E’ online Rocca n. 13

rocca-13-1-luglio-2021di Mariano Borgognoni
«… Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza con il proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non ci si potrà chiamare neanche democratica…» Piero Calamandrei.
politica, anzi Politica
da dove ricominciare

[segue]
La copertina del nostro ultimo numero, nel festeggiare il 75° della Repubblica, riproponeva, pro memoria, l’articolo uno della Costituzione che, nella sua prima parte, recita: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Repubblica, democrazia, lavoro, tre grandi valori nati da quanti hanno combattuto il fascismo e ridato al Paese la dignità e l’autonomia, dentro il quadro storico determinatosi dopo la fine del secondo conflitto mondiale. E tuttavia la Repubblica si trova oggi nuovamente di fronte all’indebolimento delle due gambe che le garantiscono una sana e robusta costituzione e la possibilità di camminare sulla strada di una progressiva realizzazione di un sistema sociale giusto e tendenzialmente ugualitario. Giusto perché tendenzialmente ugualitario. Queste gambe sono la democrazia e il lavoro.
La crisi della democrazia si è senz’altro acuita in questi ultimi anni. Secondo Antony Atkinson negli ultimi trenta lo 0,1% più ricco della popolazione ha conquistato l’intero campo decisionale delle democrazie occidentali. Ha forse esagerato ma non è lontanissimo dalla verità. Certamente il fallimento e l’implosione delle società del cosidetto «socialismo reale» ha consentito alle classi dominanti dell’Occidente di mettere a leva il compromesso socialdemocratico e tentare progressivamente di riprendere il controllo unilaterale del sistema, economico, sociale e, in parte, anche politico. Così i diritti sociali si sono via via ridotti, il lavoro si è precarizzato, sono cresciuti non solo i disoccupati ma i lavoratori poveri, le disuguaglianze sono enormemente aumentate, molti livelli di rappresentanza democratica svuotati, i cittadini sempre più atomizzati. Qualcuno ha scritto che l’homo aequalis della tardo democrazia sarebbe più diseguale e gerarchico dell’homo yeraticus delle società predemocratiche. E purtroppo i mondi culturali che avevano alimentato le costituzioni formali e materiali dell’Europa post-bellica non hanno fiutato in tempo il pericolo e non hanno costruito, nel nuovo contesto mondiale, soggetti politici e processi culturali che sulla base di valori cristiani e socialisti fossero in grado di rilanciare un progetto sociale alternativo a quello perseguito dal pensiero unico liberal-liberista. Il quale peraltro cerca non tanto di eliminare qualsiasi ruolo dello Stato nell’economia ma di renderlo una struttura meramente servente, finanziatrice del capitalismo in crisi, senza alcuna possibilità di definire obiettivi sociali e subordinare ad essi le sue varie forme di intervento.
La pandemia ha accentuato tutti gli aspetti negativi che ho sinteticamente accennato e il modo come si immagina di uscirne sotto il profilo economico-sociale non fa ben sperare. Senza sottovalutare le misure europee che segnano anche una discontinuità con il passato, in linea di massima si punta sull’accollo di un grande debito senza alcuna misura redistributiva. Da questo punto di vista la risposta di Draghi alla pur limitata proposta di Letta sull’incremento della tassa di successione per i grandi ricchi non tranquillizza. «In questo momento i soldi non bisogna chiederli ma darli» ha detto. Si potrebbe dire: bene, finalmente si realizza un reddito universale, meglio ancora un lavoro di cittadinanza, si progetta un piano del lavoro, si aumenta il salario orario, si proteggono i lavoratori dai licenziamenti, si garantisce la salute e la vita nei luoghi di lavoro evitando che la competitività venga realizzata risparmiando sulla sicurezza, si da l’opportunità anche alle famiglie a reddito medio-basso di mandare i figli all’Università, si rafforza la sanità pubblica pur non prendendo il Mes ma mettendo a bilancio una cifra equivalente (dove stanno i 40 miliardi di cui si parlava con speranza?), si migliora l’offerta educativa in modo universale ancorandosi allo spirito dell’art. 3 della Costituzione, evitando che prosegua la deriva neoelitaria fondata su una differenziazione della formazione legata al reddito, si immagina un sistema fiscale progressivo fortemente articolato. Poco di questo si vede all’orizzonte.
