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DOCUMENTO PER IL XVII CONGRESSO
NAZIONALE DELL’ANPI APPROVATO DAL
COMITATO NAZIONALE IL 7 MAGGIO 2021

Carla Nespolo ha tracciato una strada, quella del rapporto unitario, del confronto con le altre forze democratiche, della stretta relazione col mondo dell’associazionismo, che intendiamo continuare a perseguire a maggior ragione nella situazione di straordinaria emergenza in cui ci troviamo. Ma ciò che di più profondo ci ha consegnato è la propensione a guardare sempre oltre, a osservare con spirito critico e senso di responsabilità il mondo e il Paese che stanno cambiando, ad ascoltare le opinioni degli altri come un possibile contributo alle nostre, e – assieme – a tenere saldissime le radici dell’Anpi nella concreta esperienza storica della Resistenza e in quell’insieme di valori che sta a noi attualizzare in ogni momento di ogni presente.

CAMBIARE L’ITALIA

Siamo nel pieno di una tragedia mondiale a causa della pandemia e della gigantesca crisi economica e sociale da questa determinata. Da ciò derivano la gravità, l’eccezionalità, l’incertezza del tempo che viviamo. Ma proprio perché crescono la sfiducia, lo scoramento e perfino in tanti casi la disperazione, tanto più occorre promuovere un’idea di cambiamento e così diffondere un messaggio di speranza e di fiducia. Questo è il tempo di una visione del futuro, la visione di un Paese che ritrova le sue radici e dà vita ad una svolta storica.
In Italia, le emergenze attuali, della salute e del lavoro, si aggiungono a tanti ritardi e problemi antichi, di una economia in difficoltà da oltre dieci anni, di un Paese che produce meno ricchezza e poi la distribuisce in modo ineguale e ingiusto, in cui il potere pubblico è insidiato da poteri criminali, che troppi giovani abbandonano perché all’estero trovano migliori condizioni di lavoro e di prospettive personali. Se sono a rischio le condizioni economiche e sociali, è l’intero sistema che si trova in discussione, e si produce una situazione critica per la stessa tenuta della democrazia italiana. La crisi può nascere dalla prolungata difficoltà di reagire, di mantenere le promesse di uguaglianza e giustizia scritte nella Costituzione. Ecco perché vi è bisogno di una risposta straordinaria, che può venire solo, da una piena partecipazione democratica, da un impegno diretto delle forze migliori della società, costruendo una larga unità popolare, dando vita ad una vera e propria nuova fase della lotta democratica e antifascista.
Questo è il senso concreto ed attuale che l’Anpi attribuisce alla storia e tradizione antifascista che rappresenta e per queste ragioni l’Anpi ha avanzato la proposta di una grande alleanza per la persona, il lavoro, la società. La stagione congressuale dell’Anpi mette a tema ‒ in stretto dialogo con la società e la politica ‒ il Paese, la forza della democrazia, un ruolo ed un orizzonte nuovo dello Stato. La piena realizzazione della Costituzione, assumendo l’art. 3 come timone di tutta la rotta da percorrere, è la condizione culturale, ideale, politica nel senso più alto del termine, per il non breve impegno di ricostruzione del Paese su basi più avanzate e solidali. E’ un contributo all’unità del Paese, per superare ritardi storici e disuguaglianze accresciute, per ricostruire un clima di fiducia.
Il nostro Congresso ridisegna così la funzione dell’Anpi nel contesto di una nuova fase storica per l’Italia. L’Anpi delle partigiane e dei partigiani nata nel 1944 si è arricchita diventando, nel 2006, l’Anpi aperta agli antifascisti: oggi definisce la sua natura nazionale e popolare nel vivo del cambiamento indispensabile al Paese, guardando con impegno rinnovato alle giovani generazioni e delle donne, come forze portatrici di rinnovamento e in grado di suscitare nuove energie democratiche. Non una nuova Anpi, ma un’Anpi rinnovata, un’associazione che promuove impegno e nuove forze, che realizza uno spazio pubblico antifascista e repubblicano, parte fondamentale e determinante della più ampia area di associazioni resistenziali.
Da queste premesse deriva la necessità che tutta la fase congressuale sia intrecciata alla costruzione di una vasta rete di relazioni da parte di ogni struttura dell’Anpi che, nella sua autonomia, dialoga con l’associazionismo, il volontariato laico e di ispirazione religiosa, il mondo delle culture, dell’informazione, della scienza, del lavoro in generale, delle istituzioni e delle forze democratiche, oltre che – e in primo luogo – con le altre associazioni resistenziali.
Libertà, eguaglianza, democrazia, solidarietà, pace: sono questi i pilastri valoriali della Resistenza, successivamente incarnati nella Costituzione. E sono perciò anche gli ideali fondamentali dell’Anpi. Ideali che hanno una portata universale, in quanto forniti di uno straordinario carattere espansivo, ma che vanno storicamente declinati in luoghi e tempi determinati. La loro piena realizzazione infatti tende ad essere un orizzonte verso cui muoversi sempre, piuttosto che una realtà compiuta una volta per tutte. Si tratta, appunto, di idee la cui funzione è di essere guida permanente, di dare senso, significato e traguardo alle azioni che vengono condotte.
Tali valori e ideali sono oggi di fatto messi in discussione in modi diversi, e in Paesi e territori diversi. Le libertà spesso sono negate o ridotte: le “libertà di” (per esempio di opinione, di circolazione, di stampa), – peraltro spesso limitate e condizionate ‒ di rado si coniugano con le “libertà da” (per esempio dal bisogno, dallo sfruttamento, dalla fame); l’uguaglianza sembra una chimera, anche perché si accentuano le disuguaglianze; la democrazia viene esplicitamente conculcata, oppure dimezzata, oppure ancora ridotta al pur
necessario diritto di voto. E mentre si affievolisce la partecipazione popolare, in tanti regimi parlamentari la rappresentanza è sacrificata sull’altare di una astratta governabilità; la solidarietà viene incrinata o semplicemente negata, e si tenta di contrapporre situazioni di povertà a situazioni di maggiore povertà e disagio; alla volontà ‒ sempre sostenuta a parole ‒ di garantire una pace globale e duratura si sostituisce nei fatti una macabra normalità della guerra come presunta forma legittima di soluzione delle controversie internazionali.
Eppure nel mondo e nel nostro Paese esistono forze diffuse e operanti che difendono tali valori e ideali perché in essi si riconoscono, e perché sono consapevoli che nessuna prospettiva di cambiamento positivo è possibile a prescindere dalla loro attuazione. Sono forze eterogenee e variamente diffuse, organizzate e non, attente a temi diversi, che vanno dal lavoro alla pace, dalla difesa dell’ambiente alla lotta per la democrazia alla liberazione del proprio Paese.
Veniamo da una lunga storia, quella dell’antifascismo, della dignità e della emancipazione, iniziata durante il regime fascista, proseguita nella Resistenza, continuata nelle lotte per la democrazia e l’attuazione della Costituzione.
Per memoria attiva intendiamo appunto la capacità di trasferire tale eredità nell’azione civile e sociale, politica nell’accezione più larga ed alta della parola, in modo che essa non si limiti alla custodia del passato, ma diventi stella polare del presente e forza propulsiva per il futuro. Dalla memoria attiva della Resistenza, evento fondativo della Repubblica democratica, dobbiamo attingere l’energia e la determinazione necessarie a fronteggiare ogni circostanza sfavorevole, la fiducia nella possibilità di cambiare le cose attraverso l’unità e la partecipazione, lo stimolo alla politica perché riprenda appieno la missione indicata dalla Costituzione, cioè la capacità di progettare e governare il futuro del Paese.

PRIMA PARTE – IL MONDO VISTO DALL’ANPI

Ci sono almeno tre fattori di portata globale che non semplicemente incidono sulle singole situazioni nazionali ma cambiano il modo di pensare della politica, delle culture, delle società. Siamo nella situazione che viene definita di cambio del paradigma: la scala degli avvenimenti è di tale ampiezza, le scelte indispensabili sono di tale grandezza e complessità che il nostro modo di pensare al presente, al futuro, allo sviluppo dell’umanità deve cambiare radicalmente e basarsi su criteri e metodi del tutto nuovi.
Il primo fattore è il cambiamento climatico: il riscaldamento del pianeta procede in modo accelerato, produce devastanti fenomeni atmosferici, determina fenomeni enormi di desertificazione, di riduzione delle masse umide, di mutamento degli equilibri termici degli oceani, di scioglimento dei ghiacci polari e continentali, tanto da minacciare la scomparsa non solo di
aree costiere ma di grandi metropoli di rilievo planetario.
Il secondo fattore è la crisi degli strumenti ‒ che segue alla crisi delle volontà – di governo sovranazionale. L’ONU è da tempo bloccata in una difficoltà di azione, non presente in numerosi punti di tensione ed anche di conflitto armato in Africa, Medio oriente, Asia, in netto deficit di autorevolezza. Il confronto tra grandi potenze, Paesi e soggetti sovranazionali regionali avviene
al di fuori dell’Onu ed anche delle altre Agenzie sovranazionali.
Il terzo fattore è la rivoluzione tecnologica digitale, ampiamente in corso, che ha cambiato e cambierà modalità di lavoro, organizzazione sociale, abitudini, costumi; che incide profondamente sulla formazione del senso comune e lo farà in modo sempre più ampio; che condizionerà i rapporti globali per la stretta connessione con i temi della sicurezza, economica e militare.
Tre fattori estremamente diversi ma per i quali occorre un cambiamento netto di prospettiva, che ciascun Paese può e deve contribuire a determinare.
E il primo cambiamento deve essere la consapevolezza che nessuno si salva da solo: c’è bisogno di un impegno enorme, che richiede grandi sforzi e straordinarie risorse. Il cambiamento climatico ci dice che la politica non può intervenire sulla natura: che, al contrario, la natura decide come deve essere la politica e cosa essa deve fare. La pandemia ha amplificato ulteriormente questo profondo mutamento. Il modello di sviluppo che si è affermato sul pianeta, senza differenze di regime politico, è un modello dissipativo e distruttivo dell’equilibrio tra attività dell’uomo e natura. I rapporti tra i Paesi, in secondo luogo, non si “aggiustano” per forzature progressive ma solo tornando a determinare insieme nuovi strumenti e nuovi obiettivi di coesistenza ed anche competizione, comunque pacifica. E va ripreso con urgenza il tema del superamento degli armamenti nucleari, la cui esistenza si giustifica sempre meno. La rivoluzione digitale inciderà fortemente sullo sviluppo dei singoli Paesi, le cui economie sono attraversate da veloci e intensi processi di trasformazione: occorre operare affinché i dati siano considerati un bene comune, e perché il digitale diventi lo strumento per politiche industriali e sociali non dissipative e sostenibili.

