L’ipotesi di una eutanasia-buona morte di ispirazione cristiana

lampadadialadmicromicro1Proseguendo nel nostro impegno sulla questione eutanasia-buonamorte – di cui il convegno del 4 ottobre scorso è stato un momento significativo – riportiamo un articolo che in merito da conto della posizione dell’associazione “Noi Siamo Chiesa”(*), che dichiariamo di condividere. La sintesi operativa di tale posizione è precisamente contenuta nelle conclusioni dell’articolo, che vogliamo mettere in evidenza: (si) ritiene necessario ed urgente un nuovo confronto nel paese, nel nome di una laicità condivisa da credenti, non credenti e da uomini in ricerca, per giungere a soluzioni legislative su tutta la questione del fine vita nel rispetto dei valori costituzionali.

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Deve iniziare subito un nuovo e vero dialogo senza “campagne” e
demonizzazioni. L’ipotesi di una eutanasia-buona morte di ispirazione cristiana

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di Noi Siamo Chiesa
in “www.noisiamochiesa.org” del 25 ottobre 2021

Una riflessione che viene da lontano.
Sul problema del fine vita e dei suoi rapporti con la legislazione “Noi Siamo Chiesa” ha scritto molto, affrontando i casi di interesse generale (Englaro, Welby, legge sulle DAT) e più recentemente il caso Fabo. I capoversi delle nostre riflessioni hanno sempre rifiutato le semplificazioni di tanti discorsi facili (tra gli altri si veda il nostro testo del 14-9-2019). Abbiamo chiesto, soprattutto agli ambienti ecclesiali, dialogo e confronto ma con scarsi risultati. I capoversi del nostro percorso sono stati: presa d’atto della nuova medicina nel settore del fine vita; grande importanza delle cure palliative, poco conosciute e praticate; bene la legge sul fine vita n. 219 da far conoscere ed ‘usare’ in modo diffuso soprattutto in tutti gli aspetti che riguardano l’autodeterminazione del malato; differenza tra vita biografica e vita biologica; zona oggettiva di incertezza con situazioni intermedie tra accanimento e desistenza, tra coscienza del malato presente e coscienza insufficiente o inesistente; differenze tra tanti diversi ‘fine vita’ sia per motivi oggettivi di tipo sanitario sia per i differenti status culturali e psicologici; alleanza terapeutica tra medico e paziente che può affrontare al meglio le situazioni più difficili; lo stesso si dica per l’accompagnamento del malato terminale da parte dei famigliari e degli amici; presenza di una realtà di eutanasia clandestina gestita spesso ‘alla meglio’ o in modo casuale; tante cosmovisioni presenti nella società sul fine vita, nessuna delle quali può essere snobbata o contraddetta frontalmente; infine richiesta di una normativa debole o ‘gentile’, questione sulla quale il codice penale è a disagio. Durante queste ricerche ci siamo accorti della complessità dei problemi per i quali tutti dovrebbero impegnarsi nell’approfondimento prima di dire verità “definitive”. Aspetti etici e teologici devono essere ancora esplorati. Per esempio, dovremmo capire meglio, nel vissuto della pratica sanitaria, che differenza c’è tra “naturale” ed “artificiale” o, sotto un altro profilo, tra il così detto diritto naturale e il diritto della persona.
Abbiamo anche detto che la mistica del dolore e della mortificazione, da sopportare come ‘valore’ spirituale, frequentemente proposta da ambienti ecclesiastici alle persone in grande sofferenza, dovrebbe avere delle solide radici teologiche che sono invece molto controverse. Questa posizione si rifà a una concezione mistico-religiosa che considera la sofferenza fisica come elemento di purificazione e di santificazione che deve essere accettato e vissuto nella convinzione che esso faccia parte di un disegno sovrannaturale dalla logica imperscrutabile.
