Una foto, una pagina di vita. Raccontiamo… (5)


piazza palazzo Ca anticaape-innovativaSu proposta del nostro amico Peppino Ledda pubblichiamo una serie di raccontini sulla Cagliari del passato: vita vissuta di protagonisti – ultrasessantenni al momento della scrittura (2010) e oggi ancor più avanti negli anni, alcuni non più tra noi – sul filo della memoria. Lo facciamo per la gradevolezza delle narrazioni nella convinzione che, come diceva uno splendido adagio “Il futuro ha un cuore antico”. Ecco mentre siamo impegnati a dare prospettive alla nostra città per il presente e per il futuro, crediamo utile oltre che bello, ricordarne il passato, fatto di luoghi ma soprattutto di persone che lo hanno vissuto. I racconti sono contenuti in una pubblicazione . Oggi il quinto raccontino, dopo l’esordio del 17 settembre, il secondo del 18, il terzo del 19, il quarto del 20.
Franco Medda
Castedd’e susu

Sono nato nel quarantasette nel rione di Castello, Castedd ‘e susu, nella strada del Duomo. Ho trascorso la mia infanzia e l’inizio dell’adolescenza in quel microcosmo, di cui ricordo e sento ancora oggi visi, personaggi, persone care, voci, rumori, odori. Il più antico ricordo che ho riguarda me stesso: una piccola bicicletta regalatami dai miei genitori per Natale, forse nel 1951. E subito rivedo altri Natali e altre Epifanie, il grosso ramo di pino addobbato di babbi natale e palline colorate quasi impalpabili nella loro fragile leggerezza, il vassoio
di dolci sardi, durcis de Cuàrtu, riposto nella grande credenza di nonno nel soggiorno, la frutta secca ben nascosta alle mani avide del piccolo di casa, l’attesa trepidante della vigilia, sa nott‘e is matinas, per la venuta di Gesù Bambino. – segue -
Ripensandoci adesso ho l’impressione che “i grandi” – is mannus – a quel tempo avessero ritmi di vita, parole, pensieri, azioni e comportamenti ancora di sapore ottocentesco, pur avendo sperimentato sulla loro pelle tutte le meravigliose invenzioni del Novecento sotto i bombardamenti del quarantatré.
Tornando indietro al tempo della mia infanzia, ho la sensazione che vivessimo in quella strada del Duomo come in un piccolo paese: tutti sapevano tutto di tutti.
Durante il carnevale potevi vedere i bimbi andare e venire indaffarati per le case del vicinato, ben compresi nel loro ruolo di araldi benvenuti, portando piatti, zuppiere o tegami colmi di “meraviglias, tzipulas o culirgionis durcis” avvolti in tovaglioli grandi come federe!
Era d’inverno che l’antico quartiere medievale esprimeva il meglio di sé: se molto dava a desiderare l’illuminazione pubblica, rare lampadinette da due candele che avevano peraltro vita molto breve date le preclare doti di mira de “is allegronis”, le stradine strette, con le loro ombre inquietanti, sfoderavano tutto il loro fascino mostrando sull’orlo delle porte tante piccole luci tremolanti come in un grande presepe vivente. Erano gli split dei poveri: quando scendeva la sera, da ogni casa venivano
deposti sull’uscio i recipienti più diversi, dalle “sicias becias de liauna zincada” alle luccicanti “cupas” di ottone, che ormai incominci a trovare solo presso gli antiquari, dove con i più svariati tipi di legno, per i meno fortunati, o con carbone e “pruineddu” per i più abbienti si accendeva il fuoco – unu fogaroni bellu – che avrebbe arrecato un po’ di tepore nelle lunghe serate invernali. Così si scaldava la povera gente in quell’indigente dopoguerra. Nella casa della via del Duomo ho conosciuto ancora l’uso del focolare a carbone e ho vivo il ricordo del chierichetto che per tempo, prima che iniziasse la funzione religiosa vespertina in Cattedrale, si affacciava alla nostra finestra e porgeva il turibolo dove la mia zietta Anna metteva due bei carboni ardenti, si che subito si percepiva il penetrante aroma dell’incenso.
