in giro con la lampada di aladin…

forumpa il pensatorelampada aladin micromicro- Con l’Europa non siamo squadra - Le occasioni che non sfruttiamo. Paolo Savona su L’Unione Sarda.
- L’URTO DEL PENSIERO. Tre gradini per il baratro. Paolo Ercolani, su il manifesto.
- Nave-Sardegna senza rotta con l’uomo solo al comando. Oriana Putzolu, su Sardinews.
- L’Ue, il Pil, Bertold Brecht e il formaggio del pastore. Gianfranco Bottazzi, su Sardinews

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Con l’Europa
non siamo squadra

- Le occasioni che non sfruttiamo
Paolo Savona su L’Unione Sarda, 01 ottobre 2014
Su iniziativa della Fondazione Matching Energies, di un intelligente imprenditore privato e di un gruppo di professionisti e studiosi che gravitano intorno al Gruppo editoriale del Danaro, si è tenuto a Napoli un incontro tra una quarantina di operatori e alcuni politici e il vice presidente della Banca Europea degli Investimenti, nonché presidente del Fondo Europeo degli Investimenti Dario Scannapieco. Si è discusso sulle possibilità offerte alla crescita del Mezzogiorno da queste due istituzioni europee. Scannapieco ha affermato che la «potenza di fuoco» delle due istituzioni è elevata, ma i destinatari pubblici e privati dei suoi interventi non sono capaci di utilizzarli appieno a causa della loro bassa capacità progettuale. Sono stato chiamato a introdurre il problema dell’intervento BEI-FEI a Napoli per la mia ripetuta insistenza, anche su queste stesse colonne, di considerare le due istituzioni un punto di forza, forse l’unico, della costruzione europea per tentare il rilancio della domanda e dell’occupazione nel Mezzogiorno. Non a caso il nuovo eurocommissario capo Junker ha promesso la realizzazione di 300 miliardi di euro di nuovi investimenti con l’aiuto della BEI. Ho vissuto una buona esperienza con questa istituzione quando al Cis, travolto dalla crisi dell’industria chimica, potei contare sui suoi fondi globali per sostenere l’economia della Sardegna, soprattutto le piccole iniziative. Talune istituzioni creditizie sarde beneficiano tuttora di fondi BEI, ma in misura insufficiente alla loro potenzialità. La Regione potrebbe sfruttare l’accesso a questi finanziamenti con tecniche creditizie sperimentate altrove, non sottoposte ai vincoli di bilancio del “patto di stabilità” interno, gemello di quello europeo.
Quest’ultimo punto è stato sollevato dai politici e Scannapieco ha ribadito che alcune Regioni e Comuni hanno trasformato i contributi a fondo perduto dati alle iniziative imprenditoriali pubbliche e private in fondi di garanzia che consentono di elevare la percentuale finanziata dalla BEI dal 50 al 75% senza esborsi di cassa. Ha inoltre aggiunto che alcune grandi opere che generano crescita all’atto della realizzazione e innalzano il prodotto potenziale, via gli aumenti di produttività, possono beneficiare degli interventi BEI anche se a intraprenderli sono enti di diritto privato, ma di emanazione pubblica.
Come fu la Cassa del Mezzogiorno nei rapporti finanziari con la Banca Mondiale di Washington, alla quale si è ispirata la nascita della BEI (decisa dal Trattato di Roma del 1958 e rilanciata dal Trattato di Maastricht del 1992) e il suo funzionamento. In Sardegna è ben noto che questa formula finanziaria fu usata per l’Ente Flumendosa che permise al Campidano di uscire dalla sua drammatica scarsità di risorse idriche.
Gli imprenditori hanno invece sottolineato la drammatica carenza di un’amministrazione pubblica lenta e farraginosa. Naturalmente Scannapieco ha precisato che BEI e FEI non possono svolgere funzioni di supplenza in questa materia, ma ha aggiunto che è comunque in condizione di dare un qualche aiuto alle amministrazioni volenterose. In questi ultimi tempi non ho assistito a incontri più concreti e promettenti di quello di Napoli. Sarebbe stato opportuno tenere questo incontro in Sardegna o, quanto meno, riproporlo da noi. Pochi giorni prima è stata data la notizia che Taranto aveva ottenuto l’approvazione di Bruxelles di creare una zona franca. No comment.
