L’economia potrà tornare ad essere una scienza morale amica della società? Difficile, ma iI Nobel a Angus Deaton è un buon segnale

Costruendo ponti. Angus Deaton, Nobel per l’economia 2015
di Vittorio Pelligra, Città Nuova
L’originale del contributo dello studioso scozzese nell’analisi e interpretazione dei consumi e della povertà: «Se non capiamo come i numeri vengono messi insieme e cosa significano, corriamo il rischio di suggerire politiche fondamentalmente sbagliate».

Angus Deaton Nobel Economia 2015
Nobel Deaton
«L’assenza di dati è uno scandalo che non viene oggi affrontato in modo adeguato. Se non capiamo come i numeri vengono messi insieme e cosa significano, corriamo il rischio di vedere problemi dove in realtà non ve ne sono e di perdere di vista bisogni urgenti che chiedono una soluzione (…) in altre parole di suggerire politiche fondamentalmente sbagliate»”. Questa frase, tratta dal suo ultimo libro La Grande Fuga, sintetizza molto bene la preoccupazione di fondo che ha caratterizzato tutta l’attività scientifica di Angus Deaton, fresco vincitore del premio Nobel per l’economia 2015. La “grande fuga” di cui si parla è quella dell’umanità dalla povertà e dalla morte precoce, una storia che è anche quella della famiglia di Deaton, che in una generazione, da un piccolo villaggio minerario dello Yorkshire, in Gran Bretagna, arriva attraverso gli studi serali del padre che lo trasformano da fattorino ad ingegnere, fino a Cambridge, dove Angus studia matematica, e poi alla prestigiosa università di Princeton dove è attualmente professore di Economia e Affari Internazionali.
Il comitato dell’Accademia delle Scienze ha selezionato il nome di Deaton, che girava già da qualche anno tra gli addetti ai lavori e i bookmakers per i suoi contributi in tre aree distinte di ricerca: l’analisi della domanda di consumo, le scelte intertemporali e la misurazione del benessere e della povertà. In tutti questi ambiti la preoccupazione principale è stata sempre rivolta alla possibilità di avere maggiori dati, più affidabili e di come analizzarli in maniera più precisa e rigorosa, in modo da poter pervenire a conclusioni teoriche e a politiche pubbliche sempre più informate ed efficaci.
Il consumo rappresenta un ambito fondamentale della vita economica e il principale oggetto di studio di Deaton. Prima degli anni ’80 quando apparvero i suoi principali contributi (assieme al collega John Muellbauer) gli strumenti utilizzati per analizzare gli effetti di variazioni di reddito e prezzi sui consumi delle famiglie davano risultati a dir poco contraddittori e in constante disaccordo con i dati reali. Attraverso il cosiddetto Sistema di Domanda Quasi Ideale, Deaton e Muellbauer sono riusciti a sviluppare un meccanismo di stima sufficientemente complesso da cogliere aspetti rilevanti del comportamento economico, ma anche abbastanza semplice da poter essere utilizzato in concreto per le stime statistiche. Questo sistema che consente di studiare le relazioni tra la domanda di un certo bene e i prezzi degli altri beni, il reddito, le dimensioni del nucleo familiare e molte altre variabili, è ancora oggi largamente utilizzato per valutare con adeguata precisione gli effetti delle politiche pubbliche, costruire gli indici dei prezzi e confrontare la qualità della vita tra paesi diversi o tra periodi diversi nello stesso paese.
Una seconda importante innovazione introdotta dai lavori di Deaton ha a che fare con il livello di analisi. C’è chi guarda alla foresta e c’è chi si concentra sugli alberi che la formano questa foresta. Tradizionalmente la macroeconomia si è concentrata sulle foreste, sui valori “aggregati” cioè del consumo e del risparmio delle famiglie, degli investimenti delle imprese, dei trasferimenti e della spesa pubblica dello Stato. Ma l’utilizzo di queste variabili ha storicamente creato non pochi problemi nell’analisi, per esempio, del “comovimento” di reddito e consumo. Studiando il tema, Deaton, arriva a una conclusione radicale: se vogliamo comprendere le foreste dobbiamo imparare a guardare i singoli alberi. Anche per analizzare cioè le dimensioni globali dei sistemi macroeconomici, è necessario partire dai comportamenti dei singoli individui e famiglie e poi procedere all’aggregazione di tali dati per “derivare” i valori totali da quelli parziali. Ma mentre i dati aggregati sono facili da reperire, quelli individuali erano un tempo, molto rari. Deaton si è impegnato a fondo perché le cose, in questo senso, potessero cambiare. Con la Banca Mondiale agli inizi degli anni ’80 avviò una serie di iniziative per la misurazione, attraverso sondaggi e analisi campionarie, della qualità della vita e della povertà in tutto il mondo. I dati a livello individuale delle singole unità familiari sono ormai largamente disponibili e non solo il lavoro di Deaton ha fatto comprendere l’importanza della loro sistematica raccolta, ma ha anche contribuito grandemente a sviluppare nuovi e sofisticati metodi di analisi.
