Una foto, una pagina di vita. Raccontiamo… (3)

cagliari skyline 14 9 15ape-innovativaSu proposta del nostro amico Peppino Ledda pubblichiamo oggi, dopo l’esordio del 17 scorso e il secondo racconto di ieri, il terzo di una serie di raccontini sulla Cagliari del passato: vita vissuta di protagonisti, ultrasessantenni al momento della scrittura (2010) e oggi ancor più avanti negli anni, sul filo della memoria, Lo facciamo per la gradevolezza delle narrazioni nella convinzione che, come diceva uno splendido adagio “Il futuro ha un cuore antico”. Ecco mentre siamo impegnati a dare prospettive alla nostra città per il presente e per il futuro, crediamo utile oltre che bello, ricordarne il passato, fatto di luoghi ma soprattutto di persone che lo hanno vissuto. I racconti sono contenuti in una pubblicazione .
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Rosetta Landolfi . La pelliccetta bianca
1° classificato
- segue
Sono nata il 7 Agosto di tanti anni fa, un tempo così lontano da sembrare irreale, quasi che non faccia parte della mia vita.
A volte, quando ho voglia di apparire migliore, un po’ truccata, un po’ per un vezzo tutto femminile, mi specchio e mi dico: “Vai ancora bene”, dimenticando l’età e il mio povero femore rotto e rattoppato.
Spesso, quando non riesco a dormire per i tanti pensieri, i ricordi mi assalgono.
Ricordo la casa che mi vide nascere e dove ho vissuto i miei primi cinque anni. La ricordo perfettamente. Vi si arrivava percorrendo una stradina non asfaltata, mi pare si chiamasse via Porto Torres. Superato il portoncino, una breve scala portava all’ingresso, che da un lato si affacciava sul verde di un giardino. Mi è rimasto il ricordo di quel giardino invalicabile, perché non ci apparteneva. Allungavo le mani ed accarezzavo le foglie desiderando di inoltrarmi in quell’Eden. Sarà per questo che amo tanto le piante.
La prima neve della mia vita fu una scoperta fantastica. Ne scese tanta quell’inverno! Mio padre, su un terrazzino dell’ingresso, fece un pupazzo con due patatine per occhi ed una carota per naso, la bocca con una fetta di peperone mi sorrideva. Per un paio di giorni fu il mio caro amico ed il fratello che non ho mai avuto. Lo accarezzavo con le mani arrossate dal gelo e parlavo con lui. Poi… il sole incominciò a sciogliere la neve ed il mio amico perse le sue sembianze, lo vedevo svanire nel nulla, rimase una piccola pozza d’acqua simile al laghetto di lacrime che sentivo nel cuore. Il balconcino della nostra casa si affacciava sulla stradina e sul corso; la caserma di fronte e i carabinieri che mi sorridevano.
La domenica mattina, mio padre mi portava a spasso, indossavo il cappottino di pelliccetta bianca e con la mia mano nella sua mi sentivo felice. Mi piacevano le paste al cioccolato, nell’offelleria del corso le facevano tanto buone, incollavo il naso alla vetrina e non mi muovevo sino a quando la mia golosia non veniva appagata.
Per anni la casa che mi ha visto nascere è stata un mio pensiero costante, spesso andavo a vederla dal di fuori e, purtroppo, a notare la sua decadenza.
Un giomo non l’ho trovata, la ruspa aveva buttato le sue mura, al suo posto, ora sorge un’anonima casa simile ad un bunker ed il verde del giardino vive solo nei miei ricordi. Non voglio credere che il balconcino di ferro battuto giaccia in una discarica, voglio immaginare che sia rimasto sospeso nell’aria e si sia adagiato su una nuvola, ad osservare il mondo dall’alto e a ricordare una bambina dalla pelliccetta bianca.
Io e l’acqua fredda non siamo mai andate d’accordo, ancora oggi preferisco il tepore, sara perché le mie ossa acciaccate hanno bisogno di calore, ma il freddo non lo tolleravo nemmeno da piccola. Ricordo una bacinella di acqua fredda per lavare il mio viso, mia madre che tentava di avvicinarmi ad essa, io che mi allontanavo dal catino, il mio braccio strattonato e l’urlo di dolore, mio padre adirato con mia madre, mia nonna che gridava: “Sa pipia! Sa pipia!”, i miei sensi di colpa. Mi fasciarono il braccio e, nella confusione, dimenticarono di lavare la mia faccia. Il freddo!
Ai miei tempi le bambine non indossavano i calzoncini. I miei maglioni e le mie cuffie erano morbidi e caldi, le calze e le scarpe pulite ed in ordine, ma le gambe stavano fuori e d’inverno si arrossavano per il freddo. La notte, il pensiero delle lenzuola ghiacciate mi spaventava, mia madre le scaldava pazientemente col ferro da stiro.
