in giro con la lampada di aladin…

Bartali Gino2“l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”
lampada aladin micromicro- Un rimpasto non serve più: la giunta Pigliaru è tutta sbagliata ed è tutta da rifare. Vito Biolchini su vitobiolchini.it .
- Lo Stato è innovatore… e in Italia?. Gianfranco Sabattini, su Democraziaoggi


Un rimpasto non serve più: la giunta Pigliaru è tutta sbagliata ed è tutta da rifare. Vito Biolchini su vitobiolchini.it .
25 settembre 2014 alle 13:28
Giunta Pigliaru 2014
Giunta Pigliaru 1

Quando una situazione è grave, bastano poche parole per descriverla. Oggi i giornali sardi parlano del nuovo scontro che contrappone la Regione al governo Renzi: dal prossimo anno le competenze relative alle autorizzazioni ambientali necessarie per consentire la ricerca di idrocarburi passeranno allo Stato. Il progetto Eleonora della Saras potrebbe essere così recuperato. A Roma l’assessore all’ambiente Spano ha già espresso la contrarietà della Regione a questo esproprio di competenze.

Sempre ieri l’assessore Paci, in un vorticoso turbinio schizofrenico di dichiarazioni e comunicati, aveva annunciato l’intenzione della Regione di non ritirare i ricorsi contro lo Stato in materia di entrate, contrariamente a quanto stabilito dall’accordo sottoscritto lo scorso mese di luglio tra il presidente Pigliaru e il ministro Padoan: evidentemente lo Stato non ha mantenuto la parola e la Regione prova a difendersi come può.

Lo scontro sulle servitù militari non ha bisogno di essere rievocato: a Teulada però si è ripreso a sparare, in spregio alla richiesta della Regione di sospendere le esercitazioni fino al 30 settembre.

La storia insegna sempre qualcosa, a patto però che da essa si voglia realmente imparare. Negli ultimi mesi del governo Cappellacci era emerso con chiarezza quale fosse il nodo cruciale riguardante il futuro dell’isola: il suo controverso rapporto con lo Stato. La Sardegna appariva troppo debole perché troppo debole era la sua rappresentanza istituzionale, troppo debole il suo progetto di sviluppo, troppo debole il suo statuto. E troppo debole la sua classe dirigente, appiattita per convenienza (storica convenienza, direi) sulle posizioni dei grandi partiti nazionali.

Alle elezioni di febbraio questa nuova consapevolezza aveva portato da un risultato elettorale straordinario le forze sovraniste e indipendentiste, con una percentuale di consenso superiore di poco al 29 per cento, diviso però tra sedici liste presenti in sei diversi schieramenti.

Il sovranismo è entrato anche nel bagaglio ideologico di Pigliaru, declinato però in un modo un po’ bizzarro dal presidente per il quale il sovranismo è soprattutto “responsabilità di fare bene le cose che facciamo”. Troppo poco, ma soprattutto troppo semplice.

Se il sovranismo era (ed è) la volontà di governare la Sardegna come se fosse uno stato, Pigliaru avrebbe dovuto prepararsi ad una stagione di schietta conflittualità con i poteri romani, forte anche dell’esperienza di Cappellacci che, al di là delle sue inadempienze e cattive volontà, dai poteri romani è stato fortemente penalizzato (e infatti alla fine, per quanto in maniera tardiva e strumentale, si era anche ribellato).

Pigliaru poteva aprire un tavolo di confronto unico con lo Stato, trattando simultaneamente le varie vertenze ancora aperte: quella delle entrate, quella dello statuto, insieme a quelle dei trasporti, delle servitù militari, del lavoro, dell’energia, dell’istruzione, delle infrastrutture e dell’industria. Un tavolo unico in cui parlare organicamente delle politiche di sviluppo dell’isola, Pigliaru da una parte e Renzi dall’altra: da pari a pari. Ma questo Pigliaru non l’ha voluto fare.

Il presidente ha preferito invece affrontare i singoli temi uno per volta, in vertenze separate affidate nella gestione quotidiana ai singoli assessori: secondo uno schema consolidato che ha sempre visto soccombere la Regione. Dalla storia recente Pigliaru dunque non ha imparato nulla.

