SA DIE DE SA SARDIGNA DIMENTICATA

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di Francesco Casula

A pochi giorni dalla ricorrenza del 28 aprile, in extremis si cerca di “recuperare” Sa Die de sa Sardigna, prevedendo diverse iniziative nei quattro capoluoghi storici con un nutrito programma di eventi culturali. In realtà Pigliaru e la sua Giunta certificano l’interramento della Giornata del popolo sardo. Non solo e non tanto per l’esiguità dei finanziamenti previsti, o per l’improvvisazione e i ritardi, quanto perché si è smarrito il senso originario e autentico di Sa Die.
Istituita dal Consiglio regionale il 14 settembre 1993, come vera e propria Festa nazionale del popolo sardo, per ricordare la cacciata dei Piemontesi da Cagliari, nei primi anni di vita è stata caratterizzata da centinaia di iniziative, partecipate diffuse e ubiquitarie, in tutta l’Isola. Soprattutto nelle scuole. Con decine e decine di docenti, storici, giornalisti, esperti organizzati nel “Comitato pro sa Die” presieduto dal professor Giovanni Lilliu e nato dall’incontro di numerose Associazioni culturali, con la Fondazione Sardinia in prima fila.
Per anni, questa legione di studiosi è stata impegnata a “visitare” le scuole sarde, di ogni ordine e grado, per parlare e discutere con gli studenti di cultura, storia e lingua sarda: rigorosamente escluse dalla Scuola ufficiale. Probabilmente quest’opera iniziale di studio, ricerca, confronto, sensibilizzazione “ha spaventato soprattutto la politica”, come opportunamente ha scritto Vito Biolchini. Così la “Festa” da occasione di studio e di risveglio identitario si riduce nel tempo a rito formale e liturgia vuota. Con l’Amministrazione Soru viene annacquata e svuotata dei significati storici e simbolici più “eversivi”. La Giunta di Cappellacci la stravolge del tutto: viene addirittura dedicata alla Brigata Sassari! E oggi Pigliaru, la seppellisce definitivamente, sic et simpliciter.
E’ stato anche sostenuto che l’esaurimento della forza propulsiva di Sa Die sia da ricondurre alla “debolezza” dell’Evento del 28 aprile. Non sono d’accordo. Non si è trattato di “robetta”: magari di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi: come pure è stato scritto. A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni Girolamo Sotgiu. Non sospettabile di simpatie “nazionalitarie” il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filo sabaudi, come il Manno o l’Angius al 28 aprile, considerato alla stregua, appunto, di una congiura. “Simile interpretazione offusca – scrive Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali».
“Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale”,
A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni. Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci, inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.
Questo a livello storico: c’è poi il significato simbolico dell’evento: i Sardi dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”. E cacciano Piemontesi (con Nizzardi e Savoiardi), non per motivi etnici, ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere. Sono infatti militari, funzionari, impiegati. Cagliari all’alba dell’800 contava 20.000 abitanti, la burocrazia e il potere piemontese 514 esponenti: più di uno per ogni 40 cagliaritani!
Al di là comunque di tutto questo e dello specifico avvenimento, quello che è importante oggi nella Festa di Sa Die de sa Sardigna è proprio il suo il valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante. Sia ben chiaro: nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza; quel mondo grande e terribile di cui parlava Gramsci.
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Giovanni Lilliu, intervista rilasciata a Francesco Casula per Cittàquartiere, nel maggio del 1987.

Dall’intervista a Giovanni Lilliu di Francesco Casula su Cittàquartiere del maggio 1987 (Nuova serie anno II n. 3-4 marzo-maggio 1987).

Professore, contro un luogo comune diffuso qui da noi ma anche fuori, di una Sardegna storicamente “chiusa” nel suo guscio, lei ha sostenuto anche recentemente proprio in occasione dell’inaugurazione dell’Anno accademico [si trattava dell'Anno accademico 86-87 dell'Università di Cagliari], la tesi del popolo sardo “navigatore”.
Esattamente. Ho parlato della Sardegna aperta alle comunicazioni esterne, a relazioni e al commercio, anche contro la tesi dello storico Lucien Febvre che contrappone la nostra Isola “conservatoire” alla Sicilia, crocicchio di incontri e commerci. Fonti storiche, letterarie, reperti archeologici alla fine del secondo millennio a.C. ci documentano che la Sardegna riceve ceramiche dal mondo Miceneo e nello stesso tempo esporta manufatti, ceramiche e prodotti minerari nell’Italia centrale e nella Sicilia.
(…) Ancora oggi inoltre possediamo centinaia di navicelle di bronzo delle botteghe sarde, conservate nei musei della Sardegna – a Cagliari in particolare – e all’estero. Moltissime ne sono state trovate nelle necropoli etrusche. Lo storico e geografo Strabone parla dei Sardi che pirateggiavano le coste di Pisa.

Professore, ma quand’è allora che i Sardi si “chiudono” e iniziano a porre in atto quella che lei chiama “costante resistenziale”? Fin dai Fenici?.
No, dopo. I Fenici praticarono un colonialismo di mercato non di piantagione. Non tolsero la libertà all’isola: la loro egemonia fu mercantile non politico-militare. Questa iniziò con i Cartaginesi e i Romani. I Sardi la “resistenza” iniziarono a dimostrarla nelle guerre combattute contro Cartagine e poi via via – ecco la “costante” contro i Romani, nelle grandi guerre sardo-catalane, durante quasi un secolo, nella cacciata dei Piemontesi, nei Moti Angioini, nelle sommosse di “Su Connotu”. E poi vi è la resistenza  ”passiva”, contro la gente che viene da fuori, dal mare. In sintesi direi che la resistenza inizia quando l’isola perde la libertà e sovranità ed è assoggetata alle potenze straniere, quando intorno al 510 i Cartaginesi sconfiggono gli indigeni e respingono i Sardi verso le riserve (le zone interne) privati del mare. Di qui la battaglia strategica, oggi quanto mai attuale, di “riconquistare” il mare per riconquistare la libertà.


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