Il terzo grande tema degli studi dell’economista scozzese riguarda la misurazione del benessere e della povertà. Si parte da un dato di fatto: il progresso materiale produce diseguaglianza. Non è più possibile credere a teorie consolatorie come quella della convergenza o dello sgocciolamento, che in qualche modo tendono a sottovalutare l’iniquità insita nel concetto stesso di progresso materiale. Come aiutare allora chi rimane indietro, visto che non possiamo contare su nessun meccanismo automatico che leghi la riduzione della povertà per molti all’aumento della ricchezza per pochi? Ci sono ancora quasi un miliardo di persone che vivono in povertà estrema. Basterebbero 28 centesimi a testa, per fargli oltrepassare uscire da quella condizione. Se i cittadini adulti dei principali paesi ricchi si quotassero, potrebbero eradicare la povertà dalla faccia della terra con un investimento di 15 centesimi al giorno. Perché allora la povertà è ancora lì a condizionare l’esistenza di milioni di persone che hanno la sola colpa di essere nate nel posto sbagliato? Indifferenza morale o mancanza di consapevolezza degli abitanti dei Paesi ricchi? Eppure destiniamo ingenti risorse agli aiuti allo sviluppo. Con quali effetti? Anche qui la risposta di Deaton è radicale: gli aiuti ai paesi in via di sviluppo semplicemente sono inefficaci quando non addirittura dannosi. L’idea di fondo è che se tutte le condizioni per lo sviluppo fossero presenti in un certo Paese, tranne il capitale necessario per avviarlo, quello stesso Paese sarebbe perfettamente in grado di procurarsi quel capitale sul mercato, a prezzi di mercato. Ma se le condizioni per lo sviluppo invece non sono presenti, fornire il capitale sarà del tutto inefficace e anche dannoso, perché quel capitale andrà a finanziare altro, governi corrotti e conflitti armati per esempio. Gli aiuti allo sviluppo rappresentano allora più una parte del problema che non la sua soluzione. Ma come fare allora ad assolvere i nostri obblighi di soccorso a chi è rimasto indietro nella “grande fuga” evitando contemporaneamente la trappola degli aiuti allo sviluppo? Per esempio invece di spendere nuovi soldi in Africa, si potrebbe iniziare a spendere quei soldi per l’Africa. Invece di lasciare la scelta alle case farmaceutiche private, le nazioni ricche potrebbero investire massicciamente per finanziare la ricerca contro la malaria. Questo è accaduto per esempio nel caso dell’HIV/AIDS, ma solo quando l’epidemia ha iniziato a minacciare i Paesi ricchi. I benefici di quelle ricerche ora ricadono, anche se in misura ancora insufficiente, anche sugli abitanti dei Paesi in via di sviluppo. Un altro esempio di aiuto non controproducente potrebbe essere quello legato alla protezione degli interessi commerciali dei Paesi poveri. Le organizzazioni internazionali dovrebbero offrire assistenza in materia di negoziati internazionali, soprattutto in ambito commerciale, in modo da compensare in qualche modo lo strapotere dei Paesi ricchi nelle negoziazioni che inevitabilmente tendono a proteggere gli interessi dei più forti a scapito di quelli dei più deboli. Potrebbero inoltre essere utile l’introduzione di sanzioni contro i prestiti a regimi non democratici e un vero meccanismo di embargo verso i beni esportati da questi Paesi. A tali misure si è sempra data scarsa applicazione, invece. Anche rinunciare alle misure di sostegno al reddito degli agricoltori nei Paesi ricchi favorirebbe la creazione di un vero mercato competitivo dal quale i Paesi poveri potrebbero trarre grande beneficio. Ed in ultimo, ma non per ultimo, viene il tema delle migrazioni. Affermare ipocritamente “aiutiamoli a casa loro” significa dire “non aiutiamoli”. Le analisi di Deaton ci dicono, infatti, che gli effetti dell’emigrazione temporanea sulla riduzione della povertà, superano di gran lunga quelli degli aiuti economici. Perché non rafforzare le borse di studio specialistiche e post-lauerea per i giovani dei Paesi in via di sviluppo, invece di limitarci all’invio di soldi? Ma perché la seconda strada è la più semplice, per noi! Ci consente di mettere a posto la nostra coscienza post-coloniale, senza sporcarci troppo le mani, senza l’incontro con la povertà, l’incontro vero col povero.
