Jobs act e ordinaria manipolazione

Houdini Gonariodi Gonario Francesco Sedda

«Il governo valuta che le riforme del lavoro contenute nel jobs act produrranno un effetto positivo sul Pil dello 0,9% nel 2020 mentre, nel lungo termine, l’impatto sul Pil sarà dell’1,6%. È quanto si legge in uno dei documenti inviati alla Ue in vista della valutazione definitiva della Legge di Stabilità 2015, attesa nelle prossime settimane. Il governo italiano stima che le riforme avviate potranno produrre un impatto complessivo sulla crescita del 3,6% nel 2020». Così l’ANSA, il 21 febbraio 2015; così (rilanciando quasi con le stesse parole) La Stampa, il Corriere della sera, La Repubblica e altri giornali cartacei e/o online; così anche i notiziari delle radio e TV pubbliche e private. Nessuna domanda e nessun commento. Che agli esaminatori della Ue non arrivi neppure l’eco di qualsivoglia riserva!. Tutti speranzosi e ottimisti dietro l’energico pifferaio Matteo Renzi.

Ma i documenti inviati alla Ue dal Ministero dell’economia e delle finanze [2014: A turning point for Italy, e in particolare la parte riguardante “The impact of structural reforms in Italy”] sono la riproposizione della quotidiana e cinguettante propaganda renziana alla quale viene giustapposta la pretesa di darle un fondamento “scientifico” utilizzando modelli matematici, predittivi delle conseguenze delle decisioni politiche. Il fatto è che raramente questo tipo di previsioni si avverano con approssimazione accettabile. Sia il Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) e altri centri di studio in Italia sia il Fondo monetario internazionale (FMI), l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) e altri centri di studio nel mondo sbagliano quasi sempre o molto spesso nelle loro previsioni, persino quando riguardano l’arco temporale di un anno. Come mai si continua a far ricorso a previsioni che sono inefficaci (non si avverano) e inefficienti (spreco di risorse per la loro messa a punto)? Il fatto è che sono molto utili come strumento (misterioso, accessibile a pochi nella sue procedure di messa a punto, intimidatorio) per orientare la politica, per alimentare la propaganda ideologica in chiave egemonica, per far crescere la fiducia attorno a un determinato governo o al contrario per creare un clima generale di insicurezza e di terrore: con le buone o con le cattive maniere occorre obbedire a chi comanda.

Torniamo ai dati. L’estrazione che ne ha fatto l’ANSA è discutibile. Infatti il documento del Mef fa riferimento a due scenari che danno risultati diversi: uno scenario che considera i provvedimenti che sono diventati legge e vengono pienamente applicati (Trend scenario) e uno scenario che considera, in aggiunta a tutti i provvedimenti diventati legge e applicati, anche i provvedimenti che non sono ancora diventati legge, ma che il governo ha in programma di far approvare dal Parlamento in un futuro vicino (Policy o Planned scenario). I numeri del secondo scenario (Planned scenario) sono più grandi di quelli del primo (Trend scenario).

