in giro sulla rete con la lampada di aladin

pace-israele-palestina-300x274aladin-lampada3-di-aladinews312Israele, Palestina: come tutto iniziò
di Olga Rodriguez
Traduzione di Raffaele Deidda, per SardegnaSoprattutto.

Israele, Palestina: come tutto iniziò
di Olga Rodriguez
Traduzione di Raffaele Deidda, per SardegnaSoprattutto.
Come cominciò tutto questo, si domandano alcuni in questi giorni. Ciò che sta succedendo a Gaza cominciò molto tempo fa. Cominciò con i pogrom, con le persecuzioni razziali contro gli ebrei, prima in Russia e poi in Europa. Cominciò con l’antisemitismo europeo, con i nazismi, col genocidio contro gli ebrei e con la successiva decisione dell’Europa, motivata dal senso di colpa per quello che era successo, di appoggiare e favorire il sionismo, sorto nel secolo XIX, e la massiccia emigrazione ebrea in Palestina. Cominciò quando il protettorato britannico della Palestina guardava dall’altra parte mentre gli ebrei si organizzavano in bande armate che commettevano attentati terroristici ammazzando gente, contro obiettivi britannici ed arabi.

Nel 1947 l’ONU, con la motivazione delle responsabilità e delle colpe europee per gli orrori compiuti contro gli ebrei, approvò un piano di ripartizione che assegnò il 54% della Palestina, detenuto dal Protettorato britannico, alla comunità ebrea per la maggior parte arrivata dopo l’Olocausto, ed il restante territorio ai palestinesi. Gerusalemme sarebbe rimasta come enclave internazionale. Nei primi mesi del 1948 le forze armate ebree clandestine – scrivo ebree perché così si auto-denominavano quando ancora non era stata dichiarata l’indipendenza d’Israele – elaborarono il Piano Dalet il cui fine era, tra le altre cose, quello di conquistare il controllo della via che univa Gerusalemme a Tel Aviv, una zona non contemplata come futuro territorio israeliano nel piano di ripartizione dell’ONU. Così allontanarono migliaia di persone e ne uccisero centinaia. Di fatto, fu già quello un piano di pulizia etnica.

Poi, quando i paesi arabi vicini dichiararono guerra ad Israele, successivamente alla sua nascita nel maggio 1948, le forze armate israeliane sfruttarono l’occasione per occupare ancora più terre ed espellere da queste centinaia di migliaia di palestinesi. In quel modo Israele si trovò a disporre di circa il 78% del territorio. Successivamente, nel 1967, avrebbe occupato il 22% del restante territorio: Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. Alla fine della guerra del 1948 molti palestinesi cercarono di ritornare alle proprie case ma le truppe israeliane glielo impedirono, nonostante le Nazioni Unite avessero approvato nel dicembre del 1948 la risoluzione 194, inapplicata a tutt’oggi, ribadita in ripetute occasioni e ratificata nella risoluzione 3236 del 1974, che stabiliva il diritto dei rifugiati a tornare nelle loro case oppure, in sostituzione, a ricevere indennizzi. Poterono restare dentro Israele, in molti casi come “rimpiazzati” circa 150.000 palestinesi, il 15% della popolazione che nel 1952 acquisì la cittadinanza. Sono quelli chiamati arabo – israeliani.

Gaza. Gran parte dei palestinesi di Gaza sono rifugiati, espulsi o discendenti degli espulsi dai territori nel 1948 attraverso quello che costituì, secondo storiografi israeliani come Ilan Pappé, una pulizia etnica con l’obiettivo di formare uno Stato a maggioranza ebrea. Perfino lo storiografo israeliano sionista Benny Morris, ha scritto che “con la sufficiente prospettiva risulta evidente che quella che si produsse in Palestina nel 1948 fu una forma di pulizia etnica perpetrata dagli ebrei nelle zone arabe”. I palestinesi di Gaza vivono ammucchiati, castigati, limitati nei movimenti. Israele controlla i prodotti e le persone che accedono alla Striscia e vieta l’ingresso di materiali fondamentali. Pratica una punizione collettiva. Quello che sta accadendo a Gaza cominciò 66 anni fa, quando si optò per una concezione di Israele come Stato ebraico con maggioranza ebrea. Per mantenere quella maggioranza Israele pratica l’occupazione, separa e discrimina i palestinesi e, ogni tanto, porta a termine operazioni militari che producono centinaia di uccisioni e migliaia di espulsioni.