Le ricerche di Angus Deaton sono state innovative e influenti in diversi ambiti: teoria, misurazione, elaborazione statistica. Tutte legate da un comune denominatore, la capacità di creare ponti, di trovare connessioni e in definitiva di rimettere le scelte individuali al centro dell’analisi economica e sociale.
Che anche l’assegnazione del premio Nobel per l’economia possa portare l’attenzione del grande pubblico su temi importanti come questi ci pare fondamentale per il contributo che può dare alla creazione di una nuova coscienza diffusa e al rafforzarsi di una società civile globale, informata e attiva di cui il mondo ha sempre, e con maggiore urgenza, bisogno.
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ELEFANTINO_torre-CAGLIARI-150x150Il convegno nazionale dell’Associazione dei sociologi italiani a Cagliari dal 15 al 17 ottobre
Intervista con Gianfranco Bottazzi
di Giacomo Mameli, su La Nuova Sardegna di mercoledì 14 ottobre 2015
Capitalismo mediterraneo? «Il capitalismo è uno solo. Ma può assumere tratti differenti nei diversi Paesi in considerazione della storia e delle istituzioni sociali. Oggi abbiamo i cosiddetti working poors, i poveri malgrado il lavoro», dice Gianfranco Bottazzi, coordinatore dell’Associazione sociologi italiani. Differenze al centro del convegno di sociologi da domani a Cagliari nella facoltà di viale Fra Ignazio. Aggiunge Bottazzi: «Dagli anni Settanta erano evidenti le differenze tra il modello tedesco, francese, americano ed emergevano le peculiarità di quello italiano: maggiore o minore presenza dello Stato come attore economico, le relazioni industriali e il mercato del lavoro, il maggiore o minore decentramento amministrativo, eccetera. Il capitalismo cosiddetto “mediterraneo” è stato costruito tardi e in maniera atipica, lasciando molte incombenze a un’istituzione come la famiglia, alla quale è stato affidato un ruolo di supplenza degli ammortizzatori sociali». La famiglia-tampone, regolatrice di conflitti? «Le scarse provvidenze per i disoccupati o per coloro che perdono il lavoro sono compensate da un reddito familiare che viene aiutato da trasferimenti pensionistici relativamente generosi. La crisi finanziaria e la gestione neo-liberista hanno messo in difficoltà questi modelli. La finanziarizzazione dell’economia e il deficit dei bilanci pubblici hanno sottratto sempre più risorse per lo sviluppo produttivo, determinando un’elevata disoccupazione, tagli al già limitato Stato sociale, declino dei ceti medi, conseguente aumento delle diseguaglianze e crescita della povertà. Sono gli working poors, hanno il lavoro ma vivono male». Parlate di Europa del Sud: ufficializzate la presenza di due Europe? «La crisi finanziaria mondiale del 2007-2008 ha fatto emergere le differenze con l’esistenza di notevoli difficoltà di alcuni Paesi, che portarono la stampa britannica a coniare l’acronimo Pigs (“maiali” in inglese) che metteva assieme Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, per poi diventare Piigs, includendo l’Italia. Si trattava del riemergere di mai sopiti stereotipi, abbastanza tipici della boria tutta inglese di dare lezioni e pagelle sempre e comunque a tutti. Ma ha intercettato sentimenti diffusi nell’Europa centro-settentrionale. Fermo restando che tutti i Paesi europei sono capitalistici, la ricerca ha da tempo colto alcune peculiarità dei Paesi del Sud Europa. Italia, Grecia, Spagna e Portogallo sono accomunate dal ritardo e dalle peculiarità del processo di industrializzazione e della regolazione sociale che ha accompagnato la modernizzazione capitalistica. All’espansione dei consumi privati va aggiunta una complessiva debolezza del welfare state che ha lasciato alla famiglia il ruolo di supplenza già descritto. La crisi del 2008, con l’esplosione del debito pubblico, ha accentuato debolezze e difficoltà. La Grecia è il caso limite, ma appare una finanza pubblica piuttosto “allegra”, che ha finanziato i consumi privati al di là della efficienza dell’apparato produttivo. Questo viene rimproverato dagli Europei del Nord, non senza inaccettabili sfumature razziste». Nell’Europa del Sud c’è la Francia? «Attraversa una fase di grande fragilità, ma non credo possa essere accomunata ai Paesi sud-europei. Non è in sostanza una questione di serie A e di serie B. Ciò che rende simile la condizione di Paesi come Portogallo, Spagna, Italia e Grecia è una debolezza delle istituzioni sociali che regolano il capitalismo, dando luogo a una variante che vede una rilevante presenza di imprese piccole e piccolissime, una forte diffusione del lavoro autonomo, una consistente quota di economia sommersa e, in proporzione differente, di evasione fiscale. Nonostante la Francia viva una seria crisi, mancano gli altri tratti che possono farla avvicinare al quartetto mediterraneo. In Francia lo Stato c’è. Da noi no». Nuove disuguaglianze: le vecchie rimangono, le nuove si ampliano. «Se misuriamo le disuguaglianze nella distribuzione del reddito Italia, Grecia, Spagna e Portogallo mostrano una disuguaglianza maggiore rispetto a Francia e Germania. Tali disuguaglianze, in forte crescita con le politiche pubbliche neo-liberiste dagli anni Ottanta, sono aumentate nel corso della crisi, come dimostra l’Ocse. Oggi la società ha una ristretta “élite globale” di super ricchi e uno strato di proficians, come li chiama Guy Standing, che riescono a ricavarsi soddisfacenti nicchie di reddito e di sicurezza. Ma esiste un nucleo di occupati sempre più a rischio di espulsione, mal pagati e insicuri, e soprattutto una massa crescente di precari, inoccupati cronici o sotto occupati. In tutta Europa sono cresciuti i Neet, i giovani con meno di venticinque anni che non lavorano né studiano. Sono il 12 per cento in media nell’Unione Europea, ma il 22 in Italia, il 19 in Grecia, il 18 in Spagna, il 14 per cento in Portogallo». E in Sardegna il 28 per cento. «Cifra esatta. E non vedo semafori verdi». Crede sia scomparsa la sinistra? Il Labour di Jeremy Corbyn può ribaltare lo status quo? «Non credo che la sinistra sia scomparsa, ma certamente è debole, lacerata – come sempre nella sua storia – da conflitti interni e sterili rivalità. Non è stata in grado di comprendere le grandi trasformazioni e di resistere e rispondere alla egemonia del pensiero neo-liberista». Segni di reazione? «C’è il caso della Grecia con Tzipras, della Spagna con Podemos e appunto della Gran Bretagna con Corbyn. Ma il caso di Tzipras mostra tutte le contraddizioni di un’analisi della realtà un po’ datata, che continua a interpretare il mondo con categorie zombie, come sosteneva Ulrich Beck, categorie morte che non servono più. Di fronte all’attacco mercatista, a una politica dell’Unione europea che è ridotta soltanto alla preoccupazione ragionieristica di tenere sotto controllo i conti pubblici (per la quale pagano sempre i soliti) la sinistra si è impegnata a difendere l’esistente, con ciò alienandosi il suffragio di ampie fette del suo tradizionale elettorato, conquistato dalla destra populista. C’è un grande bisogno di giustizia sociale, di maggiore libertà che non sia solo quella di scegliere il canale tv. C’è da sperare che i tanti saggi dedicati alle nequizie del capitalismo neo-liberista siano letti e studiati con più impegno».

One Response to L’economia potrà tornare ad essere una scienza morale amica della società? Difficile, ma iI Nobel a Angus Deaton è un buon segnale

  1. admin scrive:

    Vanni Tola su fb.
    Come si può constatare leggendo questo articolo ci sono autorevolissimi studi e ricerche che indicano altrettante possibili soluzioni relativamente ad alcuni tra i più importanti problemi dell’Umanità. Il passo successivo sarebbe quello di farne tesoro e trasformarle in azioni concrete. E qui arriva il difficile!

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