CIAO E ANCORA GRAZIE PROFESSORE!

Lilliu Giovanni

CIAO E ANCORA GRAZIE PROFESSORE!
Giovanni Lilliu, che ci ha lasciati il 19 febbraio scorso, avrebbe compiuto oggi 98 anni. Saranno numerose le iniziative pubbliche oggi e nei prossimi giorni per ricordare degnamente il grande sardo. Cercheremo di essere il più possibile presenti. Qui oggi ci piace ricordare Lilliu riportando un suo intervento sul “Mediterraneo tra passato e presente”,  datato 1998, che ancora oggi ha molto da insegnarci, sia rispetto all’analisi, sia per le indicazioni politiche anch’esse di straordinaria attualità. Riportiamo inoltre due video Aservice Studio, questi recenti, che ci consegnano un Lilliu padre e maestro, preoccupato in modo particolare della pace, dei giovani, della Sardegna. Ciao e ancora grazie professore!
Aladin, pensiero e rappresentazioni.
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Segnaliamo l’iniziativa promossa per sabato 17 marzo da Legambiente: http://aladinpensiero.blog.tiscali.it/2012/03/13/ricordando-giovanni-lilliu-4/

IL MEDITERRANEO TRA PASSATO E PRESENTE*
di Giovanni Lilliu
 
Il Mediterraneo è,  come dice la parola, un mare tra le terre, montagnose per lo più, racchiuso tra tre Continenti, con le isole disposte come pilastri o ponti sui quali incedere saltando da un continente all’altro.
Un luogo di terre e di mare, di 2.205.000 kmq, lungo 3860 km e largo in media 600, ristretto a 150 nel canale di Sicilia che divide il “mesogeios” in due bacini, orientale e occidentale. Questo spazio liquido “misurato” è popolato da 250 milioni di uomini, dalle molte facce e dalle molte vite, unificati fisicamente dallo specchio d’acqua: un grande stagno è stato detto, abitato, quali “rane”, da vivaci esseri umani.
Vi convergono, come lunghi promontori o code dell’Europa, le penisole iberica, sardo-corsa, italiana, balcanica, tunisina-cirenaica e quella anatolica a cornice orientale. Vi versano acque dolci i fiumi Ebro, Rodano, Po, Adige a nord, e a sud vi  influisce il Nilo,  il fiume più lungo del mondo: 5611 km, venerato come dio Hapi  per i flussi benefici delle inondazioni e sulle cui rive si specchiano i miracoli architettonici delle Piramidi e l’enigma litico della Sfinge.
Si determinano così un’area d’incontro di popoli e di civiltà e un crogiolo degli stessi, ma risulta anche un teatro storico di scontri dove la guerra, il commercio, il viaggio e le esplorazioni si sono alternati o sovrapposti sino a diventare indistinguibili. Questo “groviglio” è stato facilitato, per non dire imposto, dalle distese di onda marina che non sono a dismisura, che separano sì le terre, ma non le abbandonano, anzi costituiscono un orientamento a vista. Esse agevolano il rapporto e il contatto tra terra e terra in modo discreto, che non viola né altera l’autonomia delle singole terre. Collegano, pertanto, le differenze e legittimano diversi punti di vista, sicché riesce difficile che nascano integrazioni inaccettabili. Ogni terra ha il proprio sapere che trova la coesistenza in una unità superiore che tutti li contiene e li compone nello stesso spirito: appunto lo “spirito mediterraneo”.
C’è dunque un volto sostanzialmente unitario del Mediterraneo. E questa unità di ambiente e di fisionomia globale dà la possibilità ai mediterranei di riconoscere, in qualunque parte essi si rechino del loro mare, un brandello di se stessi, un pezzo della loro casa, un lembo del loro paesaggio, un elemento caro della loro famiglia, un colore e un profumo che tutti hanno respirato all’origine e che non si è perduto nella notte dei secoli.
Sono state queste culture “particolari”, con originali tratti fisici e psicologici, con valori e modelli di comportamento assoluti e indiscutibili, con dialetti diversi su un ceppo linguistico comune – il mediterraneo – fedeli alla tradizione e fiere di essere se stesse, a costituire la ricchezza ed il prestigio del Mediterraneo. In più – e prioritariamente nella scala di energie determinanti – sta lo spessore incomparabile della stratificazione storico-culturale. Ed è il carico di esperienze creatrici di idee del più remoto Mediterraneo che ha arricchito di civiltà la gran parte del globo, sino ad oggi.