Non solo: la sua strategia (a mio avviso perdente in partenza) è stata anche condotta in maniera scriteriata. Perché se il rapporto dialettico con lo Stato deve essere tenuto soprattutto dagli assessori, per reggere lo scontro occorre una giunta di comprovate qualità tecniche e politiche. A poco più di dei mesi dal suo insediamento, possiamo invece serenamente affermare che la giunta Pigliaru non funziona. Per niente.

Il deficit politico è sotto gli occhi di tutti: e non è un caso che gli unici due assessori che unanimemente vengono promossi sono gli unici che hanno alle spalle una esperienza o da sindaco (Erriu) o da consigliere regionale (Maninchedda). Tutti gli altri non hanno mostrato quelle capacità, quell’esperienza e quella rete di relazioni e di rapporti che servono per sedersi al tavolo con i poteri italiani.

Il deficit di competenze poi è ancora più evidente e fare nomi darebbe persino ingeneroso. Ma di questo non si può dare tutta la responsabilità a quegli assessori che si muovono come dei fantasmi tra le stanze di viale Trento. La colpa è di Pigliaru, solo e unicamente sua: perché aveva promesso che avrebbe previlegiato le competenze a scapito delle appartenenze e invece adesso possiamo dire senza tema di smentita che ha fatto esattamente il contrario, con il bilancino in una mano e il manuale Cencelli dall’altra, arrivando a soddisfare (si dice) perfino le richieste della massoneria.

No, così non va. Il rimpasto poteva servire due mesi fa, peraltro per consentire al presidente di blindare alcune posizioni chiave del suo esecutivo per reggere l’urto del congresso regionale del Pd e della nuova segreteria. Adesso no, adesso bisogna azzerare tutto, buttare questa giunta a mare e rifarla da capo. Sei mesi sono passati e non c’è più tempo da perdere. Perché in momenti di crisi il tempo è una risorsa scarsa che non va sprecata, e questo lo aveva spiegato qualche anno fa proprio il professor Pigliaru in un suo intervento sulla Nuova Sardegna.

Tenerci questi assessori è un lusso che da sardi non ci possiamo più permettere.

