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Editoriali
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Emergenza/Disastro Sanità
di Fiorella Farinelli*
Coprono i buchi di organico, fanno turni notturni e festivi di 12 ore filate, operano in luoghi spesso difficili, cambiano frequentemente sede, non hanno contratti stabili, ferie e malattia sono a loro carico. Il ritratto perfetto dei «lavoratori poveri», quelli con retribuzioni insufficienti che a quel tipo di prestazione sono costretti in mancanza di meglio. Ma non è così per la maggioranza dei «gettonisti» della sanità, i tanti medici a cui da qualche tempo ricorrono le Asl e gli ospedali che non hanno abbastanza anestesisti per le sale operatorie e le terapie intensive, specialisti in medicina d’urgenza per i pronto soccorso, ostetrici, ginecologi, pediatri ed altri profili. A fornirli, a caro prezzo, sono cooperative che ingaggiano neolaureati, pensionati, professionisti privati che «arrotondano», e tanti altri che nel servizio sanitario pubblico non vogliono entrare o che lo abbandonano perché stremati dal troppo lavoro degli anni del Covid, dalle ferie non godute, dagli straordinari sottopagati, dai turni resi massacranti dai deficit di organici, da retribuzioni considerate troppo basse rispetto alle aspettative maturate in un percorso di formazione generale e specialistico di almeno undici anni. Dal punto di vista economico è in effetti un affare. Conti alla mano, e calcolando i 267 giorni annuali di lavoro con turni giornalieri di 6 ore e 20 minuti, un medico ospedaliero assunto da più di 15 anni guadagna 52 Euro lordi l’ora, un medico a gettone una media di 87. Se il primo arriva a una retribuzione annuale di 85.000 Euro, al secondo bastano 84 turni (di 12 ore) per arrivare a 87.000. Grazie alla flat tax introdotta dalla legge di bilancio 2023 che dà importanti vantaggi fiscali ai lavoratori autonomi, pagherà inoltre anche meno tasse, a parità di stipendio, dei colleghi che sono lavoratori dipendenti.i rischi per i pazienti
Ci sono rischi per i pazienti. Manca infatti ancora una regolamentazione nazionale che assicuri buoni ed omogenei standard di efficienza e qualità. Quindi la lucidità, la prontezza, la capacità di adattarsi all’organizzazione, la competenza diagnostica e operativa del medico turnista dipendono dalla serietà delle cooperative. Di dubbi ce ne sono tanti. Una recente indagine dei Nas che tra novembre e dicembre scorso ha svolto verifiche a campione su più di 1500 medici delle cooperative in tutta Italia, ha trovato parecchie cose che non vanno, medici arruolati senza le giuste competenze, dipendenti di altri ospedali che fanno i doppi turni di nascosto per fare un po’ di soldi, medici ultrasettantenni, giovani inesperti. La medicina pubblica perde ogni giorno in umanità e attenzione alle persone, la discontinuità delle prestazioni minaccia la bontà delle diagnosi e delle cure. Secondo un’indagine di Report (corriere.it), il fenomeno è molto esteso. Nel 2022 solo i turni appaltati in quattro regioni del Nord (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna) sono stati più di 100.000. Con costi altissimi per le casse regionali. Ciononostante, i prontosoccorso sono ingorgati e le liste di attesa lunghissime. Ogni giorno le cronache danno conto di pazienti esasperati e il personale più esposto chiede presidi delle forze dell’ordine, telecamere di sorveglianza, perfino corsi di autodifesa. E molti malati, sempre di più, devono ricorrere alla medicina privata, o rinunciare alle cure.la carenza di specialisti ed infermieri
Le cause sono note, ma i rimedi sono una sfida ancora terribilmente incerta, di sicuro non rapida, difficilmente risolutiva. Perché la crisi è sistemica, e risolverla richiede una svolta insieme politica, finanziaria, organizzativa che ancora non si vede. A differenza di quello che spesso si dice, in Italia non ci sono meno medici rispetto ad altri Paesi europei (4,1 ogni 1000 abitanti, un tasso superiore a Francia, Germania, Regno Unito), mancano semmai i profili meno attrattivi delle postazioni più stressanti, come la medicina d’urgenza, gli anestesisti, gli specialisti in rianimazione, che non consentono la combinazione tra lavoro dipendente e autonomo e non prevedono agevoli percorsi di carriera, il personale medico si concentra inoltre nelle aree urbane lasciando sprovvisti i piccoli centri, le differenze territoriali sono molto consistenti. Le carenze numeriche più gravi riguardano il personale