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ita-roves1-192x256L’URTO DEL PENSIERO
Tre gradini per il baratro

— Paolo Ercolani, su il manifesto, 1.10.2014
È inu­tile girarci intorno. Tre sono i gra­dini che pote­vano con­durre il nostro Paese nel bara­tro. Ed è bene sapere che li abbiamo già per­corsi tutti e tre con appa­rente e beata inco­scienza. Il primo è quello della deriva etico-morale. Un Paese che non è riu­scito a tra­smet­tere ai pro­pri cit­ta­dini il senso della res publica, quindi del bene col­let­tivo e del patri­mo­nio nazio­nale; un Paese che non sa creare le con­di­zioni e le dina­mi­che per­ché fra i suoi abi­tanti, nei vari gan­gli vitali della sfera sociale, pos­sano emer­gere i più pre­pa­rati, i più volen­te­rosi, i più meri­te­voli, pro­prio per­ché anche così possa sal­va­guar­darsi e cre­scere lo stesso bene comune, ebbene que­sto Paese è già morto. È come una stella di cui ancora vediamo la luce pur sapendo che in realtà si è già spenta, e per que­sto non potrà con­ti­nuare a esi­stere nella rin­no­vata costel­la­zione. La poli­tica degra­data al livello del più bieco affa­ri­smo rap­pre­senta sol­tanto la punta estrema, più cla­mo­rosa e visi­bile, di un ice­berg che affonda ben in pro­fon­dità le sue radici, coin­vol­gendo tutti quei «cit­ta­dini» che i nuovi popu­li­smi vor­reb­bero dipin­gere come puri e incon­ta­mi­nati. Al punto che anche solo a uti­liz­zare ter­mini come «etica» e «morale» si fini­sce tac­ciati di inge­nuità, idea­li­smo, uto­pia. Eppure non sarò io, da filo­sofo, ad abdi­care al dovere umano e sociale di richia­mare l’urgenza, e per­sino la vera e pro­pria emer­genza, di un Paese che ha un biso­gno estremo di risco­prire, ridi­se­gnare e rior­ga­niz­zare il pro­prio impianto etico e morale. Certo, que­sto passa neces­sa­ria­mente per un serio pro­getto cul­tu­rale. Ma qui arri­viamo al secondo gra­dino. Quello della deriva pedagogico-culturale. Non ci giro intorno nean­che in que­sto caso: per me che svolgo esami uni­ver­si­tari con cadenza rego­lare è fin troppo facile, e penoso, regi­strare il fatto che, per esem­pio, sem­pre più stu­denti fati­cano enor­me­mente, e quindi spesso rinun­ciano, a leg­gere i libri di testo. Non è sol­tanto che poli­ti­che scia­gu­rate e decen­nali hanno impo­ve­rito e mar­gi­na­liz­zato la scuola; né che la com­mer­cia­liz­za­zione sel­vag­gia e incon­trol­lata dell’informazione e della comu­ni­ca­zione in genere ci ha con­dotto ad avere, per esem­pio (ma il discorso può essere esteso a tutto il «quarto potere»), una tele­vi­sione la cui pro­gram­ma­zione è diven­tata via via sem­pre più sca­dente, vol­gare e disin­te­res­sata agli effetti cul­tu­rali (e cogni­tivi!) che pro­du­ceva nei con­fronti dell’opinione pub­blica. C’è un terzo dato, per­lo­più igno­rato ma in realtà gra­vis­simo: la deriva cul­tu­rale e il pro­cesso di com­mer­cia­liz­za­zione sono stati così forti e per­va­sivi che, in buona sostanza, di fronte alla com­parsa della più grande inven­zione della con­tem­po­ra­neità, cioè Inter­net, si è del tutto rinun­ciato a pen­sare ad ogni minima forma di edu­ca­zione cri­tica al mezzo e di resi­stenza «uma­ni­stica» rispetto alle degra­da­zioni che il mezzo stesso pro­du­ceva. Soprat­tutto nei con­fronti delle gio­va­nis­sime gene­ra­zioni. È signi­fi­ca­tivo il fatto che a nes­suno mai ver­rebbe in mente di far affron­tare la vita a un bam­bino, senza che la scuola gli abbia potuto for­nire alcuni stru­menti. Eppure, per la vita vir­tuale (e sap­piamo bene che vir­tuale non signi­fica affatto irreale, forse tutt’altro) si è coscien­te­mente e deli­be­ra­ta­mente rinun­ciato ad ogni ten­ta­tivo di