai flussi migratori fino al rapporto tra uomo e Natura, qui trovi tutti i numeri del primo anno de lavialibera]
FRATERNITA’ APERTA
L’espressione fraternità aperta andrebbe sostituita alla generica, tanto evocata quanto poco vissuta, fraternità. Come spiega Papa Francesco nella sua ultima enciclica Fratelli tutti, fraternità aperta è quella che permette “di riconoscere e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica”. Parole che mettono in luce la povertà non solo materiale ma esistenziale smascherata da questa pandemia, cioè la qualità scadente di relazioni che non trascendono la vicinanza fisica e dunque patiscono la profilassi del distanziamento. Beninteso, è normale sentire la mancanza degli abbracci di amici, conoscenti, colleghi. Ma se avessimo sviluppato prima una fraternità aperta il distanziamento diventerebbe, paradossalmente, uno stimolo a sentirci ancora più vicini, parti pulsanti di uno stesso organismo. In sostanza significa questo: “Non dire più che ho dei prossimi da aiutare ma che mi sento chiamato a diventare io prossimo degli altri”.
DIRITTO
La quinta parola, diritto, va riscoperta e realizzata ripartendo dai documenti scritti alla fine della seconda guerra mondiale per archiviare una stagione di violenza e barbarie. Il termine è via via sparito dal lessico politico, come se parlare di diritti fosse ormai datato e un certo grado di ingiustizia sociale fosse l’inevitabile prezzo da pagare per progredire. Ora che la politica è diventata perlopiù uno zelante maggiordomo dell’economia, tra interessi privati e beni pubblici non c’è più alcuna relazione, tutto a vantaggio dei primi. Dello Stato sociale sono rimaste soltanto macerie. Ed è per questo che non è possibile costruire futuro senza una radicale trasformazione di questo sistema economico ingiusto alla radice.
[Avrò cura di te è il quinto numero de lavialibera dedicato ai beni comuni]
FRAGILITA’
Se c’è una lezione di cui dobbiamo fare tesoro, usciti dall’emergenza sanitaria, è quella della fragilità che è la mia sesta e ultima parola. Fragile è la condizione umana e averne coscienza è il nostro punto di forza. Se gli uomini non si fossero riconosciuti fragili non avrebbe sentito la necessità di unirsi in gruppi, in comunità e infine in società dove i limiti di alcuni venivano compensati dalle capacità degli altri e tutti insieme costruivano contesti di vita e di civiltà. E dove la stessa morte era meno angosciante nella consapevolezza che la memoria di chi se ne andava veniva custodita dall’affetto e dall’impegno di chi restava.
Una civiltà che rimuove la propria fragilità, si accanisce contro quella degli altri
Da sempre la condivisione e la corresponsabilità sono le basi per lottare contro l’ingiustizia e per costruire giustizia, ma la condivisione e la corresponsabilità comportano individui che non hanno paura di riconoscersi fragili. L’individuo medio occidentale ha invece paura del suo aver paura, quindi si finge onnipotente. Ma una civiltà che rimuove la propria fragilità finisce sempre per accanirsi contro quella degli altri. Uccide per sentirsi più forte, immortale.”
Luigi Ciotti

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