infermieristico, 5,4 su 1000 abitanti (in altri Paesi il tasso è di molto superiore, in Svizzera più del doppio). Ma il drammatico sottofinanziamento delle aziende sanitarie e il Patto di stabilità che nel 2009 ha bloccato la spesa pubblica sanitaria al livello del 2004 hanno fatto perdere al Servizio nazionale, tra il 2010 e il 2018, 45.000 unità di personale, solo parzialmente recuperato con le 17.000 assunzioni in deroga per l’emergenza Covid. Il tetto alle assunzioni è comunque ancora in vigore, le retribuzioni sono significativamente più basse che in altri Paesi europei, la contrattazione collettiva (sono tre i contratti per i 700.000 sanitari in forza al servizio pubblico) è sempre in grave ritardo, siamo nel 2023 e si sono appena stipulati accordi relativi al 2019-21. Il resto lo hanno fatto i pensionamenti anticipati, la «grande fuga» dal servizio pubblico del dopo Covid, l’incremento dei costi delle forniture e dell’energia spinto dall’inflazione e dalla guerra in Ucraina.la scarsità delle risorse e la speranza del pnrr
Le risorse del Fondo Sanitario nazionale, tra quello che si è perso e quello che si è recuperato, sono state e restano insufficienti ad assicurare una crescita normale della spesa sanitaria, richiesta anche dall’invecchiamento della popolazione e relativo incremento del bisogno di cure specialistiche e terapie riabilitative lunghe e costose. Alcune Regioni corrono ai ripari, oltre che appaltando all’esterno parte dei servizi, anche introducendo indennità per il personale dipendente, lo fanno soprattutto quelle a statuto speciale come Val d’Aosta, Trento e Bolzano, Friuli che hanno più autonomia organizzativa e di spesa, ma anche in Veneto ci sono incentivi per frenare le fughe verso condizioni di lavoro e retributive migliori (ma intanto molti infermieri del Nord della Lombardia vanno a lavorare in Svizzera). La strategia più importante che è stata delineata, decisiva per allentare l’impatto sulle strutture ospedaliere, è quella, finanziata con i 20 miliardi del Pnrr, del potenziamento della medicina generale e della pediatria di base. La cosiddetta medicina di «prossimità» a più bassa intensità e complessità di diagnosi e di cura che passa attraverso la costituzione di 1430 «Case di comunità sanitaria», che si stanno in effetti costruendo, ristrutturando e anche inaugurando in tutta Italia. Ma per renderle tutte funzionanti H24 e sette giorni alla settimana, ci vorrà del tempo, e forti investimenti in attrezzature sanitarie e in personale. Perché al loro funzionamento dovranno concorrere anche i medici cosiddetti di famiglia che, come si è visto nelle fasi acute della pandemia, sono anch’essi un comparto in piena crisi, di numeri, efficienza, nuovi ingressi. Non solo perché i neolaureati accedono sempre meno a questi percorsi di specializzazione ma perché va radicalmente modificato il modello di impiego attualmente vigente, quello per cui il medico di base è un professionista in rapporto convenzionato con le Regioni, con un obbligo di presenza in studio limitato a sole 15 ore settimanali su cinque giorni che lascia i malati privi di assistenza di notte, nei giorni festivi e prefestivi. Un corpo professionale invecchiato che opera in sedi per lo più sprovviste dei più elementari strumenti diagnostici, che deve sbrigare una quantità enorme di richieste di prescrizione farmaci e di visite specialistiche, che può avere fino a 1.500 pazienti e qualche volta ne ha molti di più. Nelle «Case di comunità» dovranno esserci anche loro, oltre a specialisti di vario tipo, infermieri, tecnici di laboratorio, amministrativi. Occorrono quindi nuove modalità di impiego, nuove assunzioni, nuove forme di integrazione tra diversi servizi sanitari e di interazione tra questi e i servizi sociali. Un disegno non impossibile, che promette un importante rilancio e riqualificazione del servizio sanitario nazionale e della professione medica che potrebbe rimotivare molti giovani medici. Perché il livello di retribuzione è una cosa importante ma non è tutto, conta anche l’orgoglio del lavoro ben fatto, la soddisfazione di essere messi nelle condizioni di crescere professionalmente, di poter essere fedeli ai principi di un servizio essenziale e davvero universalistico, di contribuire a un bene comune su cui si fonda il sentimento stesso di appartenenza a una comunità di eguali.il ritardo nella consapevolezza politica