I vescovi
Questo complesso di questioni non si presta a ‘campagne’, a slogan in cui prevalga la radicalizzazione e la semplificazione. In questo modo nel nostro paese siamo invece andati avanti
per anni con un’area laica emarginata ed esasperata che ha presentato nel ’14 una proposta di legge
di iniziativa popolare sempre ferma in Parlamento, mentre la destra fondamentalista e clericale dello scontro contro l’eutanasia ha fatto da sempre una bandiera importante. Ora che la questione diventa di stretta attualità per l’imprevisto successo della raccolta di firme per il referendum promosso dai radicali, la linea della CEI si appresta, a quanto si capisce, a uno scontro duro.
Il 18 agosto la Presidenza della Conferenza episcopale parla della “vittoria di una concezione antropologica individualista e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali”. Il giorno prima Mons. Paglia, presidente della vaticana Accademia per la vita, usa parole senza controllo. Ci troveremmo infatti di fronte a una ‘forma di eugenetica’ e a una
‘concezione salutista’. Idem la posizione del presidente della Cei Bassetti nella sua prolusione il 27 settembre al Consiglio Episcopale Permanente quando parla di “una sconfitta dell’umano”. I vescovi pretendono che sul fine vita le loro posizioni siano assunte integralmente nell’interesse di tutta la società e introdotte nelle istituzioni. Spazi di interlocuzione allo stato attuale non sembrano esserci. Dobbiamo allora entrare nel cuore della linea della CEI che diffida di ogni forma di autodeterminazione del singolo in circostanze date. Quella dei vescovi ci sembra soprattutto e anzitutto una posizione ideologica, non teologica, non pastorale.
Una posizione diversa
La Cei difende la Vita sempre e comunque. Ma la vita è una condizione esistenziale, non è un valore assoluto come possono esserlo la giustizia, l’amore per il prossimo, la pace, la fraternità e via di questo passo. La vita è inserita nel percorso che l’uomo e la donna si trova di fronte nel corso dell’esistenza e durante la quale si comporta un po’ nel bene, un po’ nel male, un po’ a fatica con dubbi, gioie e sofferenze. Le circostanze determinano o facilitano i comportamenti. La coscienza si confronta con le diverse situazioni, si orienta e decide o non decide. Tutto il percorso della vita è soggetto alle virtù e alle passioni. Naturalmente la Luce deve illuminare la coscienza e la vita in cui si può amare, creare, aiutare il prossimo, allevare i figli… Per un cristiano in particolare e soprattutto nei momenti terminali della vita, le circostanze e gli stati di coscienza possono scavalcare gli imperativi categorici della così detta ‘Vita’ come valore supremo, sempre e comunque? Dove c’è scritta nelle Scritture una affermazione categorica e non rinunciabile sulla ‘Vita’? Cosa si intende per “morte naturale” di cui tanto si parla nei testi ecclesiastici? Non è anche quella di chi prende atto che si è giunti al termine e che si può vivere con amore la remissione del dono (della vita) che si è ricevuto? Perché la sacralità della vita non può comprendere anche la libertà di autodeterminarsi nel momento in cui, in circostanze date, tale scelta non va contro Dio ma è davanti a Dio? Bisogna anche tenere presente che per quanto riguarda la Vita terminata col suicidio la Chiesa stessa ha ora un atteggiamento di rispetto e di silenzio ben diverso dal passato. La tutela della Vita, sempre e comunque, può essere assunta come riferimento non discutibile sempre valido nel tempo e nello spazio?
