NGEU. Senza il buon funzionamento della Pubblica Amministrazione non si va da nessuna parte.

cc7ffaea-3c92-4213-bd1d-0740f749b31f
Pubblica amministrazione: non basta la rivoluzione digitale
di Fiorella Farinelli su Rocca

Se risiedo in una Regione e mi capita un problema di salute in un’altra, l’ospedale che mi soccorre può ricostruire velocemente la mia storia sanitaria, le patologie, gli interventi, le terapie, le allergie, i farmaci, le vaccinazioni? È una cosa che, soprattutto in situazioni di emergenza, potrebbe fare la differenza. Ma non è affatto scontata. Sebbene il fascicolo elettronico sanitario elettronico sia stato istituito nel 2015, ad esserne dotati sono al momento solo 13 milioni di persone, e solo 12 sono le Regioni che possono condividere in toto o parzialmente i loro dati. C’è di più. Anche nella fortunata circostanza di venire da una Regione e di essere curati in un’altra che hanno entrambe esperienza del fascicolo (ma ce ne sono di grandi e popolose, anche nel Centro-Nord, che non hanno neppure messo mano all’impresa), può capitare che l’ospedale non abbia l’applicativo per accedervi, e allora non si può far niente. Di storie che descrivono i ritardi a rendere «interoperative» le banche dati, e perfino ad aggiornarle puntualmente, ce ne sono tante nelle dettagliate inchieste per il popolare programma televisivo Report condotte dalla giornalista Milena Gabanelli (1). Ce ne sono, per esempio, in uno dei campi più scottanti per un paese che ha milioni di disoccupati, quello dell’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. I nostri Centri per l’Impiego non sono, si sa, dei mostri di efficienza, ma quanto dipende da non essere stati messi in grado di operare? Tra i tanti ostacoli di tipo normativo e organizzativo, aggravati da carenze quantitative e qualitative in fatto di personale, c’è l’impossibilità di «vedere» le opportunità lavorative della Regione accanto, perché ogni istituzione ha la sua banca dati, più o meno aggiornata, che resta chiusa e non interagisce con le altre. Le Regioni, in verità, da tempo dovrebbero condividere i loro dati con Anpal, l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro che fa capo all’apposito Ministero. E i dati, per questa via, dovrebbero diventare accessibili nell’intero territorio nazionale, ma il sistema non funziona perché l’accordo interistituzionale di condivisione dei dati (il lavoro è materia «concorrente» tra Stato e Regioni) ancora non c’é. La disponibilità della tecnologia non basta, occorre anche l’indirizzo politico, sostenuto da specifiche decisioni amministrative, e ovviamente anche da adeguate risorse economiche. Lo stesso accade per la formazione professionale di competenza regionale, con l’aggravante che ogni Regione ha i suoi indicatori e i suoi criteri di catalogazione degli allievi, dei contenuti dei corsi, delle ricadute delle qualifiche in termini di occupazione. Col risultato che neppure per i migliori ricercatori è facile produrre analisi comparative compiute. Figuriamoci quanto è complicato, per chi vuole iscriversi, avere un’idea precisa delle opportunità formative disponibili, e del loro grado di utilità per l’inserimento occupazionale. Anche qui, a subire le conseguenze sono in tanti, sia i cittadini che i decisori politici.