A che punto siamo? Dopo la terribile stagione del Covid, che ha messo a durissima prova gli ospedali pubblici ma ha anche reso del tutto evidente alla pubblica opinione la straordinaria importanza di una sanità capace di misurarsi sia con l’emergenza che con la normalità, erano in molti ad aspettarsi che le sue criticità, già acute prima della pandemia, fossero messe finalmente al centro dell’azione politica. Non è andata così. La legge di bilancio per il 2023 presenta ancora una volta un finanziamento della sanità largamente inadeguato e, quel che è forse ancora peggio, una scarsa consapevolezza della gravità dei suoi problemi. Come tutti gli osservatori indipendenti hanno fatto osservare, mancano 1 miliardo e 200 milioni all’indiscutibile e preliminare obiettivo di preservare il suo potere d’acquisto dall’impatto dell’inflazione e dell’incremento dei costi energetici. Non solo. Non è stato rimosso il tetto di spesa che impedisce l’assunzione di nuovo personale, in primis infermieristico, non ci sono risorse per intervenire sul disagio dei settori più in difficoltà come la medicina d’urgenza, per asciugare le liste di attesa, per aggiornare l’elenco e gli standard delle prestazioni essenziali, per definire con le Regioni il nuovo Patto per la Salute 2022-24 che dovrebbe accompagnare e supportare l’attuazione della strategia del Pnrr sulla medicina territoriale. «Si poteva fare di più», ha riconosciuto la presidente del consiglio Meloni. Appunto. Ma come si spiegano, in questo quadro, gli investimenti a favore del calcio, i vantaggi fiscali a certe categorie, i pensionamenti anticipati che premiano alcuni gruppi e così via? La tempesta resta perfetta, e i rischi per la coesione sociale del Paese non possono che acuirsi. Almeno finché, anche in altri luoghi della politica, a partire da quelli territoriali, non ci si decida a cambiare passo, priorità, idee, linguaggio.* Fiorella Farinelli su Rocca n.4 del 15 febbraio 2023.
————-Per connessione————–
E in Sardegna?
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Sanremo: non sono solo canzonette
Zelensky a Sanremo? No! Invece messaggi di Pace.
03-02-2023 – di: Domenico Gallo su VolerelalunaDa tempo immemorabile il Festival di Sanremo rappresenta la più seguita manifestazione popolare italiana. Ogni anno milioni di persone seguono lo spettacolo trasmesso in mondovisione dalla Rai. Che piaccia o meno, il Festival esprime anche sul piano internazionale un aspetto della nostra identità culturale. Del resto l’Italia ha lanciato da Sanremo successi planetari che celebrano la vita, la felicità e l’amore. Non sono solo canzonette, il palcoscenico del festival è un’occasione ambita per messaggi di costume e di cultura varia che contribuiscono a delineare una sensibilità comune, uno specchio nel quale possono riconoscersi ampi strati della popolazione italiana. Entro certi limiti Sanremo svolge una funzione di educazione popolare, se noi pensiamo, per esempio, ai monologhi di Paola Cortellesi e Laura Pausini sulla violenza alle donne, di Pierfrancesco Savino con la poesia dei migranti, di Benigni o di altri artisti incentrati sui valori civili.
[segue]
Proprio per questa sua funzione mediatico-popolare, ci inquieta profondamente apprendere che, in una delle serate clou dell’evento, presumibilmente sabato 11 febbraio, interverrà Volodymyr Zelenskij, capo di Stato di uno dei due paesi che oggi si affrontano in una guerra sanguinosa e atroce. Da Zelensky, impegnato in una guerra senza quartiere contro la Russia per conto della NATO e degli USA, possiamo attenderci solo parole di esaltazione della guerra e di odio mortale contro il nemico. Un odio così profondo da fargli rifiutare ogni negoziato e accettare qualunque sacrificio della sua gente per prolungare la guerra, inseguendo il sogno di una vittoria impossibile contro una potenza nucleare. In questo modo in una manifestazione di cultura popolare verrebbe innestata una assurda apologia della guerra. Durante il fascismo si educavano le giovani generazioni con lo slogan “libro e moschetto”, adesso rischiamo di orientare la cultura popolare verso l’esaltazione della guerra. Dal 24 febbraio dell’anno scorso i principali mass media hanno indossato l’elmetto e ogni giorno hanno cercato di anestetizzare nella coscienza collettiva l’orrore dei massacri, riabilitando la guerra come cosa buona e giusta, con una campagna martellante per arruolare l’opinione pubblica nel conflitto attraverso l’identificazione manichea amico/nemico. Questa propaganda di guerra a reti unificate non ha avuto un effetto travolgente se il popolo italiano, a differenza