È stato il Mediterraneo a veicolare da Oriente ad Occidente, a partire dal VII-VI millennio a.C., la cosiddetta “rivoluzione agricola”, originatasi nelle terre della Mesopotamia e della “mezzaluna fertile”, e, più tardi, nel IV-III millennio, il grande fenomeno megalitico, nato in più luoghi dello stesso mare. Alla fine del II millennio, il pensiero dell’Oriente Antico versa al Mediterraneo, per diffonderle dal Levante alle Colonne d’Ercole, le creazioni della grande statuaria in pietra e, con i Fenici, la scrittura alfabetica che quei mercanti insegnarono ai Greci ed i Greci, poi, trasmisero al mondo di allora. E, in parte del mondo colto, ereditata per vari passaggi, è in uso ancora nel nostro tempo.
È il Mediterraneo che, lambendo ripetutamente le coste aperte, apre la mente dei Greci a quello che fu il loro prezioso “sigillo”: il “sapere” e “l’amore” del sapere, ossia la filosofia e, in questa, non solo il logos ma anche e soprattutto la dialettica, cioè il confronto delle opinioni, la rispettosa contesa degli spiriti pensanti, sicché la verità non è assoluta ma discende dalla discussione fra gli uomini. E il vero è anche il “bello”, da cui il “miracolo greco”, consegnato al mondo: la democrazia portata nell’agorà cioè nel pubblico, e la “parola” unita alla “bellezza” del linguaggio formale, nei vari prodotti dell’arte che nell’Ellade tocca la “vetta”.
E, quando la Grecia soccombe in guerra, vinta da Roma (la “Grecia capta”), vince tuttavia; il suo “sapere” (l’amore alla parola e all’arte) giunge al punto che il rude e bellicoso “romano” se ne impossessa, lo fa suo e lo diffonde, con le armi, nel vasto impero, con il “diritto”, espressione “rigorosa” del proprio spirito incline a regolare il complesso e indisciplinato agire umano.
Del misto “sapere” greco-romano si impregna, caduto l’impero di Roma, quello bizantino che gli succede a governare il Mediterraneo e si manifesta in due espressioni ben calcate: il volto “teocratico” del comando costituzionandolo col giure giustinianeo. Ed è tale la forza acculturante del “sapere” greco-romano da rendere civili i modi incolti, ma di determinata e fresca vitalità, degli stessi “Barbari” (Vandali, Goti e Longobardi) calati dalle nebbie del Nordeuropa alle terre miti del Mediterraneo, assumendone il “pensiero meridiano”, solare. Va detto, tuttavia, che nella produzione artistica, nella cultura materiale e negli istituti si sono conservati elementi di sustrato “barbarico”, e ciò va inteso in positivo come segno “diverso” dal classico, connotante l’identità di quei popoli. Tributo, anche questo, alla storia e alla cultura del Mediterraneo.
Con l’unificazione nazionale araba in nome di una nuova religione monoteistica intrecciata di elementi mistici e spirituali e di elementi mondani e materiali – l’Islam –, questa religione introduce il mondo e la potenza araba nel Mediterraneo.
La tendenza dell’Islam a proporsi in una proiezione universale portò la civiltà araba in parti dell’Asia e dell’Africa e più o meno durevolmente in zone marginali dell’Europa. In ragione della “rivoluzione islamica”, la faccia meridionale del Mediterraneo, a cominciare dal VII secolo d.C. cambiò aspetto. Dalla Siria al Magreb l’antico paesaggio architettonico (templi e strutture pagane, chiese cristiane) fu sostituito da edifici civili e da moschee musulmane che andarono via via a segnare nel tempo (VIII-XI secolo d.C.) regioni della sponda settentrionale, europea, del Mediterraneo (Sicilia, Spagna meridionale) di mirabili forme monumentali, testimonianze di una grande civiltà. Il Mediterraneo beneficiò anche di altri apporti della civiltà araba: della letteratura, filosofia e soprattutto nelle scienze (valori posizionali dei numeri, calcolo algebrico, studi astronomici, mappe e carte geografiche, ottica, alchimia e medicina, fisica sperimentale ecc.). Si può dire che le conquiste del “genio arabo”, in uno a quelle del mondo classico, stanno alla base del pensiero scientifico moderno.