edu­care e for­mare menti che, durante la pro­pria cre­scita, sapes­sero uti­liz­zare que­sti mezzi straor­di­nari man­te­nendo auto­no­mia di giu­di­zio, capa­cità cri­tica, carat­te­ri­sti­che spe­ci­fi­che dell’essere umano come, per esem­pio, la let­tura appro­fon­dita, lenta, in grado di sedi­men­tarsi e pro­durre cono­scenza dure­vole nell’individuo. Igno­rare tutto ciò ha com­por­tato la rea­liz­za­zione di quello che Kurt Von­ne­gut aveva descritto nel suo romanzo visio­na­rio del 1952 (Player Piano), lad­dove descri­veva una prima rivo­lu­zione che sva­lu­tava il «lavoro musco­lare» (agri­col­tori), una seconda che svi­liva quello «ordi­na­rio» (arti­giani), men­tre alla fine ci si tro­vava di fronte alla terza rivo­lu­zione, quella in grado di ren­dere super­fluo il pen­siero umano, cioè il «vero lavoro intel­let­tuale». A chi ha gio­vato tutto ciò? Chi, con molta pro­ba­bi­lità e con com­pli­cità evi­denti da parte di una poli­tica inde­gna di que­sto nome, ha bene­fi­ciato di tutto ciò e in qual­che modo se ne è fatto arte­fice? Qui arri­viamo al terzo gra­dino, che al tempo stesso rap­pre­senta il filo rosso di col­le­ga­mento con gli altri due: quello di un Paese in cui si è con­sen­tito all’economia di dive­nire la scienza domi­nante, il sistema di valori più forte e indi­scu­ti­bile, la dimen­sione a cui votare tutto l’umano vivere e tutti gli sforzi sociali. All’economia ser­vono pro­dut­tori e con­su­ma­tori, non certo indi­vi­dui cri­tici e con­sa­pe­voli, for­niti di un baga­glio etico-morale che per­metta loro di cogliere la grande ric­chezza della vita umana al di là dei numeri, del pro­fitto e delle logi­che quan­ti­ta­tive in genere. Non ha destato lo scal­pore che avrebbe meri­tato, sen­tire Mario Monti che, da capo del governo, dichia­rava impu­ne­mente di tro­varsi lì per sod­di­sfare i mer­cati (invece che la qua­lità della vita dei cit­ta­dini che si tro­vava a gui­dare). Il nostro Paese que­sti gra­dini li ha scesi tutti e tre, con i risul­tati che sono sotto gli occhi di tutti. Non c’è e non ci sarà arti­colo 18, riforma del lavoro e della giu­sti­zia, né riforma costi­tu­zio­nale o fiscale che tenga, è bene sapere che non ci sarà riforma in asso­luto che potrà risol­le­varci se non sapremo risa­lire que­sti tre gra­dini, pro­vando a rico­struire l’impianto etico-morale, edu­ca­tivo e poli­tico del nostro Paese. Una poli­tica degna di que­sto nome dovrà saper ela­bo­rare un pro­gramma fat­tivo e con­creto in grado di affron­tare il bara­tro in cui ci hanno con­dotto que­ste tre derive. Dovrà saperlo fare in un ottica anche euro­pea, per ovvie ragioni, lad­dove l’Europa non potrà essere sol­tanto una fan­to­ma­tica entità finan­zia­ria che ci impone un rigore arit­me­tico e quan­ti­ta­tivo, ma anche un grande pro­getto di costi­tu­zione di una realtà in grado di tute­lare la qua­lità, il benes­sere e la spe­ci­fi­cità umana dei suoi cit­ta­dini. Una teo­ria che non trova sboc­chi sul ter­reno della realtà sociale è ste­rile tanto quanto una poli­tica che non sa darsi un pro­getto teo­rico e una mappa pro­gram­ma­tica risulta cieca, inef­fi­cace, inca­pace di inci­dere su un periodo più ampio. Pos­sono sem­brare ragio­na­menti idea­li­stici o per­sino uto­pi­stici, ma se per un attimo sol­tanto pen­siamo che essi rap­pre­sen­tano tutto ciò che da troppo tempo non fac­ciamo più, e di con­tro vediamo lo stato in cui ci siamo ridotti, beh, allora ci ren­diamo conto che se di uto­pia si tratta, è un’utopia quanto mai neces­sa­ria. Il corag­gio più grande risiede pro­prio nella forza e nella volontà di rispol­ve­rare un pro­getto appa­ren­te­mente desueto e idea­li­stico. Qui e ora!