di altri popoli europei, resta in maggioranza contrario all’invio di armi e all’incremento delle spese militari. Sanremo, evidentemente, è un’occasione ghiotta per accrescere l’influenza del pensiero unico sulla guerra nella coscienza popolare.Da più parti si sono levate voci contrarie alla partecipazione di Zelensky a Sanremo, anche da parte di esponenti del partito della guerra. La motivazione prevalente è che non è accettabile mischiare la guerra con i cugini di campagna, che non si può accostare il sacro (l’orrore della guerra) con il profano (le canzonette). Ebbene, non è questo il problema. Sanremo e gli altri eventi musicali non sono solo canzonette. Da sempre attraverso la musica (e le parole) vengono trasmessi sentimenti profondi che albergano nell’animo umano, non solo l’amore in senso erotico, ma anche l’amore per l’umanità, la compassione per le sofferenze causate dalle guerre, la speranza collettiva per una società liberata dagli oltraggi della violenza e del potere, l’aspirazione profonda alla pace che unisce gli umani al di là delle bandiere. Possiamo forse dimenticare che la lotta dei giovani americani contro la guerra nel Vietnam è stata scandita sulle note di Where have all the flowers gone, cantata da Joan Baez e di Blowing in the wind, cantata da Bob Dylan? Temi e sentimenti ripresi anche da interpreti italiani, come Gianni Morandi, con C’era un ragazzo, che ha portato il ripudio della guerra anche nel mondo delle canzonette. Possiamo dimenticare l’insegnamento poetico di Fabrizio De André con motivi intramontabili come La guerra di Piero o Se verrà la guerra? (Girotondo)
Gli stessi sentimenti sono stati interpretati e resi popolari dal poeta e cantautore Vladimir Semënovič Vysockij, con la sua canzone Dal fronte non è più tornato, mirabilmente interpretata in italiano da Eugenio Finardi, che esprime lo sgomento per la vita dei giovani sacrificati in guerra. Infine l’aspirazione dell’umanità alla pace e il sogno di un mondo libero da ogni oppressione non poteva essere meglio espressa che da Imagine di John Lennon, un vero inno internazionale alla pace.In questi tempi oscuri in cui si costruiscono nuovi cimiteri a ritmo forsennato e due popoli fratelli sono precipitati in un vortice di distruzione e morte, da un evento musicale importante come Sanremo ci saremmo aspettati non messaggi preregistrati di propaganda bellica, ma parole di speranza, come quelle di Fabrizio De André: «Lungo le sponde del mio torrente / voglio che scendano i lucci argentati / non più i cadaveri dei soldati / portati in braccio dalla corrente».
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Da La Nuova Sardegna mercoledì 31 ottobre 2012
Pagina 23 – Ed_Cagliari
piazza Yenne
Rivolta contro la statua di Carlo Felice
CAGLIARI Ieri mattina la statua di Carlo Felice non aveva grandi motivi per sorridere: è stata interamente coperta da un maxi-lenzuolo bianco (nella foto). E vista da Castello sembrava un grande fantasma al centro della città. Oscurata. Come dire: non la vogliamo più. Gli organizzatori della manifestazione (del Presidio piazzale Trento, Css e altri movimenti) chiedono di spostare il monumento al re dei Savoia in un museo e intitolare invece quell’area ai martiri di Palabanda. La vicenda risale al 1812: un gruppo di cagliaritani, proprio due secoli fa, fu scoperto e arrestato mentre organizzava una sommossa. Con i capi della congiura condannati all’impiccagione. «Carlo Felice – spiega Giacomo Meloni, Css – allora non c’era. Ma successivamente fu implacabile nell’applicazione delle condanne». I rivoltosi erano stati bloccati a duecento metri da piazza Yenne, nella zona intorno alla attuale via Palabanda. Il malcontento in città era diffuso. E nel mirino c’erano proprio i regnanti piemontesi. Da due secoli fa al presente. (s.a.)
Intervento di Andrea Pubusa su Sardegna Oggi 31 Ottobre 2012
Il 2012 è anch’esso s’annu doxi?
di Andrea Pubusa
Passerà il 2012 alla memoria dei sardi come “s’annu doxi”, come l’anno della fame? Come s’annu doxi vero, quello della grande fame e, non a caso, della rivolta di Palabanda? Il paragone, formulato da qualcuno nelle rievocazioni della rivolta di due secoli fà, a primo acchito, mi è sembrato forzato. La fame del 1812 era fame vera, quella che nelle narrazioni delle grandi carestie del passato ha manifestazioni paurose. Gli uomini che, animalescamente, tornano a mangiare l’erba, a praticare perfino il cannibalismo, a morire nelle strade colpiti dalla fame e dalle pestilenze.