Questa giunta è tutta sbagliata e tutta da rifare. Adesso servono persone competenti e politicamente capaci: Pigliaru rompa gli indugi e apra immediatamente la crisi: per il bene stesso del suo progetto politico. Perché se non lo fa lui, sarà costretto a farlo dal nuovo segretario regionale del Pd. E abbia anche il coraggio di cambiare strategia: basta singole vertenze ma un tavolo unico con il governo per affrontare la crisi, ai massimi livelli istituzionali. Altrimenti andrà a schiantarsi, esattamente come tutti i suoi predecessori. E i sardi, purtroppo, con lui.
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democraziaoggiLo Stato è innovatore… e in Italia?
25 Settembre 2014
di Gianfranco Sabattini, su Democraziaoggi
Il recente libro di Mariana Mazzucato “Lo Stato innovatore” è al centro del dibattito politico ed economico, soprattutto all’interno di quei Paesi, come l’Italia, che hanno subito i maggiori effetti negativi della crisi scoppiata nel 2007/2008. Secondo alcuni, si tratta “di uno dei libri più importanti pubblicati nel mondo, negli ultimi anni, in tema di politiche industriali”; in realtà, si tratta di un libro nel quale è ribadita un’”opinione” largamente condivisa, sulla quale però l’autrice manca di intrattenersi in modo appropriato per indicare le condizioni istituzionali in presenza delle quali lo Stato possa essere accettato, in alternativa all’idea del “pensiero economico meanstream” che vuole il settore privato ed il mercato come “motori” propulsivi insostituibili della crescita e dello sviluppo delle economie industrializzate.
Le imprese private – secondo la Mazzucato – sono considerate da tutti una forza innovativa, mentre lo Stato è considerato dai “talebani del mercato” una forza inerziale, troppo statico e “sprecone” per fungere da motore propulsivo della dinamica economica. Viceversa, lo Stato è l’imprenditore più audace, l’innovatore più prolifico e “paziente”, il finanziatore della “R&S” che produce le tecnologie più rivoluzionarie: nelle economie più avanzate, è lo Stato a farsi carico degli investimenti più rischiosi, è lo Stato a finanziare lo sviluppo di nuovi prodotti, è ancora lo Stato il creatore delle tecnologie più rivoluzionarie del modo di produrre tradizionale ed è, infine, lo Stato a finanziare le grandi opere che modernizzano i sistemi economici aumentando la competitività della loro base produttiva.
Ma se lo Stato è il maggior innovatore dei moderni sistemi industrializzati, perché allora viene accusato d’essere il finanziatore di una spesa pubblica che, normalmente, superando la metà del prodotto lordo di ogni sistema economico nazionale, non provoca impatti positivi su crescita e sviluppo? In realtà, osserva giustamente la Mazzucato, l’alta percentuale del PIL assorbita dalla spesa pubblica da sola non conta quasi nulla; a contare è la sua composizione, per cui se nei Paesi, come ad esempio l’Italia, manca da tempo una politica industriale “sganciata” da un piano consolidato di “R&S”, è inevitabile che il 50% e passa del prodotto nazionale “se ne vada” in interessi sul debito pubblico. Questi sono alti proprio perché il debito è molto alto, tanto alto da essere causa della mancata crescita; ma se, al contrario, la spesa pubblica fosse orientata prevalentemente al finanziamento della “R&S” sarebbe inevitabile la diminuzione sia del debito, che degli interessi e, assieme ad essi, diminuirebbe il livello della spesa pubblica e la necessità di ricorrere per il suo contenimento al peggioramento della situazione attraverso politiche di austerità realizzate con tagli indiscriminati, di solito a spese dei servizi sociali.
La trasformazione dello Stato in protagonista dell’innovazione non comporta, però, solo un riorientamento della spesa pubblica; essa comporta anche la soluzione dei molti problemi istituzionali direttamente connessi all’avvio di una politica finalizzata a finanziare la “R&S” utile a supportare una crescita che le imprese private ed il libero mercato non sono in grado di promuovere. Molti sono i problemi che, se non sono preventivamente risolti, possono ostacolare, se non addirittura impedire, il ruolo dello Stato innovatore.
Alcuni tra questi problemi, ai quali i policy-maker dei Paesi afflitti da uno stato di stagnazione non sanno dare una risposta univoca e convincente, riguardano principalmente: la determinazione del monte complessivo delle risorse economiche da destinare alla “R&S”, l’individuazione dei settori produttivi verso i quali indirizzare i risultati della “R&S”, la giustificazione sul piano sociale del trasferimento al mondo della produzione dei risultati della “R&S”, l’organizzazione delle modalità più opportune per il finanziamento dell’attività di “R&S”.
Il problema della determinazione della quota di risorse economiche che, in date condizioni socio-politiche, un determinato Paese decide di investire in “R&S” è assai complesso e tale da non comportare soluzioni univoche. Al riguardo, si può ricordare come in molti casi, a cominciare dal Giappone e dal Regno Unito, la relazione tra risorse destinate alla “R&S” e incremento della crescita non sia stata così lineare come molti si attendevano. Il Giappone è da molti anni uno dei Paesi leader nella ricerca di base svolta in funzione delle esigenze del sistema produttivo; eppure, malgrado questa posizione, secondo molti osservatori, il sistema di “R&S” del Paese asiatico è in stato di sofferenza. Gli stessi osservatori sottolineano che l’attività di “R&S” del Paese del Sol Levante appare chiusa in sé stessa in un’era in cui, invece, l’internazionalizzazione delle economie nazionali richiede che l’innovazione tecnologica produca anche un’alta mobilità dei suoi risultati.
