Dibattito su Cagliari. Come recuperare la città perduta? Realizzare con intelligenza e tenacia una vasta opera di “rammendo”

cagliari-acq mani sulla cittàCAGLIARI. DIBATTITO SULLA CITTA’
ape-innovativa2Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente contributo al dibattito su Cagliari da parte del comm. Paolo Fadda, intellettuale, scrittore, uomo politico tra i più informati ed impegnati della e per la propria città, a prescindere dalla adesione alle sue opinioni comunque sempre di estremo interesse.

Paolo Fadda commPaolo Fadda. Con il titolo “Cagliari, baronessa senza baronia (e senza classe dirigente)” il giornale web SARDINIA POST ha pubblicato, fra i suoi editoriali, questa mia riflessione sullo “stato” attuale della città. E’ un invito a riflettere su come si possa impedirne il declino ed avviarne un rinascimento. E’soprattutto un invito a confrontarsi insieme per dare a Cagliari un suo differente futuro. Quel che scrivo è certamente opinabile, può essere anche bollato come una provocazione, ma certamente non deve essere fatto cadere nel silenzio (così spero).
Questo è il testo.

Cagliari, baronessa senza baronia (e senza classe dirigente)
di Paolo Fadda

- “C’è molta tristezza in molti cagliaritani nel dover assistere al declino della loro città. Perché da qualche tempo in qua Cagliari sembra abbia smarrito la sua anima, stravolto la sua identità, imbastardito la sua immagine. Pare una città che non abbia più – ed è questa la notazione più triste – la voglia, la propensione ed il gusto di immaginarsi e di delinearsi un futuro. Né ci si interroga sulle ragioni di questo progressivo decadimento e dell’avanzare della pericolosa ventata d’incultura (parente stretta dell’ignoranza e della rassegnazione) che sembra essere divenuta più fastidiosa e pesante di una levantata di pieno agosto.
Sembra proprio che da parte di molti di noi cagliaritani si sia perduto il senso alto della città, di quel che ha rappresentato nella storia del progresso e nella costruzione di quello straordinario patrimonio di conoscenze e di contenuti di civiltà che forma, per comune sentire, la cultura urbana. Ci si è pian piano sottomessi ad una esuberante cultura biddaia che ha fatto di quella Cagliari che era stata rigenerata culturalmente e socialmente dalle influenze genovesi e piemontesi, niente più che un paesone, una bidda manna. Una sorta di villaggio di taglia XXL.
Sono molti i segnali di questa spiacevole decadenza (li ha colti con molta sensibilità anche Nanni Spissu in un suo acuto intervento su questo sito [SardiniaPost]). Li si ritrovano in quell’osservazione che piace sintetizzare nella perdita della consapevolezza d’essere città (che è, per dirla in rapida sintesi, la capacità d’essere il battistrada del progresso e di saper offrire ai suoi abitanti beni e valori di alta civiltà). In effetti quel che sconforta (e fa pure rabbia) è che oggi appaia come una città precocemente invecchiata, decaduta come una baronessa senza più baronia, aggrappata ad un passato di cui, peraltro, non ha neppure saputo coglierne appieno l’eredità. D’altra parte non pare neanche molto amata dai suoi abitanti, che paiono essere sempre più degli users-city, cioè dei semplici utilizzatori dei suoi servizi, e non certo dei convinti citizens, dei veri cittadini.
Ed è poi questo il male oscuro che ha minato la salus di Cagliari, accentuandone quel deperimento che ha colpito molte altre città del mondo, con il passaggio dal moderno al postmoderno nella cultura urbanistica (qui intesa, ovviamente, nella scienza di far piacevoli e meglio vivibili le città del XXI secolo). Un passaggio che ha modificato radicalmente il modo di vivere e di immaginare la città.
