Come cambia la democrazia

rocca n 2 2016
ape-innovativa Un’interessante analisi di Ritanna Armeni sul ruolo giocato dall’Unione Europea nella restrizione degli spazi di democrazia negli stati aderenti. Su ROCCA n. 2 del 15 gennaio 2016
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Come cambia la democrazia. Una democrazia senza partiti
di Ritanna Armeni
La democrazia è in crisi? Sono in molti a rispondere di sì, anche se le risposte ai motivi di questa crisi si differenziano.
Da qualche anno, secondo una parte consistente della intellettualità critica italiana, la riduzione della democrazia nasce dalle responsabilità di un uomo – il premier – che con le sue leggi, le sue iniziative tende a soffocare l’ordinamento democratico a ridurre la Costituzione, a limitare i diritti dei cittadini. È una convinzione che si è formata ai tempi dei governi di Silvio Berlusconi, che si è persino rafforzata negli anni del renzismo e che contiene alcuni elementi di verità. Ma non è la verità. La sua affermazione assoluta anzi può provocare una sorta di strabismo intellettuale che impedisce di cogliere tutti gli aspetti di un fenomeno che scuote uno dei fondamenti del nostro vivere civile nelle moderne società occidentali.
La crisi della democrazia ha molte origini e cause. E ce le ha innanzitutto a livello planetario. Quanto contribuisce a un suo forte ridimensionamento, ad esempio, la risposta quasi esclusivamente securitaria che l’occidente sta opponendo al terrorismo di matrice islamica? E quanto quest’ultimo ha bloccato in un modo che per il momento appare definitivo, l’evoluzione democratica del mondo arabo?
Sono domande importanti alle quali sarebbe troppo lungo dare una risposta in questa sede. Le pongo solo per rendere chiara quanto ampia, profonda sia oggi la crisi della democrazia e come sia riduttivo vederne solo una parte.
Torniamo quindi a come questa si manifesta in Europa e, più specificatamente, in Italia. Un fondamento considerevole sta sicuramente nella riduzione del potere degli stati nazionali non seguito dalla costruzione di un’Europa politica. Nel ridimensionamento del potere di decisione dei cittadini italiani (ma non solo, ovviamente) ha un peso decisivo il fatto che esso sia ormai in mano ad un gruppo di tecnocrati o burocrati estranei, oltre che ai processi nazionali, a un sistema democratico europeo che, al di là delle molte parole, non si è ancora costituito.
Se si guarda con attenzione alla mancata costruzione europea e all’avvenuto ridimensionamento delle politiche nazionali ci si può facilmente rendere conto che gran parte degli atti che tendono a ridurre la democrazia italiana sono indotti dalle decisioni di Bruxelles. Queste hanno bisogno di decisioni impopolari, di leggi rapide, di costituzioni nazionali non eccessivamente vincolanti o che – com’è avvenuto nel caso italiano – creino i vincoli da loro ritenuti necessari. I governi di questi ultimi decenni, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi (caratteri, psicologia e difetti caratteriali a parte), con alcune ribellioni di facciata, prima che feroci distruttori del sistema democratico sono degli obbedienti esecutori delle decisioni prese dai centri finanziari ed economici europei. Se si vuole essere cattivi si possono definire esecutori più che despoti.
Si può dire allora che la crisi della democrazia ha origine in Europa più che a Roma? Con qualche approssimazione possiamo rispondere di sì, ma dobbiamo aggiungere che anche gli stati nazionali hanno fatto la loro parte. Salta agli occhi, infatti, un’altra causa: la difficoltà, la mutazione, la progressiva estinzione dei partiti.
I partiti oggi contano poco, i cittadini nutrono in loro una scarsa fiducia e, infatti, le iscrizioni crollano mentre l’astensione elettorale aumenta e le divisioni, gli abbandoni e le scissioni sono all’ordine del giorno. La loro crisi si è manifestata con chiarezza dopo gli anni ’70 con la fine delle ideologie e del rapporto sociale «di massa». Non si tratta di una difficoltà episodica che possa essere facilmente recuperata. Essa nasce dall’esaurirsi di un ruolo. I partiti non sono più rappresentanti d’interessi collettivi seppure «di parte», non sono più portatori di un’identità e, quindi, d’importanti valori. Non sono più quelle robuste macchine che nel dopoguerra producevano idee e programmi e coinvolgevano milioni di uomini e di donne. Strumenti che consentivano l’esercizio di quella volontà popolare che senza di loro può essere facilmente dirottata nelle vie del populismo e persino di un condiviso autoritarismo.
Ed ecco allora il punto: la democrazia, così come l’abbiamo conosciuta in occidente e soprattutto nell’occidente europeo può vivere senza partiti?
Le vecchie organizzazioni erano sicuramente inadeguate a una moderna società, da molti anni non sapevano più rispondere alle nuove domande dei cittadini. Ma la loro presenza fino ad un certo punto ha consentito il corretto svolgimento di un processo democratico. E ora? È possibile mantenere un assetto democratico? E se è possibile in che modo? Con quali nuovi strumenti? Con quali modalità? Possiamo oggi costruire dei luoghi di ascolto, di dibattito, di sintesi fra i diversi interessi presenti nella società? E pensare, com’è avvenuto in un passato non troppo lontano, di influenzare e determinare le decisioni dei rappresentanti e dei governi non solo al momento elettorale, ma nello svolgimento quotidiano della vita pubblica? Sono domande fondamentali perché se non si trova una risposta a esse diventa inevitabile il ridimensionamento della democrazia così come si è intesa almeno dal dopoguerra in Europa.
Oggi la scena politica è dominata da partiti liquidi o di plastica, privi di strutture adeguate, senza gruppi dirigenti autorevoli, senza un radicamento nella memoria, senza un aggancio a valori precisi. Eppure la loro presenza nelle istituzioni è forte. Non è sbagliato in alcuni casi definirla occupazione. Questa presenza, privata del legame ideologico e sociale, li ha trasformati in gruppi di potere, non interessati ad ascoltare i cittadini quanto piuttosto a difendere i propri interessi o al massimo quelli di alcune corporazioni che ne garantiscono l’esistenza. Gli scandali, la corruzione – anche questi – traggono la loro origine dalla trasformazione dei partiti, dalla crisi del loro rapporto con i cittadini. E a loro volta, come in un serpente che si morde la coda, il diffondersi degli scandali e della corruzione allontana i cittadini da quelle organizzazioni che avrebbero dovuto garantire la formazione e l’affermazione della volontà popolare provocando altra «liquidità» e creando un distacco ancora maggiore.
Nella lunga agonia dei vecchi partiti e nella moderna società «liquida» nessuno si è ancora misurato con la possibilità di costruire nuovi strumenti di democrazia. I social network hanno sicuramente un potere di controllo, riescono a svelare quel che fino a qualche anno fa rimaneva occulto e a mobilitare l’opinione pubblica su grandi temi, ma non hanno alcun ruolo nella formazione delle decisioni. Così in questi anni si è affermato il potere del leader, dell’uomo solo al comando che, sostenuto in alcuni casi (a dire il vero rari e, in Italia, inesistenti) dal carisma, in altri casi dall’assenza di alternative politiche culturali, e, soprattutto, da un controllo sociale e civile tende a occupare gli spazi della politica. Un leader senza un partito che ne controlli le decisioni è un vulnus per la democrazia. Ancor più pericoloso oggi perché quel leader non prende quasi più decisioni autonome, ma, come abbiamo visto in questi anni, quasi sempre stabilite in altre sedi – quelle europee – prive a loro volta di luoghi e di partiti che rappresentino la volontà della società civile. Impegnarsi a contrastare il leaderismo senza partiti è un obiettivo importante purché si abbia coscienza che è solo il più visibile dei danni provocati della crisi della democrazia. Non il più importante. E tanto meno l’unico.