Per mantenere la maggioranza ebrea. Lo Stato israeliano, per restare fedele alla sua autodefinizione di Stato ebraico, esclude il concetto di cittadinanza universale. Se accettasse come propri cittadini i palestinesi di Gaza e della Cisgordania, territori che controlla od occupa, la sua concezione di Stato ebraico sarebbe in pericolo poiché la popolazione ebrea non sarebbe maggioritaria. L’elevato tasso di natalità dei palestinesi è una delle preoccupazioni principali di Israele. E’ chiamato “la questione demografica”. Già oggi gli ebrei, all’interno della cosiddetta Linea Verde – le frontiere prima del 67 – rappresentano il 70% della popolazione e si calcola che tra venti anni potrebbero essere solo il 50%. Israele si oppone alla creazione di un Stato palestinese ma si rifiuta anche di concedere pieni diritti e cittadinanza ai palestinesi di Gaza e Cisgiordania. Se lo facesse sarebbe una rinuncia alla caratterizzazione ebraica dello Stato. A quella, cioè, che alcuni storiografi e politologi chiamano etnocrazia. Come sottolineava l’israeliano Sergio Yahni, membro della “Alternative Information Center”, in una conversazione che avemmo a Gerusalemme: “Israele può essere un Stato ebraico solo se mantiene la supremazia demografica o legale della popolazione ebrea, ma per consolidare questa posizione deve portare a termine una nuova pulizia etnica, come quella del 1948, o praticare la segregazione etnica legalizzata, cioè, l’apartheid. Finché Israele non subirà una vera trasformazione democratica, non vivremo in pace e continuerà la repressione”.

La legge dei Beni Assenti. Affinché l’Israele potesse essere uno Stato ebraico, il governo del primo ministro David Ben Gurion organizzò la ri-colonizzazione delle terre e distribuì i beni immobili che chiamarono “abbandonati”. Venne approvata nel 1950 la legge dei Beni Assenti, che operò il passaggio a mani ebree delle case dei palestinesi. Non solo di quelli che si erano allontanati dalle frontiere israeliane, ma anche di quelli che erano stati ricollocati dentro lo Stato israeliano. Vennero approvate anche altre leggi che proibivano la vendita o il trasferimento di terre per impedire che cadessero in mani palestinesi, e che permettevano di decretare l’esproprio di beni per pubblico interesse o di dichiarare un’area “zona militare chiusa”, fatto che impediva ai proprietari della stessa di rivendicarne la proprietà. In questo modo, 64.000 abitazioni palestinesi erano passate in mani ebree già nel 1958.

La legge del Ritorno. Un’altra legge fondamentale, una delle più controverse, è la Legge del Ritorno, che conferma l’insistenza del carattere ebraico dello Stato attraverso la concessione di privilegi agli ebrei. Questa legge riconosce il diritto alla cittadinanza a tutti gli ebrei del mondo. A figli, nipoti e coniugi di ebrei, e a coloro che si convertono alla religione ebraica. Non comprende però gli ebrei di nascita convertiti ad un’altra religione. E’ stata effettivamente rifiutata la cittadinanza a diversi ebrei convertiti al cristianesimo. E’ forte la polemica su questa legge in quanto Israele non consente ai palestinesi allontanati né ai loro discendenti di tornare alle proprie case ma, per fare un esempio, un svedese che si converta all’ebraismo ha diritto a risiedere in Israele ed ad ottenere la cittadinanza. Inoltre, è probabile che possa accedere ad aiuti economici dello Stato per finanziarsi gli studi o la sistemazione nella sua nuova casa. Nel 2003 venne rafforzata questa politica “esclusivista” con l’approvazione della Legge di Cittadinanza ed Ingresso in Israele. Prevede che i palestinesi di Cisgiordania o Gaza minori di 35 anni e le palestinesi di Cisgiordania o Gaza minori di 25 anni non possano risiedere in territorio israeliano anche se sposati/e con una/un israeliano. Se un qualunque europeo/a contrae matrimonio con una/un cittadino israeliano avrà invece diritto sia alla residenza che alla cittadinanza.