Cambiare il Paese: dalla crisi alla rinascita
È in corso una depressione che colpisce la vita quotidiana dell’intera comunità nazionale, dall’industria ai servizi al commercio alle più disparate forme di lavoro dipendente e di lavoro autonomo, mentre cresce l’esercito degli invisibili e si allarga il differenziale fra nord e sud del Paese.
La crisi è piombata su di una penisola già fortemente segnata dalle iniquità sociali, dal divario economico, dagli squilibri territoriali e dalle contraddizioni insanabili generati da un modello di sviluppo che si è dimostrato incapace di garantire un progresso armonico perché si è fondato sulla abolizione di una ragionevole regolazione e controllo dello Stato sul mercato, sul dominio del privato sul pubblico, sull’esaltazione del concetto di individuo e sulla riduzione e penalizzazione del ruolo della cittadinanza.
Il fallimento di questo modello di sviluppo non riguarda perciò solo la dimensione economica, ma ogni aspetto della vita sociale e culturale del Paese. Da tempo assistiamo ad un progressivo affievolirsi della socialità, ad una caduta verticale della partecipazione popolare, al diffondersi di sentimenti di smarrimento, di paura e di rancore. Il dramma della pandemia ha fatto precipitare la situazione, aggravando la solitudine sociale e creando un’angoscia esistenziale causata dall’incertezza, se non dall’impossibilità di programmare in alcun modo il proprio futuro e persino il proprio presente.
In questo scenario la politica ha dimostrato tratti di larga inadeguatezza, aderendo in modo subalterno alla cultura del neoliberismo, spesso negando legittimazione a qualsiasi indirizzo alternativo di politica economico-sociale, abdicando alla sua vocazione di servizio e al compito di proporre progetti, orizzonti, visioni, ripiegando sulla amministrazione del quotidiano e spesso contaminandosi col malaffare e con l’illegalità. L’attuale sistema dei partiti ha progressivamente smarrito la sua funzione, propria dei primi decenni della repubblica, di cerniera fra società e Stato, rinunciando alla rappresentanza politica degli interessi sociali e arroccandosi nelle istituzioni. Le istituzioni stesse, svuotate della linfa vitale del sistema dei partiti, non più organicamente connesso alla società reale, hanno perso funzionalità, prestigio ed autorevolezza.
Entro questo quadro, in un periodo di tempo relativamente breve, sono cresciute e si sono spesso affermate spinte che chiamiamo populiste,
caratterizzate dal disprezzo delle istituzioni, del sistema dei partiti, dei corpi intermedi. Si è aperta così una falla nella diga democratica. Nel malfunzionamento generale del sistema-Paese sono cresciute spinte eterogenee, con forti propensioni demagogiche e autoritarie, che hanno prodotto un radicale cambiamento degli equilibri elettorali.
La crisi si manifesta anche nel sistema istituzionale. L’immagine del Parlamento è profondamente compromessa da un meccanismo elettorale per cui la gran parte dei parlamentari è nominata, e dunque scarsamente rappresentativa ma anche ‒ in alcuni casi ‒ di discutibile qualità, nonché dalla frequenza degli scandali che coinvolgono esponenti delle istituzioni, a ogni livello. Il taglio del numero dei parlamentari, che inciderà negativamente sull’attività delle Camere, è l’ennesima conferma di una deriva pericolosa, che può mettere in discussione le radici della repubblica.
La pandemia ha drammaticamente messo a nudo la debolezza e l’ambiguità della riforma del Titolo V della Costituzione, com’è dimostrato dalle
violentissime polemiche fra presidenti di Regioni e governo e fra gli stessi presidenti di Regione. Due grandi problemi sono emersi con tutta evidenza.
In primo luogo, l’incongruità di un sistema istituzionale in cui, mentre a livello nazionale vige, sia pur profondamente depauperato, il modello parlamentaristico, a livello regionale si è affermato di fatto un regime presidenziale, peraltro con ben pochi contrappesi. In secondo luogo, si è via via passati da una forma di regionalismo solidale ad una teoria del primato del più forte; l’autonomia appare sempre meno compatibile con il principio costituzionale della repubblica una e indivisibile, fondata sull’espansione della democrazia e della partecipazione dei cittadini, e sempre più un elemento di costante tensione, generata dall’egoismo localistico e dalla competizione
di mercato. A maggior ragione risulta improponibile qualsiasi proposta di autonomia differenziata: al di là di ogni buona intenzione, essa diventa un ulteriore fattore di separazione e ‒ per alcuni aspetti ‒ di frantumazione del Paese. In particolare, verrebbe ulteriormente drammatizzata la condizione del Mezzogiorno, già oggi per molti aspetti allo stremo.
La pandemia, con la conseguente crisi economica, è esplosa come una bomba su un tessuto già profondamente segnato e indebolito, facendo venire al pettine difficoltà e punti di crisi presenti da anni o addirittura da decenni.
Per citarne alcuni: il lavoro, declassato da tempo nella gerarchia dei valori sociali, con un gigantesco arretramento dei salari, dei diritti e della sicurezza dei lavoratori, a testimonianza di un vero e proprio travisamento dello spirito e della lettera della Costituzione a cominciare dal suo fondamento (art.1), e per effetto di un quadro legislativo caratterizzato dalle modifiche peggiorative apportate allo Statuto dei lavoratori e dalla simmetrica mancanza di aggiornamenti legati alle novità nell’organizzazione del lavoro, mentre giace da tre anni in parlamento la proposta di iniziativa popolare della CGIL per una nuova Carta dei diritti del lavoro. Il fenomeno migratorio, per il quale non c’è ancora una chiara politica di accoglienza, di solidarietà e soprattutto di integrazione, anche a causa dei ritardi e delle chiusure da parte dell’UE o di alcuni Paesi membri. La sanità, che, messa alla prova terribile dalla pandemia, ha rivelato i danni determinati dal progressivo ridimensionamento del Servizio sanitario nazionale a vantaggio di un modello privatistico che si è dimostrato fallimentare nel fronteggiare l’emergenza. La scuola, che vive una lunga, grave stagione di crisi perché ha perso gran parte del suo prestigio sociale (di cui fa le spese soprattutto il corpo docente), ha smarrito la sua missione fondamentale, che consiste nella formazione del cittadino. La giustizia, su cui pesano soprattutto i tempi lunghissimi dei processi e gli scandali che ne colpiscono profondamente la credibilità. La legalità, messa quotidianamente in discussione dalla criminalità organizzata e dalle organizzazioni mafiose che coprono oramai il territorio nazionale e che rivelano talvolta collegamenti perversi con la politica. L’informazione, la cui concentrazione in mano a editori “non puri” mette di fatto in discussione il pluralismo delle idee, ed esalta la faziosità. Il fisco, che da un lato non riesce a sanare la piaga dell’evasione e dell’elusione e dall’altro non ottempera più a criteri di progressività e di equa distribuzione degli oneri.
Questo groviglio di problemi si intreccia con problemi storici e permanenti: il persistere e l’aggravarsi della questione meridionale, tara storica che data dai tempi e dai modi dell’unità nazionale, e che si è accentuata da alcuni decenni a causa del costante aumento del differenziale produttivo, economico e sociale fra nord e sud del Paese; la diffusione di vecchie e nuove povertà e di
forme sempre più larghe di esclusione e marginalizzazione sociale, che hanno oramai posto all’ordine del giorno il tema dell’abbandono e del degrado di ogni periferia; una drammatica condizione delle nuove generazioni, private di diritti e di prospettive, di lavoro e di luoghi di socialità, costrette in gran parte a vivere alla giornata, alternando disoccupazione ad attività saltuarie, dequalificate, mal remunerate e spesso pericolose.
L’Italia versa perciò in uno stato di crisi organica, che si verifica allorché in un Paese un intero sistema sociale, politico e economico si trova in un stadio di instabilità così forte da mettere in discussione la sua tenuta e la credibilità stessa delle istituzioni. Quando il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere insorgono pericoli di cesarismo, si profila cioè il rischio di regimi in cui un individuo assume il potere in modo autocratico, sostituendo la partecipazione democratica e la rappresentanza con la delega diretta e plebiscitaria.
Tutto ciò pone all’ordine del giorno la difesa, la tenuta e il rilancio della democrazia, anzi, propriamente, della democrazia costituzionale.
Si parla in generale, ed anche per il nostro Paese, di crisi delle democrazie liberali. In realtà tale definizione per l’Italia è riduttiva e per così dire propagandistica. La democrazia disegnata dalla Costituzione infatti è rappresentativa, perché il popolo elegge i suoi rappresentanti; parlamentare, perché ha al centro del sistema istituzionale il parlamento; partecipata, perché presuppone ed evoca, in forme diverse, la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Certo, la nostra democrazia ha tratti liberali, ma ‒ contestualmente ‒ anche imprescindibili tratti sociali, che nascono dagli ideali di libertà ed eguaglianza coltivati in molteplici forme nella Resistenza e sostenuti nei decenni successivi dalle lotte sociali che hanno contribuito in modo determinante al progresso economico, morale e culturale del nostro Paese. Da tempo questi ultimi tratti sono stati messi progressivamente in secondo piano, con la conseguente crescita di contraddizioni e squilibri e con l’aumento esponenziale del tasso di diseguaglianza. I punti di crisi della democrazia italiana corrispondono prevalentemente alla parziale realizzazione del carattere sociale della democrazia costituzionale.
In questi vuoti si innestano le propensioni e le azioni eversive dell’estrema destra italiana: neofascisti, neonazisti e razzisti intervengono sempre più spesso nelle ferite sociali, dalla povertà alle contraddizioni fra poveri e più poveri (acuite anche dal fenomeno migratorio), dal disagio giovanile al declassamento rapidissimo di ampie fasce di ceti medi e medio-bassi. Le iniziative, spesso di natura squadristica, della “galassia nera” sono peraltro alimentate dalla propaganda incessante delle centrali della paura e dell’odio che operano nella politica, nei media, nei social network, e che hanno dato vita a un diffuso senso comune popolare. L’esito è che, mentre negli anni ‘70 la base sociale delle forze di estrema destra si concentrava simbolicamente in piazza San Babila a Milano o ai Parioli a Roma, oggi si trova nelle periferie.
Alla caduta del secondo governo Conte, provocata dal disimpegno di una forza politica della sua stessa maggioranza, hanno fatto seguito una fase di grave incertezza e la nascita del nuovo governo, in un tumultuoso rimescolamento del sistema politico. Nello scenario del tutto inedito cui siamo di fronte, rimane fermo l’obiettivo dell’Anpi di rivendicare la piena attuazione della Costituzione e una chiara azione di sostegno ad ogni concreta iniziativa
giuridica di contrasto ai fascismi e ai razzismi, che sono l’ospite inquietante
della democrazia italiana in crisi e che vanno combattuti anche sul terreno
sociale e culturale.
Si tratta di una battaglia non certo facile, ma che può essere vinta grazie
alla presenza nel nostro Paese di una vastissima area democratica di popolo,
eterogenea, più o meno organizzata in formazioni sociali, di ispirazione laica
o con convincimenti religiosi, che esprime diverse opzioni politiche ma che si ritrova saldamente unita sui principi della democrazia e sugli ideali dell’antifascismo, e che negli ultimi anni si è attivata pubblicamente decine,
centinaia di volte, in modi diversi, ad attestare una presenza, una fiducia, una
speranza. A questa mobilitazione di massa si sono aggiunte le prese di posizione
di personalità del mondo della cultura, dello spettacolo, dell’informazione, del lavoro. L’elemento portante di questo movimento carsico ma costante di partecipazione democratica è stato l’associazionismo, sia nelle espressioni più
stabili e organizzate a livello nazionale (Arci, Acli, Libera, Cgil, Cisl, Uil), sia in forme nuove, come le Sardine, sia in una miriade di esperienze particolari e locali: un movimento che ha visto sempre la presenza attiva dell’Anpi e delle altre associazioni resistenziali. Un forte impulso a tale movimento è venuto dalle ultime encicliche e dal convegno economico di Assisi (Economy of Francesco). L’incontro fra una rinnovata concezione religiosa del mondo e della vita e la visione laica dell’associazionismo sta contribuendo in modo essenziale a dar forza all’obiettivo della costruzione di una società diversa, che abbia a fondamento la centralità della persona umana, cioè un nuovo
umanesimo. Che è poi, in ultima analisi, l’architrave della Costituzione.
Da questo punto di vista non si possono dimenticare due immagini di straordinaria potenza simbolica in piena pandemia: il Papa da solo in piazza
San Pietro il 28 marzo 2020, il Presidente della Repubblica da solo davanti al
Monumento al Milite Ignoto il 25 aprile 2020.