Prima dell’approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act, l’effetto positivo sul Pil della riforma del mercato del lavoro previsto per il 2020 era dello 0,4% e nel lungo periodo dell’1,4%.
Dopo l’approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act, l’effetto positivo sul Pil della riforma del mercato del lavoro previsto per il 2020 dovrebbe essere (Planned scenario) dello 0,9% e nel lungo periodo dell’1,6%.
Dunque l’effetto positivo del solo Jobs Act è dato dalla differenza tra il secondo scenario e il primo, cioè 0,5% per il 2020 e 0,2% nel lungo periodo.
I valori degli scenari si riferiscono all’effetto dell’intera riforma del mercato del lavoro (Labour market): nel primo scenario l’effetto del Jobs Act non c’è perché i decreti attuativi non erano stati approvati al momento dell’elaborazione, ma c’è l’effetto di altri provvedimenti diventati legge (infatti il valore è 0,4 e non zero); nel secondo scenario l’effetto del Jobs Act c’è perché l’approvazione dei decreti attuativi era già stata programmata e si aggiunge all’effetto dei provvedimenti già diventati legge.
Ma perché per l’effetto dell’intera riforma del mercato del lavoro i riferimenti nel tempo sono il 2020 e il lungo periodo? Mancano forse altri dati? No, i dati ci sono. Solo che quelli del 2020 e del lungo periodo fanno una qualche impressione e dunque fanno più propaganda, gli altri invece meno.
PRIMO SCENARIO: 0,1% nel 2015; 0,2% nel 2016; 0,3% nel 2017; 0,3% nel 2018; 0,4% nel 2019.
SECONDO SCENARIO: 0,1% nel 2015; 0,3% nel 2016; 0,5% nel 2017; 0,6% nel 2018; 0,8% nel 2019.
Per differenza l’effetto previsto del Jobs Act sul Pil risulta: 0,0% nel 2015; 0,1% nel 2016; 0,2% nel 2017; 0,3% nel 2018; 0,4% nel 2019. Sarebbero queste le previsioni così esaltanti da spingere M. Renzi a vantarsi con spavalda sfacciataggine di aver rottamato l’art. 18 e manomesso lo Statuto dei lavoratori?
Infine, che affidabilità può avere una previsione sul lungo periodo con un solo dato … senza data?! È una previsione fino al 2030 o fino al 2040 o oltre? E dove sarà finito il pifferaio M. Renzi nel 2030 o nel 2040 o oltre? Il fatto è che anche un “indeterminato” lungo periodo con un effetto del 1,6% di crescita del Pil dovuto a “tutti” i provvedimenti di riforma del mercato del lavoro (Planned scenario) serve a far colpo e propaganda “nel breve periodo”: in vista di probabili elezioni nella primavera del 2016 o della normale scadenza elettorale del 2018. Nascondendo che il contributo del Jobs Act rispetto agli altri provvedimenti di riforma del mercato del lavoro è solo di 0,2% nel lungo periodo, appunto la differenza tra il valore del secondo scenario (1,6%, Planned scenario) e il primo scenario (1,4%, Trend scenario). E così M. Renzi, il molesto e cinguettante dispensatore di fiducia, può continuare a imperversare.
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*anche su Democraziaoggi
- Nell’illustrazione Poster spettacolo di Harry Houdini, illusionista
- Renzi Houdini.
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Agenzia-sarda-delle-entrate VBAGENZIA SARDA delle ENTRATE
di Piero Marcialis
Il primo segnale della volontà di indipendenza di un popolo viene dato storicamente dal rifiuto di pagare le imposte a uno Stato oppressore.
E’ ridicolo versare soldi a uno Stato come l’Italia che deve ai sardi miliardi di euro.
Il primo segnale della volontà di indipendenza delle colonie americane dall’Inghilterra fu il rifiuto di pagare le imposte.
Il primo segnale della volontà di indipendenza del popolo irlandese fu il rifiuto di pagare tributi all’Inghilterra e di costituire una cassa irlandese dove versare le imposte.
Il primo segnale della volontà di indipendenza dell’India fu il rifiuto di pagare tributi all’Inghilterra.
I sardi sopportano uno Stato debitore che occupa e inquina il loro territorio senza alcuna contropartita, ma hanno un governo regionale che si contenta della restituzione di briciole ed è fedele al PD del signor Renzi, che ha rifiutato qualsiasi aiuto ai disastrati di Olbia e altri paesi e che sta per eliminare persino la possibilità statutaria di una agenzia delle entrate sarda. Coraggiosamente i valorosi governanti sardi hanno anticipato la mossa e si sono essi stessi rifiutati di avere una propria agenzia. Di questo governo regionale fanno parte forze che si richiamano al sardismo, al sovranismo e all’indipendentismo. Complimenti.
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- La fotocomposizione è tratta da un articolo sull’Agenzia Sarda Entrate pubblicato sul blog di Vito Biolchini.

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