“La Sardegna che vogliamo – Quale sviluppo per la Sardegna?”
«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
Giovanni Maria Angioy. [1]
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[1] Giovanni Maria Angioy (a cura di Omar Onnis), Memoriale sulla Sardegna (1799), Cagliari, Condaghes, 2015.
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La Sardegna si spopola, i paesi interni vengono abbandonati, determinando l’«effetto ciambella». Che fare?
Fuga dai paesi, dono delle case e questione identitaria
di Andrea Pubusa*
Sono stato colpito, l’altra mattina, agli esami, da una studentessa di Ovodda, che alla mia domanda “cosa fate di bello al suo paese?“, mi ha risposto, senza tentennamenti, “non lo so“. Ho pensato si fosse da anni trasferita a Cagliari coi genitori. Ma mi ha detto che i genitori stanno ad Ovodda. Ed io, facendomi i fatti altrui: “allora almeno a trovare i suoi, tornerà di tanto in tanto“. E lei, senza esitazioni, quasi dura: “No, ci vediamo a Cagliari, vengono loro qui“. Insomma, in paese non ci mette e non ci vuol mettere piede, neanche in visita!
Anni fa avevo avuto una discussione con un gruppo di simpatici studenti delle Barbagie, a loro modo balentes, che avevano fondato l’associazione “Shardana” e, con baldanza, intendevano lanciare le problematiche dei loro territori. Provocatoriamente dissi loro che, dopo la laurea, sarebbero andati al loro paese solo per le feste più importanti e, poi, morti i genitori, mai o quasi. Presero le mie parole come un insulto, ma qualcuno di loro, oggi avvocato, quando mi vede, ammette che ormai i suoi rientri in paese sono sempre più rari. “Allora ci eravamo un po’ incavolati, alle sue parole, ma ora devo dire che aveva ragione lei, prof.”.
Il problema è così forte e riguarda non solo la Sardegna. I Comuni, che tentano di porre rimedio allo spopolamento, sono già molti. Ad esempio, regalando le case abbandonate o vendendole al prezzo simbolico di un euro.
In Sardegna è stata ipotizzata addirittura un’applicazione generalizzata: la proposta presentata in Consiglio regionale consentirebbe ai proprietari di disfarsi dei ruderi vendendoli ai municipi, che poi li dovrebbero riassegnare a prezzo simbolico. Sembra una soluzione che fa felici tutti: proprietari, acquirenti e amministratori. Se non fosse che le prime sperimentazioni non sono andate proprio come si sperava.
Il primo paese a scegliere questa strada è stato Salemi, in provincia di Trapani. Devastato e mai ripresosi del tutto dal terremoto del Belice del 1968, nel 2008 ha deciso di porre fine al degrado del centro storico. L’idea dell’allora sindaco Vittorio Sgarbi era di rilevare e cedere a privati gli immobili sfitti in cambio della loro riqualificazione. Il nome di Sgarbi riuscì a catalizzare l’interesse. Al Comune sono arrivate 10 mila manifestazioni di disponibilità, anche da personaggi di rilievo come Katia Ricciarelli, Alain Elkann, Vladimir Luxuria e Renato Brunetta. Ma i risultati sono stati deludenti. Le buone intenzioni sono rimaste tali. Sequestro preventivo da parte della procura di alcuni immobili pericolanti. Infiltrazioni mafiose, che hanno portato alle dimissioni di Sgarbi e al commissariamento della città. Morale della favola: conclusione dell’operazione con un nulla di fatto.
Le cose sono andate meglio a Gangi, in provincia di Palermo, dove la riqualificazione è meglio riuscita. Ma qui hanno giocato fattori locali e ambientali. Gli immobili – in questo caso assegnati gratuitamente – erano le tipiche case contadine “a castello” della zona. Le richieste sono state più di mille, i trasferimenti un centinaio. Gangi, però, era un bel borgo in stile medievale, che viveva di agricoltura e allevamenti, la giunta ha deciso di puntare su cultura e turismo e di ristrutturare il paese in modo da rispettarne ed esaltarne il fascino. Non tutto fila liscio, ma il risvolto positivo, in ogni caso, è innegabile: oltre alla ripresa del mercato immobiliare, Gangi a poco a poco ha riacquistato l’antico splendore. Ma stiamo parlando di un comune inserito nella lista dei 100 borghi più belli d’Italia. certo, anche grazie all’operazione in corso Gangi ha addirittura vinto nel 2012 il titolo di Comune Gioiello d’Italia e nel 2014 quello di Borgo dei borghi.