Noi Europei: per una più forte unità politica dell’UE
Il sistema istituzionale dell’Unione Europea non è un sistema pienamente
parlamentare, ed è parte di un complesso meccanismo che rende la
democrazia europea ancora incompiuta. Tale meccanismo merita di essere
profondamente rivisitato in direzione del conferimento di più ampi poteri al
parlamento. È auspicabile che la Conferenza sul futuro dell’Europa produca
il risultato di estendere la partecipazione dei cittadini e di rafforzare la loro reale rappresentanza all’interno delle istituzioni europee.
Com’è noto, un capitolo fondamentale nella storia dell’idea di Europa è stato scritto a Ventotene. L’Europa immaginata da Colorni, Spinelli, Rossi, Hirschmann, si ispirava ai principi di libertà, di democrazia, di eguaglianza
sociale (per mettere fine alle “colossali fortune di pochi” e alla “miseria delle grandi masse”), prima coltivati dagli antifascisti italiani nella clandestinità, poi sbocciati nella Resistenza; un’Europa dei popoli e della solidarietà. Ancora oggi, ottant’anni dopo, il manifesto di Ventotene è un potente antidoto contro i nazionalpopulismi e i sovranismi, e continua a indicarci la prospettiva di una unione continentale come avanzamento ‒ e, per alcuni aspetti, compimento ‒ della rivoluzione democratica che ha sconfitto il nazifascismo.
L’Europa è perciò il luogo dove oggi l’antifascismo può realizzare una delle
sue missioni fondamentali. Sapendo coniugare lo sviluppo con i diritti individuali e collettivi, l’Europa è stata nel dopoguerra la culla del Welfare, e può perciò proporsi come riferimento per altre aree del mondo. Eppure, a
causa della crisi delle democrazie occidentali, in tanti Paesi della UE germina e cresce il virus del nazionalismo, spesso mescolato al razzismo e al nazifascismo: lo stesso virus che portò il mondo alla catastrofe nel 900. Il populismo ha assunto specifici caratteri nazionali, violando, come nel caso della Polonia e dell’Ungheria, alcuni capisaldi del Trattato dell’Unione Europea: ci riferiamo alla tutela della dignità della persona, ai valori della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, allo Stato di diritto e al rispetto dei diritti umani.
Spinte centrifughe e revisioniste di varia natura, provenienti prevalentemente
da alcuni Paesi dell’est, hanno indebolito l’Unione e rischiano di mettere in discussione la sua matrice antifascista; basti pensare alla Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 “sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, che ha riscritto la storia delle origini della
seconda guerra mondiale attribuendo una notevole responsabilità all’Unione
Sovietica e sminuendo di fatto le colpe del nazifascismo, peraltro in palese
contrasto con lo spirito della Risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2018 “sull’aumento della violenza neofascista in Europa”.
Un’analoga distanza dai principi dello Stato di diritto si verifica in Paesi
europei non UE come l’Ucraina, profondamente inquinata da presenze filonaziste, e la Bielorussia, governata da un regime dispotico e violento.
L’UE, per di più, è da poco uscita da una lunga stagione di politica economica,
aperta dalla crisi del 2007-2008 e improntata alla cosiddetta austerità, che
ha avuto drammatiche conseguenze sociali in vari Paesi, compresa l’Italia, e
risultati catastrofici per la Grecia. Tale politica è stata una delle cause essenziali della caduta di fiducia nell’UE, della crisi della democrazia, del repentino affermarsi dei nazionalpopulismi.
Il cambio di rotta determinato dal dramma della pandemia ha segnato una
discontinuità profonda e positiva che può preludere ad un radicale cambio di
passo, come lasciano intravedere le opzioni relative alla green economy e, più in generale, la maggiore attenzione ai temi dell’ambiente. Eppure rimane
inconfutabile una strutturale debolezza politica e sociale dell’Unione,
dovuta alla mancanza di politiche comuni su temi fondamentali – politica
estera, emigrazione, fisco, lavoro – e all’indebolimento della fiducia dei
popoli nei confronti dell’organismo sovranazionale. Di converso la Brexit, se ha rappresentato traumaticamente un punto di crisi dell’Unione, ha altresì rafforzato la tenuta dell’Unione stessa davanti al pericolo della disgregazione.
In ogni caso l’UE non si mostra ancora pienamente all’altezza della sfida
globale, per la persistenza di piccoli e grandi egoismi nazionali, per i riflessi politici della teoria economica del neoliberismo (da tempo applicata di
fatto in modo esclusivo, seppure con diverse articolazioni, dall’insieme della
UE), per i condizionamenti postumi della Guerra fredda. Va segnalato in proposito il tormentato rapporto con la Russia. Alle giuste critiche per i limiti e le distorsioni del sistema politico di questo Paese e per l’opacità di eventi, situazioni ed episodi imputabili a decisioni del governo russo, si aggiunge spesso nei confronti della Russia un sovraccarico di polemiche e di scontri di carattere geopolitico, che innalzano la tensione in modo preoccupante. Il mondo che ci attende richiede un assetto multipolare, il superamento di ogni residuo di eurocentrismo e al contempo il rafforzamento dell’UE sotto tutti i punti di vista, affinché il vecchio continente, unito, regga la sfida delle grandi potenze politiche ed economiche in occidente e in oriente, a cominciare da Stati Uniti e Cina, senza per questo rinunciare alla cooperazione, al negoziato e a ogni altro strumento che garantisca la pacifica convivenza, il progresso economico e sociale, l’autodeterminazione dei popoli.
È bene che l’Europa abbia confermato il suo sistema di alleanze internazionali e i suoi rapporti transatlantici; ma tale sistema va collocato nel contesto del mondo attuale, in cui la mission difensiva della Nato nei confronti dei Paesi dell’est è venuta ovviamente meno, ma non è chiaro quale sia la nuova funzione ‒ e tantomeno il significato della natura esclusivamente difensiva ‒ dell’alleanza militare. Anche per questo deve essere messa all’ordine del giorno la costruzione di un autonomo sistema di sicurezza europeo.
Inquieta in questo scenario la proliferazione di gruppi e organizzazioni che si
richiamano al fascismo, al nazismo e al razzismo, e che interessa soprattutto
i Paesi dell’est. Sarebbe un gravissimo errore sottovalutare o tollerare questa
evidente realtà, che costituisce una minaccia permanente per la democrazia
e la libertà. Occorre perciò una piena riaffermazione dell’antifascismo come
architrave della costruzione europea e un profondo rafforzamento della
dimensione continentale dell’antifascismo organizzato.
L’Unione Europea, in conclusione, non è altro argomento, estraneo alla
situazione nazionale; essa rappresenta una dimensione decisiva della battaglia
politica, sociale e culturale, e deve diventare il teatro principale della nuova
fase della lotta democratica e antifascista nello spirito, nelle mutate condizioni storiche del nuovo secolo e del nuovo mondo, del Manifesto di Ventotene.

Il mondo in cui viviamo
L’Europa e l’Italia nel nuovo mondo. Ma è davvero nuovo? Lascia sconcertati
la vicenda dei vaccini, la cui ricerca è stata finanziata dai poteri pubblici, ma
la cui produzione e commercializzazione è stata affidata alle multinazionali
del farmaco, che hanno agito in base alle leggi del mercato e non in base al
bisogno sociale. Tutti sanno chi è il presidente degli Stati Uniti, della Russia,
della Cina, ma ben pochi sanno chi è l’amministratore delegato di Microsoft, Amazon, JPMorgan Chase. Eppure il giro d’affari di molte multinazionali sovente supera persino il PIL di tanti Paesi. In un mondo davvero nuovo dovrebbero essere messi a tema il controllo pubblico dell’economia e della finanza, un codice di vincoli e di regole per un sistema produttivo privato che opera al di fuori ed al di sopra di ogni legislazione nazionale. In sostanza, la politica deve tornare al posto di comando.
Certo, non c’è più l’inquietante figura del presidente Trump, ma l’onda lunga del “trumpismo” non si è esaurita e continua a ispirare nazionalismi e protezionismi: in America del Sud con l’incredibile presidenza di Bolsonaro, in Europa con una forte e articolata presenza nazionalpopulista, ed in Asia, per esempio col governo di Narendra Modi in India, mentre nel Myanmar l’opposizione al colpo di stato da parte di un larghissimo movimento popolare che chiede il ripristino della democrazia viene represso in modo sanguinoso.
Negli States è alla prova il nuovo presidente Biden, che propone una visione
del mondo senz’altro diversa da quella di Trump e che ha segnato già punti
a suo favore (a partire dal rientro del suo Paese negli accordi di Parigi per la
difesa dell’ambiente), ma che apre anche inquietanti interrogativi sul possibile
ricorso alla forza militare come mezzo di risoluzione delle controversie con
altri Paesi, come confermato dal raid in Siria del febbraio 2021. La sfida più
grande a cui Biden è atteso è quella della pace e della guerra: ci aspetta una
nuova guerra fredda o finalmente una coesistenza pacifica fondata sulla non ingerenza negli affari interni di altri Stati e sul diritto all’autodeterminazione dei popoli? Anche da questo punto di vista il Medio Oriente rimane una cartina di tornasole, perché chiama in causa le endemiche ingerenze politiche e militari dell’occidente, la condizione di popoli senza Stati come i palestinesi e i curdi, il ruolo di potenze regionali come Turchia, Israele, Arabia Saudita, Iran, Egitto. Si protrae il conflitto israelo-palestinese, la cui unica, equa e ragionevole composizione non può che consistere nella formula “due popoli due Stati”; dura la sanguinosa repressione del governo turco nei confronti del popolo curdo; crescono le tensioni fra Paesi a maggioranza sunnita e Paesi a maggioranza sciita; rimane il rebus libico, dopo che lo Stato è stato di fatto dissolto dall’aggressione militare della Nato del 2011, e si è aperto un calvario di guerre tribali che hanno trasformato la Libia in un teatro di scontri per procura di Stati terzi ingolositi soprattutto dalla ricchezza petrolifera del territorio, nel terreno di una complessa partita politica e diplomatica da cui l’Italia è stata finora sostanzialmente assente.
Da tempo in America Latina è in corso un confronto di dimensioni continentali fra una politica che si prefigge una effettiva indipendenza dagli Stati Uniti d’America, e una politica che si richiama alla dottrina Monroe, e dunque tende a imporre la supremazia degli Stati Uniti nel continente americano. Intanto permane l’embargo commerciale, economico e finanziario degli Stati Uniti contro Cuba, iniziato nel 1962 e ultimo retaggio della guerra fredda. È ora di cancellarlo. Le questioni legate al rispetto delle libertà, della democrazia e dei diritti umani nei Paesi dell’America Latina, alle volte reali, altre volte pretestuose, sovente sollevate per denunciare l’illegittimità di questo o quel governo, si possono affrontare esclusivamente a partire dal rispetto dell’autonomia nazionale e dell’autodeterminazione. La teoria dell’esportazione della democrazia ha già determinato catastrofici effetti in Medio Oriente, laddove, viceversa, nei confronti di regimi in cui libertà, democrazia e diritti umani sono parole vuote, come le petromonarchie, si resta inerti e si stabiliscono in qualche caso, come l’Arabia saudita, addirittura rapporti preferenziali. Seppur in ritardo, bene ha fatto il governo italiano a sospendere le commesse commerciali verso la monarchia saudita. Queste contraddizioni chiamano in causa il progressivo svuotamento di poteri e di legittimità dell’Onu e degli organismi internazionali che ne sono espressione.
Le Nazioni Unite devono recuperare il ruolo di garanti del diritto internazionale e del sistema di sicurezza collettiva, prevenendo o sanando i conflitti, tutelando il principio di non ingerenza, richiamando gli Stati membri al rispetto dei diritti umani.