Aggiungo che “pensieri” e modi di sentire e vedere di oggi si avvalgono di altri civilissimi tributi dell’intelletto germinati soprattutto nel “libero spazio” del Mediterraneo occidentale: il Rinascimento, l’Illuminismo, il liberalismo borghese, il socialismo. E nel Mediterraneo, in quel crogiolo di culture che è stato il Levante, l’area siro-palestinese ha prodotto due delle grandi religioni monoteistiche: l’Ebraismo e il Cristiane- simo. E la terza – l’Islam – pur originatasi nel deserto arabico (Maometto era un cammelliere al servizio di una ricca possidente della Mecca), ha preso vigore (avendolo attinto alle fonti dell’Ebraismo) ed espansione col veicolo del Mediterraneo, continuo traghettatore di molteplici culture da Oriente a Occidente. È vero che queste tre religioni, accomunate dall’idea monoteistica e dall’istanza ecumenica, si sono divise ed anche – in cruciali momenti storici – ferocemente combattute, ma hanno ragioni e motivi in sé di riunirsi, se mai il destino lo vorrà e la volontà di pace che sta maturando. Alla loro base sta l’unico ceppo umano che ha dato origine ai rami delle genti camitiche, semitiche e giapetiche le quali hanno sprigionato, attraverso i millenni, la luce che dal Mediterraneo si è diffusa nell’Europa media da una parte e, dall’altra, nella diagonale arida del Vecchio Mondo, con riflessi più lontani nel Terzo Mondo.
Se questa copia di ricchezza civile e sacra concepita o rifluita nel Mediterraneo, che questo mare ha raccolto e composto per le sue attitudini aperte al pluralismo (per l’ideologia greca) ci fa gridare al miracolo, o quanto meno a tessere l’elogio, per altro verso ci porta ad una amara riflessione. Che è quella d’una faccia “tragica” di questo mare accogliente (troppo accogliente).
Per 2500 anni il Mediterraneo è stato occupato e spesso asservito dalle varie forme di dominio (imperialismo e colonialismo). Ha subito l’imperialismo cartaginese e romano, il dominio vandalico, l’imperialismo bizantino, il dominio islamico e iberico, la conquista ottomana, la colonizzazione britannica (sec. XVIII), quella francese e italiana (XIX-XX). Il declino è cominciato quando ha vinto la “dismisura” con la collocazione atlantica dell’Europa, aggravata con l’occupazione di tipo colonialistico del sud afroasiatico del Mediterraneo e di talune sue isole strategiche, da parte delle potenze europee negli ul- timi tre secoli. Occupazione mascherata con la pretesa di portare la superiore civiltà euroccidentale in terre allo stato di arretratezza, in realtà attuando la politica del puro profitto e del saccheggio col modello del capitalismo incipiente.
Soltanto nell’ultimo dopoguerra si è verificata una diversa condizione politica mediterranea, caratterizzata dalla raggiunta indipendenza dei popoli arabi nelle frange del Levante e del Magreb e delle genti di alcune isole come Malta e Cipro. Con l’indebolimento dell’egemonia delle grandi Nazioni-Stato capitalistiche europee e del disegno eurocentrico inteso ad affermare la pretesa supremazia culturale dell’Occidente, il Mediterraneo si è parzialmente “liberato”, offrendo nuove opportunità. Ma sono rimasti i rancori verso l’Europa e, all’interno, persistono le divisioni, mentre tentativi di alleanze sono andati frustrati.
