La Belleide di Gianni Loy

belleideINTRODUZIONE

La Belleide è un poemetto epico. In realtà è la parodia di un poema epico scritto, quasi sessant’anni fa, sui banchi di un liceo, a Cagliari. Era firmato, si fa per dire, con uno pseudonimo, P. Ligio. A distanza di tanto tempo, non vale nascondersi dietro un anonimato che, oltretutto, non era tale neppure all’origine. Solo un gioco di specchi. Una delle tante mie distrazioni, o forse no, che mi tenevano lontano dai libri e dallo studio. Come a dire che avevo ben altro da fare che rendere sudate le carte che la scuola cercava di impormi.
[segue]
Non si tratta di un’opera che ne valga la pena. Una timida satira dei docenti. Uno scimmiottamento delle materie di studio, soprattutto del greco, con riferimenti che, in gran parte, nascono e muoiono all’interno di un’aula e dei suoi frequentatori. Anche se l’esperienza di una trentina di ragazzi che hanno condiviso quell’aula per cinque anni, sino alla maturità, potrebbe costituire un universo.
Poca anche la qualità, se non la soddisfazione, a tanti anni di distanza, di riconoscere la padronanza della metrica e il ripudio, nella poesia, delle assonanze.
Ma allora perché pubblicare, oggi, un’esercitazione giovanile – alla quale, come dirò, se n’è aggiunta anche un’altra durante l’assemblaggio -? Perché non lasciare che quel libretto dattiloscritto, diffuso in poche copie realizzate con la tecnologia dell’epoca, la carta carbone, si estingua, com’è nella natura delle cose, assieme al suo autore ed ai suoi pochi interpreti?
Una bella domanda. Una domanda alla quale io stesso non sono in grado rispondere. Non lo so. È stata una decisione improvvisa ed istintiva. Nata, tuttavia, all’interno di un contesto. Questo non lo posso negare.
La circostanza è che da un po’, visto che il tempo stringe, cerco di mettere ordine nei miei cassetti, di distinguere il grano dal loglio, di decidere cosa valga la pena conservare e cosa invece destinare al macero. Non è impresa semplice, perché ciascuno degli oggetti conservati, delle pagine scarabocchiate durante una vita intera – a partire dalla prima lettera inviata ai miei genitori prima ancora di aver appreso a scrivere; a partire dai primi quaderni delle elementari che mia madre, previdente, ha conservato per me – sono esperienze di vita, reminiscenza di emozioni. Sono anche, tuttavia, reperti della vanagloria, materia deperibile, seppure in parte riciclabile, destinata comunque all’estinzione.
Non ho mai amato – l’operazione non è priva di rischi – gettare lo sguardo oltre il traguardo, immaginare di poter condizionare, in qualche modo, un futuro che non mi appartiene. Aver la presunzione di poter disporre di ciò che non ci apparterrà è peccato di superbia. L’ultimo atto che ci è concesso, se lo vogliamo, è quello di ripartire gli utensili utilizzati in vita, gli oggetti che abbiamo creduto nostri rivendicandone la proprietà, o almeno il possesso, e che invece sopravvivranno, mettendosi al servizio di altri, restando del tutto indifferenti alle nostre pretese.
Ho persino suscitato l’irritazione di Sonia, che pretenderebbe che sia io a decidere il destino delle mie spoglie. Cremarle? Dove seppellirle? Fatica a comprendere che non mi compete, che dovranno essere altri, a deciderlo. Anche ove rimanga una corrispondenza d’amorosi sensi con l’estinto, sarà il superstite, malgré soi, a doversene far carico. Viva il re.
Ecco perché frugo tra i cassetti, incominciando a far pulizia, per alleggerire il carico. Immagino i figli miei chiedersi che farne di quaderni e quadernetti di cui poco intendono, di storie che non potranno comprendere, di fotografie che rappresentano le sembianze di sconosciuti, di lettere il cui mittente, o destinatario, ha da tempo cambiato indirizzo.
Quando l’età avanza, secondo l’insegnamento dei saggi, occorre allentare quel sentimento, a volte morboso, che ci tiene attaccati agli oggetti. Più forte sarà quel legame, più duro il distacco. Allora cosa di meglio che incominciare a far pulizia, liberarci delle scorie ed allenarci alla nudità? Materiale e, sopra tutto, spirituale.
Per questo, imitando don Chisciotte, che prima di partire per la sua avventura ha semplificato la propria biblioteca, liberandola dai libri inutili, a poco a poco, sgombro l’archivio.
Non è cosa facile, lo confesso, perché ciò che apparirà inutile ad altri, per me inutile non è, o non è stato, che differenza fa? Non è cosa facile, quindi, ma è doveroso: noblesse oblige. Ho quindi intrapreso l’opera, consapevole del fatto che non la porterò a termine, ma almeno alleggerirò il carico di chi dovrà far spazio nei miei cassetti. Eviterò, così, la perplessità di dovrà, tra qualche tempo, stabilire cosa valga la pena di conservare e cosa, invece, finirà nel cestino senza neppure aver contezza di cosa abbia rappresentato.