In questo nuovo mondo c’è un generale indebolimento delle democrazie.
Questo vale per le democrazie cosiddette illiberali, in cui, pur in presenza di elezioni, si nega di fatto la divisione dei poteri e si tende ad asservire il potere legislativo e quello giudiziario all’esecutivo, a conculcare i diritti e
le libertà civili, ma vale anche, sia pur in modo diverso, per le democrazie
rappresentative, svuotate di effettiva partecipazione popolare e con una crisi dei partiti, in particolare dei partiti “storici”, sempre più marcata, sia pur in forme diverse a seconda degli Stati. Colpisce la pressoché totale
scomparsa dell’accezione di “democrazia sociale”, cioè di una democrazia che,
salvaguardando le conquiste del liberalismo, vada oltre, affinché le libertà e i diritti declamati siano effettivamente praticati.
In questo scenario si collocano i grandi temi della contemporaneità, a
cominciare dal fenomeno dell’ondata migratoria, che mostra la distanza
abissale fra le dichiarazioni e i comportamenti in materia di democrazia e
di diritti umani. A fronte di un evento di proporzioni eccezionali, prevale
un atteggiamento di ripulsa e di arroccamento, i cui effetti sono visibili dal
Messico al Mediterraneo alla rotta balcanica, con conseguenze catastrofiche
anche a causa della mancanza di un ordine internazionale e della debolezza e
contraddittorietà delle politiche dell’UE. Ma risposte parcellizzate, confuse e
dunque insufficienti vengono date anche ad altri problemi capitali della fase
attuale, dalla fame nel mondo alla catastrofe annunciata del riscaldamento
globale, dalla piaga del terrorismo islamico agli effetti globali della rivoluzione digitale. Per questo democrazia, nuovo umanesimo, sviluppo sostenibile, pace costituiscono le fondamenta della politica che l’umanità di oggi, e specialmente le nuove generazioni, chiedono a gran voce.

SECONDA PARTE – L’ANPI E LA SFIDA DEL PRESENTE

Noi
Come si colloca l’Anpi in questo mondo e in questo nostro Paese, l’uno e l’altro così cambiati? In primo luogo si colloca attivamente, perché l’Anpi non è la custode di un’antica reliquia, ma un soggetto che fa tesoro della memoria per intervenire nel presente e per disegnare il futuro. Non a caso lo Statuto recita fra l’altro, a proposito della missione dell’Associazione: “battersi affinché i princìpi informatori della Guerra di Liberazione divengano elementi
essenziali nella formazione delle giovani generazioni”; “concorrere alla piena
attuazione, nelle leggi e nel costume, della Costituzione Italiana, frutto della
Guerra di Liberazione, in assoluta fedeltà allo spirito che ne ha dettato gli
articoli”. In queste parole c’è la sostanza dell’idea di “memoria attiva” che
ispira l’associazione, e che consiste nel rendere vivo e operante il sistema di
valori incarnato nella Resistenza e dichiarato nella Costituzione.
L’idea di memoria attiva è la base del “fare politica” dell’Anpi, ossia di
un impegno civile e sociale che, oltre a essere un diritto, è un dovere di
cittadinanza. Chi fa coincidere con la sfera dei partiti il perimetro dei
soggetti di qualsiasi iniziativa che attenga alla politica, rivela una concezione profondamente antidemocratica e ignora la funzione essenziale della
partecipazione nell’impianto costituzionale della democrazia italiana.
L’Anpi, peraltro, ha nella sua storia momenti di forte presenza sul terreno
della politica: così fu nel 1953 nell’opposizione alla cosiddetta “legge truffa”, nel 1960 per impedire il congresso del Msi a Genova e per contrastare il governo Tambroni, negli anni 70 e 80 per fermare la strategia della tensione prima e il terrorismo poi. Recentemente ‒ nel 2006, nel 2016, nel 2020 ‒ l’Anpi ha fatto sentire le sua voce nei referendum costituzionali.
L’Associazione è perciò un attore del dibattito pubblico, pronto anche alla
mobilitazione di piazza laddove sussistano gravi pericoli per la democrazia e
il suo assetto costituzionale.
L’Anpi, in sostanza, come tutte le formazioni sociali, è un soggetto politico,
ma mentre tutti i partiti sono soggetti politici, non tutti i soggetti politici sono partiti. L’Anpi non era, non è e non sarà mai un partito, né può essere oggetto di alcuna speculazione partitica, perché la sua forza morale, ideale e pratica deriva dalla sua natura di “associazione che unisce”, che non è portatrice di una ideologia specifica, che è di parte sì, ma della parte della Costituzione.
Questo non vuol dire rifiutare i partiti o diffidarne pregiudizialmente; vuol dire invece avere a mente i diversi ruoli delle comunità organizzate che strutturano e danno anima al funzionamento della democrazia italiana.
Da tutto ciò deriva la legittimità ed anche l’urgenza, in questa fase drammatica, di una capacità di critica e di proposta, sempre in riferimento a grandi questioni di carattere costituzionale, istituzionale, politico, sociale.

L’impegno dell’Anpi oggi
La grande alleanza democratica e antifascista
Proprio perché portatrice di una visione laica e libera della cittadinanza
attiva, l’Anpi ha avanzato la proposta della grande alleanza democratica e
antifascista per la persona, il lavoro e la socialità, raccogliendo un’adesione
ampia di movimenti, associazioni, sindacati, forze politiche, ed in primo
luogo di associazioni partigiane. Il respiro di tale proposta infatti richiede
innanzitutto il concorso di tutte le associazioni nate dalla comune esperienza
della Resistenza. Tali associazioni si sono divise e articolate in ragione di uno scenario politico da tempo scomparso, e va perciò avviato un percorso che
prenda atto del superamento delle antiche divisioni nella prospettiva di una
sempre maggiore vicinanza e di una auspicabile ricomposizione.
La proposta è di un’alleanza che riproponga nel dramma presente la centralità
dei valori della solidarietà e della prossimità, due parole chiave, ma sappia
anche guardare al futuro, affinché nell’Italia del dopo Covid non si assista
alla restaurazione dei modelli economici e valoriali del recente passato, ma
si imbocchi la strada del cambiamento. O ci sarà una svolta vera, oppure il
domani riproporrà in forma ancora più grave il dramma della diseguaglianza.
Si tratta dunque di un’alleanza per la Costituzione.
Tale proposta nasce dalla estrema gravità della situazione del Paese, dall’urgenza di una risposta unitaria come unica risposta storicamente e logicamente possibile, dalla necessità di non giocare più soltanto di rimessa,
criticando o contestando questo o quel fenomeno di deriva della democrazia,
ma viceversa di andare all’attacco, svolgendo un ruolo positivo e propositivo.
In sostanza, questo è il momento di una piena assunzione di responsabilità
nazionale e generale, a maggior ragione di fronte alla mancanza di soggetti
partitici in grado di svolgere un’analoga funzione di “levatrice” di una nuova
fase della lotta democratica e antifascista.
Questa scelta dell’Anpi è pienamente coerente con le sue radici, anzi per qualche aspetto è dovuta, perché rinvia, in ultima analisi, alla logica unitaria del Cln e allo slancio di solidarietà del Paese nell’immediato dopoguerra, prima
dell’avvio della guerra fredda, cioè alla fase di ricostruzione dell’Italia distrutta da un regime dittatoriale e dalla guerra. Inoltre, esalta il carattere autonomo e unitario dell’Associazione. I due aggettivi non sono in contraddizione, perché il primo esclude qualsiasi rapporto di dipendenza, il secondo esclude qualsiasi propensione alla chiusura e all’autosufficienza. Oggi non c’è stata una guerra e la dittatura fascista è fuori dalla storia presente: ci sono però un Paese da ricostruire, una fiducia da suscitare, un futuro che deve essere nelle mani dei cittadini.
La proposta di grande alleanza serve in primo luogo a stabilire un clima nuovo, di dialogo, di partecipazione, di condivisione, di ascolto, fra forze politiche, forze sociali, istituzioni, ma anche fra persone, perché è vero, come ha affermato Papa Francesco, che “nessuno si salva da solo”. È inoltre un luogo ove esporre analisi e formulare proposte di indirizzo, opzioni di
priorità, gerarchie di valori condivisi. L’obiettivo dell’alleanza non è quello di sostituirsi al legislatore, ma di stimolarlo e di contribuire alla ricostruzione di un rapporto virtuoso fra la società e il sistema istituzionale. La modalità di tale alleanza non si può definire con un accordo a tavolino; l’alleanza deve manifestarsi in un costante processo unitario e realizzarsi attraverso le tante forme possibili che essa può assumere sull’intero territorio nazionale, in considerazione delle specifiche caratteristiche della storia locale. È dal territorio che possono nascere esperienze, proposte, iniziative. I territori sono le officine dell’alleanza.
Ma i territori sono anche per alcuni aspetti l’obiettivo dell’alleanza. A fronte
degli estesi ed evidenti fenomeni di disgregazione, occorre ricostruire i legami
sociali attraverso una crescente partecipazione, una mobilitazione generale
dei cittadini organizzati, per costruire una nuova cultura della cittadinanza.
Questo comporta per l’Anpi una vasta proiezione nella società civile, un
dialogo ed uno scambio continui con la molteplicità dei soggetti sociali.

La nostra anima e le radici
La nostra anima è la memoria delle radici. Essa si incarna in forma simbolica
e rituale nella mole delle celebrazioni, a cominciare dalla più grande e
significativa: il 25 aprile. Tale data viene ricordata con la dovuta solennità
nella grande maggioranza dei comuni italiani; ma c’è ancora una zona grigia in
cui, anche a causa delle scelte di diverse giunte di destra, non viene festeggiata la Liberazione. È compito di tutte le strutture Anpi impegnarsi affinché in ogni comune il 25 aprile venga degnamente commemorato. Ma assieme a
questa e ad altre date importanti (come il 2 giugno, festa della Repubblica),
l’Anpi è impegnata a coltivare la memoria delle radici in molte altre forme,
come l’onore alle lapidi o l’istallazione delle “pietre d’inciampo”. Per
converso, l’Anpi deve impegnarsi su tutto il territorio nazionale a contrastare
la pericolosissima deriva per cui in alcune realtà si erigono piccoli o grandi
monumenti a personalità del regime fascista o compromesse col fascismo.
Il fronte su cui si sta manifestando una vera e proprio offensiva dell’estrema
destra riguarda la toponomastica, con l’intitolazione di piazze, vie, giardini a fascisti scomparsi. A questa indecente opera di riabilitazione del fascismo
noi dobbiamo contrapporre la valorizzazione delle figure della Resistenza di
maggiore rilievo locale, con particolare riferimento alle centinaia e centinaia
di donne – partigiane, staffette o semplici donne del popolo – seviziate e
uccise dai nazifascisti, a cominciare da quelle insignite di Medaglia d’Oro.
In tale contesto va ricordato il prezioso lavoro, svolto per conto dell’Anpi
nazionale con la collaborazione di tanti comitati provinciali e di tante sezioni
e col sostegno dello Spi-Cgil, da Laura Gnocchi e Gad Lerner, che hanno
raccolto centinaia di video-interviste a partigiane e partigiani. Al volume «Noi
partigiani», pubblicato lo scorso anno, segue la costituzione di un “memoriale
virtuale” in cui sono raccolte tutte le testimonianze. Sarà poi utile un serio
contributo dell’ANPI anche all’approfondimento del tema che si potrebbe
definire “la Resistenza e il futuro”, per cogliere le attese, le speranze, gli intenti
e i progetti di quanti parteciparono in qualsiasi forma alla Resistenza. Tale
approfondimento potrà recare un contributo saliente anche a collegare talune
esperienze della Resistenza (per esempio, le Repubbliche partigiane) ai lavori
(ed ai risultati) della assemblea Costituente, per la formazione dell’attuale
Carta Costituzionale, recando un ulteriore contributo alla memoria, non
solo come conoscenza e ricordo, ma anche come riflessione e valorizzazione
dei contenuti, delle attese e delle speranze della Resistenza.
In ultima analisi la “memoria” dell’Anpi, e cioè la conoscenza, il ricordo,
la valorizzazione del passato e la sua elaborazione critica, a partire dalla
complessa esperienza della Resistenza e della Liberazione, dalla Consulta
nazionale istituita dopo la fine della guerra per portare il Paese alle elezioni
politiche, dai lavori dell’Assemblea Costituente ed infine dall’approvazione
della Costituzione, rappresenta un patrimonio irrinunciabile per affrontare
in modo critico, positivo e propositivo il presente ed il futuro. Siamo davanti
ad una dilagante e generalizzata riscrittura della storia, e a una vera e propria
delegittimazione della ricerca storica, da parte di centri di potere politico e
istituzionale della destra. È urgente perciò dar vita a una nuova narrazione
che faccia della verità storica uno strumento potente di impegno civile e di
cambiamento sociale.