L’unità desiderabile e necessaria, se si vogliono attivare dialoghi e rapporti con l’Europa, sarà possibile realizzarla quando il Mediterraneo diverrà un mare totalmente libero e in pace con se stesso. Una volta che cesseranno gli odi e i conflitti che dividono i popoli mediterranei dell’altra sponda: libanesi, siriani, giordani, palestinesi e l’enclave di Israele. L’unità verrà quando questi popoli avranno ricomposto le loro case e i loro territori in frontiere certe e sicure. Il Mediterraneo sarà liberato quando la pace mediterranea non avrà più bisogno di gendarmi esterni. Il destino del Mediterraneo unito non può non appartenere, per diritto di natura e di storia, che ai mediterranei, come le loro libere iniziative. Essi dovranno tornare ad essere, come una volta, i protagonisti della loro storia da una frontiera aperta al sentire e alla comunicazione con tutti gli altri popoli. Allora il mare sarà non soltanto il mare nostrum, come si diceva una volta ipocritamente da noi in tempi nefasti, cioè il mare del colonizzatore europeo di turno, ma il mare di tutti. Il mare cioè di tutti i popoli mediterranei e di tutti gli altri popoli che vi transitano con spirito di amicizia e di libertà. In questo quadro va collocato il discorso Europa-Mediterraneo.
Oggi il Mediterraneo è più ricco di un tempo, come indicano gli indici monetari. Non manca di risorse e non disconosce i mezzi moderni per utili opere. Non mancano nemmeno disegni e progetti di sviluppo, si parla di “aree promozionali”, di un centro attivo dei rapporti internazionali. Ma rispetto all’Europa delle tecniche più avanzate, del neocapitalismo, delle grandi concentrazioni finanziarie e bancarie, il Mediterraneo è in condizioni di subalternità e di marginalità, con squilibri e scompensi tra la sponda europea e quella levantina-africana: nella prima si mangia di più e si nasce di meno, nella seconda cresce a dismisura la popolazione e aumentano le sacche di povertà.
Povertà vecchie e nuove. Quelle vecchie attengono al livello di cultura, alla sanità, alla miseria economica. Quelle povertà peraltro sono compensate dai valori della natura, il bel caldo, il clima meridiano, mare e sole che un tempo non costavano niente (oggi sono purtroppo carcerati e mercificati), la “povertà felice” dell’algerino Albert Camus. Scrive questi: «Il bel caldo che regnava sulla mia infanzia mi ha privato di ogni risentimento. Mi sentivo forze infinite e la povertà non ostacolava queste forze». E, altrove: «Molto tempo fa sono vissuto soddisfatto dei beni di questo mondo: dormivo senza tetto, su una spiaggia, mi nutrivo di frutta e passavo la metà della mia giornata in un’acqua deserta. Ho imparato in quel tempo una verità che mi ha sempre spinto ad accogliere con ironia, impazienza e talvolta con furia i segni della comodità e della sistemazione». La vecchia povertà si compensava con la tradizione intesa come democrazia della misura, della libertà sposata alla dignità, all’onore e alla fedeltà alle radici, fondamenti della rivolta libertaria contro la modernità omologante e mummificante.
La nuova povertà non è in senso economico, della necessità del pane, come della giustizia, perché, anzi, c’è una quantità di beni, molti superflui, appaganti gli istinti della società edonistica. È la povertà mascherata di un illusorio miglioramento del tenore della vita, che non corrisponde alla vera qualità della vita in quanto esiste un desolante scompenso tra la cultura e la condizione economica. È la povertà dovuta alla mancanza dei valori popolari rimossi dall’imborghesimento che ha distrutto un mondo reale che sapeva scegliere tra bene e male, trasferito in un mondo irreale cinico e senza pietà, privato del sacro e di ogni tradizionale conflitto interiore. Effetti sconsolanti della nuova rivoluzione industriale, fase consumistica del neocapitalismo mondiale.
È questa la grande contraddizione che oggi coinvolge e sconvolge il mondo mediterraneo. Qui persiste un’antica visione morale, derivata da sofisticati e ragionati modelli di vita, un attaccamento popolare alle matrici etniche e alle culture tradizionali. La sua storia è pervasa di conoscenze ed esperienze spirituali e materiali che dal “moderno” sono state immobilizzate, quando non conculcate, dalla violenza del passato colonialismo e imperialismo europeo. Pertanto, gli idoli e i miti della civiltà industriale e postindustriale occidentale devono fare i conti con la capacità non esaurita del Mediterraneo, nutrito di fantasia e di voglia di riscatto e soprattutto non disposto a farsi omologare nelle ragioni spirituali e civili dalle insinuazioni e dagli allettamenti indotti dalla società dei consumi e del mercato. Il Mediterraneo tende a rifiutare modelli e meccanismi che non siano in qualche modo conformi al suo essere e alla sua particolare connotazione storica e umana. Esso è restio a inquadrarsi in rigidi schemi dispensatori di una meccanica felicità economica che cova l’insidia di un nuovo asservimento.