Soltanto una volta soffrii tanto il caldo che credetti di scoppiare. Fu quando mi ammalai di morbillo; mio padre col terrore di perdere l’unica figlia mi circondava di borse e bottiglie di acqua calda, sigillò le finestre per proteggermi dagli spifferi; quando mi guardai allo specchio vidi un viso congestionato e gonfio che non mi riconobbi.
La febbre mi dava gli incubi, mostriciattoli sghignazzavano attorno al mio letto ed io mi nascondevo urlando sotto le coperte.
La mia nonna materna vegliava su di me, mi coccolava, nel periodo pasquale mi comprava le pecorelle di zucchero nella famosa “offelleria”, mi accompagnava dal barbiere perché mi pettinasse alla bebé, come si usava in quel periodo, mi dava il suo amore. È stata una presenza costante. Quando le distanze ci hanno separato, ha macinato chilometri per venire da me. La vita con lei è stata avara e alla vita ha chiesto poco, si è nutrita di briciole ed in cambio ha dato tanto. È morta, quasi centenaria, con il mio nome sulle labbra.
Le pecorelle di zucchero! Le ricordo, con il manto a riccioloni, adagiate su un morbido biscotto. Aspettavo la Pasqua per gustare quei dolcetti, ma prima li tenevo un po’ accanto a me, timorosa di distruggere quei piccoli capolavori, poi, vinta dalla golosia, li addentavo a piccoli morsi.
Il venerdì Santo si andava alla processione del Cristo e quel Gesù piagato e sofferente mi incuteva una pena infinita e offuscava la gioia della festa vicina. Nel mio quinto anno di età ci trasferimmo in una zona nuova e sconosciuta. La casa era bella, la sovrastava una terrazza che divenne la sede dei miei giochi. Trascorrevo in essa interi pomeriggi. Il panorama mozzafiato e la solitudine fecero di me una bambina sognatrice. Soltanto le mute bambole, con i loro occhi inespressivi, riempivano le mie ore ed il loro mutismo non dava vita al mio inutile dialogare.
E… quando il sole calava e le stelle si accendevano in cielo, quelle piccole fiamme divennero le mie amiche più care. Il terrapieno ed il Giardino Pubblico diventarono il mio paradiso, era tutto così bello! Ancora oggi, in quei posti, sento dentro l’incanto di allora.
Passarono gli anni col loro carico di illusioni e di delusioni; un brutto giorno, dopo una breve malattia, mio padre se ne andò per sempre; conservo nel cuore il suo sorriso sofferente e consolatorio davanti alle mie lacrime durante il ricovero ospedaliero.
Non tornò a casa. Avevo sempre temuto che mi avrebbe lasciato presto, questa paura mi aveva tormentato per anni. Tinsi di nero i miei abiti e i miei diciotto anni pesarono come un macigno. La meta domenicale divenne il cimitero, con mia madre in veletta nera e la tristezza nel cuore.
Mi ritorna spesso alla mente un episodio che ancora mi commuove.
Ogni anno arrivava per me una generosa Befana che posava i doni sul tavolino della cucina.
Un anno, avrò avuto otto anni, mi levai all’alba e col batticuore entrai in cucina. Vidi unafreccia di cartone sul tavolino ad indicare la porta della sala da pranzo. Non ne capivo il significato
e delusa mi sedetti sul pavimentoe piansi. Ero convinta diessere stata tanto cattiva da non meritare nessun dono. I miei genitori cercarono di farmi capire e quando finalmente ci riuscii aprii
la porta della sala, accesi la luce e vidi sul tavolo la più ricca Befana che avessi mai avuto. Erano tanti i doni che il tavolo della cucina non poteva contenerli.
In mezzo agli altri giocattoli troneggiava un bambolotto bellissimo, simile al fratellino che avevo sempre desiderato e che non ho mai avuto. Il mio babbo mi voleva rendere felice e sostituiva in questo modo ciò che mi è mancato di più nellafanciullezza. Quell’alba del 6 gennaio stringevo sul cuore il bamboccio. Lui, partecipe
della mia gioia, sorrideva col suo sorriso buono.
Senza di lui, il mondo mi crollò addosso. Dovetti interrompere gli studi e mi misi alla ricerca di un lavoro. In quel periodo conobbi il compagno della mia vita. Mi sposai e dovetti affrontare altre prove ed altri dolori, ma questo è un altro capitolo che forse scriverò un’altra volta.
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La foto non pubblicata (per ora)
Rosetta ed il suo papà, anni ?30
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Per correlazione: una poesia di Rosetta, letta da Sebastiana Aru Atzori.

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