L’antifascismo e l’antirazzismo oggi
Tutta la vigenza congressuale, dal 2016 ad oggi, è stata costellata di iniziative
antifasciste e antirazziste da parte dell’Anpi, nella maggioranza dei casi
unitamente ad altre forze sociali. Dobbiamo essere sempre in prima fila nella
denuncia dell’attività squadristica in ogni sua forma, dei tentativi revisionistici
che si sono moltiplicati negli ultimi anni con l’evidente disegno di ridare
legittimità storica e politica al ventennio, di ogni manifestazione di razzismo, di
discriminazione e di antisemitismo. L’antisemitismo è vivo e vegeto in Europa
e si manifesta con frequenza sempre più preoccupante. È essenziale avere a
mente che qualsiasi riferimento diretto o indiretto al fascismo è in conflitto
con lo spirito della Costituzione e con la natura democratica della repubblica.
Oggi la suggestione fascista non è più limitata ad un gruppo di nostalgici, ma
è condivisa da una parte significativa, pur se non maggioritaria, della pubblica
opinione, ed è assecondata dai gruppi dirigenti dei partiti più vicini al punto
di vista nazionalpopulista, che hanno in gran parte sdoganato il fascismo
legittimandone storia, teorie, idee, costumi, luoghi comuni. L’egemonia della
cultura antifascista passa in primo luogo dalla sconfitta di questi fenomeni.
Negli ultimi anni i punti più alti dell’impegno antifascista dell’Anpi sono
stati la grandiosa manifestazione “Mai più fascismi, mai più razzismi”, da noi
promossa insieme con un vasto arco di forze e tenutasi a Roma il 24 febbraio
2018; la raccolta unitaria di firme su scala nazionale per la messa fuorilegge
delle organizzazioni fasciste e razziste; l’esposto presentato alla Procura della
Repubblica di Roma contro Casa Pound; la lunga campagna di denuncia
della “Galassia nera” sul web lanciata da «Patria indipendente» e ripresa in
vari modi da istituzioni e media; la vasta attività di ricerca storico-giuridica
sulla legislazione antifascista e antirazzista compiuta dall’Anpi nazionale.
Analogamente, la battaglia antirazzista ha avuto carattere permanente e
continuativo su diversi fronti: i migranti, i rom, gli ebrei, gli afroamericani. Un
punto particolarmente alto di impegno è avvenuto a partire dal luglio 2020,
dopo l’omicidio negli States di George Floyd. Assieme, la critica al razzismo
si è realizzata con diverse riflessioni e approfondimenti, in particolare sulle
pagine di «Patria indipendente». È stato messo a fuoco il nesso strettissimo
fra contrasto a fascismi e razzismi e piena attuazione della Costituzione; il
carattere antifascista della Carta fondamentale non si riduce infatti alla pur
essenziale XII Disposizione finale, ma ispira ogni sua parte perché disegna uno
Stato, una società ed un insieme di regole esattamente opposti all’ideologia
fascista e razzista.
La memoria del passato avviene sempre nel presente. Da questo punto di
vista la Resistenza, la guerra, il dopoguerra, la Costituente, la Costituzione
sono temi straordinariamente attuali e oggetto di ricerca storica tutt’altro
che conclusa. L’Anpi ha dato in questi anni un importante contributo alla
conoscenza della Resistenza come fenomeno nazionale (valorizzando il
ruolo del Mezzogiorno e dei meridionali) e come laboratorio istituzionale (le
repubbliche partigiane). Eppure stiamo assistendo a un’offensiva revisionista
senza precedenti, tesa a screditare il movimento partigiano e l’intera lotta
di Liberazione; valga a esempio la ricorrente e stucchevole polemica sulle
foibe. Anche su questo terreno l’Anpi ha risposto non solo contestando un
presunto negazionismo, peraltro mai esistito, ma analizzando il drammatico
fenomeno nel più ampio contesto delle vicende del confine orientale, dal
fascismo di confine all’invasione della Jugoslavia. Questi fronti di ricerca
devono rimanere aperti, e devono essere approfonditi aspetti finora non
sufficientemente studiati: le atrocità commesse dai nazifascisti nei confronti
delle partigiane, delle staffette e in generale delle donne; il ruolo specifico dei ragazzi e dei ragazzini nella Resistenza; il suggestivo e inesplorato argomento del paesaggio partigiano; la “resistenza passiva” degli Internati Militari Italiani.
In ogni attività di ricerca sarà ovviamente necessario coinvolgere gli Istituti
Storici, con particolare riferimento all’Istituto Nazionale “Ferruccio Parri”.

La nostra lotta è la Costituzione
Negli ultimi anni la nostra Carta costituzionale è stata sottoposta a numerosi
tentativi di revisione da noi respinti, in particolare nel 2006 e nel 2016. Nostro compito è, come sempre, concorrere alla sua difesa ed alla sua attuazione. Ma non solo. L’Anpi da tempo è impegnata a favorire la conoscenza, non solo nella lettera ma nello spirito, della Costituzione, nella consapevolezza che essa contiene anche criteri di interpretazione di processi di lunga durata. La conoscenza della Carta fondamentale e la conseguente necessità di difenderla e di applicarne integralmente i princìpi sono da anni un aspetto centrale della nostra attività, a diversi livelli: dalla collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, che va potenziata, all’impegno nei referendum costituzionali, all’approfondimento del versante culturale dell’antifascismo attraverso diverse pubblicazioni e seminari. Questo impegno deve incrementarsi e generalizzarsi sul territorio nazionale. Anche per questi aspetti sarà opportuno promuovere la massima collaborazione con le altre associazioni partigiane e resistenziali.

Una nuova statualità democratica e antifascista
La questione generale strategicamente più importante riguarda la natura, i compiti e le funzioni dello Stato italiano; è questa la ragione che porta l’Anpi a proporre alcune linee guida di riforma.
Il disastro della pandemia, il conseguente crollo di tante attività produttive,
commerciali e di servizio, lo scenario di crisi organica in cui versa il Paese
possono e devono essere affrontati dallo Stato, cioè dall’insieme delle
istituzioni che governano il territorio e rappresentano il popolo, all’altezza
delle contraddizioni del nostro tempo. Assistiamo all’anomalo sviluppo di poteri economici e finanziari svincolati da ogni controllo democratico, di fatto concorrenti con i poteri dello Stato, alle volte in grado persino di condizionare tali poteri. Oggi lo Stato italiano, in quanto ancora segnato dalle contraddizioni del passato, è sì parte della soluzione, ma anche del problema, e diviene perciò terreno di lotta politica finalizzata a un suo profondo cambiamento. È giunto il momento di manifestare un nuovo patriottismo
costituzionale, che postula una rigenerazione in senso pratico ed etico della politica.
Già nel 2016, il 22 marzo, il Presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia,
e la Presidente dell’Istituto Alcide Cervi, Albertina Soliani, consegnarono
al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un ampio documento contenente proposte operative “Per uno Stato pienamente antifascista”.
Nel documento, assieme alla denuncia dei ritardi e dei limiti di uno Stato
che non si è ancora del tutto uniformato alla natura antifascista della
Costituzione e della Repubblica, si suggeriva una serie di provvedimenti in
materia di legislazione, giustizia, scuola, autonomie, e si affermava la necessità appunto di “un forte patriottismo costituzionale, come base di una corretta convivenza civile”.
In verità le istituzioni di questo Paese non sono mai diventate pienamente
“antifasciste”, come vorrebbe la Costituzione; e ciò perché non sono stati
fatti fino in fondo i conti col fascismo, non si è insegnato sul serio che cosa
è stato veramente il fascismo, si è tenuto un comportamento lassista nei
confronti di atteggiamenti e azioni inaccettabili e pericolosi, non solo nella
società, ma anche nelle istituzioni. Basti pensare ai fatti accaduti a Genova del luglio 2001 durante il G8 e ai comportamenti della polizia, qualificati dalla Corte Europea dei diritti come “ torture”.
Su quali temi si deve impegnare oggi l’Anpi? E per quali proposte? Senza
pretendere di dettare l’agenda del governo e del parlamento, e di surrogare
i partiti nella formulazione di un programma politico generale, ci limitiamo
di seguito a riassumere il punto di vista dell’Associazione su alcune questioni
che hanno particolare rilevanza nel discorso pubblico e che appaiono cruciali
per il futuro della democrazia repubblicana e del nostro Paese.
Anche a partire dalle richieste del documento del 2016, peraltro sostanzialmente
inevase, è opportuno mettere a punto un’idea di Stato che coniughi la sua
necessaria modernizzazione con l’attuazione del disposto costituzionale e con
un profondo arricchimento della natura della democrazia italiana, a partire
dal dettato del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione: “E` compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Sono perciò i diritti incomprimibili a dover essere garantiti dal bilancio dello Stato, e non l’equilibrio di bilancio a condizionare la loro piena soddisfazione, come già osservato anche dalla Corte Costituzionale. Il principio del pareggio di bilancio (art.81 Cost. nuova formulazione) non può e non deve insomma pregiudicare la tutela dei diritti sociali, essi pure costituzionalmente garantiti.
Occorre, allora, riaffermare lo statuto costituzionale dei diritti sociali contro le tendenze alla loro decostituzionalizzazione, per rivalutare in concreto il principio di solidarietà collettiva, pilastro fondante della nostra democrazia, e la conseguente esigenza di protezione dei soggetti deboli.
Tutto ciò rinvia al carattere sociale della democrazia italiana, in gran parte
inattuato, e pone allo Stato urgenze e doveri finora spesso disattesi.
Lo scopo è dar vita ad una democrazia che si organizza, sia attraverso una
riforma del sistema politico coerente con l’art. 49 (“Tutti i cittadini hanno
diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale”), che comporta anche
l’osservanza di regole di democrazia interna ai partiti, sia attraverso altre forme di partecipazione popolare.

Parlamento, Regioni, enti locali
Il Parlamento deve tornare ad essere specchio del Paese, esaltando la
sua funzione di rappresentanza e riconquistando centralità. Va perciò
contrastata l’allarmante tendenza a dar vita ad una sorta di presidenzialismo
“di fatto”.
Le Regioni non possono essere poteri separati e conflittuali, ma istituzioni
democratiche che valorizzano il territorio di competenza, che operano in
concerto col governo nazionale e in cui va esaltato il ruolo del consiglio
regionale in quanto massima espressione della rappresentanza politica: a
esso deve essere restituita la prerogativa di eleggere il presidente, il cui potere non può non essere bilanciato da opportuni contrappesi. L’Italia risente di decenni di propaganda di secessione delle Regioni ricche e, successivamente, di un federalismo sempre presentato in antitesi e in competizione con lo
Stato unitario. Viceversa, occorre ritornare allo spirito costituzionale per determinare un corretto rapporto fra poteri dello Stato, Regioni e comunità
locali. Lo Stato unitario va ancora pienamente compiuto, superando
differenze e diffidenze che datano dal Risorgimento. Il regionalismo deve
ritrovare il nesso fra la sua specificità territoriale e l’anima solidaristica che fa la Repubblica una e indivisibile. L’Italia è il Paese dei mille Comuni,
cioè di una diffusione di comunità locali con specifiche identità, che vanno
valorizzate e che costituiscono un ineliminabile patrimonio storico, civile,
culturale di carattere nazionale.