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nave-in-tempesta2Nave-Sardegna senza rotta
con l’uomo solo al comando

di Oriana Putzolu, su Sardinews

Uno dei nemici più infidi dei lavoratori è la solitudine. Quel male oscuro che prende il padre di famiglia quando – ripiegate le bandiere sindacali, deposto il casco aziendale, appallottolato l’ennesimo volantino di protesta – guarda negli occhi moglie e figli e con lo sguardo annuncia altri mesi di precarietà, cassa integrazione, mobilità in deroga. Insomma la sospensione a tempo indeterminato del diritto al lavoro. Per molti è la disperazione, anche perché nessuno sembra in grado di comunicare progetti di speranza, obiettivi raggiungibili, concrete possibilità di cambiamento. Nessuno che indichi la rotta della nave-Sardegna per uscire definitivamente da una crisi ormai ventennale. Neppure la politica, che alterna regole della spending review a lunghi silenzi, tagli indiscriminati a voglia di non “disturbare il manovratore”. Anche nella nostra isola. “Agghiacciante”, avrebbe definito il ct della nazionale, Antonio Conte, la decisione del presidente Francesco Pigliaru di condurre nel più assoluto silenzio quel che si spera ultimo miglio della vertenza Alcoa. Un ordine da azienda ferrotramviaria – “non parlare al conducente” – assolutamente inaccettabile per il sindacato, non foss’altro perché sono in gioco gli assetti economico-produttivi di un territorio – il Sulcis-Iglesiente – da cinquant’anni al centro della tempesta industriale, e soprattutto il destino di 800 famiglie.
Sono trascorsi appena sette mesi dal 17 febbraio – l’annuncio della vittoria elettorale – e l’onorevole Pigliaru, sicuramente non per sua volontà, si comporta da “uomo solo la comando”. “La Regione documenta oggi un’insicurezza crescente, un disagio e una sfiducia persistenti. Solo il 7 per cento dei sardi ha fiducia nei partiti; il 14 nella giunta regionale, il 16 nel Consiglio regionale. Alla base di questi bassi livelli di fiducia istituzionale sta anche un forte deficit di partecipazione e coinvolgimento democratico. La cosiddetta non si nutre solo di malaffare e corruzione, ma anche di esclusione ed elitismo. Siamo convinti che la qualità delle istituzioni si misuri con la loro capacità di far partecipare i cittadini ai processi decisionali”. Così scriveva otto mesi fa non un pericoloso sovversivo demagogo, ma il tranquillo rassicurante professore universitario Francesco Pigliaru. Che, nel suo programma di governo “Cominciamo il domani”, così proseguiva: “…Partecipazione e inclusione rappresentano modalità attraverso le quali si costruiscono coesione e capitale sociale, senso di comunità e identità…la crisi non è del singolo, è dell’intera Regione che non risponde più della sua identità. La fatica di vivere nell’isola porta con sé il senso implicito di non appartenenza. La paura di non farcela (La solitudine del lavoratore, n.d.a). Noi vogliamo cambiare. Ce la faremo, perché la Regione è e sarà di tutti. Lo sarà se è per tutti e se è partecipata da tutti”. Il sindacato sottoscrive tutto il brano del “Pigliaru pensiero”.