Ma funzionerà il meccanismo nei comuni poco appetibili dell’interno della Sardegna? Quelli lontani dal mare, difficili da raggiungere da Cagliari o dai capoluoghi, dunque poco utilizzabili per la rilassante “fuga dalla città” di fine settimana o per le vacanze dei benestanti pensionati tedeschi o francesi?
E poi puntare a una riqualificazione nel rispetto del paesaggio e dell’architettura locale significa impattare con la burocrazia non solo comunale, ma anche regionale. Rilevare e rivendere gli immobili abbandonati diventa così troppo complicato anche per i Comuni. Le difficoltà burocratiche, associate ai frazionamenti catastali e a una distribuzione ‘planetaria’ dei relativi proprietari, sono talora ostacoli insormontabili. E poi ristrutturare un vecchio rudere è costoso, come lo è la manutenzione e la pulizia. E i balzelli? I Comuni, privi di trasferimenti centrali, sono sempre più voraci. Anche a chi sta in città e mantiene la vecchia casa di famiglia fanno pagare ogni cosa come ai residenti. E forse questo è ciò che induce molti a mollare. Chi deve pensare a sistemare il figlio in città o fuori, se non è molto benestante, ritiene un inutile spreco mantenere la vecchia casa in bidda.
Anche qui i miei studenti, mi sono buoni testimoni e insostituibili insegnanti. Una laureanda, figlia di uno “storico” esponente del movimento contro lo spopolamento dei piccoli centri della Barbagia, mi ha confessato, che oramai anche il padre in paese non torna, “neppure per la raccolta delle olive!”. E a lei sta stretta anche Nuoro. Sta bene a Cagliari. Ne parla ormai come della sua città.
Insomma, la città affascina e cattura, come nella bella canzone di Gaber “quanto è bella la città!“. Ora, qualcuno lancia l’allarme crolli! La fase dello spopolamento è ormai avanzata. Tutto è in vendita, ma nessuno compra. Le case iniziano a sfaldarsi e presto seguiranno i grandi edifici pubblici. Che fine faranno secondo voi le scuole, ormai chiuse e trasferite altrove? E le sedi degli uffici pubblici in trasloco? Nei conti ragioneristici dei nostri governanti, fra le “perdite” sono state inserite queste poste?
Questa è l’emergenza. E qui, amici miei, al di là degli impeti romantici, c’è anche la soluzione finale della questione identitaria. I nostri paesi sono aree di fuga. L’abbandono è la via obbligata per liberarsi della casa di famiglia, ormai divenuta un insopportabile fardello. La vendita del relitto ad un euro è già un’idea. Se non sardi, certo i tedeschi possono essere interessati. Ma solo nei paesi appetibili, non lontani dal mare. Forse in questi si salverà qualcosa, ma certo non si parlerà più il sardo.
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* su Democraziaoggi
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Crisi demografica e sovranità
di Franco Mannoni
By sardegnasoprattutto/ 24 febbraio 2016/ Città & Campagna/
Nicolò Migheli riprende la questione della crisi demografica della Sardegna rinnovando l’allarme e denunciando il silenzio di istituzioni e politica sul problema. Per lungo tempo abbiamo discusso sulla consolidata tendenza allo spopolamento dei paesi delle zone lontane dal mare e della tendenza dell’insediamento a disporsi in un andamento a ciambella lungo le coste.
La caduta del tasso di natalità e la tendenza alla decrescita della popolazione sembrava riguardare alcuni territori, conservando tuttavia la Sardegna nel suo insieme un trend di leggera crescita. Oggi non è più così, il saldo complessivo fra nascite e morti, immigrazione ed emigrazione, volge verso il basso e le proiezioni, nei diversi scenari ipotizzabili, sono comunque verso il basso. Meno abitanti, pochi giovani attivi, molti anziani.
Non è la prima volta nella storia che un popolo si estingue, potrebbe accadere anche ai sardi. C’ è chi pensa che le tendenze in atto siano non solo incoercibili, ma anche, in qualche misura, auspicabili. La densità urbana ed economica sarebbe capace di procurare competenze, iniziative e sviluppo. L’intendenza seguirà. Mi sforzo di capire quale esperienza vissuta e quale teoria economica possano avvalorare questa tesi bislacca, ma resto di parere contrario.