Nuove riflessioni tra i credenti
Negli ultimi anni i casi di grande impatto mediatico sono stati contemporanei a nuove riflessioni emerse tra i credenti. La linea della “Vita” della Cei non è più così solida. L’approvazione della legge 219 sulle DAT, la posizione di Hans Küng e quella della Chiesa valdometodista in Italia, la sentenza della Corte Costituzionale sul caso Fabo hanno dimostrato che le questioni sono aperte e
non si possono tacitare con parole sbrigative ed autoritarie. Da ricordare, ci sembra, quanto scriveva nel 1516 Tommaso Moro che indicava nell’eutanasia uno sbocco possibile e spiritualmente nobile alle situazioni che ora, come allora, si presentano in certi casi di fine vita (1). Una riflessione più matura, soprattutto dialogante, sarebbe possibile anche tenendo in conto preoccupazioni oggettive come quella che teme che qualsiasi passo in avanti nella direzione della eutanasia-buonamorte possa aprire la possibilità alle cosi dette ‘derive eutanasiche’ nei confronti di soggetti fragili, oppure come l’ipotesi della possibile obiezione di coscienza da parte del personale sanitario.
La posizione dei vescovi, che si è messa subito sul piede di guerra al sapere della facilità nella raccolta delle firme per il referendum, ci sembra un errore nei confronti dell’opinione pubblica. I vescovi si schierano senza timidezze con l’ala fondamentalista del mondo cattolico. Partendo dalla discussione sulla Vita come viene proposta dai vescovi la riflessione è andata avanti e ci si è chiesti quanto è difesa la Vita ‘durante’ il suo corso, soprattutto dalle stragi, dalla miseria, dalle guerre.
Difendere a oltranza la vita di una persona arrivata alla fine non è volontà che può essere vista in contraddizione col silenzio o la passività o la insufficiente reazione di fronte alla violenza presente nel vissuto di troppi popoli o anche nel quotidiano della nostra vita normale (per esempio gli
infortuni sul lavoro)? Perché non parlare di misericordia e di accoglienza, perché non parlare di ‘buona morte’, perché non parlare della speranza cristiana nella resurrezione ringraziando il Creatore oppure perché non essere consapevoli di avere esaurito il proprio percorso per chi non ha una fede o è ancora in ricerca?
La sentenza della Corte Costituzionale
La sentenza n. 242 del settembre 2019 della Corte Costituzionale sul caso Fabo ha indicato i quattro casi in cui viene esentato dalla responsabilità penale chi aiuta al suicidio (la persona deve essere cosciente, affetta da patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze e tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale). È un’apertura a casi estremi che la CEI, nonostante tutto, ha contrastato. Questa direzione di marcia, che ci sembra positiva, incontra ostacoli che rischiano di fare arenare tutto. Come ben sappiamo, ogni sentenza ha efficacia solo per il caso per cui è stata emessa. Così Marco Cappato non è stato perseguito. La sentenza della Corte costituisce più che importante giurisprudenza ma può essere disattesa dai giudici di merito. È di questi giorni la notizia che un malato terminale, un anno fa, chiese alla sua ASL nelle Marche di accertare le sue condizioni ai fini di accedere al suicidio assistito in base alla sentenza. L’azienda sanitaria si è rifiutata, il malato è ricorso alla magistratura che gli ha dato torto in prima istanza e ragione in seconda.
L’azienda sanitaria si oppone ancora alla sentenza e il malato ha presentato una denuncia penale. Il ministro Speranza è intervenuto contro l’inerzia della sanità delle Marche e in altri casi. Questo è un primo problema, il secondo è quello della ricognizione, regione per regione, della natura e della composizione dei Comitati etici territoriali per verificare la loro presenza e la loro adeguatezza al ruolo ipotizzato per loro dalla Corte per accertare la situazione specifica del malato in relazione alle condizioni richieste dalla sentenza. Inoltre è necessaria un’intesa tra Stato e regioni per consentire a
queste ultime di fornire indicazioni chiare ed univoche alle rispettive aziende sanitarie locali sull’applicazione della sentenza in modo da avere uniformità di intervento su tutto il territorio nazionale. In sostanza ci troviamo di fronte ad una situazione semibloccata, coi tempi lenti ostacolati dalle campagne della destra ma soprattutto frenati dalle aule parlamentari. Nel paese la situazione di malati in condizioni ultime è diffusa; non c’è quasi famiglia o comunità che non si trovi di fronte a pazienti in estreme condizioni di fine vita e che non si ponga degli interrogativi. È necessaria ed urgente una legge. La commissione Giustizia della Camera il 7 luglio ha elaborato un testo unificato, speriamo che non resti insabbiato. Il calendario della Camera l’ha in agenda per il 25 ottobre.
