in giro con la lampada di aladin sull’economia

like picasso chitarra e mandolinoRenzi e i problemi con l’economia
Beniamino Moro – Troppi conti non tornano. L’Unione Sarda, 6 agosto 2014

Nessuna stangata autunnale in arrivo, promette Matteo Renzi, gli italiani vadano in ferie tranquilli, perché l’Italia è già ripartita, ha iniziato un percorso di cambiamento strutturale che le consentirà di guidare la ripresa. Concludendo con la solita sparata: “A settembre ci sarà una ripartenza col botto”. Più che tranquillizzare gli italiani, il discorso del premier ricorda l’esortazione “Enrico sta sereno” rivolta a Letta qualche giorno prima di defenestrarlo da premier.
Il nervosismo di Renzi tradisce le difficoltà che sta incontrando nella gestione dell’economia, soprattutto sul versante dei conti pubblici. Al riguardo, è sintomatica una frase pronunciata alla direzione del Pd la settimana scorsa, subito dopo lo scoppio dell’affair Cottarelli, quando ha sostenuto che il punto centrale del dibattito sui conti pubblici è che tipo di revisione della spesa faremo. Aggiungendo un dettaglio tecnico che ai più non dice gran che, ma dal significato molto preciso per gli esperti di conti pubblici. 
Il problema, ha spiegato il premier, non è che se c’è Cottarelli si fa la revisione della spesa, mentre se non c’è non si fa più. Il problema è che Cottarelli suggeriva di tagliare 16 miliardi nel 2015, ma così facendo “siamo al 2,3%, non al 3% del rapporto deficit/Pil.” Traduzione per il pubblico: non possiamo avallare la proposta di Cottarelli di ridurre la spesa dell’anno prossimo di 16 miliardi, perché così facendo spingeremmo il rapporto deficit/Pil al 2,3%, senza che ciò ci venga chiesto dall’Europa e rinunciando in tal modo al vantaggio di ri-spendere 16 miliardi anche per sostenere nuove uscite. E’ ciò che Cottarelli ha denunciato nel suo blog: “Se si utilizzano i risparmi sulla spesa per aumentarla, il risparmio non potrà essere utilizzato per ridurre le tasse”.
Con questa valutazione, il premier lascia intendere varie cose. Innanzitutto, che ogni risparmio di spesa pubblica al di sotto del 3% del Pil imposto dall’Europa è considerato uno spreco di risorse, non un vantaggio per la credibilità dell’Italia e dei suoi conti pubblici. 

La politica è interessata a sfruttare tutto il margine del 3% non per fare investimenti produttivi, il che ci starebbe anche bene, ma per continuare a fare redistribuzione del reddito (i famosi 80 euro) con cui comprarsi a poco prezzo il consenso elettorale.
In secondo luogo, quella frase apparentemente tecnica fa capire che del continuo aumento del debito pubblico che essa sottende al premier non importi più di tanto. Perché anche un deficit del 2,3% del Pil fa aumentare il debito totale di 37 miliardi in un anno. I continui richiami all’abbattimento di quel moloch del debito pubblico, considerato dall’Europa e dai mercati come la causa principale del rischio Italia e uno dei motivi per cui l’economia non cresce, scopriamo che nelle valutazioni del premier non ha alcuna rilevanza. Il che la dice lunga sul fatto che col fiscal compact l’Europa voglia costringere i governi riottosi come il nostro a tenere conto del debito prima che siano i mercati a imporre correzioni drastiche e dolorose dei conti pubblici con una nuova crisi finanziaria. 
Infine, la frase costituisce la certificazione al massimo livello che da parte della politica non esista o sia mai esistito l’obiettivo di ridurre le tasse attraverso la riduzione della spesa e che la spending review avesse, come dichiarato formalmente, proprio quella finalità. Quel margine dello 0,7% cui allude il premier, infatti, che corrisponde a circa 11 miliardi, poteva essere un primo segnale di riduzione della pressione fiscale per tutti, che il premier si è guardato bene dal mandare. Lui considera come politiche di riduzione delle tasse gli 80 euro, senza valutare che dall’altra parte, per pagare le tasse da cui prendere gli 80 euro, ci sono imprese che falliscono, imprenditori che si suicidano e l’Italia vera di chi lavora e lotta per la sopravvivenza, non la cialtroneria politica.
I primi tentativi di controllare la spesa pubblica nel nostro Paese risalgono a un libro bianco del 1971 dell’allora ministro del Tesoro, Mario Ferrari Aggradi. Negli anni ’80, da Craxi in poi, diventammo il paese delle cicale, con deficit annui oltre il 10% del Pil, che in un decennio portarono il debito dal 52 al 105% del Pil e quindi alla crisi finanziaria del 1992. Entrammo nell’Unione monetaria anche per darci una disciplina di bilancio, cui seguì la lotta agli sprechi della seconda metà degli anni ’90. Poi vennero i tentativi di tagliare la spesa di Padoa Schioppa, Giarda, Bondi e Cottarelli. Più di 40 anni di tentativi, di cui due degli ultimi tre (2012-’13) vissuti come emergenza grave, non inferiore a quella del 1992, suggeriscono la conclusione amara che i tagli agli sprechi di Stato non si fanno o, quando si fanno, vanno a finanziare nuova spesa pubblica, non a ridurre le tasse.

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