Parlando e ascoltando nel cammino sinodale

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di Gianni Loy
Gesù di Nazareth, su questo tutti concordano, parlava l’aramaico. Un bambino cresciuto in una modesta famiglia della Galilea era naturale che parlasse la lingua del popolo. Ma non manca qualche voce fuori dal coro: Netanyahu, ad esempio, in occasione della visita di papa Francesco in medio oriente, nel 2014, ha sostenuto che Gesù “parlava ebraico”, ma Francesco lo ha subito corretto: “aramaico”.
Netanyahu, che non era in grado di smentire, ha provato a modificare il tiro: “parlava aramaico ma conosceva l’ebraico perché leggeva le scritture”. Ma neppure questo è certo.
Certo, invece, è che Gesù abbia predicato nella sua lingua materna e che, con le parole della lingua appresa da Giuseppe e da Maria, abbia spezzato il pane e versato il vino. Quel messaggio è prima passato di voce in voce con la stessa lingua sua. Più tardi, i vangeli sono stati scritti in greco – pur non potendosi escludere, almeno per qualcuno di essi, una precedente versione in aramaico -. Poi è stata la volta del Latino che, per quasi duemila anni, ha monopolizzato la liturgia.
Ma tutto questo, cosa c’entra con il Sinodo? [segue] Cosa c’entra che, per centinaia di anni, una “lingua morta” sia stata strumento di trasmissione della fede, mentre il popolo, anche il popolo di Dio, in altre lingue viveva? Quanti fedeli sono stati costretti, nella celebrazione eucaristica, a ripetere e cantare formule di cui non conoscevano il significato. Qualcuno, e da lungo tempo, si ribellava alla tirannia del latino ed alle regole – non sempre comprensibili ai non addetti al lavori – veicolate ed imposte al popolo di Dio con tale idioma. Come Renzo Tramaglino, che privato di un sacramento, osò interrompere don Abbondio: “Si piglia gioco di me? Che vuole ch’io faccia del suo latinorum?” Non come i miei nonni che, per poter recitare le orazioni, durante i riti, a volte adattavano le parole di una lingua per essi incomprensibile con frasi, di tutt’altro significato, nella loro lingua.
E cosa c’entra, con la teologia, che i vescovi sardi, sino all’altro ieri – gran parte dei nostri vescovi lo ricorderanno – abbiano cercato di estirpare l’uso della lingua materna nei seminari. Ricorderanno, certamente, come venivano severamente puniti i seminaristi scoperti ad esprimersi con la propria lingua materna, con quella stessa lingua che Gesù quotidianamente parlava con Giuseppe e con Maria. Quella lingua prediletta da Papa Francesco che, non molto tempo fa, nel 2018, si è cosi rivolto ai genitori dei bambini che venivano battezzati nella Cappella Sistina: “la trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, la lingua intima delle coppie. Nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. L’uso di un termine dialetto, ormai desueto, fa persino tenerezza.
Esistono delle cose eterne, certamente; altre, come le lingue, appartengono invece a questo mondo. Evolvono, si trasformano. Non è poi così importante mantenerle nella loro purezza originaria, le lingue non sono la fede, al più strumenti necessari, o semplicemente utili, per tramettere la fede. Del resto, per entrare nel regno dei cieli, non è neppure necessario esclamare pubblicamente “Signore, Signore” in una delle lingue conosciute.
Ce n’è voluto del tempo, prima che un Concilio, aprendosi ai segni dei tempi, finalmente riconoscesse il primato delle lingue parlate, consentendo l’uso del volgare nella celebrazione. Cosi i pastori hanno smesso di voltare le spalle al proprio gregge durante la celebrazione eucaristica, ed hanno sperimentato come il sacrifico di Cristo possa essere ricordato anche faccia a faccia con i “fedeli”. L’uso del volgare, gradatamene, ha così consentito anche la partecipazione del popolo. Tante Comunità hanno potuto tornare a nuova vita, e prosperare, anche grazie a quel segno di uguaglianza insito nel fatto di potersi esprimere nella propria lingua.
Tuttavia, abbiamo presto scoperto che il declino del latino ha lasciato il posto a volgari nobili, quelli con terminologia appropriata per il rinnovamento del mistero eucaristico, e quelli che nobili non sono, come il “dialetto” sardo, quindi inadatti ad evocare il sacrificio di Cristo. Cioè: la Messa può celebrarsi in lingua italiana, magari anche friulana, ma non in lingua sarda; in quella lingua che è uscita malconcia dalle campagne che avrebbero voluto estirparla ma che, “grazie a Dio”, ha resistito ed offre segni di ripresa: la lingua nostra.
Si tratta di una querelle che, assieme ad altri, ho già sollevato diversi anni fa, quando abbiamo ripreso a pregare con la lingua nostra e a chiedere di poter celebrare, con essa, anche il Sacrificio. Solo che, raccolti per l’Eucarestia, ci siamo trovati di fronte ad una situazione, a tratti surreale, che ha umiliato me ed altri.
Può la celebrazione dell’Eucarestia umiliare? Può! Certamente, se al giorno d’oggi ancora siamo costretti a ricordare il sacrificio della Croce alternando, con bizantino equilibrio, tre diverse espressioni linguistiche, il sardo, il latino e l’italiano!