L’occupazione. L’occupazione è l’essenza dello Stato israeliano per come si auto-concepisce al giorno d’oggi. I coloni formano una specie di esercito parallelo a quello ufficiale poiché esercitano una funzione paramilitare, quella di invadere e di occupare. Motivati da ragioni politiche, religiose ed anche economiche, poiché lo Stato concede prestiti e sovvenzioni a quegli ebrei che si stabiliscono nelle terre dei palestinesi. Nel territorio palestinese della Cisgiordania, con una popolazione complessiva di più di due milioni di abitanti, vivono 450.000 coloni ebrei. Le colonie ebree consumano una media di 620 metri cubi di acqua all’anno per persona a fronte di una quantità inferiore ai 100 metri cubi dei palestinesi. Ciò avviene perché gli insediamenti si appropriano di parte delle vene acquifere e delle aree con più riserve idriche. I coloni possono portare armi. I loro i insediamenti sono protetti dall’Esercito israeliano che in questo modo legittima l’occupazione. È il proprio Stato quello che amministra i terreni della Cisgiordania. Attraverso le colonie la Cisgiordania si è trasformata in una zona “acquartierata”, senza continuità territoriale, dove i paesi e le città non sono collegati fra di loro, trasformati in isolati circondati dai controlli militari israeliani e dagli insediamenti ebrei. Uno Stato palestinese con la Cisgiordania attuale non disporrebbe di una connessione territoriale ed avrebbe tante frontiere quante sono le colonie.

Esclusione e discriminazione. Per controllare la popolazione palestinese, l’Israele ne limita i movimenti, esegue arresti arbitrari, applica la cosiddetta “Legge di detenzione amministrativa” che permette di tenere in carcere un palestinese senza imputazione né processo fino a due anni, che impedisce ai palestinesi di uscire dalle loro aree o li obbliga ad aspettare ore per farlo. Nega loro servizi pubblici fondamentali, vieta di costruire abitazioni e anzi ne distrugge, con la scusa che non dispongono dei permessi di costruzione. Che sono rifiutati in forma sistematica. In pratica applica un vero apartheid e amministra la legge del taglione. Se qualcuno uccide un israeliano è proprio lo Stato ad incaricarsi della vendetta, abbattendo la casa di famiglia del presunto colpevole, torturando lui, i suoi amici o i suoi familiari o attivando un’offensiva militare nel suo quartiere o in un altro, come sta avvenendo attualmente a Gaza. Contrariamente a quello che dovrebbe costituire l’attuazione di uno Stato democratico, Israele opta per la vendetta in luogo della via giudiziale.