Lo Stato, le imprese e i lavoratori
Bisogna accantonare una visione dello Stato come notaio dello sviluppo
e come pagatore in ultima istanza della crisi delle imprese; lo Stato
dev’essere viceversa soggetto regolatore dell’economia, come si legge fra
l’altro negli artt. 41, 42, 43 della Costituzione, che stabiliscono la funzione
sociale dell’impresa, le libertà e i vincoli della proprietà privata, il ruolo
del legislatore nella programmazione dello sviluppo. In particolare, va
finalmente e fermamente attuata la norma costituzionale prevista nel
comma 2 dell’art. 41, che recita “La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa
essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, e che segue al primo comma,
dove si legge che “L’iniziativa privata è libera. Non può svolgersi in contrasto
con l’utilità sociale”.
Assieme, occorre operare per una radicale trasformazione della cultura
d’impresa privata, superando il mero utilitarismo competitivo che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni come corollario del pensiero
neoliberista, e recuperando le migliori tradizioni della borghesia
imprenditoriale italiana, dal “contratto della montagna” a Adriano Olivetti.
Si tratta di una battaglia fondamentale anche se difficile, perché occorre
misurarsi con una tradizione profondamente arretrata di settori importanti
della piccola e grande impresa nazionale, troppe volte legati alla rendita
più che all’innovazione, abituati ad uno “Stato minimo” cui però rivolgere
sempre richieste di sostegni, incentivi, contribuzioni.

La questione demografica
L’Italia è in piena crisi demografica: stiamo diventando un Paese a sempre
più elevata età media. La politica demografica richiede ampie riforme: servizi
sociali e di sostegno per le famiglie, progetti educativi fin dalla prima infanzia e riforma dei cicli formativi, contrasto all’abbandono scolastico, rilancio della economia e della produzione di beni e servizi di qualità, interventi per la coesione sociale, superamento delle condizioni di lavoro precario e povero.
Vasto programma, si dirà: ma soltanto il conseguimento di questi obiettivi
riuscirà a cambiare concretamente le condizioni che rendono il futuro una
enorme e minacciosa incognita. Serve una organica e lungimirante visione
d’assieme: infatti si progetta una famiglia, si decide per una genitorialità
consapevole se il Paese si incammina su una strada positiva, aperta al futuro,
di grande innovazione, rassicurante perché comporta una grande, generale
assunzione di responsabilità. Non abbiamo una tradizione e nemmeno una
esperienza in questo campo: abbiamo però la consapevolezza della gravità della
situazione e pensiamo sia una delle priorità per una Italia che guarda avanti.

I beni comuni
Quale soggetto, se non lo Stato nella sua più vasta accezione o – se si vuole
– la Repubblica si deve prendere cura dei beni comuni? Diversi anni fa si
è affermato che “la locuzione ‘beni comuni’ allude non tanto a certi beni,
quanto (soprattutto) a un intero assetto istituzionale che, affermandosi tra il
pubblico e il privato, aspira a costruire un rinnovato circuito democratico: un
pubblico non statalistico e un privato liberato dall’individualismo possessivo”.
Parlare di beni comuni, in sostanza, vuol dire proporre un modello di Stato
democratico che tuteli la fruizione di risorse e servizi essenziali da parte
dell’intera comunità. L’esempio dell’acqua è il più comune ed evidente.
Quello del vaccino è il più attuale. Una nuova statualità e – va aggiunto – una
nuova visione dell’Europa, non possono non misurarsi su questo tema.

Il mondo digitale
Appare riduttivo parlare del digitale solo come un aspetto della organizzazione
della produzione. Siamo di fronte a una innovazione della portata del vapore
o della elettricità, a una forza produttiva nel senso pieno e integrale del
termine, perché tende ad organizzare e a far evolvere in modi nuovi i processi
sociali, conoscitivi, relazionali. Al centro di questa rivoluzione tecnologica
c’è un fattore determinante: i dati. La questione della proprietà dei dati
diventa la questione fondamentale, perché intorno ad essa si intrecciano
tutti gli altri aspetti, relativi all’economia, al controllo sociale, alla tutela della personalità, alla libertà intesa come autodeterminazione [libera e
consapevole]. L’acquisizione, il processamento e l’utilizzazione dei dati può
prefigurare scenari da “grande fratello” orwelliano, ma apre anche prospettive
avanzatissime di progresso individuale e collettivo. La UE è all’avanguardia
nelle misure di tutela della privacy ma è ancora un nano tecnologico, e deve
orientarsi a diventare un protagonista di taglia globale, come il suo livello
scientifico e tecnologico rendono possibile. Al tempo stesso deve sviluppare
una grande iniziativa perché i dati siano considerati e trattati come un bene
comune. La proprietà e il trattamento dei dati è la nuova frontiera delle
battaglie di libertà, per le attuali e per le prossime generazioni.

Lo stato sociale
Va ridisegnato lo stato sociale, cioè l’insieme delle politiche pubbliche tramite
cui si assicurano adeguati livelli di protezione ai cittadini o alla parte di
cittadinanza più in difficoltà.

Il sistema tributario
Va garantita la piena attuazione dell’art. 53 della Costituzione; va cioè
confermato che la tassazione deve essere informata a rigidi criteri di
progressività, e va condotta una lotta senza quartiere contro l’evasione e
l’elusione, anche con l’assunzione di provvedimenti rigorosi nei confronti
delle aziende con sede fiscale all’estero.

L’immigrazione
I temi dell’immigrazione sono di fatto, quanto meno in parte, nell’agenda
di lavoro dell’Anpi. A ciò siamo chiamati dall’art. 2 della Costituzione, che
recita: “La Repubblica (…) richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Pur avendo promosso
numerosissime iniziative di solidarietà e di prossimità nei confronti di varie
comunità di migranti, in particolare nei momenti più pesanti della pandemia,
abbiamo il dovere di occuparci anche del dramma degli sbarchi e dei naufragi,
denunciando innanzitutto le responsabilità morali di quanti hanno voluto
chiudere gli occhi di fronte al fenomeno, sollecitando politiche di accoglienza,
riaffermando gli inderogabili obblighi del soccorso in mare. Assieme, occorre
battersi per una politica alternativa ai respingimenti sul confine orientale, che creano un circolo vizioso tra Slovenia, Croazia e Bosnia, condannando decine di migliaia di migranti al lager. Ma l’attenzione al tema dev’essere più ampia,
perché esso riguarda il prossimo futuro del Paese, dove il calo delle nascite e
l’aumento dell’età media della popolazione diverranno fattori di fortissimo
squilibrio sociale, produttivo ed economico. Attraverso l’attivazione di
politiche di inclusione, è ragionevole supporre che l’afflusso di migranti e
la presenza di migranti di seconda generazione consentirà un riequilibrio
demografico assolutamente necessario. Il tema della immigrazione non
attiene perciò soltanto al pur necessario aspetto della solidarietà umana, ma
anche a quello del futuro della società italiana. Va affrontato di conseguenza
il problema della “alfabetizzazione” dei migranti, sia in senso proprio (la
conoscenza della lingua italiana) sia dal punto di vista civile (la conoscenza
della Costituzione e, per grandi linee, della storia stessa del nostro Paese).
Occorre su questo punto un intervento lungimirante delle istituzioni.

L’emigrazione
Per la prima volta dopo decenni il nostro Paese è protagonista di una
emigrazione costante e di natura profondamente diversa da quella che
storicamente ha caratterizzato e tormentato la nostra organizzazione sociale
e la vita di milioni di persone. E’ una emigrazione di giovani, spesso dotati
di alti livelli di formazione, che trovano in Europa (e non solo) un adeguato
riconoscimento delle loro qualità e capacità, personali e professionali, ma
anche di interi nuclei familiari che cercano all’estero quanto il Paese non è in
grado di offrire. Non sono i premi fiscali o gli sgravi contributivi gli strumenti adatti a fermare questa emorragia di energie giovanili e di competenze; al contrario, interventi di questa natura rischiano di distorcere modalità corrette e di lungo periodo di costruzione dei profili professionali. Occorre il rilancio dell’apparato produttivo italiano, una politica retributiva – nel settore privato quanto in quello pubblico – che riconosca le qualità professionali, la creazione di ambienti di lavoro, di ricerca, di formazione permanente, di mobilità intelligente, di parità tra uomo e donna; occorre un vero e proprio asse innovativo che trasformi un grande potenziale in una realtà al servizio del Paese, che a questi giovani è stato capace di fornire una formazione spesso altamente qualificata e che paradossalmente rinuncia ad avvalersene.

La sanità
La pandemia ha reso evidenti i limiti della sanità: il fallimento del modello
privatistico in una condizione di emergenza, la necessità di ricostruire al più
presto il tessuto della medicina territoriale e preventiva, esigono risposte
tempestive ed efficaci, che devono comprendere il superamento della
diseguaglianza territoriale nell’erogazione dei servizi sanitari e un rapporto
collaborativo fra Stato e Regioni. Colpisce ancora una volta la vitalità dello
“spirito della Resistenza”; fu infatti la partigiana Tina Anselmi, allora ministro della sanità, a promuovere nel 1978 il Servizio sanitario nazionale, che doveva essere caratterizzato da quattro principi: cioè, come ella stessa disse alla Camera, “globalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza del trattamento, rispetto della dignità e della libertà della persona”.

La formazione civile
Va sostenuta attraverso un articolato programma di formazione la crescita di
una nuova coscienza civile, democratica e antifascista (diritti e doveri della
cittadinanza), magari prendendo spunto dagli esempi positivi (solidarietà,
prossimità, dedizione, sacrificio) registrati durante il corso della pandemia,
straordinario ed unico contenitore di esperienze, di successi, di fallimenti
da cui va tratto insegnamento. Il programma di formazione deve rivolgersi a
tutti, e riguardare in particolare la scuola, la magistratura, le forze dell’ordine.
Occorre investire fin dalla scuola nelle politiche di genere, educando alla
parità dei ruoli e insegnando a osservare il mondo anche con lo sguardo delle
donne. In sintesi, nello Stato va avviata una grande “riforma intellettuale e
morale” che ne esalti la natura democratica e antifascista.

La scuola
La scuola pubblica deve mantenere una funzione centrale nella nostra società, in quanto rappresenta una delle principali agenzie educative del Paese. Dopo un lungo periodo di politiche ispirate a una visione utilitaristica della cultura e a una concezione aziendalistica dell’organizzazione scolastica, va ribadito che la finalità della scuola consiste nel formare cittadini attivi e consapevoli, non produttori o consumatori.
L’ANPI sostiene e incoraggia la formazione riflessiva degli insegnanti, affinché siano in grado di suscitare l’interesse e la partecipazione degli studenti ai processi di trasmissione e di rielaborazione critica del sapere, di esaltare la loro autonomia intellettuale, di promuovere lo sviluppo di un atteggiamento cooperativo.
Le recenti disposizioni legislative, a cominciare da quelle relative all’insegnamento dell’educazione civica, unitamente all’accordo AnpiMiur, possono dare vita ad iniziative volte a favorire una migliore conoscenza della Costituzione. Si tratta di un eccellente punto di partenza per ulteriori avanzamenti sul piano della progettualità e della generalizzazione di buone pratiche locali.