Mentre Don Mario, quel giorno, – era il lontano 2016 – scrupoloso nell’obbedienza al suo vescovo, pronunciava la formula: Hoc est enim corpus meus, piuttosto che pensare al sacrifico mi chiedevo: se il celebrante, tenendo il pane tra le mani e mostrandolo all’assemblea, avesse invece pronunciato la formula: “custu est su corpu meu”, forse che il Mistero non si sarebbe ripetuto?
Una mescolanza di idiomi, in definitiva, solo per impedire che espressioni della nostra lingua materna, a differenza di quanto accade per altre lingue del mondo, possano evocare il mistero dell’ultima cena. Non riuscivo, non riesco, a capire in nome di quale comandamento del Signore, la lingua che è stata dei miei padri, la lingua e che ho trasmesso ai figli miei, non possa essere utilizzata per il canone.
Arrigo Miglio vescovo_piccolaIl vescovo di Cagliari, in quell’occasione, è stato comprensivo, nonostante l’invito a “capire la prudenza della S. Sede” e seppure con qualche cedimento al “latinorum” di don Abbondio, nel ricordarmi che – la Lex orandi è lex credendi. Non solo è stato comprensivo, ma anche solidale, e si è subito impegnato nei passi necessari per l’obiettivo della celebrazione della Messa in lingua sarda. “Non solo è un percorso che si può compiere – ha risposto pubblicamente – ma lo ritengo assolutamente utile dal punto di vista pastorale e culturale”.
Tuttavia, siamo ancora così, ostaggio della proverbiale “prudenza” di una Chiesa che, più di una volta, arriva a comprendere i segni dei tempi quando le luci sono già state spente.
Mons. Arrigo Miglio, a suo tempo, ricordò che sul tema dell’uso della lingua nella celebrazione “conta molto di più il parere dei vescovi nati e cresciuti in Sardegna”. A dire il vero, non è tanto, o non solo il fatto “che conti di più” il loro parere rispetto a quello di un vescovo Piemontese o siciliano è che è la conferenza dei vescovi sardi, secondo le costituzioni del Concilio Vaticano II, ha un ruolo imprescindibile e determinante.
È questo il primo punto. Non sussiste alcun dubbio circa il fatto che la celebrazione eucaristica possa essere compiuta in lingua sarda – lo ricorda persino l’art. 928 del codice di Diritto canonico – e ad una sola condizione, che “i testi liturgici siano stati legittimamente approvati”. Ed i testi ci sono, e possono essere facilmente integrati in ogni momento. Peraltro, sacerdoti e laici sono disponibili ogni momento a collaborare. Manca soltanto che i vescovi della Sardegna li approvino. Di quanto tempo di riflessione e di dibattito hanno ancora bisogno, mentre Costantinopoli è assediata, mentre ben altri bisogni sono impellenti per la Chiesa locale per le chiese di tutto il mondo?
Circa il fatto che la traduzione approvata dalla conferenza episcopale sarda troverà l’eventuale consenso negli uffici romani non vi è il minimo dubbio. Siamo anzi sicuri che Papa Francesco accoglierebbe la notizia con gioia e con entusiasmo.
Ma c’è un secondo punto. È davvero così difficile tradurre i canoni dalla lingua italiana o latina alla lingua sarda? Ha forse importanza risolvere preventivamente scioglilingua linguistici, stabilire se l’acca del verbo avere debba mantenersi fedele al latino o scomparire? Quali doppie debbano essere conservate? Oppure chiedersi – per avvicinarci ad un tema che più si accosta all’aspetto teologico – quale termine della lingua sarda corrisponda, più esattamente o più fedelmente, al termine latino originario?