Aromi, o meglio odori: di fuochi accesi, di castagne e ceci arrosto, fumate “indiane” di sardine arrosto, odore di cavoli rancidi, di minestroni militari, di deiezioni di cani ma soprattutto di quelle degli innumerevoli “pisitus” veri bastardelli di razza che la facevano da padroni in ogni oscuro androne di Castello!
Ma il sublime si raggiungeva la domenica: dappertutto l’aria era colma del profumo del sugo di pomodoro – sa bagna de tomatas – o dell’invitante fragranza dei galletti rosolati,- is caboniscus arrubiaus -, che facevano già pregustare il rito, peraltro mai abbandonato dai veri cagliaritani, del pranzo domenicale.
La foto di quegli anni mostra mio fratellino e me a cavalcioni della moto del nostro mito di bambini, mio cugino Memo: davanti Pilimeddu posteriormente io stesso su quella mitica Gilera, destriero dei nostri sogni di bambini.
Come ben si può vedere, ci troviamo in “sa pratzita” la piazzetta antistante i tre portali della Cattedrale, accanto alla muraglia che tuttora costeggia la salita, che dalla via Canelles porta a piazza Palazzo.
È visibile infatti l’ingresso del palazzo arcivescovile, che al tempo vedeva in sede Monsignor Paolo Botto, e la parte bassa della suddetta piazza Palazzo.
Be, devo dire che quell’angolo del mio quartiere è rimasto indelebile nella mia memoria: ogni qualvolta lo ripenso o ci passeggio, mi rivedo allora, con suoni, vociare di bambini, visi dei miei compagni di gioco, l’anziano canonico della Cattedrale seduto sulla muraglietta a fumarsi forse l’unica sigaretta della giornata, lo schiamazzo di noi bambini al passaggio delle rarissime autovetture, immancabilmente una 1400 Fiat nera, i cui paraurti posteriori, peraltro ben rappresentati, venivano occupati dai più scavezzacolli per provare l’ebbrezza del trasporto automobilistico.
Non trascuravamo certo le attività agonistiche: quante interminabili partite di pallone ha visto quell’improbabile campo di calcio in pendenza che era piazza Palazzo! Lo schiamazzo che si sollevava dal piccolo Maracanà, per la gioia degli inquilini della Prefettura, veniva però molto spesso miracolosamente interrotto per l’inusitato interesse che i due carabinieri di guardia alla Prefettura, bicorno mantella e sciabola, sembravano usciti in quel mentre da una stampa dell’ ottocento, manifestavano nei nostri confronti!
Talvolta però il nostro genuino entusiasmo di bambini era rivolto a qualcosa di meno nobile che l’agone sportivo: non rare erano purtroppo le sassaiole fra bande di monelli abitanti in strade diverse, emuli inconsapevoli e fortunatamente meno tragici dei ragazzi della via Pal.
Così alla fine della mia infanzia, avevo undici anni, avvenne ciò che non era in mio potere cambiare, venne il momento di lasciare la casa della via del Duomo, perché la mia famiglia si trasferiva in un altro quartiere. Non mi resi conto, allora, che era la fine di un mondo. Gli anni sessanta, col “boom” economico, avrebbero cancellato per sempre quell’atmosfera tranquilla e quasi immutabile di quell’antico quartiere, che il flagello della guerra già aveva fatto traballare.
Vado spesso a passeggio per le viuzze di “Castedd”e Susu” e immancabilmente ripenso a quel tempo, a quella Cagliari che non c’è più. Vi sembrerà la lagna del solito vecchio nostalgico, ma la considerazione è quella: “Non è più il Castello della mia infanzia!” sopratutto non c’è più la sua gente, quella genia di Cagliaritani speciali,
gelosi e fieri della loro castellanità. Riecheggia nella mia mente il titolo di un bel libro che recita così “Com’era verde la mia valle!” e inevitabilmente mi sale alle labbra: “Come era bello il mio quartiere!”

Piazza Duomo: bimbi in moto
————————————————————-
cagliari skyline 14 9 15

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>