Coloro che si allietano del tempo della chiesa sostituito dal tempo del mercante e riconducono la felicità del mondo al nuovo Paradiso del “villaggio globale”, giudicano il Mediterraneo di oggi uno spazio degradato e asfittico, uno scarto di periferia, al più un “fossile prezioso”. Vedono nello spazio europeo un qualche sviluppo, ma nel restante continuano a osservare il recesso inguaribile del sottosviluppo sino al deserto. Costoro, sacerdoti del pensiero euroccidentale arrogante, non hanno occhi di intelligenza per rendersi conto che in vaste aree del Mediterraneo gli uomini si esprimono in altre preghiere, altre chiese, altre lingue, altri costumi, sospettano quando non rifiutano, delle novità tecnologiche ritenute non congrue al loro essere, alla loro natura. Per queste comunità il modello occidentale non è né universale né universalizzabile.
Le élites arabe e mediorientali (Iran, Siria, Egitto, Algeria) sino alla metà degli anni Sessanta hanno puntato, cercando di adeguarsi al modello occidentale, sulla modernizzazione forzata, uscendone sconfitte. La delusione ha portato a demonizzare quell’esperienza che, di fatto, calava in un umore culturale profondamente diverso e tale da rifiutare l’innesto come cosa del tutto estranea. Il fallimento ha provocato un riflusso a difesa della propria identità sradicata da quell’apporto rovinoso. Non è da escludersi che all’origine del fondamentalismo islamico ci sia, oltre il radicalismo coranico, il crollo di un’impresa vissuto come colpa da vendicare con la violenza verso chi ha proposto il modello di sviluppo legato alla competizione di mercato. Alla logica economica della cultura europea occidentale, la cultura locale risponde tornando al modello nativo di appartenenza e alla sua riproposizione caricata di antichi costumi che espungono da sé qualsiasi forma di integrazione e di tolleranza. Oppone la cultura del “bazar”.
Si pone dunque il problema di un’intesa dei popoli mediterranei per un nuovo modello di sviluppo e di progresso che tocchi la globalità dell’essere mediterraneo, in quanto essere umano individuale e sociale, concepito nel pieno possesso dei diritti civili e liberato dalla soggezione ai meccanismi economici e all’intemperanza del materialismo illiberale. Si tratta di stabilire una nuova misura di esistenza che riesca a conciliare uomini di un “mare” familiare con uomini che si immedesimano nella tendenza della nuova età “scientifica” della storia, a dimensione spaziale, senza però perdere la coscienza delle origini e tradire radici e cultura di appartenenza, la propria identità.
La tradizione del Mediterraneo ci invita al pensare giusto, al sentire giusto, al vedere e agire giusto, malgrado tutto.
È nel Mediterraneo che è nato il concetto di Europa, in contrapposizione all’Asia di cui l’Europa è un prolungamento, una sorta di promontorio occidentale limitato dall’Atlantico. Questo “mare illustre”, sulle cui rive si sono mescolati tanti popoli, ha costituito una “Preuropa” caratterizzata dallo spirito di libertà (quello maturato nelle poleis greche), all’opposto del dispotismo asiatico.
L’intelligenza e l’intrapresa dei popoli mediterranei, a causa del rapporto fisico costante con il mare, stanno alla base del concetto di “Stato” europeo che si apre all’esterno e che, al suo interno, attinge dalla libertà delle singole persone (i cittadini). Dunque, nella sua sponda settentrionale, il Mediterraneo è strettamente legato all’Europa e ne è quasi il genitore. Credo che, convinti di questo legame, avveduti uomini di governo dell’ultimo dopoguerra, francesi, italiani e tedeschi, abbiano gettato le fondamenta democratiche dell’Unione Europea.