non solo le Regioni
Oggi è fin troppo di moda, nel ritorno di fiamma per antiche culture stataliste, attribuire soprattutto alle Regioni – e a un asse decisionale tra Regioni e Stato che non funziona granché – le massime responsabilità dell’inefficienza di molti servizi, e di molti ritardi in termini di utilizzo delle tecnologie. Ma, se è vero che pesano squilibri o sovrapposizioni nel disegno istituzionale e nelle competenze dei diversi livelli istituzionali di governo, può succedere lo stesso, e pure di peggio, anche in altri ambiti, e dentro gli stessi organi o enti statali. È il caso dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente, istituita nel 2005, nella cui piattaforma sono entrate finora le anagrafi di soli 5.300 Comuni (sugli oltre 8.000) con la conseguenza che è talora complicato, per esempio, accertare se chi chiede il reddito di cittadinanza ha il requisito della residenza in Italia da 10 anni o se l’imposizione fiscale, che dipende anche dalla composizione del nucleo familiare, è quella giusta: non proprio un dettaglio, quest’ultimo, rispetto al contrasto dell’evasione fiscale. Perfino l’Inps, il nostro fiore all’occhiello per efficienza e digitalizzazione, non è ancora riuscito a far confluire nella sua Anagrafe, attivata dal 2005, i dati sui contributi versati per i lavoratori di tutte le categorie, privati, pubblici, autonomi, degli ordini professionali. Mancano quelli di datori di lavoro pubblici, per esempio, e anche degli ordini.
Spesso mancano, perché caricati in ritardo, anche i contributi versati dai lavoratori. Così il lavoratore che è passato da un comparto di lavoro all’altro, sempre che sia in grado di accedere autonomamente all’Anagrafe (e anche questo è un problema, e non dei minori), non è sempre in grado di verificare se tutti i contributi sono stati pagati correttamente e non può, se ci sono cose che non vanno, attivare per tempo ispezioni e ricorsi. Tutto ciò deriva dal fatto che i processi di informatizzazione sono stati avviati in tempi diversi e da ogni Ente separatamente, senza riferirsi ad esigenze di coordinamento e di collaborazione interistituzionale, o anche considerando solo alcune esigenze e non altre. È il caso del Ministero dell’istruzione che, disponendo di un sistema informatico costruito molto tempo fa solo per la gestione degli organici e della mobilità del personale, non lo ha mai declinato anche su altri scopi, il monitoraggio dei drop out, l’edilizia scolastica, il curriculum formativo e professionale degli insegnanti e così via. Ma qui, più e prima che di ritardi tecnologici, si tratta di culture politico-amministrative, essendo gli organici e la mobilità del personale il vero core dell’attività concreta di viale Trastevere.

il ritardo italiano e l’opportunità N.G.
I ritardi comunque ci sono, e pesanti, rispetto ad altri paesi. Determinano perdite economiche rilevanti, ostacolano e rallentano la formazione di nuove imprese, scoraggiano quelle che potrebbero insediarsi da noi trasferendosi dall’estero, sono causa di disagi agli utenti dei servizi. Secondo l’indice Desi che misura estensione e profondità dei processi di digitalizzazione, nell’Europa28 l’Italia è ancora inchiodata ad un avvilente 24esimo posto. Con una spesa pro capite per cittadino pari a 96 euro, contro 185 della Francia, 207 della Germania, 323 del Regno Unito. Gli investimenti sulla digitalizzazione sono stati finora piuttosto bassi ma – come succede spesso nel nostro Paese – non sempre sono state spese interamente nemmeno le risorse disponibili.
Nel prossimo futuro, tuttavia, almeno in termini di disponibilità di risorse, la situazione potrebbe cambiare radicalmente, sempre che vada in porto l’assegnazione all’Italia dei 209 mld del Next Generation Eu. Alla Missione «Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura», il Recovery Plan
varato dal Consiglio dei Ministri il 12 gennaio assegna infatti ben 46,18 mld, di cui 11,45 per la trasformazione digitale del sistema pubblico (con 26,73 mld assegnati a quella del sistema produttivo e 8 mld a quella del settore turismo/cultura).

tutto bene dunque? Non proprio
Sono tante le voci degli esperti dei problemi della nostra amministrazione pubblica, tra cui l’autorevole professor Sabino Cassese, a sostenere che senza una sua riforma contestuale neppure un grande investimento nella digitalizzazione otterrà i risultati sperati. Cioè da un lato la semplificazione e l’efficienza dei servizi, dall’altro il superamento delle barriere tra pubblica amministrazione e cittadini. E di questa riforma, la più difficile visto il numero di fallimenti riscontrati finora, è vero che il Recovery Plan al momento non dice una sola parola nuova. La «rivoluzione digitale», in effetti, non è solo transizione da un certo sistema tecnologico ad un altro, implica profondi cambiamenti culturali, organizzativi, del modo di lavorare e della stessa struttura professionale degli Enti. Lo si è visto anche nel passaggio, imposto dalla pandemia, dal lavoro in presenza al cosiddetto smartworking che in molte strutture e servizi pubblici è stato assai più problematico che in aziende private, solitamente più capaci e disponibili a rimettere in gioco assetti e modalità operative consolidate. Un passaggio «legnoso», stigmatizzano gli esperti, qualche volta impraticabile non solo perché le connessioni domestiche non erano quelle giuste o perché il personale non era stato appositamente formato, ma per altri e più strutturali motivi. Parla per tutti il caso clamoroso del settore giustizia, una vera Caporetto, dove durante i mesi del lockdown il lavoro da remoto dei cancellieri è stato impossibile perché dai Pc domestici non si poteva accedere ai fascicoli pur digitalizzati dei processi, col risultato di un blocco pressochè totale dell’attività dei tribunali. Abbondante materia di riflessione ci viene del resto anche dall’esperienza di didattica a distanza della scuola, dove è apparso del tutto evidente che, oltre alle difficoltà dei tanti studenti sprovvisti di connessione e di appositi devices (e di adulti in grado di supportare i più piccoli, i più fragili, quelli che non padroneggiano ancora l’italiano), hanno pesato e pesano molto negativamente, insieme a una non diffusa padronanza da parte degli insegnanti dei dispositivi e delle loro potenzialità, anche altri fattori, più duri e resistenti di qualsiasi legno o legnosità solo abitudinaria. La pretesa di trasferire nei nuovi mezzi la didattica e la valutazione tradizionale da un lato. La rigidità organizzativa del sistema dell’insegnamento, gli orari, i calendari, la struttura chiusa delle classi, la fissità dei curricoli dall’altro. Un’occasione finora largamente sprecata, quella della didattica digitale nell’emergenza pandemica, per cominciare a innovare e modernizzare anche l’organizzazione della scuola.