Il referendum e la campagna
Di fronte a questa emergenza legislativa che dura da anni i radicali, con la tenacia e con la passione che tutti riconoscono loro, hanno alla fine deciso di tentare la strada dell’indizione di un referendum per abrogare il primo comma dell’art. 579 del codice penale che recita ‘Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni’. Dell’art. 580 sulla ‘istigazione o sull’aiuto al suicidio’ se ne occuperà il Parlamento, come abbiamo visto.
L’imprevisto successo di adesioni al referendum ha sollevato attenzione ed anche emozioni nell’opinione pubblica. Si pensava a una raccolta lenta e faticosa. Ora questo esito fa presagire che il possibile voto referendario in primavera possa avere successo di partecipazione e di esito. Ci troviamo quindi di fronte a una questione molto importante per la società italiana ed anche per la politica.
Ci sono due ostacoli alla conclusione di un simile ipotizzato percorso. Il primo è relativo all’ammissibilità del quesito da parte della Corte Costituzionale. I costituzionalisti esprimono pareri diversi, nessuno è convinto che l’ammissione sia cosa facile. Si usa il referendum per scrivere una ‘legge’ o per interpretarla o per abrogarla? Quale è la sua funzione? Quanto resterebbe (la cosi detta ‘normativa di risulta’) dopo l’eventuale abrogazione del primo comma? Sarebbe accettabile questa mutilazione in ordine ai valori della Costituzione? Di qui nasce il secondo problema: abrogando seccamente questo primo comma ci troveremmo di fronte ad una assenza di norma. Qualsiasi persona sana di mente e in buona salute potrebbe chiedere di essere privato della vita, magari in condizioni particolari (a pagamento?) con un consenso non ben documentato (o falso, pensiamo ai poteri criminali del nostro paese) o convinto da persona interessata (magari per motivi patrimoniali). Nel senso comune, chi firma per il referendum e chi ha un’opinione in merito intende sempre per eutanasia l’interruzione di sofferenze estreme di persona in condizioni terminali. Nella
stessa proposta di legge di iniziativa popolare presentata nel 2014, sempre dai radicali, nell’art. 3 i ‘trattamenti eutanasici’ riguardano solo ‘pazienti affetti da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a 18 mesi’. Ci troviamo quindi di fronte alla possibile cancellazione del primo comma senza le indicazioni dei quattro punti della sentenza che servono per l’art. 580, come giurisprudenza. A questo vuoto normativo (molto pericoloso) l’associazione Coscioni, che ha promosso il referendum, non dà risposta. Probabilmente perché lo strumento referendario ha la rigidità che abbiamo visto e ad esso i radicali sono ricorsi per sbloccare la
situazione, pur conoscendone i limiti.
Bisognerebbe allora che la campagna referendaria fosse anche funzionale alla richiesta tassativa di una legge complessiva, che diventerebbe del tutto urgente per coprire il vuoto normativo che si creerebbe davanti alla probabile abrogazione dell’art. 579, primo comma, partendo dalla casistica contenuta nella sentenza della Corte che ruota attorno alle condizioni estreme. Il possibile vuoto legislativo costituisce l’elemento di debolezza della proposta referendaria. Se vincessero i SI sarebbe necessario un intervento di emergenza del Parlamento. La richiesta di una legge immediata e rigorosa serve ad indicare in che senso si partecipa alla domanda di referendum e si vota, con la volontà di soccorrere le sorelle ed i fratelli in condizioni esauste ma lucide davanti alla propria coscienza ed anche, per tanti, sotto lo guardo misericordioso e compassionevole del Dio che ci ha dato la vita e che ora ci indica come essa sia ormai finita. Sulla base di questa sensibilità il nostro consenso al referendum è molto differente da quello dei suoi promotori la cui cultura individualista
esasperata non è la nostra. Prefiguriamo invece la possibilità di una vera e propria eutanasia-buonamorte di ispirazione cristiana che sappia superare emozioni e resistenze psicologiche per una consapevole decisione di compiere così il proprio percorso terreno all’interno della propria fede e nell’attesa di un futuro prossimo di serenità e di gioia.