Certo è che, come recentemente ha scritto Livi Bacci, le tendenze demografiche di questo tipo sono difficilmente invertibili nel tempo breve. Le politiche per la natalità e la famiglia hanno tempi di ricaduta molto differiti e costi finanziarii notevoli. Quelle per l’immigrazione, sia pure gradualmente introducibili, si scontrano con resistenze sociali e politiche di non poco conto. Però da una parte occorrerà cominciare, anzi da entrambe. Impensabile che si resti fatalisticamente sull’uscio ad assistere a pochi matrimoni e molti funerali.
Se si assume come realistica, e lo è, questa previsione credo che si debba subito capovolgere la freccia delle politiche di riorganizzazione in atto dell’assetto del territorio. La narrazione della semplificazione e dell’efficienza che ci è stata proposta come base dei processi di tagli alle strutture civili, scolastiche , sanitarie, culturali va ripresa criticamente non per negarne la necessità finanziaria, ma per ridisegnarne i profili e le procedure.Credo che in Sardegna stiamo andando incontro a una situazione di cittadinanza dimezzata quando non denegata.
Faccio un esempio, e badate che non riguarda Esterzili o Talana, ma una zona baciata dal turismo e da buone condizioni di reddito, la Gallura. Per un abitante di Aglientu, se va avanti la riforma così come si prospetta, la nascita è già un problema. Il punto nascita sarà a 50-60 chilometri che con le strade esistenti corrisponde ad oltre un’ora. Idem per un ricovero urgente. La scuola è stata in Gallura negli anni cinquanta sessanta il risultato di uno sforzo enorme per portare l’istruzione ai fanciulli dei villaggi, negli stazzi e nei fari sulle isole. La razionalizzazione oggi porta via le scuole dai piccoli centri, accelerandone la decadenza. Quale sviluppo locale senza sanità e senza scuole, quale argine al decadimento demografico?
E’ fuori discussione il ruolo determinante delle città per l’innovazione, l’aggregazione di energie, il progresso della scienza e della cultura. Abbiamo bisogno semmai di potenziarne il ruolo in Sardegna, sia per Cagliari che per Sassari e per le altre realtà intermedie. Così che possano inserirsi nel sistema delle reti di città e divenirne nodi intelligenti e performanti , come dicono oggi. Con due attenzioni. La prima è che svolgano , rispetto al territorio di riferimento, una leadership e una polarità reali. Non sempre è così per tutte le aspiranti metropoline.
La seconda è che la rete di insediamenti e attività intorno ai poli siano mantenute vitali e amichevoli, perché dal deserto non viene niente. Questione di fondo è che siano consentite a tutte le comunità, sia pure in maniera differenziata ma equipollente, le condizioni di accesso ai minimi che garantiscono la cittadinanza , come per l’energia, le reti immateriali, la mobilità.
Questo non è poco. Se è in forse e non garantita la cittadinanza ( e non parlo di lavoro e diritti civili) allora si pone un problema grande come un macigno per i sardi, per la cultura e la politica innanzitutto. Il tema dell’autogoverno come strumento di attuazione della cittadinanza e dei poteri relativi. Questo, credo, il terreno concreto sul quale condurre la nuova questione sarda, che è questione di sovranità.
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Culle vuote e bare piene, la lenta eutanasia dei sardi
di Nicolò Migheli*
Gli indicatori demografici presenti nel rapporto Istat 2015 non sorprendono gli addetti ai lavori. Confermano tendenze che stanno diventando strutturali. Meraviglia invece la totale assenza di reazione della politica, nonostante l’allarme dei centri studi e della stampa. Politica distratta dal contingente che ha rinunciato a progettare il futuro, anzi con le sue azioni finisce con l’aggravare il problema. La media del numero dei figli per donna in Sardegna è dell’1,10, ultima tra le regioni italiane. Un punto netto sotto la soglia di sostituzione che è di due figli per due genitori. In pratica un dimezzamento della prossima generazione.
Anche l’età media del parto è la più alta in Italia: 32,3. Dato che condividiamo con il Molise. Cresce anche l’età media dei sardi 45,7, che rispecchia la composizione sociale della popolazione. Da zero a 11 anni l’11,8 della popolazione; tra i 15-64 anni il 66,1; oltre i 65 il 22,1. Un indice di dipendenza strutturale – rapporto tra popolazione in età non attiva (0 e 65 anni e più) e la popolazione in età attiva (15-64 anni)- del 51,3. La dipendenza degli anziani- rapporto tra la popolazione oltre i 65 anni con quella attiva- del 33,4. L’indice di vecchiaia del 187,2.