* * *

Il contesto, certo, può aiutare a comprendere, ma ancora non è una risposta. Oltretutto, dopo la decisione – spontanea e forse un poco irrazionale – di riesumare la Belleide, son riaffiorati dai cassetti altri reperti, in grande quantità, molti dei quali inaspettati. Un melodramma, o almeno i primi due atti, che è riuscito a farsi spazio in questa pubblicazione; la riscrittura in versi, non la traduzione, di alcuni dialoghi del Prometeo incatenato, disegni, prose, soprattutto poesie, intercalate tra gli appunti di greco e di filosofia. Reperti riaffiorati dopo quasi sessant’anni di assoluto silenzio, per essere passati in rassegna: solo qualche brandello potrà salvarsi.
Abbandonare al loro destino quelle pagine di quaderno, significa liberarsi di significati, di emozioni, o del loro ricordo, concentrate nei tre anni di liceo. Se solo si trattasse di carte, sarebbe sufficiente un atto meccanico. Il ricordo non è di un oggetto ma di una persona. Quelle riflessioni – perché anche gli scritti di intrattenimento, a ben vedere, altro non sono che aggettivi qualificativi di una persona, di un giovane liceale, svogliato negli studi ma curioso, che riusciva a transitare di classe in classe sempre agganciandosi all’ultimo vagone – sono l’identikit di ciò che sono stato, mi rappresentano. Mi hanno fatto compagnia, discretamente, per più di mezzo secolo. Ricordi coi quali ho convissuto, pur senza mai lasciarmi tentare dalla nostalgia, senza mai bussare alla loro porta, senza mai immaginare di risvegliarli, con il bacio di un principe, da un sonno fatato.
Sarebbe, sarà un perdita. Ogni perdita è un lutto, più o meno grave, nel mio caso è doloroso. Ho necessità di elaborarlo. Così, con la pubblicazione di alcuni stralci di quei reperti, di quell’esperienza, elaboro, in un certo senso il lutto che mi deriva dalla perdita dell’ingenuità di quel tempo. Immagino che i miei vecchi compagni di scuola, – figuranti, a loro insaputa, di un enigmatico rituale – potranno comprendere almeno gli aspetti coreografici della cerimonia. Non potrei distaccarmi, né materialmente né simbolicamente, da un pezzetto del mio passato come se niente fosse, rinunciando ad ogni liturgia. Proprio non potrei.

* * *

Lo ammetto. Probabilmente esagero. Si tratta, in fondo, di vecchi banali ricordi. Eppure, ogni piccolo particolare – tra quelli che non ho dimenticato, s’intende – mi è rimasto impresso con lo stigma della grandiosità.
Nessun avvenimento del resto, reca nel proprio DNA il cromosoma dell’epicità. Siamo noi ad imprimere ai fatti l’aura del mito. Ogni cosa può diventare epica, se soltanto scegliamo di vivere un ricordo attribuendo ad esso l’alone delle leggenda. Quante storie sarebbero divenute epiche se soltanto il cronista, o lo storico, le avesse raccontate con altro tono. E quanti fatti, in realtà insignificanti, sono entrati nella leggenda soltanto per l’enfasi con la quale ci sono stati inculcati. Si sa, del resto, che sono sempre i vincitori a scrivere la storia.
Bene. Probabilmente ho sopravalutato accadimenti banali, enfatizzato episodi pressoché insignificanti, ho creduto mitiche le esperienze di quegli anni che neppure so se siano state felici. Se così fosse, un motivo in più per trovare il modo più adatto per sbarazzarmene, per rassegnarmi. Per accettare, seppur malvolentieri, che l’attuale quotidianità è l’unica realtà possibile.