Ormai è di moda silenziare i corpi intermedi, considerarli un intralcio a un rinnovamento di cui sarebbero depositarie solamente alcune elites politiche, partitiche e universitarie. In Sardegna dalla crisi delle miniere, della monocultura chimica, dalle aperture alla modernità del tessile, gli unici a pagare sono sempre operai e impiegati, lavoratori dipendenti, con posti di lavoro falcidiati e malamente compensati da vagonate di ore di cassintegrazione che precarizzano tutta la vita: prima quella lavorativa poi anche il dopo pensione. L’importo medio degli assegni Inps erogati nell’isola è 686 euro/mese non è un incidente di percorso, ma il frutto di forzata lunga convivenza con gli ammortizzatori sociali.
La rappresentanza collettiva è importante e la Giunta deve dialogare con la parte più responsabile del sindacato, soprattutto quello libero e confederale, non certo angelo custode di un esecutivo che non nelle aule consiliari e nei back office partitici, ma sul campo deve conquistare la fiducia dei lavoratori. In assenza di dialogo il ritorno in piazza per i sindacati sarà una scelta obbligata. Chi si mette alla guida della Regione accetta di investire sul futuro e scommette sulla propria capacità di indicare la rotta che conduce i cittadini nel porto sicuro del benessere socio economico e della sicurezza lavorativa. Sono passati 210 giorni dal 17 febbraio 2014 e le coordinate della navigazione dei quattro mori sardi sono ancora misteriose. All’orizzonte non si intravedono un piano energetico e un piano industriale, senza i quali l’economia sarda è destinata a una costante precarietà. Ancora tutta da elaborare una proposta articolata sulle modifiche alla struttura produttiva regionale per adeguarla ai tempi, ai mercati e alla concorrenza internazionale. Una cosa è certa: oggi la Sardegna è un territorio dove la manifattura avanzata ha scarsa rilevanza; dove prevalgono settori a minor contenuto tecnologico con imprese a bassa dimensione media. Una situazione venuta consolidandosi durante il decennio 2001-2011 che la crisi degli ultimi 5 anni ha cristallizzato. Secondo l’Istat il peso della manifattura sul totale degli addetti è diminuito dal 12,5 per cento al 9,4 ( dal 24,9 al 19,5 per cento in Italia). Mentre il calo nazionale è stato compensato da una maggiore presenza di industrie ad alto e medio contenuto tecnologico( 8,6 per cento), in Sardegna si è rimasti intorno al 4,1. Inoltre, la quota delle imprese ad alto e medio contenuto tecnologico nell’isola è passata dal 14,3 per cento all’8,9 del totale degli addetti manifatturieri.
Questi dati indicano chiaramente un punto imprescindibile del futuro piano industriale: gli investimenti in tecnologia, ricerca e formazione. La monocultura petrolchimica è al tramonto, ma non mancano le possibilità per mettere in movimento una “nuova industria” – di solo turismo non si vive – partendo da “su connottu”, cioè dalle peculiarità sarde. La prima è il mare: nautica, bacini di carenaggio, costruzioni navali da diporto e industriali e relative forme artigianali. La seconda è l’industria farmaceutica e parafarmaceutica collegata alle erbe officinali. A seguire la filiera agroindustriale – per colmare il deficit del comparto alimentare dipendente per l’80 per cento dall’import nazionale e internazionale -; del marmo/granito fermo ancora alle lavorazioni primarie; del recupero ambientale degli ex siti industriali: non meno di 600 milioni le risorse “da sbottigliare” in questo settore, per continuare con le vocazioni territoriali, soprattutto quelle ecocompatibili.
Da non dimenticare il sistema dei beni culturali e ambientali, tesoro sottovalutato, spesso ignorato. I dati più recenti, provenienti dal sistema camerale, disegnano una Regione che non valorizza completamente i suoi beni più preziosi e questo lo dimostra la difficoltà dell’isola nell’attrarre una quota adeguata di fruitori sui giacimenti della sarditá. Un recente rapporto Unioncamere attesta che la cultura rende al Paese 80 miliardi di euro all’anno, pari al 5,7 per cento della ricchezza complessiva. Nella nostra Regione nel 2013 il valore aggiunto del sistema culturale è stato di 1.061,9 Mil/€, pari all’1,4 per cento della ricchezza totale prodotta dal settore in Italia e al 3,7 per cento del totale del valore aggiunto realizzato in Sardegna dalle aziende private.