Dati da crisi demografica. La piramide delle età rovesciata, la base esigua composta da individui giovani contro un vertice anziano che si allarga sempre più. Un tasso di crescita naturale della popolazione pari a meno 3,3 ‰. Il 2015 è stato anche l’anno dell’aumento progressivo dei decessi, un 7,4 in più rispetto all’anno precedente. Le ragioni dell’invecchiamento della popolazione sono molteplici e finiscono per essere concause del disastro. Perché i sardi hanno smesso di fare figli? Si potrebbe affermare che è una tendenza generale di tutti i paesi ricchi, però in Sardegna vi sono elementi che inducono ad una ulteriore riflessione.
La prima è che la base di donne fertili, finito il baby boom degli anni 60 e primi 70, si è notevolmente ridotta. La seconda, è questo è un dato positivo in qualsiasi modo la si pensi, è che le donne sarde da svariati anni sono le prime in Italia nel consumo della pillola contraccettiva. Un riappropriarsi del proprio corpo, un decidere come e quando generare, che trova radici nel ruolo forte che le donne hanno sempre avuto nella nostra società.
Questo però non basta, anche in Svezia o in Francia l’uso della pillola è abbastanza alto e nonostante questo i figli si fanno. Quel che manca è lo stato sociale, quel che manca è una rete di servizi che aiutino le mamme sin dalla gestazione. Le reti familiari non riescono più a supplire all’assenza del pubblico. Il panorama generale di disoccupazione, sottoccupazione e precariato favoriscono l’esigenza di posticipare la maternità, non a caso l’età media è cresciuta, con il rischio di entrare in quella fascia di “puerpere attempate” , definizione ingenerosa, ma questa è. Se si fanno i figli in età avanzata, è quasi normale ricorrere di più ai servizi sanitari, questi però con i tagli diventano sempre più costosi.
Di conseguenza i figli li fa chi se li può permettere, chi può loro offrire un futuro dignitoso e una tranquillità economica. Oggi si assiste al paradosso che le famiglie numerose di tre o più figli sono quelle benestanti, mentre prima avveniva il contrario. Non così avviene in Francia, ad esempio, dove un programma di assistenza alle madri, nel giro di quarant’anni ne ha fatto il paese più giovane d’Europa. La media dei figli per donna è di 2. Chi ha due bambini riceve un contributo di 130 euro al mese che diventano 300 se sono tre. Nel paese d’oltralpe, le madri possono contare su servizi pubblici diffusi.
Qui da noi i figli sono un costo che è diventato insopportabile per le famiglie con redditi bassi. Non solo le sarde, ma anche le donne immigrate hanno smesso di fare figli. La loro fertilità resta più alta, 1,68 figli per donna, l’età più bassa, 28,4 ma le nascite sono diminuite. Su questo comportamento sono possibili due spiegazioni, la prima è che lavorando hanno poco tempo da dedicare ai bambini e non possono contare sulle reti familiari dei loro paesi d’origine; l’altra, che anche loro tendono ad uniformarsi al modello dominante della famiglia con pochi figli.
Crescono invece i decessi, siamo una società vecchia e le morti aumentano. Sul picco dell’anno passato, in mancanza di dati medici disaggregati, è ancora impossibile un ragionamento completo. L’effetto del taglio sulle prestazioni sanitarie si farà sentire nel tempo. Però qualche avvisaglia già si nota, per la prima volta dal dopoguerra ad oggi diminuisce l’aspettativa di vita alla nascita. 79,7 per i maschi e 85,0 per le donne, registrando un meno 0,3%. Decimo di punto da non prendere alla leggera. I sardi stanno correndo verso una società insostenibile fatta di vecchi sulle spalle di pochi giovani. Una morte dolce che sancirà nel tempo la nostra scomparsa.
Non sarà né il primo né l’ultimo popolo a sparire davanti allo sguardo freddo della Storia. Solo che ora tocca a noi. È possibile fermare queste tendenze? In parte sì, chiedendo alla politica di esercitare fino in fondo il suo ruolo, di pensare in una prospettiva pluridecennale; di mettere in opera servizi e aiuto alle famiglie, di qualsiasi tipologia e genere siano. Basta imitare la Francia. Sì può pero continuare a procedere come prima, far finta di niente, sperando che chi verrà farà. Se sarà così l’ultimo che resta si ricordi di chiudere la porta e spegnere la luce.