Siamo in presenza di un equivoco di fondo, che nasconde un pregiudizio culturale nei confronti della lingua sarda, che niente ha a che vedere né con la Chiesa né con la teologia.
Dev’esser chiaro, infatti – e prima di tutto – che la domanda alla quale dobbiamo rispondere non è: come si debba tradurre il canone in lingua sarda. Bensì: sulla base di quale testo dovrò operarsi la traduzione?
Prendiamo il caso della consacrazione del vino: dovrà tradursi la formula italiana “sparso per voi e per tutti”? Oppure quella latina: “qui pro vobis et pro multis effundetur”, tradotta allo spagnolo con: “derramada pro ustedes y pro muchos”? Oppure dovremmo prendere come base per la traduzione l’ecclettico testo con il quale l’Eucarestia viene celebrata nei paesi francofoni: “versé pour vous et pour la multitude”? Insomma, dateci un testo da tradurre e solleveremo il mondo!
Neppure sfioro, ovviamente, un argomento che, a partire dalle parole, evoca il tema della predestinazione e riporta alla mente gli scismi che ne sono derivati, solo rassicurare sul fatto che se un problema teologico esiste è quello di stabilire, una volta per tutte, se Cristo sia morto per molti o per tutti, e non certo quello di decidere se e come il concetto possa essere tradotto in sardo. Insomma – come insegnava Catone maggiore -: rem tene, verba sequentur. Rassicurateci sulla sostanza, ché le parole per rappresentarla, anche in lingua sarda, verranno poi da sole, e saranno belle.
Il Sinodo potrebbe essere – l’auspichiamo e lo chiediamo – occasione per chudere una volta per tutte una vicenda che continua a umiliare, in Sardegna, una parte del popolo di Dio, privata di una opportunità che Cristo ha sicuramente voluto: che anche i sardi, come le comunità ecclesiali di tutto il mondo, possano rinnovare il sacrificio della croce con le espressioni della propria lingua.
Quanto sia marginale il problema lessicale (perdonatemi l’eresia), lo testimonia ogni giorno Papa Francesco. Tutte le volte che ne ha la possibilità, si avvicina e partecipa alla predicazione ed alla celebrazione del Sacramento, nelle lingue proprie delle comunità che avvicina.
Egli, continuamente, ricorda il Sacrificio, a volte affermando che Cristo ha versato il proprio sangue per molti, altre volte che lo ha versato per tutti, in ogni lingua congeniale alle comunità alle quali si avvicina.
E se il Papa offre questo esempio di semplicità, sino a che la Chiesa non ritroverà una formula comune e univoca per la celebrazione del Sacrificio, è davvero ammissibile che ai sardi continui ad essere impedito di celebrare il Sacrifico nella lingua dei propri padri e dei padri (e delle madri) dei loro padri?
(23 marzo 2022, Gianni Loy)
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Nelle illustrazioni:
1) La devozione dei sardi (particolare). Affresco sulla volta del Duomo di Cagliari, di Filippo Figari.
2) La scritta Gesù in aramaico.
3) Mons. Arrigo Miglio, già Arcivescovo di Cagliari, ora emerito.
4) La chiesa di San Lorenzo nel Colle del
Buoncammino di Cagliari, dove un anno si è celebrata la Novena di Natale in lingua sarda.

One Response to Parlando e ascoltando nel cammino sinodale

  1. Franco Meloni scrive:

    Papa Francesco insegna che “la fede si trasmette sempre in dialetto” (23 marzo 2022)

    https://www.youtube.com/watch?v=PYo695CAn3Q

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