Il sindacato è d’accordo con il Presidente Pigliaru. “ Cominciamo il domani” significa anche restituire ai sardi ottimismo e fiducia. “ Un ottimismo basato su cose concrete e progetti responsabili. Non su slogan e propaganda. Non solo l’ambizione di tornare semplicemente ai livelli del passato, ma quella, più impegnativa, di rimuovere con coraggio i problemi strutturali che, per troppo tempo, hanno compromesso le nostre potenzialità di crescita. E’ un progetto ambizioso, ma possibile, se saremo disposti a orientare ogni politica pubblica, ogni risorsa investita, in funzione di obiettivi misurabili in termini di creazione di posti di lavoro, di efficiente utilizzo delle risorse naturali e ambientali, di effettiva capacità del nostro sistema economico e sociale di essere inclusivo superando ogni disparità tra giovani e meno giovani, tra donne e uomini, tra aree urbane e rurali”.
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L’Ue, il Pil, Bertold Brecht
e il formaggio del pastore

di Gianfranco Bottazzi, su Sardinews

Nel vacanziero clima di agosto si è acceso un breve dibattito sulla questione se contare o non contare nel Prodotto interno lordo (Pil) le attività illegali della cosiddetta economia criminale. In sostanza, nel calcolare il Pil, conformemente a un regolamento europeo approvato nel 2010, si tratterebbe di aggiungere i proventi delle attività criminali, dal traffico di droga alla prostituzione, eccetera. Vi è stata una levata di scudi di magistrati e associazioni dei consumatori, che accusano di “immoralità” una scelta di questo genere. E naturalmente una protesta dell’opposizione, dai Cinque Stelle all’immarcescibile Maurizio Gasparri, che hanno accusato il governo di voler aumentare il Pil artificiosamente a fini di propaganda. Sgombriamo il campo da quest’ultima critica: poiché il ricalcolo del PIL si applicherebbe anche agli anni precedenti, il risultato sarebbe comunque un incremento di pochi decimi di punto percentuale. In ogni caso, bisogna aspettare i conti dell’Istat per capire meglio. Inoltre, le critiche dimenticano che l’Istat è tenuta da regole internazionali (Maastricht per esempio) ad adottare gli stessi criteri che vengono definiti per tutta l’Unione Europea.
Il problema tuttavia del breve dibattito estivo è altro. È in primo luogo la diffusa e sostanziale ignoranza (solo in parte colpevole) relativamente al Pil e al suo uso. Considerato che l’andamento del Pil condiziona pesantemente le nostre vite quotidiane, sarebbe se non altro un esercizio di democrazia sapere come è calcolato, cosa prende in considerazione, in altre parole cosa c’è dentro. Come diceva Bertold Brecht, “controlla il conto, sei tu che lo devi pagare!”. Per come il Pil è definito e calcolato non solo non è strano che si considerino le attività illegali produttive di reddito, ma anzi questa “correzione” potrebbe essere presentata come una risposta a una delle principali critiche che da tempo vengono mosse al Pil, quella di non considerare le attività sommerse o informali.
Il Pil è un indicatore, soggetto a periodiche revisioni, che viene messo a punto negli anni successivi alla grande crisi del 1929 e perfezionato negli anni della Seconda Guerra mondiale e subito dopo. All’inizio il problema era quello di valutare il reddito disponibile e il potenziale produttivo di un Paese. Nei primi tentativi, si lasciano fuori la pubblica amministrazione e le intermediazioni finanziarie, considerate come non rilevanti in quanto fondamentalmente “improduttive” ancorché utili (non aggiungono valore a quanto viene prodotto). Le prime linee guida furono pubblicate dall’Onu nel 1947, seguite da un più organico manuale della contabilità nazionale nel 1953. L’amministrazione pubblica è inclusa, ma non le attività di intermediazione finanziaria. Mentre i sistemi di rilevazione e misura si perfezionano continuamente, nel 1968 esce un nuovo corposo rapporto metodologico, nel quale la finanza diventa “implicitamente produttiva” e se ne valuta l’apporto indiretto alla produzione. Nel 1993, infine, un ulteriore manuale decide che l’intermediazione finanziaria è “direttamente” un’attività produttiva e da quel momento viene computata all’interno del Pil. Si consideri che, dal 1970 al 2012, all’interno dell’area Ocse, ossia quella che comprende tutti i Paesi più economicamente avanzati, il credito e la finanza passano dal 15 per cento circa del 1970 al 30 del 2012 come contributo al Pil.