Ritanna Armeni, su Rocca 2/2016
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State sereni! Parola del trombettiere di Rignano

di Gonario Francesco Sedda*

1. Forzare i dati di breve periodo o addirittura di una singola congiuntura durante l’anno corrente per ricavarne previsioni attendibili porta quasi sempre a conclusioni sbagliate, ma non per questo inutili. Con la propaganda truffaldina si può governare e dominare.
In particolare, per Matteo Renzi è decisivo o comunque sempre importante mostrare che il suo governo non solo è veloce (sbrigativo) nella decisione, ma anche appropriato nella sua azione. Il “comunicatore persuasivo” ha bisogno di mostrare che quando finalmente si decide (“sono decenni e decenni che si aspettano le riforme …”) e quando si promuove la fiducia (“è ora di finirla coi gufi …”) si è anche creato il contesto giusto perché “la nostra bella Italia” svolti e riparta e corra e acceleri sempre più. Ma in tempo di crisi prolungata e incerta è molto difficile che il movimento reale segua con stringente corrispondenza gli stimoli di uno sgangherato volontarismo. Il “cavallo non beve” nonostante le miracolose riforme “strutturali” e l’ottimismo a buon mercato di Matteo Renzi.
E tuttavia dalla crisi si uscirà. È iniziata una lenta e incerta ripresa.
Certamente, mettere in riga il Parlamento con ripetuti voti di fiducia e sotto la minaccia di scioglimento delle Camere è stato molto più facile.