Il prezzo della pace. A fronte di questo, gli Stati Uniti e l’Unione Europea si limitano a mormorare flebili condanne che sono semplice inchiostro su carta. Perché, mentre le emettono, confermano Israele come partner commerciale privilegiato, gli vendono armi, gli offrono sostegno diplomatico e strategico. I nostri governi sono corresponsabili – da decenni – del destino dei palestinesi e degli israeliani. Come mi disse Rami Elhanan, israeliano che perse sua figlia in un attentato di Hamás: “Gli ebrei che puntano sull’esclusione dei palestinesi escludono se stessi, stanno ritornando al ghetto. La soluzione è sul tavolo, ma arriverà solo quando Israele si renderà conto che il prezzo di non avere la pace è più elevato di quello di averla”. Hamás e Al Fatah hanno annunciato quest’anno la loro riconciliazione ed un prossimo accordo per un governo di unità nazionale. Le autorità palestinesi hanno persino dichiarato di essere disposte a ricorrere alla via giudiziale per denunciare Israele nei tribunali internazionali. La risposta di Tel Aviv è stata la mano ancora più dura. Non vuole il paese palestinese unito perché costituisce una minaccia per il carattere ebreo del suo Stato. La radicalizzazione sta arrivando a tal punto che sono nati nuovi gruppi estremisti che attaccano i manifestanti israeliani che scendono in strada per chiedere pace e libertà per la Palestina. Nella sua bramosia di volere di più, Israele continua a rinunciare ad un accordo più che vantaggioso, in virtù del quale i palestinesi avrebbero un Stato con solo il 22% della Palestina iniziale ma che comporterebbe ordinare l’abbandono della Cisgiordania ai 450.000 coloni ebrei, cosa che Tel Aviv non è disposta a fare, almeno fino ad ora. E’ da tutto questo che deriva ciò che sta succedendo in questi giorni in Palestina, a Gaza, in Cisgiordania.

Un altro Israele è possibile. Ogni giorno in più che passa i palestinesi sono ridotti a dei numeri o all’indifferenza, con addosso quel perverso sospetto che persegue tante vittime e che fa sussurrare “qualcosa avranno fatto”. Qualcosa avranno fatto perché appare incredibile che i crimini si possano commettere con tanta impunità. L’entità che si erige ad arbitro morale per decidere che cosa dovrebbe succedere e cosa no in Palestina è la stessa che ha rubato e continua a rubare la terra d’altri. Non c’è soluzione militare possibile perché nonostante tutto, nonostante quello che disse Golda Meir nel 1969, la Palestina ed i palestinesi esistono. L’unica soluzione passa per mettere fine all’occupazione, agli insediamenti, all’esclusione. Il razzismo, secondo il semiologo Walter Mignolo, è la decisione di coloro che stanno al potere di classificare e valutare il grado di umanità degli altri con l’obiettivo di controllare e dominare. Detto con le parole dell’accademico israeliano Nurit Peled, “lo Stato di Israele che si dichiarò ufficialmente uno Stato di apartheid, si distingue per quello che è stato sempre il metodo del razzismo più tipico e di successo: la classificazione degli esseri umani.”
Un altro Israele è possibile, come un altro Sudafrica è stato possibile.

*da: El Diario del 25 luglio 2014
**Olga Rodriguez è una giornalista e scrittrice spagnola specializzata in Medio Oriente.