A corroborare la grande idea si è aggiunta la considerazione che soltanto dalla alleanza europea sarebbe venuta la soluzione dei secolari conflitti vieppiù infuocatisi con le stragi delle due guerre mondiali, causa delle inquietudini e delle insicurezze dei popoli dell’Occidente europeo. Una alleanza nata, soprattutto, per sciogliere il nodo tedesco “dell’accerchiamento” della Germania, con la conseguente ideologia ben chiarita in termini geopolitici da Heidegger nella Introduzione alla metafisica. Così scrive il filosofo, del suo paese: «Siamo presi nella morsa. Il nostro popolo, il popolo tedesco, in quanto collocato nel mezzo subisce le pressioni più forti della morsa; esso è il popolo più ricco di vicini e per conseguenza il più esposto, e insieme il popolo metafisico per eccellenza». E, più avanti: «E se le grandi decisioni concernenti l’Europa non dovessero verificarsi nel senso dell’annientamento, potrà solo verificarsi per via del dispiegarsi di nuove forze storiche spirituali. Ci si deve battere per arrestare il pericolo di uno oscuramento del mondo, e per una missione storica del nostro popolo considerato come centro dell’Occidente».
Discorso che sottende un’idea europea, ma di una Europa germanica, la Germania spinta ripetutamente a tentare di colonizzare l’Europa (il tentativo di Hitler). L’Unione Europea a frontiere aperte e come diga per sventare questo mortale pericolo ed altre minacce, assicura la sicurezza e la pace dell’Europa. E, perciò, è determinante supportare il pensiero europeo con la misura, l’equilibrio, il senso del giusto, il pensiero meridiano, secondo l’insegnamento proprio del “sapere” mediterraneo.
Con questi sentimenti anche noi sardi – immersi nel Mediterraneo che ci circonda da ogni parte – dovremo collocarci nel rapporto con l’Europa di Maastricht, non senza rivendicare la diretta partecipazione agli istituti previsti da questa Europa, riguadagnando una autonomia forte e competitiva che guardi entro se stessa e trovi i modi del cambio strutturale e sociale e le ragioni di una libertà non pienamente acquisita. Che si attivi nel suo terreno senza negarsi alla comunicazione con l’Europa e con il mondo. Cioè dobbiamo ragionare da sardi europei nella giusta misura, non dimenticando che questa coda d’Europa che è la Sardegna, affonda le radici storiche, morali e culturali nel centro del Mediterraneo.
La Sardegna ha avuto ed ha una precisa dimensione mediterranea, una inalienabile natura mediterranea, le cui frontiere non si fermano al terreno propriamente europeo ma fronteggiano, guardandolo amichevolmente, il panorama per tanti aspetti affine, quando non simile, dell’opposta sponda del Mediterraneo.
I politici e la società civile sarda, nella prospettiva del futuro, dovranno sforzarsi a procurare un ruolo diverso dell’isola nel contesto evolutivo dell’area mediterranea e non soltanto in quella europea. I paesi mediterranei dell’altra sponda non dovranno essere visti più come magazzini di materie prime da consumare e i loro popoli semplici produttori subalterni. Dovranno essere considerati come partners necessari e indispensabili nella gestione di una area che è un luogo di incontro dell’economia europea con le istanze di crescita dei popoli nuovi.
La Sardegna deve collocarsi in posizione di mediazione, con un nuovo modello di sviluppo, oltre il Welfare, tra il marcato europeismo dei paesi dell’Europa ad alto potenziale industriale ed egemoni ed i nazionalismi emergenti della nuova situazione politica e storica sperimentata dal mondo arabo. Unitamente anche ad altre entità etniche e culturali isolane (Corsica, Baleari, Malta, Cipro), talune diventate entità nazionali “sovrane”. La Sardegna potrebbe cooperare alle politiche dell’ambiente insulare mediterraneo e introdurre nel concerto delle esperienze collettive le sue peculiarità, il tutto teso ad assicurare una nuova stagione di avanzata dei popoli del Mediterraneo dell’una e dell’altra sponda, nel confronto e nello scambio, ciascuno mantenendo e promuovendo la propria identità.
Ritorno, per finire, al discorso Mediterraneo-Europa di Maastricht.