Amarthia Sen ci ha insegnato che la democrazia, fra i suoi tanti meriti, ha anche quello di aver sconfitto le grandi carestie. L’informazione e la prevenzione consentono di avere riserve per gli anni negativi. La solidarietà, assicurata dallo Stato democratico, fa il resto: anche i ceti popolari riescono a sopravvivere. Le pestilenze sono vinte dal sistema sanitario e dalla diffusione dell’acqua.
Una forzatura dunque il paragone fra il 1812 e il 2012? No e sì. No, se si pensa ad una improponibile replica. Sì, se si pensa allo sfascio del sistema produttivo e alla disoccupazione dilagante. Mentre si svolgeva il Convegno all’Orto botanico, l’orto di Palabanda dell’Avv. Salvatore Cadeddu, dove si riunivano i cospiratori nel 1812, nella vicina viale Trento il Sulcis, la zona più povera d’Italia, era in piazza per chiedere al governatore della Sardegna, Carlo Felice…, pardon!, Ugo Cappellacci, misure per ridurre la disoccupazione endemica, per combattere la mala stagione di oggi, la chiusura delle fabbriche e la riduzione delle attività economiche, la pura sopravvivenza dell’agroalimentare.
A ben pensarci, anche oggi esistono i ceti parassitari, come nell’Ancien Régime. Vivono senza produrre, ma assorbono gran parte dell reddito. O hanno compensi sproporzionati rispetto a quanto fanno. Basta guardare la ricchezza ostentata nei porticcioli turistici per rendersi conto che, mentre gran parte della società si arrabbatta per tirare a campare, altri possono gettare al vento, negli ozi e nello svago, una ricchezza, che, per la sua smodatezza, non può essere frutto del lavoro, ma di sistemi perversi di attribuzione. La gente vede sopratutto nello status dei politici questa artificiosa creazione di privilegi. Ma questa è la fascia più visibile, non la più estesa e neppure la più privilegiata.
Ma oggi c’è anche Vittorio Emanuele I° o Carlo Felice? E’ certo una forzatura. Ma chi oggi lascia alla mano invisibile del mercato l’opera di aggiustamento della situazione certo si avvicina a quei governanti preoccupati solo delle sorti dei ceti alti. Ed oggi la politica delle grandi istituzioni mondiali ed europee è su questa linea. E lo è Monti, il quale, da ferreo iperliberista, imperturbabile non muove un dito per salvare qualcosa dell’apparato industriale italiano. Non è affare del governo, dice, ma delle forze sociali, imprese e sindacati. Il governo Monti fa strame dei diritti sociali e beffardamente le chiama riforme. L’aspetto curioso della vicenda è che alla fedeltà al re dei sardi di allora corrisponde la credibilità di Monti oggi, non presso i suoi amici delle centrali ipeliberiste mondiali, ma perfino nel maggior partito della sinistra parlamentare italiana. Sta facendo il deserto nei settori produttivi e nei diritti, sociali e territoriali, ma dicono (Napolitano prima di tutti) che sta realizzando riforme impressionanti.
Come possano P.Torres, P. Vesme, Ottana, Villacidro e gli altri settori produttivi riprendersi, senza una politican industriale statale, è un mistero. Ma oggi non esistono centri organizzativi capaci non dico di sacrosante ribellioni, ma di un programma serio di fuoriuscita dalla crisi con la mobilitazione consapevole delle masse. Dalle elezioni siciliane vengono segnali opposti e inquietanti. E’ vero s’annu doxi è lontano, ma lo sfascio produttivo e democratico è vicino, qui fra noi, grande. E il futuro è oscuro.
[...] Un gruppo di indipendentisti ha occupato la statua di Carlo Felice, nel largo omonimo a Cagliari; hanno ricoperto il monumento con un telo bianco, rivestendolo dei Quattro Mori. Di fianco alla statua sono stati issati cappi che ricordano i cagliaritani uccisi dopo la congiura di Palabanda del 1812. Salvatore Cadeddu, Raimondo Sorgia, Giovanni Putzolo giustiziati. Gaetano Cadeddu, Giuseppe Zedda, Francesco Garau, Ignazio Pani condannati a morte in contumacia. Giovanni Cadeddu e Antonio Massa condannati all’ergastolo e Giacomo Floris e Pasquale Fanni al remo a vita. I congiurati cagliaritani sono ricordati solamente da una lapide nascosta nell’Orto botanico. [...]