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* By sardegnasoprattutto/ 22 febbraio 2016/ Città & Campagna/
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Nel riquadro la Sibilla cumana. Il quadro è di Domenichino e si trova nella Galleria Borghese di Roma.
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SPOPOLAMENTO e ACCOGLIENZA su ALADINEWS
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AGGIORNAMENTI DEL DIBATTITO
“Salviamo i nostri paesi” fra sogno e realtà
1 Marzo 2016
1 Commento
di Andrea Pubusa su Democraziaoggi
Cosa fare per affrontare lo spopolamento dei paesi? domanda l’amico Salvatore Cubeddu sul blog di Vito Biolchini. Marinella Orunesu di Bitti ha un’idea “i bittesi adottino Bitti”. E’ in contatto con Bachisio Bandinu e Nando Buffoni, paesani eccellenti. E loro ci stanno, aderiscono senza riserve e in modo propositivo. Leggiamo le proposte dei bittesi Bachisio Bandinu (“Su bonu ‘achere pro firmare s’isperdimentu”) e dell’economista Nando Buffoni (“Contro lo spopolamento dobbiamo fare da soli”) e Salvatore Cubeddu immagina “tutto quello che potremmo pensare, ragionare e fare, le migliaia di fuorusciti dai nostri paesi, che scelgono di esplicitare operativamente il proprio legame, accettati da chi è restato, a sua volta lieto di collaborare con chi vuole in qualche modo ‘ritornare’”.
Ma chi vuole tornare? Conosco un bittese, ben inserito a Cagliari, e, come faccio con tutti quelli che vengono de is biddas, chiedo se tornano al loro paese e se hanno casa nel borgo natio. Il mio conoscente ha casa, “ma – mi dice – torno così poche volte, che, quando mi capita, vado in albergo. Non posso stare qualche giorno in una casa disabitata per gran parte dell’anno“. E l’ultima volta che l’ho visto, la ferale notizia: “l’ho messa in vendita, ma è difficile liberarmi della casa, molti vogliono vendere, ma nessuno compra“, ossia nessuno torna.
Misuro questa impietosa realtà con le parole di Salvatore Cubeddu: “Paese dopo paese, che già occasioni dello stesso tipo hanno istituito. Un movimento in estensione, una collaborazione tra paesi, appuntamenti che si moltiplicano. Un “sa die de sa Sardigna” come ritorno a casa. Torraus a domo. Noi che siamo fuori, facciamoci “riadottare“ dalla nostra comunità. Ed essa, e tutte, ci riaccolgano. Ci pensate, sembra di sognare: non sarebbe “un miracolo”?”.
Più che un miracolo è un sogno. A nessuno si può impedire di farlo, tanto meno a una bella persona come Salvatore.
“Cales poten essere sos remedios?” si chiede invece con realismo Bachisio. “Sos tremitzas abitantes de oje potet esser unu numeru chi annat bene, in su sensu chi currisponnet a sas possibilitates economicas, a sas risorsas territoriales, lavorativas e umanas, oje a s’istatu presente. Su bussu est de non minimare dae sos tremitza. Su jocu ressessit a tzertas conditziones: o bi naschit prus pitzinnos novos, pro ugualare sos mortos, o bi ‘enit prus tzente dae foras, o bi restat prus pessones in vidha imbetzes de si nche annare. Bisontzat de ‘achere una pulitica chi vavorat custas possibbilitates: premios pro sas naschitas e pro cullevare sos pitzinnos, imbentare attivitates novas e affortire sas esistentes, in modu chi sos tzovanos resten in bidha. Pro narrere: totu sos impiegatos de sa Regione, de sas ASL e de atteros servrtzros, poten travagliare in domo issoro in bidha chin su “telelavoro”. Sos chi travagliana in Nugoro o in bidhas accurtzu, organizannesi, poten torrare donzi die a bidha, comente ‘achen sos durgalesos, sos olianesos e sos mamujadinos”. E se costoro, invece, preferiscono non solo lavorare ma anche abitare in città?