Articolo originale:
Israel, Palestina: Cómo empezó todo [di Olga Rodríguez]
Cómo empezó todo, preguntan algunos estos días. Esto, lo que está ocurriendo en Gaza, se inició hace mucho tiempo. Comenzó con los pogromos, las persecuciones racistas de judíos primero en Rusia, después en Europa. Comenzó con el antisemitismo europeo, con el nazismo, con el genocidio contra los judíos y con la posterior decisión de Europa, motivada por la culpa de lo ocurrido, de apoyar y fomentar el sionismo -surgido en el siglo XIX- y la masiva emigración judía a Palestina. Comenzó cuando el protectorado británico de Palestina miraba hacia otro lado mientras los judíos se organizaban en bandas armadas que cometieron atentados terroristas, matando a gente, contra objetivos británicos y árabes.En 1947 la ONU, motivada por la responsabilidad y culpa europea del horror contra los judíos, aprobó un plan de partición que asignó el 54% de la Palestina del mandato británico a la comunidad judía (llegada la mayoría tras el Holocausto) y el resto, a los palestinos. Jerusalén quedaba como enclave internacional.En los primeros meses de 1948 las fuerzas armadas judías clandestinas -escribo judías porque así se autodenominaban, y aún no se había declarado la independencia de Israel- elaboraron el Plan Dalet, cuyo fin era, entre otras cosas, hacerse con el control de la vía que unía Jerusalén con Tel Aviv, una zona que no figuraba como futuro territorio israelí en el plan de partición de la ONU. De ese modo expulsaron a miles de personas y asesinaron a cientos. Es decir, ya hubo entonces un plan de limpieza étnica.Después, cuando los países árabes vecinos declararon la guerra a Israel tras su nacimiento en mayo de 1948, las fuerzas armadas israelíes aprovecharon para ocupar más tierras y expulsar a cientos de miles de palestinos. De ese modo Israel pasó a tener un 78% del territorio (posteriormente, en 1967 Israel ocuparía el 22% restante: Gaza, Cisjordania y Jerusalén Este). Tras la guerra del 48, muchos palestinos intentaron regresar a sus casas, pero las tropas israelíes se lo impidieron, a pesar de que en diciembre de 1948 Naciones Unidas aprobó la resolución 194, incumplida hasta hoy, confirmada en repetidas ocasiones y ratificada en la resolución 3236 de 1974, que establecía el derecho de los refugiados a regresar a sus hogares o a recibir indemnizaciones. Solo pudieron permanecer dentro de Israel, en muchos casos como desplazados, unos 150.000 palestinos, el 15% de la población, que en 1952 accedieron a la ciudadanía. Son los llamados árabes israelíes.

Gaza. Gran parte de los palestinos de Gaza son refugiados, expulsados o descendientes de los expulsados en 1948 a través de lo que constituyó, según historiadores israelíes como Ilan Pappé, una limpieza étnica, con el objetivo de levantar un Estado de mayoría judía. Incluso el historiador israelí sionista Benny Morris, ha escrito que “con la suficiente perspectiva resulta evidente que lo que se produjo en Palestina en 1948 fue una suerte de limpieza étnica perpetrada por los judíos en las zonas árabes”.Los palestinos de Gaza viven hacinados, castigados, limitados. Israel controla qué productos y personas acceden a la Franja y prohíbe la entrada de materiales fundamentales. Practica un castigo colectivo.Esto, lo que está pasando en Gaza, se inició hace 66 años, cuando se optó por una concepción de Israel como un Estado judío con mayoría judía. Para mantener esa mayoría Israel practica la ocupación, aparta y discrimina a los palestinos y, de vez en cuando, lleva a cabo operaciones militares que matan a cientos o miles y provocan el desplazamiento de miles más.

Para mantener la mayoría judía. El Estado israelí, para ser fiel a su autodefinición -Estado judío- excluye el concepto de ciudadanía universal. Si aceptara como ciudadanos a los palestinos de Gaza y Cisjordania -territorios que controla u ocupa- su concepción como Estado judío estaría en peligro, ya que la población judía dejaría de ser la mayoritaria.La elevada natalidad entre los palestinos es una de las preocupaciones principales de Israel. Lo llaman la cuestión demográfica. Ya hoy los judíos dentro de la llamada Línea Verde -las fronteras de antes del 67- conforman el 70% de la población, y se calcula que dentro de veinte años podrían ser el 50%.Israel se opone a la creación de un Estado palestino pero también se niega a conceder derechos plenos y ciudadanía a los palestinos de Gaza y Cisjordania, porque si lo hiciera, estaría renunciando a su carácter judío como Estado. Es decir, a lo que algunos historiadores y politólogos llaman etnocracia.Como subrayaba el israelí Sergio Yahni, integrante del Alternative Information Center, en una conversación que mantuvimos en Jerusalén: “Israel solo puede ser un Estado judío si mantiene la supremacía demográfica o legal de la población judía, pero para ello tiene o que llevar a cabo una nueva limpieza étnica, como la de 1948, o practicar la segregación étnica legalizada, es decir, el apartheid. Mientras Israel no asuma una verdadera transformación democrática, no viviremos en paz y seguirá la represión”.