Proprio quel male non ha risparmiato neppure le élite cagliaritane. Anzi, sono state proprio quelle che ne dovrebbe essere l’establishment (per ruoli ed incarichi ricoperti, per competenze e saperi acquisiti) ad accusare ed a dimostrare il più grave deperimento. La Cagliari d’oggi, infatti, non ha più una sua classe dirigente – nella politica, nell’economia, nella cultura, nella religione – che mostri sufficiente carisma ed abbia riconosciute doti per essere ritenuta tale. “No b’est homini” si dice dalle nostre parti per indicare le deficitarie doti di chi viene chiamato a qualche importante responsabilità: ed è questa l’amara considerazione che si sente di dover fare per definire quanti oggi parrebbero essere, nei diversi campi, “i consoli” della città.
Quel che sembra mancare a queste nostre élite è – soprattutto – quella che si potrebbe indicare come l’idea della città di questo secolo. In modo da poterla restituire all’amore, ed all’orgoglio, dei suoi abitanti. Eppure il bisogno (la necessità e l’urgenza) di quest’idea è nei fatti d’ogni giorno. Si prendano ad esempio i tanti luoghi dismessi dalle loro pregresse utilizzazioni (caserme, ospedali, carceri, depositi, fabbriche, ecc.): su di essi si sono sovrapposti e confusi opinioni e utilizzazioni le più disparate, senza che si mettesse insieme una visione globale per poter ridare alla città la disponibilità di luoghi che hanno fatto la sua storia. Ci si è voluti fregiare d’essere città europea della cultura e non ci si è accorti d’essere rimasti prigionieri di un’imperante incultura urbana.
Sulla città, sui luoghi della città si è continuato a rimuginare dei vecchi stilemi urbanistici, sordi e distratti nel captare quel che di postmoderno è maturato al di là del mare. Rimasti però prigionieri degli screzi di congrega e dei favori e disfavori corporativi che sono poi i contrassegni emblematici di quest’incultura civica (quel che s’è letto, ad esempio, sui “fatti oscuri” della Camera di commercio ne sarebbe la conferma).
Come recuperare quindi la città perduta? La domanda l’ha formulata recentemente il sociologo delle città Marc Augè. Ed è poi la domanda che s’intende fare nostra, provocatoriamente, perché si possa aprire su Cagliari, sul suo futuro, un vero dibattito (ed in quel “vero” c’è la distanza da ogni intenzione o velleità elettoralistiche). Perché occorre ripensare la città nel suo insieme, dato che Cagliari non può essere quell’arcipelago che è divenuto oggi, con una molteplicità di isole-rioni da stilemi edilizi ed abitativi assai differenti (cos’hanno in comune La Palma e Genneruxi pur vicini ad un tiro di schioppo?). Perché rammendare la città significa ridarle, con l’unità, l’identità perduta e sconvolta, ricollocando le volumetrie dismesse in un insieme razionale di utilità e di fruizione.
Si tratta – come sostiene proprio Augé – di operare con intelligenza e tenacia «una vasta opera di “rammendo” (così come una volta le sartorie rammendavano i vestiti strappati e i filati rozzi). Si dovrebbe, nella misura del possibile, ritracciare frontiere tra i luoghi, tra l’urbano e il rurale, tra il centro e le periferie. Frontiere, vale a dire soglie, passaggi, porte ufficiali per far saltare le barriere invisibili dell’esclusione implicita. Bisogna poi ridare la parola al paesaggio. Ci si potrebbe assegnare a lungo termine il compito di rimodellare un paesaggio urbano moderno, nel senso inteso da Baudelaire, in cui gli stili e le epoche si mescolerebbero consapevolmente come le classi sociali, in un insieme armonico dal grande valore ambientale e culturale».
Cercando di non dimenticare mai che la città dev’essere più che ammirata, vissuta; non solo accogliente per i suoi visitatori, capace di dare benessere (cioè opportunità di lavoro) ai suoi abitanti. Ed è questa la morale finale da porre a questa riflessione.
Ecco, il rammendare – urbanisticamente, economicamente, culturalmente – questa nostra città è l’idea portante – a mio parere – di quel renewal urbano che ci si augura possa avvenire senza troppi ritardi, per non perdere definitivamente la città come valore patrimoniale. Perché ritornare ad essere bidda e biddazzones proprio non ci andrebbe” -.
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- Per correlazione un intervento del direttore di Aladinews su Cagliari e un possibile e auspicabile nuovo ruolo
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