Giacomo Leopardi. Pessimismo cosmico

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Giacomo Leopardi – Canti (XIX secolo)
XXVIII

A se stesso

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l’infinita vanità del tutto.

Ora, o mio cuore stanco, riposerai (“poserai”) per sempre. Svanì (“perì”) l’ultima illusione (“inganno estremo”) che avevo creduto eterna (“ch’eterno io mi credei”). Svanì (“perì”). Sento profondamente (“ben sento”) che in me e in te (“in noi”) non solo la speranza ma anche il desiderio di care illusioni (“cari inganni”) è spento. Riposa (“posa”) per sempre. Troppo hai sofferto (“assai palpitasti”). Non c’è nessuna cosa che valga (“non val cosa nessuna”) i tuoi palpiti (“moti”), né il mondo è degno dei [tuoi] sospiri. La vita non è altro che amarezza (“amaro”) e noia; e spregevole (“fango”) è il mondo. Calmati (“t’acqueta”) ormai. Rinuncia definitivamente ad ogni speranza (“dispera l’ultima volta”). Agli uomini il destino donò solo la morte. Ormai [o mio cuore] disprezza te stesso, la natura, il potere perverso (“brutto”) che domina occultamente a danno di tutto “a comun danno imper”) e l’infinita vanità dell’universo (“tutto”).

v. 1 Riposerai (“poserai”): posa è più forte; rende meglio l’idea dell’abbandono ed è anche più freddo, impersonale: anche un oggetto si può posare.
v. 2 Svanì (“perì”): perire è più forte; è un verbo che solitamente si usa per gli uomini, per cui la morte di questa illusione provoca dolore come la morte di una persona.
v. 2 Illusione (“inganno”): è tipico del linguaggio leopardiano (cfr. Il Risorgimento, strofa 14, vv 5-6: “Proprii mi diede i palpiti, / natura, e i dolci inganni”; e Le Ricordanze, strofa 4, vv 1-2: “O speranze, speranze; ameni inganni / della mia prima età”.)
v. 3 Che avevo creduto eterna (“ch’eterno io mi credei”): qui credo sia possibile una duplice lettura. Se al “mi” si attribuisce un valore pleonastico (come accade nelle Ricordanze, vv 22-23: “che varcare un giorno / io mi pensava”) è chiaramente il poeta che reputa l’inganno eterno (“ch’eterno io credei”). Ma lasciando al “mi” il suo significato la lettura diventa “ch’eterno io mi credei”, cioè è il poeta stesso a creder-si eterno. In realtà questa seconda interpretazione è strettamente legata alla prima nel senso che l’io del poeta si identifica con la propria illusione.
vv. 6-7 Troppo hai sofferto (“assai palpitasti”): si poteva anche intendere più letteralmente “troppo battesti”, cioè ” hai vissuto a lungo”, ma nel contesto è chiaro il riferimento al dolore.
v. 10 Spregevole (“fango”): fango ha un valore più forte perchè non è un pensiero, ma un’immagine molto concreta.
vv. 11-12 Rinuncia definitivamente ad ogni speranza (“dispera l’ultima volta”): disperare va inteso nel senso letterale “di-sperare”, cioè perdere, abbandonare la speranza. L’ultima volta, cioè definitivamente.
v. 14 Perverso (“brutto”): brutto è più forte perché rimanda ad un’immagine, a qualcosa di spaventoso.
v. 16 Universo (“tutto”): universo è riduttivo, perché il poeta non si riferisce solo a qualcosa di materiale, ma proprio a tutto (“illusioni, speranze”).

NOTA - Commento di Rena De Bellis.

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