La giustizia
Vi sono punti intoccabili della nostra Carta Costituzionale: in particolare i
principi fondamentali e il sistema di diritti e doveri dei cittadini definiti neisuoi primi 54 articoli. L’attuale sistema giudiziario si rivela insufficiente a renderli finalmente effettivi.
I ritardi strutturali nella pronuncia delle sentenze e nello svolgimento
dei processi mostrano il volto di un sistema poco efficiente, che sovente
frustra la legittima aspettativa ad un riconoscimento dei diritti in tempi
certi e ragionevoli. La situazione si è ulteriormente aggravata a causa dei
recenti scandali che hanno interessato l’ordine giudiziario. Tutto ciò
ha causato una crescente sfiducia nell’amministrazione della giustizia da parte della maggioranza dei cittadini. La riforma della giustizia
civile, penale, amministrativa, costituisce uno dei nodi fondamentali da
sciogliere perché la nostra democrazia possa dirsi più compiuta. Le tante
riforme processuali adottate negli ultimi decenni per sveltire i processi si
sono rivelate scorciatoie che non hanno ottenuto i risultati sperati. E’ stata
elusa la prima delle riforme necessarie, ovvero il potenziamento degli uffici
giudiziari, perennemente sotto organico, afflitto dalla drammatica carenza
di magistrati e di personale amministrativo. Alla giustizia va la percentuale
intollerabilmente esigua dell’uno virgola qualcosa per cento del bilancio
dello Stato, mentre la gran parte dell’arretrato, e non solo, è affidato al
lavoro di una magistratura onoraria precaria e senza diritti.
Nonostante questo quadro preoccupante, deve essere tributato un alto
riconoscimento al ruolo straordinario che la Magistratura ha svolto e continua
a svolgere nell’impegno contro l’eversione, contro i poteri occulti, contro la
corruzione economica e politica, contro i grandi poteri criminali delle mafie.
Tale riconoscimento deve tradursi nella ferma difesa dell’indipendenza e
della autonomia della Magistratura, che passa anche attraverso una rigorosa
riaffermazione della sua imparzialità, della ferma condanna di ogni possibile
inquinamento, oltre che attraverso uno specifico intervento ai fini della
formazione storico-politico-giuridica dei magistrati.
Un sistema giudiziario moderno è parte di una battaglia generale per una
società più giusta, per difendere i cittadini quando sono lesi nei loro diritti o quando entrano nelle aule giudiziarie, per lasciarci definitivamente alle spalle l’impianto di un codice penale – il codice Rocco – in vigore dal 1931; per superare definitivamente il problema dell’inumano sovraffollamento delle
carceri e della salvaguardia della dignità dei reclusi; per ottenere una profonda revisione delle norme punitive in materia di immigrazione e di manifestazioni politiche e sindacali contenute nei decreti sicurezza dell’ex Ministro dell’Interno; per dare effettività alla tutela dei meno abbienti con riforme che garantiscano a tutti la possibilità di concreto accesso alla Giustizia.

La difesa dell’ordine democratico
Lo Stato ha il compito specifico ed inalienabile della difesa dell’ordine
democratico e della sicurezza dei cittadini; tale compito cioè non può essere
demandato a privati o ad altri enti. Magistratura e forze dell’ordine devono
essere messe in condizione di garantire la sicurezza e ‒ in particolare ‒ di
contrastare efficacemente l’abnorme sviluppo della criminalità mafiosa.
Forze Armate
Un’attenzione specifica va rivolta alle nostre Forze Armate, il cui ordinamento,
come prescritto dall’art. 52, “si informa allo spirito democratico della
Repubblica”. È noto che da tempo si è passati dalla leva obbligatoria e di
massa al reclutamento professionale. Oggi tanta parte delle donne e degli
uomini che prestano servizio nelle varie armi sono impegnati in forme di
supporto nel contrasto alla pandemia: a tutti loro va il ringraziamento del
Paese. Non possiamo dimenticare però che l’attacco ai diritti del lavoro, che
investe il settore privato ma anche quello pubblico, non risparmia neppure
questa fondamentale struttura dello Stato. Perciò occorre garantire a tutti
gli effettivi delle Forze Armate, qualunque sia il grado rivestito, condizioni
di lavoro e di vita sicure e dignitose, al pari di quelle che dovrebbero essere
riconosciute a tutti i lavoratori.

Disciplina e onore
Un particolare rigore dev’essere esercitato nel far rispettare l’art. 54 Cost., che recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di
adempierle con disciplina ed onore”.
In sostanza, va avviato in modo rigoroso un processo di democratizzazione
integrale delle istituzioni.

Lo Stato e i rapporti internazionali
La storia degli ultimi decenni è stata caratterizzata, seppur in misura difforme
a livello globale, da una diminuzione dei poteri degli Stati nazionali rispetto ad altri organismi democratici di natura sovranazionale. Contemporaneamente,
tale “cessione di sovranità” non è significativamente avvenuta nelle grandi
potenze (Usa e Cina, per esempio). Si impone una riflessione sulle misure
da adottare per limitare e controllare i poteri multinazionali privati, oggi
essenzialmente liberi da vincoli e condizionamenti significativi in particolare
per quanto riguarda la tutela dei diritti dei lavoratori, ridotti di fatto alla loro mercé, da un lato; dall’altro, sull’ampiezza e sulle modalità dei trasferimenti di sovranità a poteri sovranazionali pubblici come l’UE, che appariranno tanto più legittimi quanto più l’UE metterà a valore la sua natura democratica, in sostanza quanto più sarà concretamente l’Europa dei popoli. Anche qui ci sentiamo di proporre un grande obiettivo per tutte le forze democratiche, la cultura e la scienza del nostro Paese: il controllo e lo smantellamento degli arsenali nucleari.

I giovani e le donne
L’Anpi mette al centro della sua attenzione il tema delle giovani generazioni e delle donne, che sono le categorie più deboli e di conseguenza le più colpite dalla crisi attuale nel mercato del lavoro. Ciò rappresenta un grave ostacolo allo sviluppo civile e sociale del Paese: una generazione condannata alla disoccupazione o a lavori dequalificati, un genere che mantiene ancora,
nonostante tanti avanzamenti, una condizione di subalternità.
Se è vero che la cultura largamente prevalente è quella delle classi dominanti,
va analizzata la cultura delle nuove generazioni, segnata dalla interruzione
della tradizionale trasmissione della memoria e dalla pressoché contestuale
affermazione, specialmente grazie alla rivoluzione tecnologica e alla
progressione geometrica dello sviluppo del web, di modi del tutto inediti di
comunicazione e di socializzazione, di nuovi stili di vita, di diversi linguaggi, cui corrisponde un pesantissimo ritardo formativo, inteso nella sua accezione più ampia. Pure da questa generazione nascerà la futura classe dirigente che, anche per effetto del blocco dell’ascensore sociale, sarà inesorabilmente condizionata dal ceto di provenienza. C’è il pesante rischio di un ritorno al passato, ad una rigida selezione di censo. Peraltro nei più giovani germogliano nuovi fermenti, in particolare sui temi della tutela ambientale e del riscaldamento globale.
L’approccio dell’Anpi deve escludere qualsiasi atteggiamento predicatorio
o paternalistico, come pure di inerte attesa che i giovani vadano all’Anpi.
È l’Anpi con le sue strutture, i suoi gruppi dirigenti, i suoi attivisti, che
deve andare verso i giovani con la massima capacità di ascolto e la massima
disponibilità. Il tema è vitale anche per il futuro dell’Associazione, la cui
età media è molto alta; l’Anpi ha bisogno di nuova linfa, di nuovi modi di
pensare, di una leva giovane che sia in più diretto contatto con le dinamiche
sociali, psicologiche ed anche esistenziali di un mondo che cambia. La nuova
linfa, lungi dal cambiare la natura dell’Associazione, ne rafforzerà le radici,
dal momento che i protagonisti della Resistenza furono prevalentemente
giovani, ragazzi e ragazzini.
La questione femminile è altro tema centrale per l’Anpi. Pur essendo
la maggioranza e pur avendo, dagli albori del voto del 2 giugno 1946,
raggiunto una serie di obiettivi di emancipazione civile e sociale, le donne
italiane vivono ancora in una condizione discriminata, e in più sono vittime
dell’imbarbarimento del nostro tempo; la violenza contro le donne è un
dramma mondiale e nazionale che conferma la carica di brutalità e di aggressività
diffusa nella pancia della società e alimentata da centrali mediatiche dell’odio
e della paura, da una spettacolarizzazione della violenza oramai abituale. In
Italia peraltro si moltiplicano circoli politici e culturali di stampo oscurantista
che auspicano una generale regressione dei diritti di parità.
Questa deriva va attivamente contrastata e va promossa, contestualmente, una valorizzazione di genere all’interno dell’Anpi. Peraltro, anche in questo caso l’insegnamento viene dalla Resistenza: basti pensare alle partigiane e alle staffette, e di conseguenza al contenuto liberatorio di quella esperienza storica per le donne.

Il lavoro e l’occupazione
La crisi del Paese è in gran parte crisi del lavoro e dell’occupazione, specialmente (ma non solo) a causa degli effetti indiretti della pandemia. Si stima in modo approssimativo, su scala mondiale, una perdita nel 2020 di 144 milioni di posti di lavoro. Il tema è propriamente sindacale e ‒ per altro verso ‒ politico; ma è possibile e del tutto legittima una iniziativa del più ampio mondo dell’associazionismo e in particolare dell’Anpi, in primo luogo affinché la Costituzione torni nei luoghi di lavoro e vengano riaffermati i diritti di libertà, il salario dignitoso, la dignità personale dei lavoratori, la sicurezza sul lavoro, purtroppo non ancora adeguatamente garantita.

L’ambiente e il riscaldamento globale
Il tema dell’ambiente e del riscaldamento globale dev’essere assunto dall’Anpi, nell’ambito e nei limiti delle sue competenze, come una delle attenzioni. Il rientro degli States fra i Paesi sottoscrittori degli accordi di Parigi è senz’altro positivo, ed è importante sottolineare il ruolo trainante dell’UE nel sostegno a tali accordi. Nella più ampia questione ambientale l’Italia conserva però un
ritardo dal punto della coscienza civile ed anche del ruolo delle istituzioni.
Basti pensare agli esiti territorialmente eterogenei della raccolta differenziata dei rifiuti. Da questo punto di vista è bene valorizzare la sensibilità delle giovanissime generazioni e contribuire a determinare punti di convergenza nelle istituzioni e con le istituzioni, in una più generale logica di alleanza democratica, sui tema della difesa ambientale.

I saperi
Il tema della cultura è oggi centrale per l’Anpi e riguarda un ampio spettro di interessi: la ricerca, le arti, le scienze, il pensiero filosofico, le dottrine religiose, ed anche lo spettacolo, i costumi, le credenze. Si è superata l’antica distinzione fra “cultura alta” e cultura materiale, popolare, ed è nato col tempo un ceto intellettuale di massa. Da ciò l’importanza della formazione come strumento di trasmissione e di estensione dei saperi. Eppure su questo terreno le forze democratiche registrano un inquietante ritardo perché, a fronte di un’offensiva culturale delle destre che è profondamente penetrata nella società e che è diventata una vera e propria narrazione, spesso acostituzionale e qualche volta anticostituzionale, non c’è una risposta che vada oltre la replica, la contestazione, la rettifica, e fornisca invece un’altra visione, un’altra narrazione. L’Anpi in questi anni ha prodotto numerosi e meritori lavori in controtendenza, in particolare sul tema della Resistenza. Occorre proseguire su questa strada anche attraverso un rapporto diretto con i vari mondi dei saperi, a cominciare dalle università (con particolare riguardo agli storici), con le associazioni dei docenti, con i centri culturali.

L’informazione
Va ricordato che il tema dell’informazione costituisce parte integrante
di una rigenerazione democratica del Paese sotto vari punti di vista. La
concentrazione delle testate in mano ad editori non puri, cioè a grandi gruppi
finanziari e industriali, una concentrazione che presenta il mondo ad una sola
dimensione, da un solo punto di vista in politica interna ed estera; assieme,
i ripetuti tentativi di conculcare la libertà di stampa e persino la libertà dei
singoli giornalisti di scrivere liberamente; il caos più totale nell’informazione
via web e in particolare via social, luogo prescelto per ogni sorta di fake news
e per ogni aggressione mediatica, a fronte di una scarsa regolamentazione del
settore che, salvaguardando i diritti di libertà, riconosca e definisca le eventuali
fattispecie di reato, sono fattori che distorcono le dinamiche di formazione
dell’opinione pubblica e inquinano la stessa dialettica democratica.