2. Dunque, il “grande balzo” previsto ottimisticamente nel settembre 2015 con la Nota di aggiornamento del DEF 2015 sembra ridimensionarsi in una più realistica “leggera scossa”. Nel delirante clima trionfalistico di EXPO il primo trombettiere Matteo Renzi e il suo governo hanno annunciato che l’Italia del fare e non delle chiacchiere era ripartita e avrebbe accelerato: la previsione del PIL passava da +0,7% a +0,9%. E non hanno nascosto di aspettarsi ancora di più (+1,0%).
Ma nel mese di dicembre:
- l’ISTAT (sulla base dei dati corretti per giorni lavorati) ha previsto per il 2015 un PIL al +0,7% (il PIL grezzo – senza la correzione per giorni lavorati – dovrebbe essere leggermente più grande e confrontabile con il +0,9% grezzo del DEF 2015 aggiornato);
- l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha previsto per il 2015 un PIL al +0,8%;
- il Centro studi di Confindustria ha previsto per il 2015 un PIL al +0,8% (due decimali in meno rispetto al +1% indicato a settembre e in linea con le ultime attese alle quali si è rassegnato il governo);
- il MISE (Ministero dello Sviluppo Economico) nella sua ultima raccolta trimestrale dei dati Eurostat ha rivisto le previsioni del Pil per il 2015 “lievemente” al ribasso: +0,8% invece del +0,9% del DEF 2015 aggiornato.

3. Secondo i dati Eurostat raccolti dal MISE nel suo “Cruscotto congiunturale” l’Italia della mitologia renziana è la più lenta nel recupero di ciò che ha perso nella crisi.
L’Italia ha recuperato solo il 3% della produzione industriale rispetto ai minimi toccati durante la recessione, mentre il Regno Unito ne ha recuperato il 5,4%, la Spagna il 7,5%, la Francia l’8% e la Germania il 27,8%.
Nonostante che il tasso di disoccupazione sia diminuito all’11,5% nel terzo trimestre del 2015 (con la Germania al 4,5%, il Regno Unito al 5,2% e la Francia al 10,8%), l’Italia è rimasta indietro per tasso di occupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni con il suo 15,1% (contro il 17,7% della Spagna, il 28% della Francia, il 43,8% della Germania e il 48,8% del Regno Unito) e rispetto ai minimi toccati durante la crisi ha recuperato solo 0,9 punti (contro il recupero di 1,9 punti della Spagna, di 2,7% della Germania e di 4,2 del Regno Unito).
Ma a dispetto del molto che va male, è cresciuto nei sei mesi fino ad ottobre del 2015 l’indice di fiducia dei consumatori e delle imprese (effetto “disneyland” dell’EXPO?). Addirittura tra i consumatori la fiducia è salita come non succedeva dal 2008 segnando +7,7 punti, meglio che in Francia, Regno Unito e Spagna. In Germania poi l’indice di fiducia è diminuito con -7,5 punti. E tuttavia chi oserebbe dire che nell’Italia molestata dal cinguettante e coatto ottimismo di Matteo Renzi le cose siano andate meglio che in una Germania afflitta dalla tristezza?

4. Forse il pericoloso statista di Rignano sull’Arno comincia a intossicarsi con la sua stessa pozione magica.
Febbraio 2015 (Hangar Bicocca di Milano): per l’Italia questo «è un anno felix, che non vuol dire semplicemente felice, ma fertile», un anno in cui «ci sono tutte le condizioni per tornare a correre».
Maggio 2015: « … la speranza torna a mettere la residenza in Italia. Non siamo più il malato d’Europa. E se ce la mettiamo tutta possiamo tornare a guidare l’economia del vecchio continente come abbiamo fatto fino agli anni Novanta».
Settembre 2015 (Cernobbio): «Vogliamo maglia rosa in Ue».
Sia pure attraverso un’interpretazione opaca e misteriosa dei “segnali positivi” Matteo Renzi puntava alto, lanciava una sfida europea. Ma appena i dati Eurostat hanno mostrato che in quel confronto era perdente, ha preferito tornare a quello casalingo coi propri “compagni di merenda” M. Monti ed E. Letta.
«Ma dico: scherziamo? Abbiamo avuto tre anni di recessione sconosciuta in altri Paesi. Pensi al nostro Pil: -2,3 con Monti, -1,9 con Letta e con me -0,4 l’anno scorso. Quest’anno siamo cresciuti dello 0,8%, nel 2016 lo faremo del doppio. L’Italia è ripartita … » [La Stampa, 04-01-2016]. Ora per me M. Monti, E. Letta e M. Rienzi pari sono; ma sarebbe illogico anche per un estremo avversario come me pensare che quel -2,3% del PIL sia venuto tutto dalla politica di M. Monti e quel -1,9% tutto dalla politica di E. Letta. Neppure quel -0,4% più favorevole per M. Renzi può essere imputato alla sua politica … quando ancora non poteva vantarsi delle sue miracolose riforme strutturali!
Comunque la sua previsione di crescita del PIL per il 2016 è di +1,6% (il doppio di 0,8% del 2015): più alta di quella dell’ISTAT, dell’OCSE, del FMI e … del Mago di Masua. State sereni!
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