L’individuazione dei settori verso i quali indirizzare i prodotti dell’attività di “R&S” e la legittimazione del loro trasferimento al mondo della produzione sono condizionati dalla limita disponibilità delle risorse a disposizione. La mancanza di un progetto industriale di ristrutturazione della base produttiva dell’intero sistema economico comporta molte limitazioni nella libertà di scegliere i progetti innovativi da finanziare e da realizzare. Tale vincolo impone spesso la necessità di valutare attentamente il fatto che non è raro che progetti che inizialmente possono apparire come i più rischiosi si rivelino in seguito come i più vantaggiosi. In secondo luogo, lo stesso vincolo impone che il trasferimento dei risultati delle innovazioni al sistema produttivo avvenga contemporaneamente al finanziamento di progetti “compensativi” a favore delle aree o delle zone dove tali risultati vendono introdotti.
Riguardo al problema del finanziamento, i criteri cui dovrebbe ispirarsi l’azione dei policy-maker non sono sempre univoci; le principali differenze nelle politiche nazionali di finanziamento dell’attività di “R&S” sono da attribuirsi al modello decisionale adottato, che può essere più o meno centralizzato, o più o meno decentrato. La norma è quella del modello centralizzato; esso però presenta i limiti di possibili opposizioni da parte dei portatori di interessi locali, quando le decisioni centralizzate non tengano conto del loro coinvolgimento sul piano della legittimazione politica delle decisioni stesse. Ciò che accade in Italia, riguardo alla realizzazione delle grandi opere, a parte la corruzione che spesso caratterizza il loro intero processo realizzativo, è di per sé eloquente, circa le difficoltà che, non solo sul piano economico, ma anche sul pieno politico, devono essere superate. Il modello decentrato, oltre ad una maggiore apertura nei confronto delle “periferie, presenta anche il grande vantaggio che l’attività di “R&S” sia più facilmente finanziata attraverso il suo coofinanziamento da parte di più soggetti, non solo pubblici, ma anche privati.
Negli Stati Uniti, per esempio, nell’attività di organizzazione e di finanziamento della “R&S” prevale una struttura decentrata; a livello di promozione generale nelle aree più diverse operano enti come la National Academy of Science, il National Research Council e la National Science Foundation, mentre a livello di finanziamento operano soprattutto le Federal Agencies che assegnano la maggior parte dei fondi pubblici ai vari enti interessati, i quali, per l’attuazione dell’attività di “R&S”, si affidano a industrie private, università e laboratori di vario tipo. L’Italia, semmai dovesse optare per un sistema di coofianziamento dell’attività innovativa, dovrebbe favorire il coinvolgimento delle regioni, ma soprattutto dovrebbe intensificare l’attività politica volta ad acquisire le opportunità offerte dall’essere parte dell’Unione Europea: non solo con il pronto e razionale impiego dei fondi comunitari disponibili, spesso esposti al rischio di rimanere inutilizzati per la mancata presentazione dei progetti richiesti per la loro utilizzazione; ma anche e soprattutto per avvalersi delle opportunità, se riuscisse a risultare credibile, delle quali potrebbe disporre, se riuscisse ad essere autorizzata dall’Unione Europea a gestire i propri conti pubblici con una maggiore flessibilità rispetto ai parameri istituzionalizzati. E’, questo, un aspetto importante del problema generale del rilancio della crescita e dello sviluppo del Paese da tempo in declino.
La considerazione razionale di tale aspetto implica però un’azione politica che sembra essere al di là delle attuali capacità dei partiti che affollano la scena politica italiana; i partiti nazionali sono a tempo pieno occuparsi a realizzare riforme istituzionali senza sapere con esattezza a cosa dovrebbero essere finalizzate; a cambiare di continuo le regole del mercato del lavoro senza riuscire ad assicurare una generalizzata situazione di “pace sociale”, fondata su una condivisa politica distributiva e su un’altrettanto condivisa maggiore flessibilità nella gestione della forza lavoro occupata da parte delle imprese; infine, senza riuscire a risultare credibile, come sinora è accaduto, al cospetto dell’Europa, nell’avanzare la proposta, come quella da tempo è formulata da Carlo D’Adda, di poter gestire i disavanzi dei conti pubblici “al netto dei debiti contratti a scopo produttivo”; ovvero, per finanziare investimenti con i quali lo Stato possa acquisire “attività finanziarie che possiedono un prezzo di mercato”, quali potrebbero essere, ad esempio, quelle utili alla realizzazione di progetti di ammodernamento di tutte le infrastrutture, necessarie al Paese per aumentare la competitività del proprio sistema produttivo.
Questa prospettiva di azione politica è del tutto vano sperare di vederla adottata da una compagine governativa che sa solo proporre agli italiani di consolarsi della stagnazione che affligge il loro Paese, considerando che chi sinora si era illuso d’essere riuscito a sottrarsi agli effetti negativi della crisi sta entrando lentamente, ma inesorabilmente, in recessione. Ecco, da una compagine governativa siffatta è plausibile che essa possa incorporare lo spirito dello Stato innovatore?
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