Non può non rilevarsi che questa Europa, al momento, è fondamentalmente l’Europa della moneta e del mercato e che, come tale, non piace a molti europei. L’economico non è, né può essere, l’assoluto motore di sviluppo, né, tantomeno, di progresso, che è altra cosa, più alta, dello sviluppo materiale. Molti europei vogliono anche l’Europa dell’anima, delle tante culture, delle tante nazionalità, delle tante patrie, anche di quelle sommerse, emarginate ed oppresse.
Da tutte queste diversificate entità l’Europa prende ricchezza e pieno significato. Non si vuole un’Europa divisa in fasce ineguali, quella media e settentrionale egemoni, e quella dei paesi mediterranei suddita e succube. Vogliamo una Europa senza reti e senza gabbie, non costretta a camminare su di un unico binario fissato autoritariamente dall’alto. Non una Europa rigida e sussiegosa, ma aperta, rispettosa e garante dell’autonomia dei commerci materiali, culturali e spirituali delle etnie e fra le etnie che la compongono e la distinguono pur nella sua unità. Una Europa, vogliamo, unita politicamente (che oggi non esiste), tollerante, persuasa che la propria cultura, quella cosiddetta “occidentale” non è inequivocabilmente la cultura che deve improntare altri paesi e il mondo, che accanto al proprio modello di sviluppo (quello capitalisti- co) possono e debbono vivere e prosperare altre comunità con modelli differenti e compatibili di vita e di crescita e che con queste occorre dialogare e collaborare in pari dignità.
Perché se continua a manifestarsi l’anima della egemonia e del sopruso (mi riferisco ai “crociati” dell’euro con la religione della moneta come strumento di potere, con i banchieri sacerdoti dell’economia), si continua cioè la perversa vena del colonialismo e dell’imperialismo europeo che, a parole, si ritiene finito, non si darà la possibilità di cooperazione e di pace fra i popoli. L’Europa è una grande idea di civiltà, non uno Stato o un insieme di Stati che ancora non c’è (e ci auguriamo non ci sia).
È una idea fondata su di uno spirito di comunità da realizzarsi in libertà, sicurezza e pace. A me pare che queste condizioni di libertà soggettive (soggettive di popoli e personali) non alberghino ancora nel Trattato di Maastricht che, pertanto, abbisogna di una pensosa “rivisitazione”.
Per il resto, dico che la fine di questo millennio, per quanto sul mondo gravi una spessa caligine e regni il disordine e la gente sia smarrita, non va vissuto nel segno della morte, ma come necessità storica e morale della grande riconciliazione e della resurrezione nel millennio che viene. E che il tempo che ci attende si nutra ancora del pensiero “solare” mediterraneo.
 
BIBLIOGRAFIA:
F. Cassano, Il pensiero meridiano, Bari, 1996, pp. 13-49, 58-77, 81-108.
M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Milano, 1990. J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, 1977.
G. Lilliu, “Istituzioni e condizioni politiche per lo sviluppo economico sociale e culturale del Mediterraneo. Indipendenza, autonomia e partecipazione”, in Cultura e Politica, II, 1972, pp. 3-32.
G. Lilliu, “Il destino del mare unito è nelle mani dei popoli”, in Il Popolo Sardo, a. I, n. 2, ottobre-dicembre, 1995, pp. 50-52.
P. P. Pasolini, Lettere luterane, L’Unità/Einaudi, agosto 1991, pp. 74-137, 153-195.
P. Pinna, “Lo sviluppo della cooperazione mediterranea”, in Il Popolo Sardo, a. III, n. 2, aprile-giugno,1997, pp. 36-40.
M. Riva, “Maastricht non ha alternative”, in Il Popolo Sardo, a. I, n. 2, ottobre-dicembre, 1995, pp. 54-55.
A. Savino, Scritti dispersi. Tra guerra e dopoguerra (1943- 1952), Milano, 1989.
A. Savino, Alcesti di Samuele e atti unici, Milano, 1991.
 
* [Pubblicato in F. Nuvoli, R. Furesi (a cura di), Pastorizia e politica mediterranea, Cagliari, 1998, pp. 25-33].
I VIDEO ASERVICE:
http://www.youtube.com/watch?v=4xfdxOe1l84&feature=share

http://www.youtube.com/watch?v=bFS1eUDvMM8&feature=related

 

 

 

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