Premesse tutte queste riflessioni generali “Noi Siamo Chiesa” ritiene necessario ed urgente un nuovo confronto nel paese, nel nome di una laicità condivisa da credenti, non credenti e da uomini in ricerca, per giungere a soluzioni legislative su tutta la questione del fine vita nel rispetto dei valori costituzionali.
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(1) Così San Tommaso Moro immagina che debba essere regolato il fine-vita in una società bene ordinata: “I malati, come dicemmo, li curano con grande affetto e non lasciano proprio nulla che li renda alla buona salute, regolando le medicine e il vitto; anzi alleviano gli incurabili con l’assisterli, con la conversazione e porgendo loro infine ogni sollievo possibile. Se poi il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente di continuo sofferenze atroci, allora sacerdoti e magistrati, visto che è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri e gravoso a se stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a non porsi in capo di prolungare ancora quella peste funesta, e giacché la sua vita non è che tormento, a non esitare a morire; anzi fiduciosamente si liberi lui stesso da quella vita amara come da prigione o supplizio, ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare dagli altri: sarebbe questo un atto di saggezza, se con la morte troncherà non gli agi ma un martirio, sarebbe un atto religioso e santo, poiché in tal faccenda si piegherà ai consigli dei sacerdoti, cioè degli interpreti della volontà di Dio. Chi si lascia convincere, mette fine alla vita da sé col digiuno, ovvero si fa addormentare e se ne libera senza accorgersi; ma nessuno vien levato di mezzo contro sua voglia, né allentano l’affetto nel curarlo. Morire a questo modo, quando lo hanno convinto della cosa, è onorevole…” (cfr. “Utopia”, Laterza 1984, pag. 97-98).

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(*) Alcune informazioni sul Movimento Noi siamo chiesa.
Noi siamo chiesa o tendiamo ad esserlo?
La consegna “noi siamo chiesa”, carica di risonanze conciliari, intende affermare la centralità del “popolo di Dio” rispetto alle strutture e gerarchie ecclesiali. Ma, più profondamente, questo “noi” rinvia alla “comunione” dei fratelli e delle sorelle tra di loro e con Gesù Signore; rimanda cioè ad un’unione ancora più intima, al livello di una identificazione, il corpo di Cristo.
Se questo è vero, non basta il battesimo a renderci membri della chiesa, ad immetterci in questa comunione. È una comunione che nasce solo dall’amore, dal nostro amore per Cristo e dall’amore di Cristo per noi. Una comunione tanto più profonda quanto più profondo è l’amore che la plasma.
Allora s’impone una domanda: è vero che noi siamo chiesa? Non sarebbe più giusto dire che tendiamo, faticosamente, ad esserlo? Che la chiesa non è tanto per noi un luogo di appartenenza, e di rifugio, quanto invece un esigente progetto di vita? Che diventiamo chiesa nella misura in cui cresciamo nella coscienza di questi nostri vincoli? Che diventiamo chiesa soprattutto nella misura in cui amiamo? In cui ci amiamo tra di noi, e in cui amiamo Gesù di Nazareth? Non sarebbe più impegnativo vivere la nostra comunione come un albero in crescita continua, irrorato dall’amore?
Come un albero di cui noi siamo i rami e di cui Gesù è il tronco?
(Giulio Girardi)

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