digitalizzazione non è semplificazione
Quanto alla Pubblica Amministrazione in senso stretto, e ai suoi servizi nazionali e locali, è del tutto improbabile che possa bastare la digitalizzazione a superare la sua storica propensione a rendere complicato ciò che è semplice. È evidente invece che si corre al contrario il grave rischio, se non si procede a modificarne gli assetti, l’organizzazione, le gerarchie e le separatezze interne, i profili e la qualità professionale del suo personale – e perfino l’antica e connaturata cultura statalista del sospetto e della sfiducia nei confronti dei cittadini – che la stessa digitalizzazione ne risulti deformata o depotenziata. Lo si vede, già ora, anche per operazioni o dispositivi che dovrebbero aiutare a risolvere dei problemi, e che invece per la complessità delle regole di accesso o perché ci si è dimenticati di impartire precise disposizioni al personale coinvolto ne producono altri. La piattaforma Immuni, per esempio, ma anche il sistema pubblico di identificazione nazionale (Spid). La semplificazione non viene da sé, non è l’effetto scontato della digitalizzazione.
Il superamento dell’ingorgo e della sovrapposizione di leggi anche di dettaglio sfornate di continuo dal potere legislativo, i fenomeni di «diserzione amministrativa» determinati da una dirigenza potente e tuttavia stretta tra la subordinazione alla politica determinata dallo spoils system e l’interferenza del potere giudiziario, la scarsità di figure professionali con competenze tecniche diverse da quelle unicamente giuridiche, le modalità operative non orientate al risultato, le retribuzioni e le carriere indipendenti dalla qualità e dai risultati effettivi del lavoro e così via, richiedono per essere modificate una contestuale, e spesso anche preliminare, azione riformatrice. Che finora non c’è stata, o non è stata sostenuta da una volontà politica decisa, e con caratteri di continuità. Anche se quella che riguarda la Pubblica Amministrazione è una riforma che non costa, e che potrebbe anzi far risparmiare spesa pubblica ridondante o inutile.
La verità è che da un lato essa implica tempi lunghi e una continuità di azione incompatibili con la breve durata media dei governi italiani (e con lo «sguardo breve» della classe politica italiana). Dall’altro obbliga a mettere le mani negli spinosissimi rovi degli interessi e delle convenienze consolidate, esponendosi quindi all’»impopolarità» e alla perdita di consensi prima di poterne vantare i risultati.
Ma il problema c’è, acuto almeno come quello rappresentato dal fatto che in Campania – ma anche in altre aree del Paese – 1 nucleo familiare su 4 è privo di connessione a internet. O come quello che deriva dai 13 milioni di italiani del tutto privi di competenze digitali, e anche di quelle di base che consentono
di impararle, non solo tra i più anziani ma anche nelle fasce di età più giovani.
Cosa significa tutto ciò per la promessa della digitalizzazione di abbattere le distanze e le barriere tra amministrazioni e cittadini? Che conseguenze sociali avrebbe un accesso a servizi essenziali
basato unicamente sull’informazione e la comunicazione telematica? La digitalizzazione del Paese, è evidente, passa anche dal superamento di queste contraddizioni. E, prima ancora, dall’esserne consapevoli.

Fiorella Farinelli

Nota
(1) M. Gabanelli. La rivoluzione digitale mancata dello Stato che ci costa 30 miliardi l’anno.

NEXT GENERATION
ROCCA 15 FEBBRAIO 2021
rocca-04-del-2021-15feb21
——————————
schermata-2021-01-28-alle-12-07-50

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>