La pace e il disarmo
L’impegno per la pace e il disarmo è un tratto permanente nella lunga storia
dell’Anpi. Tale impegno si misura con una fase di inquietante riarmo delle
potenze globali e regionali. Preoccupa la forte esposizione del nostro Paese
nella produzione e nel commercio di armamenti, sovente in direzione di Stati
direttamente o indirettamente impegnati in teatri di guerra. La presenza
costante dell’Anpi alla tradizionale Marcia della Pace di Assisi attesta questo
impegno.

Il Servizio civile
L’Anpi da alcuni anni ha accesso al Servizio Civile Universale con progetti
inerenti alla promozione della memoria della Resistenza, a partire dalla
catalogazione del materiale documentaristico presente negli archivi provinciali
e nazionali della nostra Associazione. Si tratta per le giovani generazioni di
un‘opportunità di approccio all’attivismo antifascista, e di incontro tra le
nostre istanze formative e un vasto mondo in cerca di orientamento e di
buone pratiche di partecipazione.

L’organizzazione
Dal Congresso Nazionale che abbiamo celebrato nel maggio del 2016,
l’Anpi è stata diretta da tre Presidenti: Carlo Smuraglia, Carla Nespolo,
Gianfranco Pagliarulo, fatto unico nella lunga storia dell’Associazione. Negli
ultimi anni l’attività dell’Anpi è stata condizionata dalle restrizioni imposte
dalla pandemia e dalla tragica malattia di Carla Nespolo. Nonostante questo, l’insieme dell’Associazione ha svolto un lavoro di straordinaria quantità e qualità, scandito da eventi nazionali del tutto peculiari: le grandi
manifestazioni antifasciste, la diffusa attività solidale delle Sezioni e dei
Comitati provinciali nei confronti delle persone in difficoltà a causa del Covid, il 25 aprile sui balconi e sui social, la rosa sulle tombe delle Costituenti il 2 giugno, la già menzionata campagna antirazzista sui social, i diversi convegni di carattere storico. Grazie a queste attività e alla forte presenza dell’Anpi nel dibattito pubblico, l’Associazione conta oggi circa 130 mila iscritti e gode, in sostanza, di buona salute. Va pure segnalato che tale andamento appare in controtendenza rispetto in particolare alle adesioni ai partiti, a conferma che alla crisi dell’attuale sistema politico corrisponde un relativo rafforzamento delle comunità di natura associativa.
Questo quadro, pur positivo per l’Anpi, deve essere di sprone per il superamento dei limiti ancora presenti. L’età media degli iscritti è elevata
e occorre di conseguenza, come già detto, una specifica attenzione ai
giovani, con l’obiettivo di dar vita a una nuova leva di antifascisti. Va
inoltre prestata una particolare attenzione alle donne. Ancora: dall’analisi
della composizione sociale dell’Anpi (e in specie dei suoi gruppi dirigenti)
emerge la necessità di promuovere una maggiore presenza di alcune
figure sociali e di cittadini residenti nell’Italia meridionale ove, per ovvie
ragioni storiche, l’Anpi è mediamente più debole. Analogamente, occorre
rinnovare i gruppi dirigenti con la promozione di giovani, di donne, di persone provenienti dal mondo dei lavori subordinati e dei servizi. In questa fase di rinnovamento, nella confusa situazione politica e sociale del Paese, vanno a maggior ragione rigorosamente osservate le regole statutarie e, assieme, va elevata la qualità del dibattito politico-culturale potenziando la formazione degli iscritti e dei dirigenti, valorizzando il pluralismo, contrastando in modo energico personalismi e provincialismi, evitando che il pur salutare confronto dialettico si sclerotizzi su posizioni pregiudiziali e contrapposte laddove è responsabilità di tutti, in primo luogo degli organismi dirigenti, pervenire sempre a una sintesi virtuosa e produttiva.
L’esperienza ha dimostrato l’utilità della nomina da parte del Comitato nazionale di un coordinatore per ognuna delle grandi aree geografiche
che corrispondono al Nord, al Centro e al Sud d’Italia, con l’incarico
di coadiuvare la Presidenza e la Segreteria nazionale nella gestione della
Associazione. È quindi opportuno confermare questa scelta.
Più complesso è il tema dei coordinamenti regionali, che hanno dato vita
in questi anni a esperienze eterogenee. Anche alla luce dello Statuto, che
prevede tre soli livelli territoriali di direzione (nazionale, provinciale, di
sezione), sembra preferibile delegare alle strutture provinciali di ciascuna
regione la facoltà di costituire, d’intesa con il Comitato nazionale, un
Coordinamento regionale composto da uno a tre rappresentanti designati
in egual misura da ciascun Comitato provinciale, con il compito primario
di rappresentare l’Associazione nei rapporti con le Istituzioni regionali e
di curare le relazioni con le organizzazioni sociali, sindacali, politiche e
culturali del medesimo livello.
Ove costituito, il Coordinamento regionale, salvo diversa determinazione del Comitato nazionale, ha sede nella città capoluogo della Regione, usufruisce della sede e dei servizi di quel Comitato provinciale ed elegge tra i suoi componenti un Coordinatore che coincide, in linea di massima, con la figura del presidente del Comitato provinciale del capoluogo.
Nelle realtà territoriali di maggior dimensione i Comitati provinciali possono promuovere dei Coordinamenti di Zona, che raggruppino al proprio interno più sezioni e che possono nominare, sempre d’intesa con il Comitato provinciale, una struttura di coordinamento e un coordinatore.
Vanno ulteriormente estese le esperienze di costruzione di autonome Sezioni ANPI sia nel territorio sia nei luoghi di lavoro e di studio.
Anche a questo fine è necessario che le sezioni con un numero rilevante
di iscritti si sdoppino, a maggior ragione se fra i tesserati vi sono gruppi di
lavoratori di un’azienda o di studenti o di personale scolastico.
Viene confermata la scelta di dar vita al coordinamento nazionale donne
perché, sebbene la Costituzione repubblicana stabilisca l’uguaglianza
formale fra i sessi, consuetudini sociali e culturali fanno da freno
all’attuazione di una reale parità fra uomini e donne. Si ravvisa al contempo
l’opportunità di rivedere la composizione dell’organismo, al fine di renderlo
maggiormente rappresentativo, e di riconsiderarne le dimensioni. Il coordinamento nazionale donne deve diventare strumento di lavoro agile e radicato nel contesto dell’attualità politica, presente ed attivo nella rete
delle associazioni che si occupano di tematiche di genere.
Rimane comunque la necessità, per il futuro del nostro Paese, di cambiare il
paradigma di approccio alla politica, stabilendo un riequilibrio degli sguardi
che consenta di individuare nuove strategie utili ad orientare verso politiche di autentica promozione della parità di genere e dell’inclusione, e innanzitutto a estirpare l’odioso fenomeno della violenza contro le donne.
Particolare attenzione va rivolta la tema della formazione interna,
verificando la possibilità di articolarla su un livello elementare e diffuso,
rivolto in particolare ai nuovi iscritti, su un livello medio, riservato ai
dirigenti provinciali, e su un livello più specialistico.
Un importante strumento politico di conoscenza e di orientamento è
l’anagrafe degli iscritti. Grazie all’anagrafe è infatti possibile “conoscere”
l’Anpi: la composizione sociale, l’età media e il genere dei tesserati, nonché
le dinamiche che ne conseguono. Oggi vi sono 65 Comitati provinciali
presenti in anagrafe per un totale di 90.000 iscritti registrati (su circa
130.000), a fronte di 26 Comitati provinciali per un totale di 25.000
iscritti del precedente congresso nazionale (maggio 2016). Si tratta di un
avanzamento fondamentale, sebbene l’allestimento dell’anagrafe sia un
adempimento ancora sottovalutato da parte di alcune realtà, e sebbene si
avverta il bisogno di curarne ulteriormente l’aggiornamento.
Il tema della comunicazione è oggi essenziale. Ai tre strumenti nazionali
già esistenti ed insostituibili – l’ufficio stampa, il sito www.anpi.it e il
periodico www.patriaindipendente.it – si è aggiunta una linea editoriale
anche con l’obiettivo di operare in sinergia con la formazione.
Sono inoltre attivi tre profili social, facebook, twitter e instagram, con un sempre più crescente numero di follower. Comitati provinciali e sezioni si stanno attrezzando per una comunicazione social efficace, e questo processo va intensificato per realizzare una rete antifascista in tutto il Paese.
Nella Federazione Internazionale Resistenti (FIR) l’Anpi è oggi rappresentata da un vicepresidente e da due membri dell’esecutivo. Tali presenze sono indispensabili al fine di un rinnovamento e di una maggiore capacità di intervento della Federazione. A questo proposito, è importante garantire un supporto continuo da parte degli organismi dirigenti nazionali
della nostra Associazione all’attività della FIR, che si mostra ancora troppo
limitata e discontinua, laddove sarebbero urgenti una intensificazione e un
coordinamento unitario dell’attività antifascista e antirazzista nell’intero
spazio europeo. Su proposta della delegazione italiana, è allo studio della
FIR la costituzione di una associazione collaterale molto più larga, che
comprenda associazioni con specifiche mission (sindacali, ambientaliste,
culturali, ecc.) ma impegnate sul terreno dell’antifascismo.

Le regole dell’Anpi
Qualsiasi comunità piccola o grande si organizza in base a un sistema di regole.
Le regole dell’Anpi sono fissate nello Statuto e nel Regolamento. Tali regole
vanno sempre interpretate in modo rigoroso, al fine di una migliore efficacia
dell’attività complessiva dell’Associazione. Tale esigenza vale a maggior
ragione oggi, davanti ad una forte offensiva delle destre estreme e all’insidiosa iniziativa culturale revisionista tesa a colpire la memoria e la funzione della Resistenza nella storia d’Italia.
I dati del tesseramento 2019 e i primi dati del 2020 confermano un forte
rafforzamento dell’Anpi. Contemporaneamente si realizza ogni anno un
notevole turn over sia degli iscritti sia anche di parte dei gruppi dirigenti;
tutto ciò rende urgente un piano di formazione ed assieme richiede una
grande attenzione per il rispetto delle regole, al fine di un’armonica crescita
dell’Associazione.
Va sottolineato che tutti gli incarichi, fino ai più importanti, sono a termine;
che, di pari passo con i processi formativi, vanno promosse nuove leve di
giovani dirigenti; che i gruppi dirigenti devono operare con spirito unitario,
al fine di assicurare la massima concordia nella vita interna dell’Associazione; che l’orientamento sulle questioni di carattere generale viene deciso dal
Comitato Nazionale, il quale (art. 5 dello Statuto) “provvede a controllare le attività dei Comitati provinciali”, “a risolvere eventuali vertenze in seno
all’Associazione”, “ad adottare tutti i provvedimenti necessari al buon
funzionamento dell’Associazione”.
Una particolare attenzione va prestata alle pagine dell’Associazione sui social.
La prudenza e il buon senso devono ispirare qualsiasi intervento affidato a
questi strumenti, evitando prese di posizione e commenti che contraddicano gli orientamenti dell’Anpi o che si prestino ad attacchi ‒ per quanto
strumentali ‒ da parte degli avversari politici, com’è avvenuto in qualche caso
in passato e continua, seppur raramente, ad avvenire. Da questo punto di vista è assolutamente necessario che i gruppi dirigenti locali controllino il dibattito sui social, e che chi segue le pagine Anpi dia prova di senso di responsabilità, distinguendo sempre fra le sue legittime ma personali opinioni e il punto di vista dell’Associazione. Analoga attenzione va prestata agli altri media ed in particolare alla stampa locale, evitando accuratamente di esternare le problematiche interne all’associazione. L’insieme di queste cautele rinvia al punto d) dell’art. 2 dello Statuto, che recita: “Tutelare l’onore e il nome partigiano contro ogni forma di vilipendio e di speculazione”.
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