La Ley de Bienes Ausentes. Para que Israel pudiera ser un Estado judío, el gobierno del primer ministro David Ben Gurion organizó la recolonización de las tierras y distribuyó los bienes inmuebles que llamaron “abandonados”. Para ello se aprobó en 1950 la Ley de los Bienes Ausentes, que gestionó el traspaso a manos judías de las casas de los palestinos, no solo de los que se habían ido fuera de las fronteras israelies, sino también de aquellos que habían sido reubicados dentro del Estado israelí.También se aprobaron otras leyes que prohibieron la venta o transferencia de tierras para garantizar que no cayeran en manos palestinas, y que permitían decretar la expropiación de bienes por interés público o declarar una superficie como “zona militar cerrada”, lo que impedía a los propietarios de la misma reclamarla como suya. De ese modo, 64.000 viviendas de palestinos ya habían pasado a manos judías en 1958.

La Ley del Retorno Otra de las leyes fundamentales y una de las más controvertidas es la Ley del Retorno, que confirma esa insistencia en el carácter judío del Estado a través de la concesión de privilegios a los judíos. Esta ley concede el derecho a la ciudadanía de todos los judíos del mundo, de los hijos, nietos y cónyuges de los judíos, así como de quienes se conviertan al judaísmo. Sin embargo, no incluye a los judíos de nacimiento convertidos a otra religión y de hecho se ha denegado la ciudadanía a varios judíos convertidos al cristianismo.La polémica en torno a esta ley reside en que Israel no permite regresar a su hogar a los palestinos expulsados ni a sus descendientes. Pero, por poner un ejemplo, un sueco que se convierta al judaismo sí tiene derecho a residir en Israel y a obtener la ciudadanía. Además, es probable que pudiera acceder a ayudas económicas del Estado para financiar estudios o adaptación a su nuevo hogar.En 2003 se construyó un escalón más en esta política exclusivista con la aprobación de la Ley de Ciudadanía y Entrada en Israel, que indica que los palestinos de Cisjordania o Gaza menores de 35 años y las palestinas de Cisjordania o Gaza menores de 25 años no podrán residir en territorio israelí aunque se casen con un/a israelí. Sin embargo, si cualquier europeo contrae matrimonio con un ciudadano israelí tendrá derecho tanto a la residencia como a la ciudadanía.

La ocupación La ocupación es la esencia del Estado israelí tal y como se concibe a sí mismo a día de hoy. Los colonos conforman una especie de ejército israelí paralelo al oficial, ya que ejercen una función paramilitar, la de invadir y ocupar, motivados por razones políticas, religiosas y también económicas, ya que el Estado concede préstamos y subvenciones a aquellos judíos que se instalan en la tierra de los palestinos. En el territorio palestino de Cisjordania viven 450.000 colonos judíos, con una población total de más de dos millones de habitantes. Las colonias judías consumen un promedio de 620 metros cúbicos de agua por persona al año frente a los menos de 100 metros cúbicos de los palestinos. Esto sucede porque los asentamientos se apropian de parte de los acuíferos y de las áreas con más reservas. Los colonos pueden llevar armas. Además, sus asentamientos están protegidos por el Ejército israelí, que de este modo legitima la ocupación. Es el propio Estado el que administra los terrenos de Cisjordania. A través de las colonias, Cisjordania se ha convertido en una zona acantonada, sin continuidad territorial, donde los pueblos y ciudades están desconectados entre sí, convertidos en islotes rodeados por controles militares israelíes y por asentamientos judíos. Un Estado palestino con esta Cisjordania actual no contaría con conexión territorial y tendría tantas fronteras como colonias hay.