A reclamarlo si alza spesso la voce solitaria di Papa Francesco, a cui si accompagna sovente il beffardo commento di chi dice: ma lui fa il suo mestiere. Come se il suo mestiere fosse quello di raccontar favole per bambini.
In questo quadro è lecito supporre che ben che vada l’equilibrio delle disuguaglianze rimarrà tal quale con la perdurante domanda di come si possa sostenere il mercato interno al di là del prevedibile rimbalzo dei mesi a venire per l’effetto congiunto dello scongelamento dei risparmi di una parte della popolazione e dell’utilizzo delle risorse rinvenienti dal recovery plan. Però infine, anche al di là di decisive questioni di giustizia, la logica della concentrazione della ricchezza ha questo difetto, che le persone mangiano perlopiù due volte al giorno e per quanto si sia ricchi non si mangia dieci volte in una giornata. Ovviamente non potrà essere questo governo e questa «coalizione di necessità» a produrre una svolta ma le forze politiche democratiche, costituzionalmente orientate, dovrebbero, dentro questa fase di transizione, ripensare a fondo la loro identità, la ragione della loro esistenza, il mondo sociale che intendono rappresentare ed anche impedire che si strutturino, nel frattempo, una serie di vincoli successivamente immodificabili. Innanzi tutto sembra urgente riaprire un canale di comunicazione tra popolo e istituzioni, riconsegnando ai cittadini la selezione reale dei loro rappresentanti, superando un ventennio di sequestro delle scelte da parte di ceti politici ristretti che presidiano il bidone vuoto di partiti ridotti a parvenze scheletriche. Per questo oggi una chiara riforma elettorale proporzionale è la base minima per provare a salvare la rappresentanza democratica. Non si tratta di essere proporzionalisti per principio, il proporzionale può anche rappresentare un elemento di immobilismo che blocca ipotesi politiche forti, ma nella situazione di scollamento attuale sembrerebbe un passaggio necessario e neocostituente, anche per poter ragionare su forme di Stato e di governo che assicurino rappresentanza e anche un’alta capacità di affermare il primato della politica. La sua vocazione non ad amministrare un sistema immodificabile ma a governare i processi sulla base di programmi, valori e ideali.
Mi rendo conto che ragionare di queste cose può sembrare marziano nella situazione che stiamo vivendo, però attenti, anche nell’emergenza si deve essere capaci di tenere la testa un filo sopra al pelo dell’acqua, se vogliamo evitare che i meccanismi dell’emergenza diventino normali e di passo in passo mangino quel che resta degli spazi democratici. Ci si può trovare a pensar quel che si vuole e a non contare nulla!
Noi che siamo affetti magari dal pessimismo della ragione ma da un inguaribile ottimismo della volontà ci vogliamo ostinare a discutere di politica fuori dalla sua autorappresentazione recitativa, modesta subcultura ad uso e consumo della semplificazione mediatica.

Avviso ai rocchigiani
Con questo numero si conclude la «trilogia» di Gianfranco Ravasi sulla domanda capitale che Gesù stesso rivolse ai suoi e che continua a rivolgere a noi: Ma voi chi dite che io sia? Nelle nostre intenzioni vorrebbe essere l’inizio di un percorso anche lungo, in cui torniamo a confrontarci con questa domanda. Sarebbe bello che, tante persone, credenti o non, o altrimenti credenti, in ogni caso pensanti, alimentassero questa ricerca, individuale o anche comunitaria. Non solo personalità della cultura, dell’arte, della politica, delle religioni, fedi e spiritualità, ma vorremmo chiamare i nostri lettori e i nostri amici a fare questa strada insieme; un piccolo sinodo da inserire nel grande (speriamo) Sinodo della Chiesa italiana. È anche un modo per ripartire dall’analogo interrogativo che don Giovanni Rossi pose davanti alla coscienza e alla sensibilità di tanti interlocutori di questa Cittadella del dialogo e della libertà. Anche con l’autonomia e la laicità di Rocca, vogliamo continuare ad essere luogo di confronto creativo dentro le novità del nostro tempo.
Mariano Borgognoni

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