Comunque questo non si può fare per l’allevamento, il teleallevamento non è stato ancora inventato. Incalza, propositivo, Bandinu con la sua bella scrittura in lingua: ”Pichemas in cussideru su pastoriu: cantos tzovanos oje essi n a campu? O amus a aere cuiles de rumenos, macedones e albanesos? Comente imbentare unu pastoriu novu chi rennat de prus e chi siat cumbeniosu. Pastores chin su diploma o chi sa laurea, pro no essere solu murghitores aspeandhe su preju de piazza. In tempos nostros bisontzat de ischire ite produire e comente produire e pro chie, in manera de ‘ennere su prodottu in su marcatu mondiale, attentos a sos bisontzos semper novos de sa populatzione e sa modas alimentares chi cambian de continuo. Vitzi potet ‘antare artigianatu de oraria, de tessitura, siendhas de mastros de linna, de pedhe, de pannu e de atteras attivitates chi no accudan solu a sos bisontzos de sa ‘idha ma s’allarghen a marcatos antzenos e a su turismu? Custu devet essere s’obbietivu”. Che bello, ma “se così fan tutti“, ossia tutti i paesani di tutti i paesi, chi compra questa bella produzione?
Mì incuriosisce il pensiero di Buffoni e vado alla fonte. Ed ecco le sue parole.“L’adozione” può essere uno strumento molto utile per sensibilizzarci, renderci disponibili e impegnarci “a fare qualcosa”. Ite? Alcune idee, per il momento, las mantentzo in sa butzacca. Qualche altra, che è stata lanciata da amici la posso indicare. Un raduno di Bittesi, provenienti da tutto il mondo, ogni due anni, accompagnato da eventi, ad esempio: premio letterario di racconti sulla loro emigrazione e integrazione nei paesi che li hanno accolti. Questo genere potrebbe essere esteso ad altri settori oltre a quello letterario. Un altro esempio: molti di noi nella loro vita di emigrati hanno raccolto strumenti interessanti, anche – legalmente – reperti archeologici che sarebbero disposti a donare a un eventuale, chiamiamolo “museo”, che eventualmente si potesse creare a Bitti, accompagnando il reperto con una descrizione di come è stato acquisito (dal “dente” di capodoglio che nelle isole Fiji veniva usato come moneta, alla lancia dell’altopiano dell’Etiopia utilizzata per uccidere leoni da un vecchio pastore, a reperti pre colombiani dell’America Centrale)”.
Con tutto il rispetto mi sembra bello, ma poco. Per vedere questo museo il mio amico bittese non avrebbe necessità di tornare a vivere a Bitti e neanche di mantenere casa. Forse son migliori le idee che Buffoni “mantentze in sa butzacca”, chissà. Forse farebbe bene a tirale subito fuori: fin qui tante promesse, ma pochi risultati, anche sul piano della proposta.
Sono un po’ sconsolato. Volevo qualche idea per il mio paesello, ma questi sono desideri, sogni.
Ne parlo, con un compagno non pentito. Gli dico che mi sembrano discorsi un po’ campati per aria. E lui pronto: ”bisognerebbe fare una radicale riforma agraria. Riaccorpare le terre, toglierle a chi le ha abbandonate, creare occasioni di lavoro moderne e di mercato per chi ci lavora o intende lavorarci. Un po’, per capirci, come l’elettrificazione e la meccanizzazione delle campagne ai tempi di Lenin”. ”Idee e linguaggi d’altri tempi“, obietto, deciso. “Sì – risponde lui – per salvare i nostri paesi ci vorrebbe il socialismo. Un’idea espulsa dal linguaggio comune”. “Beh – ribatto un po’ spazientito – non ti sembra un volo nella fantasia?“. E lui, sicuro: “certamente, ma la mia ipotesi è molto, molto più realistica dei sogni di Salvatore, Bachisio e Nando”. Ci rifletto e penso che, tutto sommato, ha proprio ragione lui. Per salvare i nostri paesi ci vorrebbe un rivolgimento radicale.
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1 COMMENTO
Tonino Dessì
1 Marzo 2016 – 15:20
Sardegna interna: soviet più elettrificazione?
In effetti nell’ormai lontano 1998 (Giunta Palomba, Assessore alla programmazione Scano, Capo di Gabinetto del bilancio il sottoscritto), proponemmo, nel primo Documento regionale di programmazione economico-finanziaria, un programma, accompagnato da uno stanziamento in legge finanziaria, per promuovere il riaccorpamento della proprietà fondiaria rurale.
Ma erano ancora tempi di (buoni) propositi di “riforme strutturali”.
Poi non so più che fine abbia fatto quell’idea.
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