Exclusión y discriminación. Para controlar a la población palestina, Israel limita sus movimientos, lleva a cabo arrestos arbitrarios, aplica la llamada ley de detención administrativa, que permite mantener encarcelado a un palestino sin cargos ni juicio hasta al menos dos años, impide a los palestinos salir de su localidad o les obliga a esperar horas para hacerlo, les niega servicios públicos fundamentales, les prohibe construir viviendas y de hecho destruye algunas de sus casas, con la excusa de que no cuentan con permisos de construcción que se les deniegan de forma sistemática. En la práctica aplica un apartheid y se guía por la ley del talión. Si alguien mata a un israelí, es el propio Estado el que se encarga de la venganza, derribando la casa de la familia del presunto culpable, torturándole a él, a sus amigos o familiares, o impulsando una ofensiva militar en su barrio o en otro, como la actual contra Gaza. Al contrario de lo que debería ser la actuación de un Estado democrático, Israel opta por la venganza en vez de por la vía judicial.

El precio de la paz. Ante ello, Estados Unidos o la Unión Europea se limitan a murmurar con tibias condenas que son simple tinta sobre papel, porque mientras las emiten, mantienen a Israel como socio comercial preferente, le venden armas, le brindan apoyo diplomático y estratégico. Nuestros gobiernos son corresponsables -desde hace décadas- del destino de palestinos e israelíes.Como me dijo Rami Elhanan, israelí que perdió a su hija en un atentado de Hamás, los judíos que apuestan por excluir a los palestinos se excluyen a sí mismos, “están volviendo al gueto. La solución está encima de la mesa, pero solo llegará cuando Israel se dé cuenta de que el precio de no tener paz es más elevado que el de tenerla”. Este año Hamás y Al Fatah anunciaron su reconciliación y un acuerdo incipiente para un gobierno de unidad nacional. Las autoridades palestinas han hablado incluso de estar dispuestas a recurrir a la vía judicial para denunciar a Israel en tribunales internacionales. Ante ello, la respuesta de Tel Aviv ha sido más mano dura. No quiere al pueblo palestino unido, porque eso también amenaza el carácter judío de su Estado. La radicalización está llegando a tal punto que han brotado nuevos grupos extremistas israelíes que atacan a los manifestantes israelíes que salen a la calle para pedir paz y libertad para Palestina. En su ansia por querer más, Israel sigue renunciando a un acuerdo más que beneficioso para él, por el cual los palestinos tendrían un Estado con tan solo el 22% de la Palestina inicial, lo que supondría ordenar la salida de Cisjordania de los 450.000 colonos judíos, algo a lo que Tel Aviv no está dispuesto, al menos hasta ahora. De todo esto va lo que ocurre estos días en Palestina, en Gaza, en Cisjordania.

Otro Israel es posible. Cada día que pasa los palestinos son reducidos a números o al olvido, recubiertos por esa perversa sospecha que persigue a tantas víctimas, y que susurra “algo habrán hecho”, “algo habrán hecho”, porque resulta increíble que los crímenes se cometan con tanta impunidad. La entidad que se erige a sí misma como árbitro moral para decidir qué debería ocurrir y qué no en Palestina es la misma que robó y sigue robando la tierra de otros.No hay solución militar posible porque a pesar de todo, a pesar de lo que dijera Golda Meir en 1969, Palestina y los palestinos existen. La única solución pasa por poner fin a la ocupación, a los asentamientos, a la exclusión. El racismo, según el semiólogo Walter Mignolo, es la decisión de aquellos que están en el poder de clasificar y evaluar el grado de humanidad de los otros con el objetivo de controlar y dominar. Dicho en palabras de la académica israelí Nurit Peled, “el Estado de Israel, que se declaró oficialmente un Estado de apartheid, se distingue por lo que ha sido siempre el método del racismo más típico y exitoso: la clasificación de los seres humanos”.
Otro Israel es posible, al igual que otra Sudáfrica fue posible.

One Response to in giro sulla rete con la lampada di aladin

  1. […] ormai è strage. Servirebbe una tregua, servirebbe una pace, servirebbe il disarmo dell’intera area, Israele co…, con la garanzia internazionale delle truppe dell’Onu. Servirebbe ragionevolezza, buona […]

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>