Non pare affatto casuale che questa modifica contabile avvenga proprio nel momento in cui – nel quadro dell’egemonia neo-liberista – avanza spettacolarmente, a livello mondiale, quella finanziarizzazione dell’economia che sarà responsabile in gran parte della crisi nella quale ancora ci si dibatte. In tutto il periodo che va dalla prima costruzione di complessi sistemi di contabilità nazionale necessari per calcolare il Pil a oggi, continui aggiustamenti e allargamenti hanno avuto luogo, come ad esempio, in Italia, quando nel 1987 fu introdotta una stima per comprendere il peso dell’economia sommersa, stima che produsse il “sorpasso” sulla Gran Bretagna dell’Italia che, peraltro solo per qualche anno, divenne la quinta economia mondiale. In realtà, si è trattato di un processo continuo di allargamento dei confini di quelle che venivano considerate attività “produttive”. Ma dietro questo processo non c’è solo un affinamento e delle tecniche statistiche. C’è piuttosto la storia di come l’economia è andata definendo se stessa, imponendo una visione dominante non solo dei rapporti economici, ma anche e soprattutto dei rapporti sociali. Il Pil non è altro che lo specchio di una visione dei fatti economici e sociali che oggi appare egemonico, nonostante la serie lunghissima di critiche che al Pil e al suo uso sono state fatte.
Questa visione ha il suo punto forte sul postulato della “amoralità” della scienza economica. Rispetto alle preoccupazioni anche “morali” degli economisti classici, che si interrogavano sul carattere produttivo o meno di un’attività, sul suo valore per l’economia nel suo complesso (e per la collettività), l’economia neo-classica oggi dominante ha al suo centro il concetto di utilità: ogni reddito, ottenuto in qualunque modo e per qualunque motivo, aumentando l’utilità di un individuo si aggiunge alla prosperità generale, dunque contribuisce al Pil. Di fatto, una delle parole stesse che compongono la nostra sigla – “Prodotto” – non avrebbe più ragione di essere. Al massimo possiamo parlare di reddito, ricavo, percepimento di denaro. Una speculazione finanziaria che ha successo, la distruzione di un ambiente incontaminato che produce reddito per chi la opera, la produzione e vendita di un cibo adulterato, entrano tutti nel Pil. Esattamente come il formaggio prodotto e venduto dal pastore (mentre se il pastore fa il formaggio per sé e per i suoi amici, senza venderlo, non contribuisce al Pil). Non c’è niente di strano, dunque, in questa logica, se anche la droga, il contrabbando, la prostituzione, eccetera vengono considerati ai fini del Pil: fanno circolare denaro, producono uno scambio, che alimenta consumi anche perfettamente legali e dunque fa girare la giostra del Pil.
La questione che emerge è relativa al fatto che, se mai lo è stato, il Pil appare oggi largamente inadeguato come strumento di valutazione della salute economica e sociale di un Paese o di un territorio. Eppure come si accennava all’inizio esso condiziona pesantemente le nostre vite, proprio perché, malgrado l’inadeguatezza, la sua assunzione e imposizione come parametro centrale, ha una serie di effetti perniciosi. Nell’Unione Europea, infatti, non è solo un indicatore ma un “vincolo” politico fissato dai trattati a partire da quello nodale di Maastricht. Il contributo di ogni Stato al bilancio della Commissione Europea si calcola sulla base del Pil, il debito pubblico si calcola in rapporto al Pil e, se questo diminuisce, più facilmente scattano le procedure sanzionatorie e, soprattutto è più probabile che i cosiddetti “mercati” (gli investitori istituzionali e non che debbono comprare i titoli del debito italiano) siano maggiormente recalcitranti rispetto ai buoni del tesoro italiani. Con buona pace di chi scriteriatamente dice che lo spread (la differenza tra il tasso di interesse che lo Stato italiano paga sui suoi titoli e il tasso che paga la Germania sui suoi bond) non conta niente, gli interessi che lo Stato paga ai possessori di titoli di Stato può variare di molto, ed è lo Stato italiano – e dunque tutti i cittadini – che pagano di più o di meno.

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