* * *
La “Belleide” è uno degli opuscoli rimbalzati, di cassetto in cassetto, in occasione dei miei pochi traslochi; l’ultimo dei quali, ad imitazione di una tradizione diffusa tra i salmoni, mi ha riportato nel quartiere d’origine.
È arrivato sino ad oggi, passando indenne dalle periodiche, e troppo timide, cernite degli anni passati. Sopravvissuto, in realtà, non perché io abbia deciso di conservarlo, ma soltanto perché non ho maturato la decisione opposta, quella di gettarlo via. Questo testo, per una catena di coincidenze, ha improvvisamene scansato la sua fine naturale, quella del cestino, ed ha persino ottenuto la “dignità di stampa”, seppure in tiratura limitata, destinato a pochi.
La causa “occasionale”, come si diceva un tempo, la conosco perfettamente. Ho pensato di farne omaggio, in occasione delle prossime festività, ai miei vecchi compagni di scuola, o almeno a quanti sono sinora sopravvissuti al tempo. Cioè alle uniche persone che sono ancora in possesso della chiave di lettura del poema.
Suppongo che questo piccolo regalo potrà risultare più gradito di un portachiavi, o di un best seller che la maggior parte di essi, probabilmente, non avrebbe neppure letto.
Non ho mai avuto particolare propensione per i periodici raduni degli ex; anzi, li ho sempre confinati nel genere melodrammatico, nel territorio del patetico. Per una serie di motivi che sarebbe lungo elencare. Essenzialmente perché ho sempre pensato che, al pari dei campi coltivati, che una volta abbandonati vengono riassorbiti dalla foresta, così la familiarità ed il cameratismo di una stagione fatalmente evolvono, col tempo, in estraneità.
In ogni caso, è andata a finire che non abbiamo praticato il rito dei periodici rendez vous. Alcuni vecchi compagni sono scomparsi dall’orizzonte all’indomani della maturità, con altri la relazione è proseguita, sono state le circostanze a decider come e quando la relazione abbia finito per interrompersi o cambiato forma.
Tuttavia, allo scadere dei 50 anni dalla maturità, un incontro sì che l’abbiamo organizzato, proprio nello stesso luogo del delitto, praticamente negli stessi banchi. Confesso di aver vissuto la vigilia con qualche apprensione, il timore di non riconoscere le sembianze di qualcuno dei vecchi compagni, di non sapere chi egli oggi sia, magari militante di una parte politica avversa alla mia, magari di dover scoprire di non aver più niente da condividere con lui.
Debbo ringraziali tutti e fare ammenda delle mie titubanze. Ho vissuto un’esperienza totalmente differente da come l’avevo immaginata. Ho avuto persino l’impressione di averla vissuta lungo lo spartiacque che separa la realtà dalla fantasia, quasi un sogno. Ci siamo ritrovati, nello stesso cortile, nello stesso andito; nessuno ha chiesto al vecchio compagno cos’abbia fatto durante l’ultimo mezzo secolo. Non abbiamo avuto bisogno di annusarci, insomma. Abbiamo semplicemente ripreso il filo del discorso interrotto come se niente, nel frattempo, fosse accaduto, come se ci fossimo salutati appena il giorno prima, allo sciamare che segue la campanella che annuncia il termine dell’ultima ora. Una situazione quasi irreale, insomma, almeno per me. Una sensazione assolutamente piacevole.
Ci siamo ripromessi di ri-incontrarci. Credo che non appena sarà riaperta la circolazione lo faremo. Ed intanto, ogni tanto (la ripetizione è voluta) con alcuni scambiamo qualche messaggio. È in questo contesto che nasce l’idea di un regalo che spero risulti più originale, e gradito, di una cravatta o di un portamonete. Anche se sono consapevole, come tutti immagino, che potrebbero evocarsi anche ricordi tristi, o spiacevoli, ciascuno avrà conservato i propri appunti. Credo, tuttavia, che si sia convenuto di far riferimento a quanto di piacevole quegli anni passati insieme – con un legame più o meno forte a seconda dei casi – ci ha riservato.

* * *

Non ho mai avuto particolare passione per la scuola. Non a caso, a partire dalla quarta ginnasio sino alla seconda liceo, ho sempre dovuto passare per le forche caudine della riparazione a settembre, come si diceva allora. E all’università, nonostante sia riuscito a laurearmi in corso, in giurisprudenza, quanto a media dei voti le cose non sono andate diversamente. La verità è che nessuno è mai riuscito a farmi appassionare veramente alle materie di studio e che, fin da quegli anni, avevo altri interessi ed altre passioni.
Buffo. Mi son laureato assieme a Carlo (Murgia), ora disperso in qualche cantone della Svizzera, refrattario ad ogni richiamo che gli provenga da questi lidi. Dopo aver preparato insieme gran parte degli esami, lui, proprio il giorno dopo la laurea, si è iscritto in medicina ed è diventato medico, io in filosofia ed ho incominciato le prime supplenze, fantastica esperienza.
Poi la sorte ha voluto che né lui continuasse a fare il chirurgo, né io ad insegnare filosofia. In quei due anni – solo due, perché nel frattempo mi sono riciclato ritornando al diritto – mi sono riconciliato con gli studi ed i risultati sono stati brillanti.
La scuola, in un certo senso mi distraeva. È per questo che, durante le ore di lezione, mi concentravo sulle mie faccende ed avvertivo insofferenza per i docenti che, nel far lezione, continuamente mi facevano perdere la concentrazione.
La storia del melodramma, che credevo perduto, è curiosa. Studiavamo la “Didone abbandonata”, di Metastasio. Non so come, mi è passato per la testa che la figura di Sicheo, – il marito di Didone assassinato da Pigmalione, – non venisse rappresentata secondo quanto meritava. Insomma, mi son sentito di parteggiare per lui e, senza pensarci su, ho incominciato a riempire il quaderno degli appunti di endecasillabi. Ho ritrovato i primi due atti della prima stesura, parti del terzo e il piano dell’opera (cinque atti). Tutto qui!
Tra gli altri materiali, anche il racconto di una ribellione da parte di alcuni dei professori più giovani, spalleggiati dagli studenti, scoppiata a seguito di uno sciopero della III liceo, che eravamo noi. Si intitolava “Rapporto Lorren” e parodiava il Rapporto Warren che recava le conclusioni della Commissione d’indagine sull’assassinio del presidente Kennedy.

* * *

Apprezzavo don Bellu, l‘ho davvero stimato, sia per la preparazione che per la passione che metteva nell’insegnamento. E poi, ho sempre avuto idea che noi gli interessassimo, che volesse darci il più possibile. Era il nostro docente di riferimento, sempre presente, anche al di fuori delle sue materie di insegnamento. Amava la ricerca e collaborava con l’università. Nel 1977 avrebbe pubblicato, per le edizioni Della Torre, un volume dal titolo: I cattolici alle urne: Chiesa e partecipazione politica in Italia dall’Unità al Patto Gentiloni. Ancora lo conservo.
Era veramente ossessionato dalla jettatura. Almeno su questo non ho esagerato. Quando qualcuno si divertiva a provocarlo, nominando qualche menagramo, era capace di consumare un intero pasto stringendo un oggetto di ferro tra il mignolo e il palmo della mano.
Quanto al poema, non credo l’abbia molto apprezzato. Commentò, a ragione, evidenziando un’aridità di contenuti a fronte di un eccesso di parole. Ma non vi era, allora, chi potesse frenarmi. Ricordo che dopo la sua critica incalzai immediatamente:

…disse di una diarroia nel parlare
e mi tacciò, pensate qual coraggio,
persin di stitichezza nel pensare.

Sol mi chiedo, di fronte a tanto ardire:
se un professor di greco e di latino
non è capace manco di partire
i pregi ed i difetti, oh poverino,
come potrà venire ad insegnare
i greci ed i latini a valutare?

Terminato il liceo, credo di averlo di nuovo incontrato soltanto una o due volte. Una volta, di sicuro, a Sassari, in una delle rarissime occasioni d’incontro tra vecchi compagni di scuola. Avevo ogni tanto informazioni sulle sue vicissitudini. Mi rimane un bel ricordo.

* * *

Siamo noi, lo ripeto, a dipingere con il colore del mito alcuni vecchi brandelli dei nostri ricordi. L’ho fatto anch’io, e non me ne dispiaccio. Si tratta, in fondo, di una sorta di proiezione. Fingiamo, fingo, di decrittare vecchie immagini che io stesso proietto sul fondo della caverna. In realtà scruto un ragazzo lungo e goffo, con il complesso del brutto anatroccolo, che compare su quello schermo. Mi è familiare, eppure non riesco a identificarmi del tutto con lui. Ma è proprio lui, quel ragazzo allampanato, imprigionato in un’aula, tutte le mattine, dopo una veloce messa nella cappella del primo piano, ad attirare la mia attenzione.
Don Bellu è stato un ottimo insegnante. Mi avrà perdonato. Di altri docenti, pur con tutto l’affetto, non potrei dire lo stesso. E poi se, per un verso, mi sembrava di essere un privilegiato, per altro verso, mi sentivo recluso.
Almeno so perché ho studiato all’istituto salesiano: perché mio padre è stato povero, poverissimo. Perché quando ancora adolescente – emigrato a Palermo lontano dalla sua famiglia – si guadagnava la vita come poteva, facendo il garzone di farmacia, ha provato invidia per i figli della borghesia palermitana che frequentavano l’istituto salesiano. Lui, che ha sempre sofferto per non aver potuto neppure completare la terza elementare, li osservava passare allegri tutti i giorni, diretti al collegio, ed ha provato invidia.
Per questo ho studiato ai salesiani!
Non ho sofferto più tanto, alla fine. Magari a qualche compagno di classe è andata peggio. Ma avvertivo di vivere in una dimensione quasi irreale. Protetti, forse, persino privilegiati, secondo loro. Perché tenuti a distanza dai fermenti di una società in ebollizione. Una scuola dove non esistevano gli scioperi, ad esempio. Ed io, invece, ero attratto proprio da quelle dinamiche, l’idea di poter protestare con lo sciopero mi affascinava. Tant’è che ne abbiamo esperimentato un frammento quando ci siamo astenuti – ovviamente sono stato tra i promotori – da quella quinta ora del giovedì, mi pare, che non figurava nel calendario didattico ma che ci veniva sottratta per un supplemento di lezione. E poi, nella scuola pubblica le classi erano miste. Ed anche ciò mi intrigava. Perché mai il Signore, come insegna la Bibbia, maschi e femmina li creò, se poi dovevamo tenerci alla larga da quella fetta di creato. Perché dovevamo essere esposti al rischio – come ammoniva il confessore più gettonato dell’istituto – di mettere ancora una volta in croce Gesù per la soddisfazione maledetta di un istante?
Insomma, senza niente togliere alle buone intenzioni, ho sempre avuto la sensazione di aver vissuto in una dimensione quasi asettica, lontano dal mondo reale, che ho potuto sbirciare, ovviamente, ma senza potermi addentrare nei suoi più sedicenti meandri.
Di più non potrei dire. Un rapporto ambivalente, oscillante tra affetti e rimpianti, di cui mi rimane un forte senso di solidarietà con i compagni di un tempo; possono continuare ad essere – adesso per allora – anche i compagni di quest’ultimo scorcio di tempo. L’istituto Salesiano, vicino, come un tempo, persino sotto il profilo topografico. Molti ricordi andati perduti. Altri, come la definizione della geosinclinale, indelebili.
Qualche ricordo ritrovato proprio in occasione dell’ultima cernita, tra le tante poesie una d’addio. Una specie di premonizione, tra il serio ed il faceto, che nel tempo, in qualche modo, abbiamo smentito:

Sta per finir la scuola, e finiranno
per quasi tutti noi le relazioni.
Ancor due mesi appena, e il nostro affanno
bene o mal finirà. Nostre opinioni
saranno, allora, in una sola unite
mentre andremo, da soli, a nostre vite.

Ma quante volte tornerà il ricordo
di questa nostra vita di studenti:
s’insinuerà nei petti un grido, sordo
che ci ricorderà giorni gaudenti.
Sarem lontani, già, ma sarà bello
ricordar della scuola questo e quello.

E chi potrà scordare il consigliere
che tanto ci pesava e ci opprimeva!
E chi potrà scordare le preghiere
che, sonnolento, in chiesa ripeteva!
E, dite il vero, tra di voi chi c’è
che obliare potrà “quello che è”?

Di don Filippo, di ciò ch’ha insegnato
ricorderemo ancora la lezione,
ricorderem l’amico suo scienziato!
E per la legge dell’associazione,
al sentir nominare il Quirinale,
ricorderemo la “geosinclinale”.

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